Quanto rende davvero investire in Azioni?
Perché investire in azioni genera un rendimento nel lungo termine? A cosa è dovuta la crescita di valore del mercato azionario? E' ancora vero che l'S&P 500 rende il 10% all'anno in media? E in definitiva: che rendimento posso aspettarmi dalla componente azionario del mio portafoglio negli anni?A tutte queste domande, ispirate da una grande analisi di Ben Felix, proveremo a rispondere nell'episodio di oggi.

Risorse
Punti Chiave
Rendimento azionario futuro atteso globale 7-8%; USA inferiori per alte valutazioni.
L'inflazione e i costi erodono il rendimento reale; la loro gestione è vitale.
Il timing dei flussi e il "Sequence of Return Risk" influenzano il tuo rendimento reale.
Trascrizione Episodio
Bentornati a THE BULL – Il tuo podcast di finanza personale
Ma quanto rende davvero investire in azioni?
Ma siamo sicuri che se investo nei mercati azionari, i miei soldi in futuro aumenteranno?
E siamo sicuri che le performance del passato, benché non abbiano capacità predittiva, possono comunque rappresentare una base realistica per stimare i rendimenti futuri?
L’episodio di oggi è uno di quelli che mi è costato più neuroni ma in effetti arrivati a quasi 100 appuntamenti bisettimanali a parlare di investimenti, forse ad un certo punto era il caso di sollevare la discussione su quale possa essere DAVVERO il rendimento che è legittimo aspettarci dai nostri portafogli a lungo termine.
Perché ne parliamo proprio oggi?
Ne parliamo oggi perché un paio di settimane fa c’è stata una bella puntata di Rational Reminder, uno dei canali YouTube di Ben Felix, nel quale fondamentalmente è stata messa in discussione la diffusa convinzione secondo la quale il mercato — e per mercato qui si intende il mercato americano — renda davvero il 10% all’anno.
O meglio.
Ben Felix non ha contestato il fatto che questo sia stato il rendimento storico dell’S&P 500.
E non avrebbe potuto farlo perché è un fatto incontestabile che se prendiamo la media storica dell’ultimo secolo, senza dubbio il rendimento annuo è stato di oltre il 10% (e addirittura più dell’11% secondo alcuni calcoli).
Siccome poi da qui si sono propagati altri contenuti più o meno direttamente legati a questo tema su vari canali, ho sentito l’esigenza di mettere insieme i pezzi e fornire un quadro chiaro della vicenda, affinché alla fine di questo episodio vi siate fatti un’idea su:
– UNO: che aspettative a lungo termine avere sul rendimento dai vostri investimenti azionari;
– DUE: quali sono le variabili che nella vita reale dei vostri investimenti possono influenzarlo in positivo e in negativo e infine
– TRE: che significati hanno i vari modi di calcolare sto benedetto rendimento.
Dunque, partiamo dal dato di fatto.
Storicamente l’S&P 500 ha reso circa il 10% all’anno in media.
Attenzione però che media non vuol dire che prendo il rendimento totale di un secolo e divido per 100.
Quella sarebbe una media aritmetica, che non serve ad una cippa quando parliamo di rendimento composto.
Il 10-11% di ritorno medio dell’S&P 500 è una media geometrica.
Spieghiamolo con un esempio facile.
Prendiamo 1.000 dollari investiti nell’S&P 500 esattamente 30 anni fa, nel marzo del 1994.
Oggi questi 1.000 dollari sarebbero 18.861, almeno secondo portfolio visualizer, che è una fonte piuttosto attendibile.
Come calcolo il rendimento medio annuo?
Faccio: 18.861 diviso 1.000 uguale 18,86.
Siccome parliamo sempre di percentuali, 18,86 significa 1.886%.
Quindi in questi 30 anni il investimento è cresciuto del 1.886%.
Come faccio a sapere il rendimento medio annuo di questi 30 anni?
Divido 1.886 per 30?
Eh no cari miei, perché se faccio 1.886 diviso 30 fa quai 63.
Ed è assai improbabile che l’S&P 500 abbia fatto il 63% in media ogni anno, no?
Bisogna usare la media geometrica, che si ottiene facendo:
1.886% elevato a 1 fratto il numero di anni (cioè 30) — 1.
(tranquilli tutte le formule di cui parlo oggi ve le scrivo negli shownote dell’episodio).
Sta cosa fa 10,29%, che è appunto la media geometrica, ossia quella che tiene conto dell’interesse composto, che ha trasformato 1.000 dollari in 18 mila e fischia lungo 30 anni.
Chiaro?
Ok.
Comunque prendete un set di anni abbastanza lungo e il mercato americano vi restituirà sempre un rendimento medio annuo fortemente concentrato intorno a sto 10%.
Come abbiamo già detto in passato, il peggior gruppo di trent’anni della storia del mercato americano è quello iniziato nel 1929, con la spaventosa crisi che ha innescato la grande depressione e che è terminata solo negli anni ’40.
Durante quel trentennio disastrato, nonostante tutto, il mercato ha reso comunque un 7,8% di media all’anno.
Altri gruppi di trent’anni hanno invece prodotto rendimenti addirittura del 14% di media, come quello dal 1969 al 1999.
La differenza tra 7,8% e 14% lungo trent’anni è immensa.
Per capirci, 10.000 dollari nel primo caso diventano 95.000 lungo 30 anni. Nel secondo oltre 500.000.
Però, esclusi gli estremi, che il rendimento medio sia grossomodo sul 10% è un dato di fatto incontrovertibile, supportato da oltre 100 anni di dati.
Ora, cosa dice Ben Felix, che ricordiamo è Canadese, non Americano.
Lui dice: “occhio che il mercato Americano è più un’eccezione che la norma”.
Se prendiamo infatti il mercato azionario globale, il ritorno medio annuo è più nell’ordine del 7-8% e infatti ogni volta che in questo podcast ci siamo messi a fare qualche simulazione, salvo rari casi abbiamo sempre usato l’MSCI World, l’indice dei 23 mercati azionari dei paesi più sviluppati, che negli ultimi 40 anni ha prodotto un 8% all’anno di media.
Perché il mercato Americano ha sempre prodotto questo 2% in più di Equity premium?
Prima di rispondere a questa domanda, cerchiamo di capire da cosa è composto il rendimento di un investimento azionario.
Cioè, dopo 94 episodi ci chiediamo (“forse in effetti avrei dovuto farlo prima, va beh”) dicevo ci chiediamo: perché se investo soldi in azioni, teoricamente ho un guadagno?
Da cosa deriva il rendimento dell’investimento azionario?
Ok, grazie per la domanda molto puntuale.
In pratica il rendimento di un’azione è il risultato della somma tra il cosiddetto dividend yield, ossia il rendimento da dividendo, e l’apprezzamento capitale, ossia l’aumento del prezzo di quell’azione.
Secondo il leggendario John Bogle, il fondatore di Vanguard e padre degli Index Fund e di tutta l’idea alla base dell’investimento passivo, esisterebbe una formula abbastanza semplice che descrive quali elementi hanno contribuito al rendimento di un’azione, o del mercato azionario in generale, in un certo periodo.
Secondo lui il rendimento di un investimento azionario risulterebbe dalla somma tra:
– Rendimento da dividendo Più
– Crescita dei profitti Più
– Variazione nel rapporto tra prezzo e utili, il cosiddetto Price/Earning Ratio.
Prendiamo il decennio 2010-2019.
Durante questo decennio l’S&P 500 ha riportato in media ogni anno:
– Un 2% di rendimento da dividendo;
– Un 10,6% di crescita dei profitti (ricordiamoci che venivamo dal decennio perduto, quindi dopo il disastro del decennio prima non ci voleva molto) e infine
– Un 1% di crescita del rapporto tra prezzi e utili, ossia le azioni sono diventate in media più costose di un 1% all’anno.
Totale 13,6%, che è stato il rendimento medio annuo del Super indice americano nello scorso fortunatissimo decennio.
Prendiamo invece il decennio perduto.
– 1,2% di rendimento da dividendo;
– 0,8% di crescita dei profitti e
– -3,2% nel rapporto prezzo utili (ossia le azioni sono scese di prezzo rispetto ai profitti delle società).
Totale -1,2% di media per tutto quello sciagurato decennio.
Chiaro?
Capite bene che in questa formula ci sono due elementi oggettivi, i dividendi e i profitti, e uno soggettivo, che è l’aumento dei prezzi delle azioni, che diciamo è la componente più “speculativa”.
Cioè il fatto che le valutazioni delle società aumentano dipende dal consenso del mercato che continua ad investire e quindi a fare crescere il prezzo delle azioni.
In qualche modo questa è la componente “emotiva” della crescita del mercato, ciò che misura la propensione al rischio degli investitori.
Usando questa formula, uno può così stimare il ritorno futuro delle azioni.
Perché praticamente chiunque sta prevedendo dei ritorni più bassi, nei prossimi anni, per il mercato americano?
Ben Felix, tra gli altri, fa notare come il grosso dell’equity premium del mercato americano, in particolare degli ultimi 50 anni, sia dovuto ad un progressivo aumento delle valutazioni delle società e non ad un aumento degli utili o dei dividendi.
Cioè non è che le azioni delle società Americane hanno una combinazione di rendimento da dividendo e crescita degli utili così significativamente superiore alla media delle società degli altri mercati sviluppati.
Semplicemente il mercato ha progressivamente attribuito un valore privilegiato al mercato americano e questa cosa ha via via fatto crescere le valutazioni in maniera importante.
I motivi?
Probabilmente il ruolo di prima potenza politica, militare ed economica del mondo avrà avuto il suo peso.
Il fatto di essere l’avanguardia globale dell’innovazione tecnologica anche.
Il fatto infine di essere il mercato più grande, liquido ed efficiente del mondo a sua volta avrà attratto sempre maggiori capitali spingendo verso l’alto le valutazioni, forse al di là dei fondamentali.
Secondo Ben Felix c’è stata una grossa componente di pura e semplice fortuna.
Disastri che sono accaduti a turno un po’ in tutti i paesi del mondo, semplicemente negli Stati Uniti non sono ancora capitati.
C’è anche un altro fatto da considerare.
L’alto rendimento storico del mercato azionario era dovuto anche ai maggiori rischi, oltre alle maggiori complessità tecniche, connesse all’investimento in azioni.
Oggi invece investire è estremamente più semplice, economico e accessibile a chiunque.
Tutto ciò deve aver contribuito a ridurre la percezione del rischio nell’investimento azionario e la stessa introduzione degli ETF ha probabilmente dato il suo contributo in questa direzione.
Se in generale più persone investono in azioni e in generale l’investimento azionario è considerato meno rischioso, si ottengono due effetti:
– Nel breve termine le valutazioni vanno su, sfruttando soprattutto l’effetto momentum che porta in particolare i mercati e le società più performanti a crescere ulteriormente.
– Nel lungo termine, invece, ciò abbassa il rendimento atteso, perché se il rischio percepito è minore e le valutazioni sono salite, si abbassa di conseguenza il premio per l’investimento azionario.
Cioè è come dire: se compro azioni a prezzi mediamente più alti rispetto ai loro profitti, devo teoricamente aspettarmi dei rendimenti inferiori in futuro, come quando compro una casa ad un prezzo basso in una zona periferica e poi questa si rivaluta facendone schizzare il prezzo, rispetto a che comprare una casa a 12.000 € al metro in centro a Milano che più di quel tanto non può crescere di valore nel futuro.
Poi, valutazioni non sono necessariamente predittive del futuro e lo Shiller CAPE Ratio non è l’oracolo di Delfi.
Lo Shiller Capitale Adjusted Price Earning Ratio e la misura del rapport tra prezzi e utili degli ultimi 10 anni aggiustati per inflazione, che ad oggi è il miglior strumento che abbiamo per stimare i rendimenti a lungo termine.
Maggiore è il CAPE ratio, minore è il rendimento atteso. E viceversa.
È un indicatore abbastanza affidabile, anche se la sua correlazione con i rendimenti reali non supera lo 0,4, ossia riesce davvero a predire i rendimenti futuri con una precisione del 40%.
Ciononostante queste metriche hanno il loro peso ed è giusto tenerne conto, soprattutto ora che le valutazioni medie delle società americane hanno raggiunto livelli record.
Giusto per capirci.
Il rapporto medio tra prezzi ed utili delle società dello Stoxx 600, ossia le 600 società più grandi d’Europa, è intorno a 14,5 nel momento in cui stiamo parlando.
Quello delle società dell’S&P 500 ha raggiunto la vertiginosa media di 26.
In media, quindi, le azioni americane sono scambiate ad un prezzo che è di 26 volte l’utile medio per azione. Un livello altissimo rispetto a qualunque media storica.
Non abbastanza alto per dire che siamo in una bolla, come invece successe nel 2000 con i prezzi anche a 40 volte gli utili.
Ma decisamente alto rispetto ad una media storica intorno alle 15-17 volte.
Il fatto che le valutazioni siano così alte è ciò che sta portando qualunque società finanziaria che conti a Wall Street a prospettare ritorni molto poco generosi per il mercato americano nei prossimi anni.
Il buon vecchio John Bogle, nel Piccolo Libro dell’investimento di buon senso, pubblicato l’ultima volta nel 2017, aveva dato una stima super pessimistica, addirittura posizionando il ritorno atteso dell’S&P 500 per i prossimi 10 anni intorno al 4-5%.
Vanguard, la società che lui ha fondato e che è dopo Blackrock è oggi il più grande asset manager del mondo, a dicembre ha stimato un rendimento a 10 anni del mercato azionario americano tra il 3,7 e il 5,7%, citando sempre le alte valutazioni come motivazioni di questa stima.
Blackrock ha fatto una stima sempre intorno al 5%.
Schwab intorno al 6%.
JP Morgan è la più ottimista con una stima intorno al 7%.
Ben Felix usa un’immagine particolarmente efficace quando dice: *valutations are the closest thing to gravity in the financial markets*, le valutazioni sono la cosa più vicina alla gravità nei mercati azionari, nel senso che più salgono, più aumenta la probabilità che presto o tardi crollino verso il basso.
Per il motivo uguale e contrario, invece, tutte le società che ho citato sopra prevedono rendimenti decisamente più alti per l’azionario globale internazionale, intorno all’8% per i mercati sviluppati e addirittura intorno al 9% per i mercati emergenti (chi più chi meno).
L’8% in effetti è perfettamente in linea con la media storica dell’MSCI World ed è questo il motivo per cui in tutto questo podcast non abbiamo mai usato il 10% dell’S&P 500 come valore di riferimento per le nostre stime, ma sempre quello più conservativo dell’azionario globale.
Perché pensano tutti che Europa, Giappone, Canada e Mercati Emergenti andranno meglio nei prossimi anni?
Semplicemente perché le valutazioni sono più basse.
Sic et simpliciter.
Per una questione di regressione verso la media, il principio più potente dell’universo per provare a comprendere fenomeni fondamentalmente casuali, gli Stati Uniti hanno fatto eccezionalmente bene e presto o tardi torneranno giù, mentre gli altri hanno un po’ di credito con la fortuna e quindi dovrebbero andare un po’ meglio.
Ora chiudiamo il ragionamento di Ben Felix e poi passiamo a parlare di cose molto più pratiche che interessano da vicino il nostro portafoglio.
Nella sua attività di consulente finanziario per PWL Capital, Ben Felix dice di usare un modello predittivo per i suoi clienti in cui prende il rendimento storico dell’azionario globale, rimuove la parte del rendimento attribuibile alle variazioni nelle valutazioni e tiene conto delle valutazioni attuali.
Così facendo, la sua stima attuale per un investitore con orizzonte di 30 anni è che un rendimento azionario plausibile sia intorno al 7,2% all’anno.
Sicuramente molto buono, ma decisamente lontano anni luce dal 10% di cui sopra.
Ci siete rimasti male?
Pensavate che la cosa migliore del mondo fosse fare all in nel mercato storicamente più performante del mondo, che poi ha aspettato proprio voi per smettere di essere il primo della classe?
Allora, prima di fasciarvi la testa, ascoltatemi un attimo e parliamo delle 3 cose più importanti da comprendere in quest’episodio.
PRIMA COSA IMPORTANTE: il rendimento nominale è una cosa interessantissima, ma quello che conta davvero è il rendimento REALE.
Per rendimento REALE si intende quello al netto degli effetti dell’inflazione.
Se il mercato americano storicamente ha reso il 10%, ma la sua inflazione media è stata, perlomeno dal dopoguerra ad oggi, tra il 3,5 e il 4% all’anno, questo significa che il rendimento reale del mercato azionario americano si è attestato da qualche parte intorno al 6 e mezzo %.
La mia bibbia per quanto riguarda questi dati è Stocks for The Long Run di Jeremy Siegel.
Pare che i dati prima del ‘900 siano da rivedere, ma noi prendiamo quelli dal 1946 ad oggi sui quali ci possono essere ben pochi dubbi, soprattutto considerato il fatto che più andiamo indietro nel tempo, più fare paragoni con la situazione attuale diventa problematico.
L’inflazione ha un effetto pesantissimo sul rendimento di un investimento e va a stravolgere completamente il suo significato pratico.
Intendo dire: investire è bello e fa aumentare i soldi. Ma i soldi servono per comprare cose. Se il valore nominale dei soldi aumenta ma il loro potere di acquisto no, meglio comunque che abbiamo investito, ma chiaramente ci possiamo fare molto meno con i nostri sudati risparmi.
Prendiamo due periodi storici caratterizzati da un’inflazione media ben diversa.
Il primo è quello che va dal 1966 al 1981, il secondo va dal 2000 al 2021.
Prendo questi periodi perché sono quelli su cui Siegel fa i calcoli, se volete altri periodi fatevi i calcoli voi.
Nel primo periodo il rendimento nominale del mercato azionario americano è stato del 6,9%. Nel secondo periodo del 7,8%.
Il secondo è andato meglio del primo.
Quasi un punto percentuale sappiamo che è tanto.
Ma non tantissimo.
Andiamo però a vedere il valore reale.
Nel primo periodo l’inflazione media è stata del 7% all’anno e sotto questo punto di vista gli anni ’70 sono stati il periodo peggiore dell’economia moderna.
Gli sgangherati anni 2000, invece, pur se funestati da due crisi finanziarie epocali, l’11 settembre, il Covid e tante altre amenità se non altro ha avuto un’inflazione piuttosto bassa, intorno al 2,3%.
Qual è il risultato finale?
Il risultato finale è che il povero investitore sfigato che ha iniziato nel 1966, nel 1981 praticamente non ha guadagnato niente. Anzi, ha pure perso potere d’acquisto al ritmo dello 0,1% all’anno per 15 anni.
Dal 2000 al 2021, invece, il rendimento reale è stato del 5,2% all’anno, un ottimo rendimento nonostante il decennio perduto in mezzo alle palle per i primi 10 anni.
Vi ricordate quando nei primissimi episodi vi spiegavo quanto può essere grave pagare il 2% di commissioni al consulente della vostra banca o al vostro assicuratore?
Ecco, l’inflazione rappresenta una sorta di commissione di cui non vi potete liberare.
Quini a maggior ragione liberatevi di quelle che invece richiedono poco più di una telefonata…
Così, consiglio non richiesto.
Ora, possiamo fare qualcosa per contrastare l’inflazione?
No.
Non possiamo fare niente.
Ce la prendiamo e basta.
Però questa cosa è importante da capire, perché possiamo fare tutti i calcoli del mondo sul rendimento a lungo termine delle azioni, usare computer quantistici, l’intelligenza artificiale, leggere le foglie di the o scrutare le viscere di un volatile come facevano gli aruspici nei bei tempi andati.
Per quanto la previsione sul rendimento nominale futuro sia precisa, c’è questo jolly nascosto dell’inflazione che può far saltare il banco in ogni momento.
Nel 2022 il mercato azionario americano ha perso il 18%.
L’inflazione negli Stati Uniti è stata del 6,5%.
In pratica è come se quell’anno il mercato avesse perso oltre il 24%!
Capite quanto è importante capire il valore reale dei nostri investimenti?
Noi parliamo sempre di valori nominali perché tanto non possiamo fare nulla per rimuovere l’inflazione dall’equazione.
Però una volta che ci mettiamo a fare le stime sul rendimento atteso futuro, chiaramente l’inflazione rappresenta una variabile fondamentale ma imprevedibile.
Ammettiamo che Ben Felix abbia ragione è che il rendimento medio annuo del mercato azionario su cui fare affidamento sia 7,2% all’anno.
È ovvio che se l’inflazione si posiziona al 2%, il nostro risultato reale sarà 5%.
Se l’inflazione sale e in media va al 4%, il rendimento reale sarà 3,2%, una bella merda.
Questa cosa dovrebbe rendervi chiaro ancora una volta perché quando vedete offerte che sembrano troppe belle per essere vere, tipo supersicuri titoli di Stato, depositi o obbligazioni ad alto rating che rendono il 4% senza rischio, ecco, non sono infatti troppo belle per essere vere.
Semplicemente significa che c’è un’inflazione piuttosto alta, che ha spinto quindi in alto i tassi di interesse e quindi il rendimento reale di quel tipo di investimenti è prossimo allo zero, se non negativo.
Storicamente solo le azioni si sono rivelate una valida arma contro l’inflazione, mentre invece obbligazioni, depositi, real estate e altre forme di investimento, non sempre hanno dato le stesse garanzie.
Capirete inoltre perché è maledettamente importante contenere i costi degli investimenti.
Immaginiamo che usate un portafoglio 60/40.
Se Ben Felix ha ragione, grosso modo il rendimento futuro che ci dovremmo attendere dovrebbe essere intorno al 6%.
(chissà come mai sin dagli albori di questo podcast, mesi prima che Ben Felix facesse il suo contenuto, mi ero inventato la regola del mille, usando il 6% come rendimento medio… va che a volte la chiaroveggenza…).
Ve la ricordate?
Investite un certo importo fisso mensile per 30 anni al 6% di rendimento medio annuo e il valore finale sarà mille volte il contributo mensile.
1.000 € al mese per 30 anni al 6% fa un 1 milione.
Vedete che vi dovete fidare di The Bull vostro?
Però 6% se investite in ETF o se vi fate da soli un portafoglio di azioni e obbligazioni abbastanza diversificato da replicare il mercato senza fare cagate.
Se invece cominciate a togliere:
– 3% di inflazione;
– 2% di costo di gestione dei vostri fondi attivi;
– 1% di management fee per il vostro gestore;
– 1%, e siamo generosi, di underperformance dei vostri fondi attivi perché come noto fanno danni.
Risultato.
Eh risultato è che investite per avere alla fine meno soldi, in valore reale, di quelli che risparmiate.
A quel punto metteteli in un vaso che forse crescono di più.
Se invece non avete costi inutili in mezzo alle scatole, quel milione di euro dopo 30 anni varrà circa 400.000 € in valore reale.
Se non aveste investito quei 360.000 €, 1.000 al mese per 30 anni, alla fine varrebbero solo 150.000 € per via degli effetti dell’inflazione.
Quindi il mio investimento avrebbe generato 250.000 € reali che altrimenti non avrei mai avuto.
Chiaro?
Quindi, prima roba: il ritorno nominale può essere quello che volete, ma se sotto c’è un’inflazione della madonna tanto vale.
Se invece il ritorno è più basso, ma pure l’inflazione, agli effetti pratici cambia poco.
Pertanto se in passato il mercato americano ha reso il 10%, ma con un’inflazione verso il 4%, mentre oggi tutti gli sforzi delle banche centrali sono coordinati per tenere l’inflazione al 2%, anche un rendimento nominale inferiore alla fine produce un rendimento reale non troppo distante.
Veniamo alla SECONDA COSA IMPORTANTE: il rendimento del mercato, così come viene misurato da un indice come l’S&P 500 o l’MSCI World, noi non lo cattureremo mai in quanto tale.
Mi spiego.
Diciamo che prendo per buono l’8% all’anno dell’azionario globale, che oggi mi sento più ottimista del 7,2% di Ben.
Se io inizio ad investire in azioni per 30 anni, il mio rendimento ogni singolo anno sarà probabilmente diverso da quello dell’indice di riferimento, perché con ogni probabilità io non avrò investito tutto all’inizio e poi tanti saluti per i 30 anni successivi ma tendenzialmente nel corso di una vita avrò aggiunto dei contributi al mio portafoglio nel tempo, così come in alcuni casi mi sarà capitato anche di prelevare dei soldi.
Il fatto che io metta o tolga soldi nel mio portafoglio, per una questione squisitamente matematica, modifica radicalmente la performance del mio investimento rispetto alla performance del mercato sottostante.
Facciamo un esempio semplicissimo.
Prendiamo la performance di un ETF sull’MSCI World degli ultimi 4 anni, che ha fatto:
– +6% nel 2020
– +32% nel 2021
– -13% nel 2022 e infine
– +20% nel 2023.
Ora, per sapere il rendimento medio dei 4 anni non potete fare la media aritmetica di questi 4 numeri perché esce un valore che non vuol dire niente.
Ammettiamo di aver investito 10.000 € il 2 gennaio del 2020 e poi basta, al 31 dicembre 2023 ci saremmo ritrovati 14.588 €.
Il rendimento complessivo è stato quindi del 45% circa e per calcolare quello medio annuo non devo dividere per 4, che sarebbe un errore matematico, ma uso la formula della media geometrica, ossia 45% elevato a uno fratto 4, il numero di anni, meno 1.
Risultato 9,9%.
Questo si chiama CAGR, ossia Compounded Annual Growth Rate, tasso annuale di crescita composto.
Se investo così, il CAGR deve coincidere con il rendimento dell’indice sottostante.
Se però io faccio un PAC, o comunque metto e tolgo soldi nel tempo, le cose cambiano eccome.
Ammettiamo che investo 2500 € all’anno ogni primo gennaio, così nei 4 anni dell’esempio sono sempre 10.000 € investiti in totale.
In questo caso il risultato finale sarà 12.673 €, quasi 2.000 euro in meno perché ovviamente ho diluito il rendimento nel tempo.
Il mio rendimento in questa situazione si calcola in modo diverso utilizzando il Money Weighted Rate of Return, che in questo caso corrisponde al tasso interno di rendimento.
Senza addentrarci troppo in un concetto che richiede più di matematica di quanto l’essere umano medio di solito è disposto a sopportare, in pratica questo valore ci dà il rendimento medio in base a cui cresce il nostro investimento periodico, tenendo conto dei vari flussi di denaro in ingresso e in uscita.
Per i più interessati esiste una comoda formula in Excel che si chiama TIR.X che, data una serie di flussi (il vostro PAC in questo caso) e il risultato finale dell’investimento vi calcola automaticamente il tasso interno di rendimento.
Ora, perché è importante sta cosa.
E’ importante per due motivi:
– UNO è che noi tipicamente versiamo un tot alla volta, quindi il rendimento viene modificato nel tempo in base a quando avvengono i nostri contributi al portafoglio, rispetto a ciò che nel frattempo sta succedendo nel mercato. Se facciamo un PAC mentre il mercato scende tendenzialmente ci va bene, se lo facciamo mentre il mercato sale il rendimento si riduce;
– L’ALTRO MOTIVO è che per quanto vogliamo essere rigorosi ad investire i nostri 200-500-1000-2000 euro al mese, difficilmente sarà sempre questo l’importo che a vita aggiungeremo mensilmente al portafoglio.
Avremo momenti fortunati in cui magari ci arriva un bonus, un’eredità, cambiamo lavoro e ci liquidano il TFR, vendiamo l’appartamento di nonna, insomma, classiche situazioni in cui magari mi trovo dei soldi extra e che decido di buttare on top dentro il mio portafoglio.
Allo stesso modo ci saranno momenti in cui sarò più tirato e quindi magari per un po’ non investo più e altri momenti in cui invece vorrò prelevare dei soldi perché magari ho una spesa improvvisa o semplicemente perché voglio comprare qualcosa che mi rende felice (in fondo a questo servono i soldi no?).
Soprattutto in questo secondo caso, il timing FA una grossa differenza.
Torniamo all’esempio sopra degli ultimi 4 anni.
Il mercato, in sé e per sé, ha fatto il 9,9% all’anno di CAGR.
Se investo 2.500 € all’anno, però, il mio rendimento non sarà il medesimo, ma sarà un po’ più basso, 9,7% per la precisione, che mi farà arrivare appunto a circa 12.673 €.
Se però cambio i flussi, attenzione a quel che succede.
Ricordatevi che di questi 4 anni, 3 sono stati positivi mentre uno, il 2022, è stato negativo, come da perfetta tradizione che vuole il mercato positivo circa 3 anni ogni 4.
Caso 1: Invece di investire 2.500 € all’anno, nel 2021 non investo e investo invece 5.000 € nel 2022 e poi sempre 2.500 nel 2023, quindi sempre 10.000 in totale ma distribuiti in modo diverso.
Risultato finale: alla fine avrò fatto la scelta sciagurata di investire più soldi proprio prima del crollo del mercato e mi sarò ritrovato a fine 2023 con circa 11.800 €, quindi quasi 1.000 in meno di prima, a parità di soldi investiti e di rendimento del mercato sotto. In particolare il mio rendimento medio annuo ponderato in questo caso sarà del 7,64%.
Vediamo invece una situazione inversa.
Caso 2: investiamo 5.000 € nel 2021 e zero nel 2022, lasciano sempre 2.500 nel 2020 e nel 2023.
Risultato finale: 13.500 € di capitale e un rendimento medio annuo ponderato dell’11,3%.
Quindi più alto perché ho messo più soldi all’inizio di un anno positivo e non ne ho messi durante l’anno più negativo.
Chiaro?
Lo so, sta cosa può risultare un filo ostica e ascoltarla senza vederla richiede uno sforzo notevole.
Per questo vi ammiro, per favore non andate a schiantarvi se mentre cercate di seguire guidando.
Comunque se vi siete persi con i numeri, il concetto è questo.
A prescindere da quale sia il rendimento del mercato in cui voi investite, il timing e la quantità di soldi che progressivamente aggiungete al portafoglio (o che togliete, che è la stessa cosa ma con i segni invertiti) può stravolgere completamente il rendimento reale del vostro investimento.
Questa cosa poi pesa soprattutto nei primi anni del percorso di investimento, oppure quanto i contributi o i prelievi sono rilevanti, perché chiaramente una volta che avete 500.000 € di portafoglio, i 2.000 € che mettete prima o dopo non fanno nessuna differenza significativa.
Se invece di colpo mettete o togliete 100.000 €, eh, chiaramente il timing cambia tutto.
Detto questo, e come sua conseguenza più o meno diretta, veniamo alla TERZA COSA IMPORTANTE: il cosiddetto Sequence of Return Risk.
Sta diventando un personaggio ricorrente di The Bull, ormai ne parliamo molto spesso.
Il rischio di sequenza, come sapete, è quella roba per cui a parità di rendimento del mercato sottostante, l’ordine degli anni positivi o negativi in cui investite fa la differenza se nel frattempo mettete o togliete soldi dal vostro portafoglio.
Se io prendo 2 periodi di, che ne so, 20 anni, che hanno riportato in passato un rendimento medio del 10% all’anno, come potrebbe essere stato uno dei diversi ventenni in cui l’S&P 500 ha fatto davvero così, in realtà il mio risultato reale lungo questi 2 periodi sarebbe stato molto diverso in base alla combinazione tra l’ordine dei vari anni positivi e negativi che si sono susseguiti e il tempismo con cui ho nel tempo versato o tolto soldi rispetto al mio portafoglio.
Il rischio di sequenza è quindi il rischio fondamentalmente ineliminabile rappresentato dal culo che avete rispetto a quando siete nati e quando avete iniziato ad investire.
Avete iniziato ad investire nell’S&P 500 nel 1990, contribuendo con 500 dollari al mese, con l’idea di andarvene in pensione a fine 2009?
Eh bene ma non benissimo, perché in questo caso il mercato avrebbe fatto l’8,10% di media, mentre voi solo, tra virgolette, il 6,3.
Al contrario avete iniziato nel 2000, contribuendo sempre con 500 dollari al mese, con l’idea di andare in pensione nel 2019?
In questo caso, nonostante la bile che avrete ingoiato per i primi 10 anni, vi sarebbe andata molto bene.
Il mercato avrebbe fatto un 6% scarso, mentre voi addirittura un 9 e fischia percento, perché il fatto di aver avuto gli anni di merda prima e gli anni d’oro dopo vi avrebbe riservato una sorte inversa rispetto allo sfortunato caso precedente.
Questa cosa del rischio di sequenza è molto importante e ci dovremo tornare, più avanti, perché ci aiuterà a capire che tra la teoria dell’asset allocation e la pratica della nostra vita reale di investitori, ne passa di strada.
Se ci basiamo sui rendimenti del mercato, sapete tutti bene che il portafoglio 100% azionario è quello che con ogni probabilità darà nel lungo termine il massimo rendimento possibile.
Ma se abbiamo capito tutta la pappardella di oggi, eh, in realtà non è proprio così perché col fatto che noi togliamo e mettiamo soldi nel portafoglio, meno il nostro portafoglio è volatile e meno saremo esposti al rischio di sequenza.
Ci torneremo comunque.
Ora, fatto tutto sto cinema che a fare sta marea di conti mi è venuto mal di testa, quali sono i takeaway dell’episodio.
Dunque:
– UNO: il rendimento storico dell’S&P 500 è in effetti intorno al 10% all’anno, ma dato che noi investiamo soprattutto con una prospettiva internazionale (per non parlare del fatto che investiamo in Euro, dettaglio che non abbiamo toccato sennò non finiamo più) una ragionevole aspettativa nominale di rendimento per la nostra parte azionaria deve aggirarsi tra il 7 e l’8% all’anno.
– DUE: Qualunque sia il numero, siamo comunque in balia dell’inflazione. Ottenere il 10% all’anno con un’inflazione al 4% è come fare l’8% con un’inflazione al 2. Sull’inflazione potete farci poco ma prima di farvi ossessionare dai rendimenti nominali (soprattutto se li confrontate con il passato), fate bene attenzione all’inflazione che c’era sotto allora e che abbiamo ora.
– TRE: a meno che non investiate soldi tutti de bbotto e poi basta, il vostro rendimento reale sarà determinato dal caso e del tempismo dei vostri prelievi e dei vostri contributi aggiuntivi sul vostro portafoglio.
Quindi? Che si fa?
Quindi prima di cercare di indovinare la combinazione migliore per fare il portafoglio che statisticamente performa meglio alla luce di quanto detto, il mio suggerimento è ragionare in maniera molto pratica.
– Tenete sempre di fronte a voi gli obiettivi che avete nei prossimi 2, 5, 8 e 10 anni;
– Assicurate la parte obbligazionaria del portafoglio in maniera tale che rispecchi quegli obiettivi e
– tutto il resto Può andare nella parte azionaria.
Ogni ragionamento troppo più sofisticato di questo, boh, non fate gli asset manager né lavorate a Wall Street; per me è tempo buttato via.
Prima di chiudere però non possiamo lasciare aperto il tema da cui tutto è partito.
Ok investire in azioni, ma dove?
In America, nei paesi sviluppati, negli Emergenti?
Cioè se è vero che le valutazioni americane sono così tirate, così pericolosamente alte rispetto al passato, ha ancora senso investire così tanto negli Stati Uniti?
Eh ragazzi, che ne so, mi sveglio ogni mattina o quasi con questo pensiero e mentre sono lì che mi frullo i 5 ingredienti della mia colazione segreta continuo a vedere la mia asset allocation che si sposta da una parte e dall’altra.
Triste storia vera.
Il dubbio non ve lo posso risolvere, ma vi lascio con un motivo per sottopesare gli Stati Uniti in generale e magari due motivi per sovrappesarli, almeno nel breve-medio termine.
In generale non c’è dubbio che le valutazioni sono molto alte.
Quindi se Vanguard, Blackrock, Schwab, JP Morgan e compagnia bella sono convinti che l’azionario americano abbia valutazioni talmente alte da dover necessariamente ridurre l’aspettativa di rendimento dei prossimi 10 anni, boh, qualcosa dovrà pur significare.
Non so se questo sia sufficiente a far modificare l’impostazione del portafoglio, ma sicuramente mettere il 100% della componente azionaria nell’S&P 500 non sembra l’idea più a prova di bomba di sempre.
I due motivi per cui, allo stesso, tempo, oggi ci vedo del senso a mantenere una posizione significativa sugli Stati Uniti sono i seguenti.
– Intanto c’è un fattore momentum. L’S&P 500 continua a crescere perché trainato da grandi società tecnologiche all’avanguardia, dominatrici globali e con pochi rivali al mondo e volente o nolente si è deciso che l’Intelligenza Artificiale oggi è l’unica cosa che conta, quindi grandi capitali almeno per un po’ continueranno ad andare lì e il mercato che più di tutti beneficia di questa euforia per l’AI è senza dubbio quello capitanato da Microsoft, Nvidia, Facebook, Amazon e via dicendo.
– L’altro fatto è più statistico.
Avevamo già fatto i conti in passato, ma vale la pena ricordarlo.
Il peggior trentennio di sempre dell’S&P 500 è stato quello dal 1929 al 1958, che ha comunque riportato un 7,8% di rendimento medio annuo.
Da qui al 2029, l’S&P 500 dovrà fare quasi il 12% all’anno solo per pareggiare il peggior trentennio di sempre.
Altrimenti, se farà meno di questo quasi 12% di media per i prossimi 6 anni, il trentennio 2000-2029 sarà stato il meno redditizio di sempre.
Non che non possa succedere naturalmente.
Può succedere benissimo.
Prima però di dire che le cose devono per forza andare male perché stanno andando troppo bene, beh, vista in questa prospettiva di lungo termine non è che poi stiamo proprio vivendo un’epoca d’oro.
Bene, care amiche e cari amici di The Bull, siamo così giunti alla fine anche di questo episodio, forse non tra i più immediati di quelli che ti ascolti spensierato girando con il cane, ma credo fondamentale per capire come maneggiare bene i numeri, dato che dietro ai numeri poi ci sono i vostri soldi.
Grazie infinitamente dal profondo del cuore come sempre per essere ancora qui e per continuare a seguire questo bizzarro podcast che sgomita nelle classifiche senza ancora aver raccontato di un solo omicidio irrisolto.
Per continuare la nostra eterna lotta contro i podcast non finanziari che insidiano la nostra scalata verso la vetta, vi invito come sempre a mettere segui e attivare le notifiche su Spotify, Apple Podcast o dove ci ascoltate e a lasciare una recensione a 5 stelle per supportarci e permetterci di continuare a produrre contenuti che dopo che per una vita eravate convinti che la media che conta fosse quella che avevate faticosamente imparato alle elementari avete scoperto che in realtà la media geometrica prende a schiaffi quella aritmetica sempre nuovi.
Per questo episodio invece è davvero tutto e noi ci rivediamo mercoledì prossimo con una nuova tappa della nostra Odissea solcando gli agitati mari degli investimenti, sempre qui, naturalmente, con The Bull, il tuo podcast di finanza personale.
Bentornati a THE BULL – Il tuo podcast di finanza personale
Ma quanto rende davvero investire in azioni?
Ma siamo sicuri che se investo nei mercati azionari, i miei soldi in futuro aumenteranno?
E siamo sicuri che le performance del passato, benché non abbiano capacità predittiva, possono comunque rappresentare una base realistica per stimare i rendimenti futuri?
L’episodio di oggi è uno di quelli che mi è costato più neuroni ma in effetti arrivati a quasi 100 appuntamenti bisettimanali a parlare di investimenti, forse ad un certo punto era il caso di sollevare la discussione su quale possa essere DAVVERO il rendimento che è legittimo aspettarci dai nostri portafogli a lungo termine.
Perché ne parliamo proprio oggi?
Ne parliamo oggi perché un paio di settimane fa c’è stata una bella puntata di Rational Reminder, uno dei canali YouTube di Ben Felix, nel quale fondamentalmente è stata messa in discussione la diffusa convinzione secondo la quale il mercato — e per mercato qui si intende il mercato americano — renda davvero il 10% all’anno.
O meglio.
Ben Felix non ha contestato il fatto che questo sia stato il rendimento storico dell’S&P 500.
E non avrebbe potuto farlo perché è un fatto incontestabile che se prendiamo la media storica dell’ultimo secolo, senza dubbio il rendimento annuo è stato di oltre il 10% (e addirittura più dell’11% secondo alcuni calcoli).
Siccome poi da qui si sono propagati altri contenuti più o meno direttamente legati a questo tema su vari canali, ho sentito l’esigenza di mettere insieme i pezzi e fornire un quadro chiaro della vicenda, affinché alla fine di questo episodio vi siate fatti un’idea su:
– UNO: che aspettative a lungo termine avere sul rendimento dai vostri investimenti azionari;
– DUE: quali sono le variabili che nella vita reale dei vostri investimenti possono influenzarlo in positivo e in negativo e infine
– TRE: che significati hanno i vari modi di calcolare sto benedetto rendimento.
Dunque, partiamo dal dato di fatto.
Storicamente l’S&P 500 ha reso circa il 10% all’anno in media.
Attenzione però che media non vuol dire che prendo il rendimento totale di un secolo e divido per 100.
Quella sarebbe una media aritmetica, che non serve ad una cippa quando parliamo di rendimento composto.
Il 10-11% di ritorno medio dell’S&P 500 è una media geometrica.
Spieghiamolo con un esempio facile.
Prendiamo 1.000 dollari investiti nell’S&P 500 esattamente 30 anni fa, nel marzo del 1994.
Oggi questi 1.000 dollari sarebbero 18.861, almeno secondo portfolio visualizer, che è una fonte piuttosto attendibile.
Come calcolo il rendimento medio annuo?
Faccio: 18.861 diviso 1.000 uguale 18,86.
Siccome parliamo sempre di percentuali, 18,86 significa 1.886%.
Quindi in questi 30 anni il investimento è cresciuto del 1.886%.
Come faccio a sapere il rendimento medio annuo di questi 30 anni?
Divido 1.886 per 30?
Eh no cari miei, perché se faccio 1.886 diviso 30 fa quai 63.
Ed è assai improbabile che l’S&P 500 abbia fatto il 63% in media ogni anno, no?
Bisogna usare la media geometrica, che si ottiene facendo:
1.886% elevato a 1 fratto il numero di anni (cioè 30) — 1.
(tranquilli tutte le formule di cui parlo oggi ve le scrivo negli shownote dell’episodio).
Sta cosa fa 10,29%, che è appunto la media geometrica, ossia quella che tiene conto dell’interesse composto, che ha trasformato 1.000 dollari in 18 mila e fischia lungo 30 anni.
Chiaro?
Ok.
Comunque prendete un set di anni abbastanza lungo e il mercato americano vi restituirà sempre un rendimento medio annuo fortemente concentrato intorno a sto 10%.
Come abbiamo già detto in passato, il peggior gruppo di trent’anni della storia del mercato americano è quello iniziato nel 1929, con la spaventosa crisi che ha innescato la grande depressione e che è terminata solo negli anni ’40.
Durante quel trentennio disastrato, nonostante tutto, il mercato ha reso comunque un 7,8% di media all’anno.
Altri gruppi di trent’anni hanno invece prodotto rendimenti addirittura del 14% di media, come quello dal 1969 al 1999.
La differenza tra 7,8% e 14% lungo trent’anni è immensa.
Per capirci, 10.000 dollari nel primo caso diventano 95.000 lungo 30 anni. Nel secondo oltre 500.000.
Però, esclusi gli estremi, che il rendimento medio sia grossomodo sul 10% è un dato di fatto incontrovertibile, supportato da oltre 100 anni di dati.
Ora, cosa dice Ben Felix, che ricordiamo è Canadese, non Americano.
Lui dice: “occhio che il mercato Americano è più un’eccezione che la norma”.
Se prendiamo infatti il mercato azionario globale, il ritorno medio annuo è più nell’ordine del 7-8% e infatti ogni volta che in questo podcast ci siamo messi a fare qualche simulazione, salvo rari casi abbiamo sempre usato l’MSCI World, l’indice dei 23 mercati azionari dei paesi più sviluppati, che negli ultimi 40 anni ha prodotto un 8% all’anno di media.
Perché il mercato Americano ha sempre prodotto questo 2% in più di Equity premium?
Prima di rispondere a questa domanda, cerchiamo di capire da cosa è composto il rendimento di un investimento azionario.
Cioè, dopo 94 episodi ci chiediamo (“forse in effetti avrei dovuto farlo prima, va beh”) dicevo ci chiediamo: perché se investo soldi in azioni, teoricamente ho un guadagno?
Da cosa deriva il rendimento dell’investimento azionario?
Ok, grazie per la domanda molto puntuale.
In pratica il rendimento di un’azione è il risultato della somma tra il cosiddetto dividend yield, ossia il rendimento da dividendo, e l’apprezzamento capitale, ossia l’aumento del prezzo di quell’azione.
Secondo il leggendario John Bogle, il fondatore di Vanguard e padre degli Index Fund e di tutta l’idea alla base dell’investimento passivo, esisterebbe una formula abbastanza semplice che descrive quali elementi hanno contribuito al rendimento di un’azione, o del mercato azionario in generale, in un certo periodo.
Secondo lui il rendimento di un investimento azionario risulterebbe dalla somma tra:
– Rendimento da dividendo Più
– Crescita dei profitti Più
– Variazione nel rapporto tra prezzo e utili, il cosiddetto Price/Earning Ratio.
Prendiamo il decennio 2010-2019.
Durante questo decennio l’S&P 500 ha riportato in media ogni anno:
– Un 2% di rendimento da dividendo;
– Un 10,6% di crescita dei profitti (ricordiamoci che venivamo dal decennio perduto, quindi dopo il disastro del decennio prima non ci voleva molto) e infine
– Un 1% di crescita del rapporto tra prezzi e utili, ossia le azioni sono diventate in media più costose di un 1% all’anno.
Totale 13,6%, che è stato il rendimento medio annuo del Super indice americano nello scorso fortunatissimo decennio.
Prendiamo invece il decennio perduto.
– 1,2% di rendimento da dividendo;
– 0,8% di crescita dei profitti e
– -3,2% nel rapporto prezzo utili (ossia le azioni sono scese di prezzo rispetto ai profitti delle società).
Totale -1,2% di media per tutto quello sciagurato decennio.
Chiaro?
Capite bene che in questa formula ci sono due elementi oggettivi, i dividendi e i profitti, e uno soggettivo, che è l’aumento dei prezzi delle azioni, che diciamo è la componente più “speculativa”.
Cioè il fatto che le valutazioni delle società aumentano dipende dal consenso del mercato che continua ad investire e quindi a fare crescere il prezzo delle azioni.
In qualche modo questa è la componente “emotiva” della crescita del mercato, ciò che misura la propensione al rischio degli investitori.
Usando questa formula, uno può così stimare il ritorno futuro delle azioni.
Perché praticamente chiunque sta prevedendo dei ritorni più bassi, nei prossimi anni, per il mercato americano?
Ben Felix, tra gli altri, fa notare come il grosso dell’equity premium del mercato americano, in particolare degli ultimi 50 anni, sia dovuto ad un progressivo aumento delle valutazioni delle società e non ad un aumento degli utili o dei dividendi.
Cioè non è che le azioni delle società Americane hanno una combinazione di rendimento da dividendo e crescita degli utili così significativamente superiore alla media delle società degli altri mercati sviluppati.
Semplicemente il mercato ha progressivamente attribuito un valore privilegiato al mercato americano e questa cosa ha via via fatto crescere le valutazioni in maniera importante.
I motivi?
Probabilmente il ruolo di prima potenza politica, militare ed economica del mondo avrà avuto il suo peso.
Il fatto di essere l’avanguardia globale dell’innovazione tecnologica anche.
Il fatto infine di essere il mercato più grande, liquido ed efficiente del mondo a sua volta avrà attratto sempre maggiori capitali spingendo verso l’alto le valutazioni, forse al di là dei fondamentali.
Secondo Ben Felix c’è stata una grossa componente di pura e semplice fortuna.
Disastri che sono accaduti a turno un po’ in tutti i paesi del mondo, semplicemente negli Stati Uniti non sono ancora capitati.
C’è anche un altro fatto da considerare.
L’alto rendimento storico del mercato azionario era dovuto anche ai maggiori rischi, oltre alle maggiori complessità tecniche, connesse all’investimento in azioni.
Oggi invece investire è estremamente più semplice, economico e accessibile a chiunque.
Tutto ciò deve aver contribuito a ridurre la percezione del rischio nell’investimento azionario e la stessa introduzione degli ETF ha probabilmente dato il suo contributo in questa direzione.
Se in generale più persone investono in azioni e in generale l’investimento azionario è considerato meno rischioso, si ottengono due effetti:
– Nel breve termine le valutazioni vanno su, sfruttando soprattutto l’effetto momentum che porta in particolare i mercati e le società più performanti a crescere ulteriormente.
– Nel lungo termine, invece, ciò abbassa il rendimento atteso, perché se il rischio percepito è minore e le valutazioni sono salite, si abbassa di conseguenza il premio per l’investimento azionario.
Cioè è come dire: se compro azioni a prezzi mediamente più alti rispetto ai loro profitti, devo teoricamente aspettarmi dei rendimenti inferiori in futuro, come quando compro una casa ad un prezzo basso in una zona periferica e poi questa si rivaluta facendone schizzare il prezzo, rispetto a che comprare una casa a 12.000 € al metro in centro a Milano che più di quel tanto non può crescere di valore nel futuro.
Poi, valutazioni non sono necessariamente predittive del futuro e lo Shiller CAPE Ratio non è l’oracolo di Delfi.
Lo Shiller Capitale Adjusted Price Earning Ratio e la misura del rapport tra prezzi e utili degli ultimi 10 anni aggiustati per inflazione, che ad oggi è il miglior strumento che abbiamo per stimare i rendimenti a lungo termine.
Maggiore è il CAPE ratio, minore è il rendimento atteso. E viceversa.
È un indicatore abbastanza affidabile, anche se la sua correlazione con i rendimenti reali non supera lo 0,4, ossia riesce davvero a predire i rendimenti futuri con una precisione del 40%.
Ciononostante queste metriche hanno il loro peso ed è giusto tenerne conto, soprattutto ora che le valutazioni medie delle società americane hanno raggiunto livelli record.
Giusto per capirci.
Il rapporto medio tra prezzi ed utili delle società dello Stoxx 600, ossia le 600 società più grandi d’Europa, è intorno a 14,5 nel momento in cui stiamo parlando.
Quello delle società dell’S&P 500 ha raggiunto la vertiginosa media di 26.
In media, quindi, le azioni americane sono scambiate ad un prezzo che è di 26 volte l’utile medio per azione. Un livello altissimo rispetto a qualunque media storica.
Non abbastanza alto per dire che siamo in una bolla, come invece successe nel 2000 con i prezzi anche a 40 volte gli utili.
Ma decisamente alto rispetto ad una media storica intorno alle 15-17 volte.
Il fatto che le valutazioni siano così alte è ciò che sta portando qualunque società finanziaria che conti a Wall Street a prospettare ritorni molto poco generosi per il mercato americano nei prossimi anni.
Il buon vecchio John Bogle, nel Piccolo Libro dell’investimento di buon senso, pubblicato l’ultima volta nel 2017, aveva dato una stima super pessimistica, addirittura posizionando il ritorno atteso dell’S&P 500 per i prossimi 10 anni intorno al 4-5%.
Vanguard, la società che lui ha fondato e che è dopo Blackrock è oggi il più grande asset manager del mondo, a dicembre ha stimato un rendimento a 10 anni del mercato azionario americano tra il 3,7 e il 5,7%, citando sempre le alte valutazioni come motivazioni di questa stima.
Blackrock ha fatto una stima sempre intorno al 5%.
Schwab intorno al 6%.
JP Morgan è la più ottimista con una stima intorno al 7%.
Ben Felix usa un’immagine particolarmente efficace quando dice: *valutations are the closest thing to gravity in the financial markets*, le valutazioni sono la cosa più vicina alla gravità nei mercati azionari, nel senso che più salgono, più aumenta la probabilità che presto o tardi crollino verso il basso.
Per il motivo uguale e contrario, invece, tutte le società che ho citato sopra prevedono rendimenti decisamente più alti per l’azionario globale internazionale, intorno all’8% per i mercati sviluppati e addirittura intorno al 9% per i mercati emergenti (chi più chi meno).
L’8% in effetti è perfettamente in linea con la media storica dell’MSCI World ed è questo il motivo per cui in tutto questo podcast non abbiamo mai usato il 10% dell’S&P 500 come valore di riferimento per le nostre stime, ma sempre quello più conservativo dell’azionario globale.
Perché pensano tutti che Europa, Giappone, Canada e Mercati Emergenti andranno meglio nei prossimi anni?
Semplicemente perché le valutazioni sono più basse.
Sic et simpliciter.
Per una questione di regressione verso la media, il principio più potente dell’universo per provare a comprendere fenomeni fondamentalmente casuali, gli Stati Uniti hanno fatto eccezionalmente bene e presto o tardi torneranno giù, mentre gli altri hanno un po’ di credito con la fortuna e quindi dovrebbero andare un po’ meglio.
Ora chiudiamo il ragionamento di Ben Felix e poi passiamo a parlare di cose molto più pratiche che interessano da vicino il nostro portafoglio.
Nella sua attività di consulente finanziario per PWL Capital, Ben Felix dice di usare un modello predittivo per i suoi clienti in cui prende il rendimento storico dell’azionario globale, rimuove la parte del rendimento attribuibile alle variazioni nelle valutazioni e tiene conto delle valutazioni attuali.
Così facendo, la sua stima attuale per un investitore con orizzonte di 30 anni è che un rendimento azionario plausibile sia intorno al 7,2% all’anno.
Sicuramente molto buono, ma decisamente lontano anni luce dal 10% di cui sopra.
Ci siete rimasti male?
Pensavate che la cosa migliore del mondo fosse fare all in nel mercato storicamente più performante del mondo, che poi ha aspettato proprio voi per smettere di essere il primo della classe?
Allora, prima di fasciarvi la testa, ascoltatemi un attimo e parliamo delle 3 cose più importanti da comprendere in quest’episodio.
PRIMA COSA IMPORTANTE: il rendimento nominale è una cosa interessantissima, ma quello che conta davvero è il rendimento REALE.
Per rendimento REALE si intende quello al netto degli effetti dell’inflazione.
Se il mercato americano storicamente ha reso il 10%, ma la sua inflazione media è stata, perlomeno dal dopoguerra ad oggi, tra il 3,5 e il 4% all’anno, questo significa che il rendimento reale del mercato azionario americano si è attestato da qualche parte intorno al 6 e mezzo %.
La mia bibbia per quanto riguarda questi dati è Stocks for The Long Run di Jeremy Siegel.
Pare che i dati prima del ‘900 siano da rivedere, ma noi prendiamo quelli dal 1946 ad oggi sui quali ci possono essere ben pochi dubbi, soprattutto considerato il fatto che più andiamo indietro nel tempo, più fare paragoni con la situazione attuale diventa problematico.
L’inflazione ha un effetto pesantissimo sul rendimento di un investimento e va a stravolgere completamente il suo significato pratico.
Intendo dire: investire è bello e fa aumentare i soldi. Ma i soldi servono per comprare cose. Se il valore nominale dei soldi aumenta ma il loro potere di acquisto no, meglio comunque che abbiamo investito, ma chiaramente ci possiamo fare molto meno con i nostri sudati risparmi.
Prendiamo due periodi storici caratterizzati da un’inflazione media ben diversa.
Il primo è quello che va dal 1966 al 1981, il secondo va dal 2000 al 2021.
Prendo questi periodi perché sono quelli su cui Siegel fa i calcoli, se volete altri periodi fatevi i calcoli voi.
Nel primo periodo il rendimento nominale del mercato azionario americano è stato del 6,9%. Nel secondo periodo del 7,8%.
Il secondo è andato meglio del primo.
Quasi un punto percentuale sappiamo che è tanto.
Ma non tantissimo.
Andiamo però a vedere il valore reale.
Nel primo periodo l’inflazione media è stata del 7% all’anno e sotto questo punto di vista gli anni ’70 sono stati il periodo peggiore dell’economia moderna.
Gli sgangherati anni 2000, invece, pur se funestati da due crisi finanziarie epocali, l’11 settembre, il Covid e tante altre amenità se non altro ha avuto un’inflazione piuttosto bassa, intorno al 2,3%.
Qual è il risultato finale?
Il risultato finale è che il povero investitore sfigato che ha iniziato nel 1966, nel 1981 praticamente non ha guadagnato niente. Anzi, ha pure perso potere d’acquisto al ritmo dello 0,1% all’anno per 15 anni.
Dal 2000 al 2021, invece, il rendimento reale è stato del 5,2% all’anno, un ottimo rendimento nonostante il decennio perduto in mezzo alle palle per i primi 10 anni.
Vi ricordate quando nei primissimi episodi vi spiegavo quanto può essere grave pagare il 2% di commissioni al consulente della vostra banca o al vostro assicuratore?
Ecco, l’inflazione rappresenta una sorta di commissione di cui non vi potete liberare.
Quini a maggior ragione liberatevi di quelle che invece richiedono poco più di una telefonata…
Così, consiglio non richiesto.
Ora, possiamo fare qualcosa per contrastare l’inflazione?
No.
Non possiamo fare niente.
Ce la prendiamo e basta.
Però questa cosa è importante da capire, perché possiamo fare tutti i calcoli del mondo sul rendimento a lungo termine delle azioni, usare computer quantistici, l’intelligenza artificiale, leggere le foglie di the o scrutare le viscere di un volatile come facevano gli aruspici nei bei tempi andati.
Per quanto la previsione sul rendimento nominale futuro sia precisa, c’è questo jolly nascosto dell’inflazione che può far saltare il banco in ogni momento.
Nel 2022 il mercato azionario americano ha perso il 18%.
L’inflazione negli Stati Uniti è stata del 6,5%.
In pratica è come se quell’anno il mercato avesse perso oltre il 24%!
Capite quanto è importante capire il valore reale dei nostri investimenti?
Noi parliamo sempre di valori nominali perché tanto non possiamo fare nulla per rimuovere l’inflazione dall’equazione.
Però una volta che ci mettiamo a fare le stime sul rendimento atteso futuro, chiaramente l’inflazione rappresenta una variabile fondamentale ma imprevedibile.
Ammettiamo che Ben Felix abbia ragione è che il rendimento medio annuo del mercato azionario su cui fare affidamento sia 7,2% all’anno.
È ovvio che se l’inflazione si posiziona al 2%, il nostro risultato reale sarà 5%.
Se l’inflazione sale e in media va al 4%, il rendimento reale sarà 3,2%, una bella merda.
Questa cosa dovrebbe rendervi chiaro ancora una volta perché quando vedete offerte che sembrano troppe belle per essere vere, tipo supersicuri titoli di Stato, depositi o obbligazioni ad alto rating che rendono il 4% senza rischio, ecco, non sono infatti troppo belle per essere vere.
Semplicemente significa che c’è un’inflazione piuttosto alta, che ha spinto quindi in alto i tassi di interesse e quindi il rendimento reale di quel tipo di investimenti è prossimo allo zero, se non negativo.
Storicamente solo le azioni si sono rivelate una valida arma contro l’inflazione, mentre invece obbligazioni, depositi, real estate e altre forme di investimento, non sempre hanno dato le stesse garanzie.
Capirete inoltre perché è maledettamente importante contenere i costi degli investimenti.
Immaginiamo che usate un portafoglio 60/40.
Se Ben Felix ha ragione, grosso modo il rendimento futuro che ci dovremmo attendere dovrebbe essere intorno al 6%.
(chissà come mai sin dagli albori di questo podcast, mesi prima che Ben Felix facesse il suo contenuto, mi ero inventato la regola del mille, usando il 6% come rendimento medio… va che a volte la chiaroveggenza…).
Ve la ricordate?
Investite un certo importo fisso mensile per 30 anni al 6% di rendimento medio annuo e il valore finale sarà mille volte il contributo mensile.
1.000 € al mese per 30 anni al 6% fa un 1 milione.
Vedete che vi dovete fidare di The Bull vostro?
Però 6% se investite in ETF o se vi fate da soli un portafoglio di azioni e obbligazioni abbastanza diversificato da replicare il mercato senza fare cagate.
Se invece cominciate a togliere:
– 3% di inflazione;
– 2% di costo di gestione dei vostri fondi attivi;
– 1% di management fee per il vostro gestore;
– 1%, e siamo generosi, di underperformance dei vostri fondi attivi perché come noto fanno danni.
Risultato.
Eh risultato è che investite per avere alla fine meno soldi, in valore reale, di quelli che risparmiate.
A quel punto metteteli in un vaso che forse crescono di più.
Se invece non avete costi inutili in mezzo alle scatole, quel milione di euro dopo 30 anni varrà circa 400.000 € in valore reale.
Se non aveste investito quei 360.000 €, 1.000 al mese per 30 anni, alla fine varrebbero solo 150.000 € per via degli effetti dell’inflazione.
Quindi il mio investimento avrebbe generato 250.000 € reali che altrimenti non avrei mai avuto.
Chiaro?
Quindi, prima roba: il ritorno nominale può essere quello che volete, ma se sotto c’è un’inflazione della madonna tanto vale.
Se invece il ritorno è più basso, ma pure l’inflazione, agli effetti pratici cambia poco.
Pertanto se in passato il mercato americano ha reso il 10%, ma con un’inflazione verso il 4%, mentre oggi tutti gli sforzi delle banche centrali sono coordinati per tenere l’inflazione al 2%, anche un rendimento nominale inferiore alla fine produce un rendimento reale non troppo distante.
Veniamo alla SECONDA COSA IMPORTANTE: il rendimento del mercato, così come viene misurato da un indice come l’S&P 500 o l’MSCI World, noi non lo cattureremo mai in quanto tale.
Mi spiego.
Diciamo che prendo per buono l’8% all’anno dell’azionario globale, che oggi mi sento più ottimista del 7,2% di Ben.
Se io inizio ad investire in azioni per 30 anni, il mio rendimento ogni singolo anno sarà probabilmente diverso da quello dell’indice di riferimento, perché con ogni probabilità io non avrò investito tutto all’inizio e poi tanti saluti per i 30 anni successivi ma tendenzialmente nel corso di una vita avrò aggiunto dei contributi al mio portafoglio nel tempo, così come in alcuni casi mi sarà capitato anche di prelevare dei soldi.
Il fatto che io metta o tolga soldi nel mio portafoglio, per una questione squisitamente matematica, modifica radicalmente la performance del mio investimento rispetto alla performance del mercato sottostante.
Facciamo un esempio semplicissimo.
Prendiamo la performance di un ETF sull’MSCI World degli ultimi 4 anni, che ha fatto:
– +6% nel 2020
– +32% nel 2021
– -13% nel 2022 e infine
– +20% nel 2023.
Ora, per sapere il rendimento medio dei 4 anni non potete fare la media aritmetica di questi 4 numeri perché esce un valore che non vuol dire niente.
Ammettiamo di aver investito 10.000 € il 2 gennaio del 2020 e poi basta, al 31 dicembre 2023 ci saremmo ritrovati 14.588 €.
Il rendimento complessivo è stato quindi del 45% circa e per calcolare quello medio annuo non devo dividere per 4, che sarebbe un errore matematico, ma uso la formula della media geometrica, ossia 45% elevato a uno fratto 4, il numero di anni, meno 1.
Risultato 9,9%.
Questo si chiama CAGR, ossia Compounded Annual Growth Rate, tasso annuale di crescita composto.
Se investo così, il CAGR deve coincidere con il rendimento dell’indice sottostante.
Se però io faccio un PAC, o comunque metto e tolgo soldi nel tempo, le cose cambiano eccome.
Ammettiamo che investo 2500 € all’anno ogni primo gennaio, così nei 4 anni dell’esempio sono sempre 10.000 € investiti in totale.
In questo caso il risultato finale sarà 12.673 €, quasi 2.000 euro in meno perché ovviamente ho diluito il rendimento nel tempo.
Il mio rendimento in questa situazione si calcola in modo diverso utilizzando il Money Weighted Rate of Return, che in questo caso corrisponde al tasso interno di rendimento.
Senza addentrarci troppo in un concetto che richiede più di matematica di quanto l’essere umano medio di solito è disposto a sopportare, in pratica questo valore ci dà il rendimento medio in base a cui cresce il nostro investimento periodico, tenendo conto dei vari flussi di denaro in ingresso e in uscita.
Per i più interessati esiste una comoda formula in Excel che si chiama TIR.X che, data una serie di flussi (il vostro PAC in questo caso) e il risultato finale dell’investimento vi calcola automaticamente il tasso interno di rendimento.
Ora, perché è importante sta cosa.
E’ importante per due motivi:
– UNO è che noi tipicamente versiamo un tot alla volta, quindi il rendimento viene modificato nel tempo in base a quando avvengono i nostri contributi al portafoglio, rispetto a ciò che nel frattempo sta succedendo nel mercato. Se facciamo un PAC mentre il mercato scende tendenzialmente ci va bene, se lo facciamo mentre il mercato sale il rendimento si riduce;
– L’ALTRO MOTIVO è che per quanto vogliamo essere rigorosi ad investire i nostri 200-500-1000-2000 euro al mese, difficilmente sarà sempre questo l’importo che a vita aggiungeremo mensilmente al portafoglio.
Avremo momenti fortunati in cui magari ci arriva un bonus, un’eredità, cambiamo lavoro e ci liquidano il TFR, vendiamo l’appartamento di nonna, insomma, classiche situazioni in cui magari mi trovo dei soldi extra e che decido di buttare on top dentro il mio portafoglio.
Allo stesso modo ci saranno momenti in cui sarò più tirato e quindi magari per un po’ non investo più e altri momenti in cui invece vorrò prelevare dei soldi perché magari ho una spesa improvvisa o semplicemente perché voglio comprare qualcosa che mi rende felice (in fondo a questo servono i soldi no?).
Soprattutto in questo secondo caso, il timing FA una grossa differenza.
Torniamo all’esempio sopra degli ultimi 4 anni.
Il mercato, in sé e per sé, ha fatto il 9,9% all’anno di CAGR.
Se investo 2.500 € all’anno, però, il mio rendimento non sarà il medesimo, ma sarà un po’ più basso, 9,7% per la precisione, che mi farà arrivare appunto a circa 12.673 €.
Se però cambio i flussi, attenzione a quel che succede.
Ricordatevi che di questi 4 anni, 3 sono stati positivi mentre uno, il 2022, è stato negativo, come da perfetta tradizione che vuole il mercato positivo circa 3 anni ogni 4.
Caso 1: Invece di investire 2.500 € all’anno, nel 2021 non investo e investo invece 5.000 € nel 2022 e poi sempre 2.500 nel 2023, quindi sempre 10.000 in totale ma distribuiti in modo diverso.
Risultato finale: alla fine avrò fatto la scelta sciagurata di investire più soldi proprio prima del crollo del mercato e mi sarò ritrovato a fine 2023 con circa 11.800 €, quindi quasi 1.000 in meno di prima, a parità di soldi investiti e di rendimento del mercato sotto. In particolare il mio rendimento medio annuo ponderato in questo caso sarà del 7,64%.
Vediamo invece una situazione inversa.
Caso 2: investiamo 5.000 € nel 2021 e zero nel 2022, lasciano sempre 2.500 nel 2020 e nel 2023.
Risultato finale: 13.500 € di capitale e un rendimento medio annuo ponderato dell’11,3%.
Quindi più alto perché ho messo più soldi all’inizio di un anno positivo e non ne ho messi durante l’anno più negativo.
Chiaro?
Lo so, sta cosa può risultare un filo ostica e ascoltarla senza vederla richiede uno sforzo notevole.
Per questo vi ammiro, per favore non andate a schiantarvi se mentre cercate di seguire guidando.
Comunque se vi siete persi con i numeri, il concetto è questo.
A prescindere da quale sia il rendimento del mercato in cui voi investite, il timing e la quantità di soldi che progressivamente aggiungete al portafoglio (o che togliete, che è la stessa cosa ma con i segni invertiti) può stravolgere completamente il rendimento reale del vostro investimento.
Questa cosa poi pesa soprattutto nei primi anni del percorso di investimento, oppure quanto i contributi o i prelievi sono rilevanti, perché chiaramente una volta che avete 500.000 € di portafoglio, i 2.000 € che mettete prima o dopo non fanno nessuna differenza significativa.
Se invece di colpo mettete o togliete 100.000 €, eh, chiaramente il timing cambia tutto.
Detto questo, e come sua conseguenza più o meno diretta, veniamo alla TERZA COSA IMPORTANTE: il cosiddetto Sequence of Return Risk.
Sta diventando un personaggio ricorrente di The Bull, ormai ne parliamo molto spesso.
Il rischio di sequenza, come sapete, è quella roba per cui a parità di rendimento del mercato sottostante, l’ordine degli anni positivi o negativi in cui investite fa la differenza se nel frattempo mettete o togliete soldi dal vostro portafoglio.
Se io prendo 2 periodi di, che ne so, 20 anni, che hanno riportato in passato un rendimento medio del 10% all’anno, come potrebbe essere stato uno dei diversi ventenni in cui l’S&P 500 ha fatto davvero così, in realtà il mio risultato reale lungo questi 2 periodi sarebbe stato molto diverso in base alla combinazione tra l’ordine dei vari anni positivi e negativi che si sono susseguiti e il tempismo con cui ho nel tempo versato o tolto soldi rispetto al mio portafoglio.
Il rischio di sequenza è quindi il rischio fondamentalmente ineliminabile rappresentato dal culo che avete rispetto a quando siete nati e quando avete iniziato ad investire.
Avete iniziato ad investire nell’S&P 500 nel 1990, contribuendo con 500 dollari al mese, con l’idea di andarvene in pensione a fine 2009?
Eh bene ma non benissimo, perché in questo caso il mercato avrebbe fatto l’8,10% di media, mentre voi solo, tra virgolette, il 6,3.
Al contrario avete iniziato nel 2000, contribuendo sempre con 500 dollari al mese, con l’idea di andare in pensione nel 2019?
In questo caso, nonostante la bile che avrete ingoiato per i primi 10 anni, vi sarebbe andata molto bene.
Il mercato avrebbe fatto un 6% scarso, mentre voi addirittura un 9 e fischia percento, perché il fatto di aver avuto gli anni di merda prima e gli anni d’oro dopo vi avrebbe riservato una sorte inversa rispetto allo sfortunato caso precedente.
Questa cosa del rischio di sequenza è molto importante e ci dovremo tornare, più avanti, perché ci aiuterà a capire che tra la teoria dell’asset allocation e la pratica della nostra vita reale di investitori, ne passa di strada.
Se ci basiamo sui rendimenti del mercato, sapete tutti bene che il portafoglio 100% azionario è quello che con ogni probabilità darà nel lungo termine il massimo rendimento possibile.
Ma se abbiamo capito tutta la pappardella di oggi, eh, in realtà non è proprio così perché col fatto che noi togliamo e mettiamo soldi nel portafoglio, meno il nostro portafoglio è volatile e meno saremo esposti al rischio di sequenza.
Ci torneremo comunque.
Ora, fatto tutto sto cinema che a fare sta marea di conti mi è venuto mal di testa, quali sono i takeaway dell’episodio.
Dunque:
– UNO: il rendimento storico dell’S&P 500 è in effetti intorno al 10% all’anno, ma dato che noi investiamo soprattutto con una prospettiva internazionale (per non parlare del fatto che investiamo in Euro, dettaglio che non abbiamo toccato sennò non finiamo più) una ragionevole aspettativa nominale di rendimento per la nostra parte azionaria deve aggirarsi tra il 7 e l’8% all’anno.
– DUE: Qualunque sia il numero, siamo comunque in balia dell’inflazione. Ottenere il 10% all’anno con un’inflazione al 4% è come fare l’8% con un’inflazione al 2. Sull’inflazione potete farci poco ma prima di farvi ossessionare dai rendimenti nominali (soprattutto se li confrontate con il passato), fate bene attenzione all’inflazione che c’era sotto allora e che abbiamo ora.
– TRE: a meno che non investiate soldi tutti de bbotto e poi basta, il vostro rendimento reale sarà determinato dal caso e del tempismo dei vostri prelievi e dei vostri contributi aggiuntivi sul vostro portafoglio.
Quindi? Che si fa?
Quindi prima di cercare di indovinare la combinazione migliore per fare il portafoglio che statisticamente performa meglio alla luce di quanto detto, il mio suggerimento è ragionare in maniera molto pratica.
– Tenete sempre di fronte a voi gli obiettivi che avete nei prossimi 2, 5, 8 e 10 anni;
– Assicurate la parte obbligazionaria del portafoglio in maniera tale che rispecchi quegli obiettivi e
– tutto il resto Può andare nella parte azionaria.
Ogni ragionamento troppo più sofisticato di questo, boh, non fate gli asset manager né lavorate a Wall Street; per me è tempo buttato via.
Prima di chiudere però non possiamo lasciare aperto il tema da cui tutto è partito.
Ok investire in azioni, ma dove?
In America, nei paesi sviluppati, negli Emergenti?
Cioè se è vero che le valutazioni americane sono così tirate, così pericolosamente alte rispetto al passato, ha ancora senso investire così tanto negli Stati Uniti?
Eh ragazzi, che ne so, mi sveglio ogni mattina o quasi con questo pensiero e mentre sono lì che mi frullo i 5 ingredienti della mia colazione segreta continuo a vedere la mia asset allocation che si sposta da una parte e dall’altra.
Triste storia vera.
Il dubbio non ve lo posso risolvere, ma vi lascio con un motivo per sottopesare gli Stati Uniti in generale e magari due motivi per sovrappesarli, almeno nel breve-medio termine.
In generale non c’è dubbio che le valutazioni sono molto alte.
Quindi se Vanguard, Blackrock, Schwab, JP Morgan e compagnia bella sono convinti che l’azionario americano abbia valutazioni talmente alte da dover necessariamente ridurre l’aspettativa di rendimento dei prossimi 10 anni, boh, qualcosa dovrà pur significare.
Non so se questo sia sufficiente a far modificare l’impostazione del portafoglio, ma sicuramente mettere il 100% della componente azionaria nell’S&P 500 non sembra l’idea più a prova di bomba di sempre.
I due motivi per cui, allo stesso, tempo, oggi ci vedo del senso a mantenere una posizione significativa sugli Stati Uniti sono i seguenti.
– Intanto c’è un fattore momentum. L’S&P 500 continua a crescere perché trainato da grandi società tecnologiche all’avanguardia, dominatrici globali e con pochi rivali al mondo e volente o nolente si è deciso che l’Intelligenza Artificiale oggi è l’unica cosa che conta, quindi grandi capitali almeno per un po’ continueranno ad andare lì e il mercato che più di tutti beneficia di questa euforia per l’AI è senza dubbio quello capitanato da Microsoft, Nvidia, Facebook, Amazon e via dicendo.
– L’altro fatto è più statistico.
Avevamo già fatto i conti in passato, ma vale la pena ricordarlo.
Il peggior trentennio di sempre dell’S&P 500 è stato quello dal 1929 al 1958, che ha comunque riportato un 7,8% di rendimento medio annuo.
Da qui al 2029, l’S&P 500 dovrà fare quasi il 12% all’anno solo per pareggiare il peggior trentennio di sempre.
Altrimenti, se farà meno di questo quasi 12% di media per i prossimi 6 anni, il trentennio 2000-2029 sarà stato il meno redditizio di sempre.
Non che non possa succedere naturalmente.
Può succedere benissimo.
Prima però di dire che le cose devono per forza andare male perché stanno andando troppo bene, beh, vista in questa prospettiva di lungo termine non è che poi stiamo proprio vivendo un’epoca d’oro.
Bene, care amiche e cari amici di The Bull, siamo così giunti alla fine anche di questo episodio, forse non tra i più immediati di quelli che ti ascolti spensierato girando con il cane, ma credo fondamentale per capire come maneggiare bene i numeri, dato che dietro ai numeri poi ci sono i vostri soldi.
Grazie infinitamente dal profondo del cuore come sempre per essere ancora qui e per continuare a seguire questo bizzarro podcast che sgomita nelle classifiche senza ancora aver raccontato di un solo omicidio irrisolto.
Per continuare la nostra eterna lotta contro i podcast non finanziari che insidiano la nostra scalata verso la vetta, vi invito come sempre a mettere segui e attivare le notifiche su Spotify, Apple Podcast o dove ci ascoltate e a lasciare una recensione a 5 stelle per supportarci e permetterci di continuare a produrre contenuti che dopo che per una vita eravate convinti che la media che conta fosse quella che avevate faticosamente imparato alle elementari avete scoperto che in realtà la media geometrica prende a schiaffi quella aritmetica sempre nuovi.
Per questo episodio invece è davvero tutto e noi ci rivediamo mercoledì prossimo con una nuova tappa della nostra Odissea solcando gli agitati mari degli investimenti, sempre qui, naturalmente, con The Bull, il tuo podcast di finanza personale.
Recensioni
Quando capisci come funziona la finanza… ti viene voglia di raccontarla!
Non sono solito a mettere recensioni e specialmente non ascolto podcast, ma da quando ho iniziato questo, faccio fatica a staccarmi, e quasi non posso più fare a meno di ascoltare e arricchirmi culturalmente.
Andrea V., 22 Set 2025Da quando l'ho scoperto in 15 gg mi sono ascoltato 150 puntate senza fermarmi, ho annullato gli altri podcast per portarmi alla pari ed ascoltare tutte le precedenti puntate, ben fatto, esattamente il livello di informazione che mi serviva
Gianluca G., 11 Set 2025Ho seguito tutte le puntate! Grazie veramente
Amalia A., 17 Set 2025Veramente interessante, chiaro e conciso. Cambia la vita finanziaria di chiunque.. da ascoltare assolutamente anche per chi di finanza non vuole occuparsi mai
Francesca B., 6 Apr 2024Podcast piacevole, scorre veloce ma in modo estremamente chiaro, spiega i concetti chiave per gestire le proprie finanze, fornendo la classica cassetta degli attrezzi. Complimenti, davvero ben fatto!
Massimiliano, 29 Mag 2024Dovrebbero ascoltarlo buona parte degli italiani e io avrei dovuto scoprirlo con qualche anno in anticipo ma meglio tardi che mai
Matteo C., 3 Set 2025Riccardo mi ha letteralmente cambiato la vita e fatto scoprire che amo la finanza, ho ascoltato il podcast già due volte e non mi stufo mai di ascoltarlo, parla in modo semplice e chiaro
Massimo D., 23 Set 2025Podcast che dà sempre spunti interessanti che personalmente mi ha fatto appassionare alla finanza personale spingendomi ad approfondire in prima persona.
Lorenzo, 13 Mar 2025Veramente veramente raccomandato! la finanza personale riassunta alla perfezione! e spiegata partendo dall'ABC! Ottimo anche da ascoltare a velocita 1,5x!
Giorgia R., 23 Gen 2025