Come investire nei Paesi Sviluppati … senza gli Stati Uniti
Gli indici globali assegnano agli Stati Uniti dal 60 al 70% del peso. E' la scelta migliore? E' un peso eccessivo? E quali sono i criteri di valutazione? Come fare ad investire nei paesi sviluppati senza investire negli Stati Uniti? Quali sono le conseguenze? A tutte queste domande cercheremo di dare risposta in quest'episodio.

97. Come investire nei Paesi Sviluppati … senza gli Stati Uniti
Risorse
Punti Chiave
Analisi del dilemma: mantenere forte peso USA o diversificare geograficamente con ETF su Europa e Asia-Pacifico.
Discussione di pro, contro, valutazioni di mercato e impatto della psicologia d'investimento.
Trascrizione Episodio
Bentornati a THE BULL – Il tuo podcast di finanza personale
Il tema è caldo, care amiche e cari amici di questo podcast. Lo stiamo toccando da diverse angolature ormai da un pezzo ed è forse perché più ci penso mi invece che avere chiarezza di pensiero mi sorgono nuovi dubbi e nuovi spunti.
Ma del resto, Dubito Ergo Sum come disse il buon Renato Cartesio nel suo Discorso sul Metodo, anche se poi sarebbe passato alla storia con il più famoso Cogito Ergo Sum, benché chiunque abbia avuto l’onere di studiare il celebre filosofo del ‘600, sa che la prova provata della nostra esistenza non sta innanzitutto nel fatto che noi pensiamo — traduzione italiana dal latino cogitare — bensì nel fatto che noi dubitiamo.
Finché dubitiamo, possiamo stare certi che siamo vivi e che la nostra vita non sia un’illusione.
Nel momento in cui smettiamo di dubitare invece, beh, probabilmente siamo stecchiti.
Ora, non so quando sia sostenibile la pretesa di Cartesio di dimostrare che il fondamento ultimo di ogni verità universale risieda nel pensiero umano, ma resta condivisibile il fatto che il dubbio sia un po’ la cifra del nostro essere unici e speciali in tutto l’universo.
Lo so a sta cosa non ci avevate mai pensato, anzi! Probabilmente avreste vissuto meglio senza che stamattina nessun podcast di finanza vi avesse costretto a sto pippone.
Però se ci pensate una delle cose più fighe del nostro pensiero non è appunto il fatto che pensa e che magari ogni tanto pensa pure cose intelligenti.
No.
La cosa più figa è che è un cazzo di San Tommaso diffidente che mette in dubbio ogni cosa.
Dubitiamo e non diamo niente per scontato.
Finché è così, siamo vivi.
E di cosa dubitiamo oggi?
Oggi dubitiamo di come costruire l’allocazione geografica del nostro portafoglio, perché uno dei temi che più di ogni altro anima le mie discussioni intracraniche è sempre quello: quanta America avere in portafoglio?
Come sappiamo l’S&P 500 è l’indice più grande e performante del mondo e questo ci pone di fronte ad un dubbio amletico:
– Continuare a dargli un peso spropositato nel portafoglio OPPURE
– Valutare di sottopesarlo e andare a mettere i soldi anche da altre parti?
Dubitiamo gente.
Dubitiamo e teniamo il cervello in funzione.
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Allora, breve recap della questione che ha fatto scaturire il presente episodio.
Il tema ancora una volta riguarda l’approccio da tenere nell’impostazione della propria asset allocation per quanto riguarda la distribuzione geografica della componente azionaria del portafoglio.
Come sanno anche le piante mezze morte del mio salotto — eh che volete, il pollice verde non è una skill di questa casa, penso che potremmo far morire anche una pianta finta dell’Ikea — dicevo le due principali interpretazione su come costruire un portafoglio azionario sono chiamate: Market Cap Weighted ed Equally Weighted (o comunque qualche altro “qualcosa” wighted che non segue paro paro la capitalizzazione globale).
Nel primo caso si assegna ai vari mercati azionari un peso proporzionale a quello della loro rispettiva capitalizzazione, mentre nel secondo si cerca di attribuire un peso maggiormente uniforme alle varie regioni.
Come sempre, il fulcro della vicenda è appunto il ruolo degli Stati Uniti, dato che in un indice azionario globale il mercato azionario americano ha un peso che va dal 60 al 70%.
Se non fosse per gli Stati Uniti, utilizzare un approccio basato su Market Cap o Equally Weighted farebbe davvero pochissima differenza.
Riassumiamo in breve il tema, poi se volete la versione lunga riascoltatevi l’episodio 95.
Per via di come sono andate la cose dal 2010 ad oggi, l’approccio basato su Market Cap avrebbe stravinto perché l’S&P 500 è stato, per distanza, l’indice più performante del mondo, quindi sovrappesare gli Stati Uniti sarebbe stata l’idea migliore possibile.
Un investitore europeo che avesse investito nell’S&P 500 dal gennaio 2010 ad oggi si sarebbe portato a casa la bellezza di quasi il 16% di crescita all’anno, una roba al di fuori di qualunque logica.
Tradotto in soldoni, 10.000 € iniziali oggi sarebbero 80.000.
Investire nell’azionario globale dei paesi sviluppati, invece, sarebbe stato meno entusiasmante ma avrebbe comunque dato delle belle soddisfazioni perché gli stessi 10.000 € iniziali sarebbero diventati quasi 50.000.
Per contro, un Equal Weight fatto di 1/3 America, 1/3 Paesi Sviluppati e 1/3 Emergenti si sarebbe fermato a circa 37.000 €.
Cmq non una tragedia, ma nettamente meno di un Market Cap Weighted.
Ora: oggi cosa ha senso fare?
Continuare ad investire sovrappesando l’America oppure, basandoci sulle considerazioni che dirò a breve, sottopesare gli Stati Uniti e puntare maggiormente su altri Paesi Sviluppati (ed eventualmente sugli Emergenti)?
Vediamo quali sono i potenziali rischi dei due approcci, così come mi vengono in mente poi magari ce ne sono pure altri che sto ignoando,.
I rischi di investire Market Cap Weighted sono:
– UNO: le valutazioni delle società americane sono altissime. Mentre le società europee hanno un rapporto tra prezzo delle azioni e utili di circa 15, negli Stati Uniti siamo oltre 25.
Se prendiamo il Cyclically Adjusted Price Earning Ratio, noto anche come Shiller CAPE ratio, le valutazioni attuali si trovano oggi nel 97° percentile rispetto ai dati del passato, il che significa oltre 2 deviazioni standard verso destra rispetto alla media.
Da un punto di vista squisitamente statistico, ciò fa pensare che valutazioni così alte non possano che preludere a rendimenti nettamente inferiori in futuro.
Le grandi società di asset management come Vanguard, Blackrock, Schwab, JP Morgan e compagnia bella, stimano un ritorno a 10 anni dell’S&P 500 intorno al 5-6%, contro l’oltre 10% di media storica.
– DUE: banalmente c’è il principio della regressione verso la media. Più delle variabili fondamentalmente casuali, come i rendimenti di mercato, si discostano dalla loro media, più nel lungo termine tendono a regredire verso di essa.
Come dire: dopo 15 anni che gli Stati Uniti dominano e gli altri muti, prima o poi potrebbe ribaltarsi lo scenario e avere magari gli altri mercati sugli scudi e l’S&P 500 più sommesso.
D’altra parte i rischi di investire con un approccio Equally Weighted sono:
– UNO: non c’è modo di sapere se e quanto questa cosa potrebbe verificarsi. Quindi nel frattempo rischio di perdermi il grosso dei rendimenti del mercato, che oggi sono ancora dovuti all’eccezionale performance di poche mega società americane.
Ricordiamo che le prime 10 società dell’S&P 500 oggi pesano per un terzo di tutto l’indice e per oltre un quinto dell’MSCI World.
Non bisogna infatti sottovalutare l’effetto momentum, ossia il fatto che per un certo periodo di tempo le società più performanti tendono ad essere quelle che continueranno a performare meglio — almeno per un po’.
Trend is your friend, recita un vecchio adagio di Wall Street.
– DUE: come ci ha ricordato Alessandro Saldutti, Country Manager di Scalable, nello scorso episodio, il 75% di tutta la crescita del mercato azionario è dovuta alla performance del 4% delle società più di successo. In pratica la stragrande maggioranza delle azioni non produce in media un rendimento superiore a quello dei titoli di stato a breve termine.
Mancare questo 4% può quindi avere un effetto devastante e irrecuperabile sul rendimento del portafoglio.
Bel problema eh?
Comunque la giri ci sono minacce dappertutto.
In questo episodio però non cercherò neanche lontanamente di suggerire una strada da seguire — anche perché se lo sapessi questo podcast lo farei dalla mia isola alle Fiji, come Tim Robbins che c’ha la sua isola personale.
Oggi partiamo dall’assunto che ciascuno tra voi farà quel che gli pare con il proprio portafoglio a seconda della propria sensibilità e inclinazione e ci concentreremo piuttosto su come fare ad investire in maniera alternativa al classicum classicorum che consiste nel prendere un ETF azionario globale e tanti saluti.
Partiamo dall’Europa intanto, che non ce la caghiamo quasi mai ma zitta zitta, quatta quatta, ultimamente sta dando soddisfazioni come non faceva da un decennio.
Questo perché, al di là dell’andamento non esattamente brillante delle economie del vecchio continente, ci sono tuttavia una serie di società che se la stanno giocando per conquistare la status di Magnifiche Europee, in contrapposizione alle note Magnificient Seven Americane.
(anche su ultimamente si sta parlando più di Fab Four, perché da inizio 2024 3 delle magnifiche 7, Google, Apple e soprattutto Tesla, stanno andando maluccio).
Comunque in tanti, soprattutto in America, consci del fatto che il loro mercato azionario sia diventato più caro delle aragostelle da Peck sotto Natale, si stanno chiedendo quali siano le società su cui puntare in Europa nei prossimi anni.
Perché proprio in Europa?
Il motivo principale sono appunto le valutazioni relativamente basse rispetto agli utili, con un rapporto medio tra prezzi e profitti per azione di circa 15 come dicevamo prima.
L’altro motivo è che alcune realtà stanno effettivamente diventando dei piccoli colossi, cosa che piace molto agli Americani per cui più una cosa è grande più è bella, sapete che là hanno questo gusto per l’esagerazione e devono fare tutto più grande di quel che servirebbe.
Un ultimo fatto non trascurabile è che, diversamente da quanto sempre accaduto nel passato, ultimamente anche le società Europee hanno cominciato a rivedere la loro tradizionale politica di distribuzione dei dividendi optando per un crescente ricorso ai buyback, che è una prassi più tipicamente americana.
Buyback, come sapete, significa che le società si ricomprano le proprie azioni sul mercato riducendone la quantità disponibile e quindi facendone salire il prezzo, che è un modo fiscalmente più efficiente per remunerare gli azionisti invece che staccando dividendi che sono tassati da cima a fondo nel momento stesso in cui vengono elargiti.
Ora, le varie grandi banche di investimento stanno esprimendo ciascuna la propria idea su chi siano le Magnifiche d’Europa su cui puntare e come sempre, giusto per rimarcare il fatto che in Finanza non c’è mai un’evidenza oggettiva su un bel niente, ogni banca ha tirato fuori la propria personale selezione.
Diciamo che almeno su tre società c’è un consenso abbastanza universale, se non fosse che sono le prime tre per capitalizzazione in Europa
(caspita, meno male che questi a Wall Street hanno tutti MBA costati centinaia di migliaia di dollari, altrimenti non ci saremmo mai arrivati che le più grandi d’Europa potessero essere l’alternativa europea alle più grandi d’America! Va che a Wall Street sono sempre due passi avanti…).
Comunque ste tre sono:
– La società farmaceutica danese Novo Nordisk, titolare di celeberrimi farmaci contro l’obesità come Ozempyc;
– La società olandese ASML produttrice di macchinari necessari alla produzione di semiconduttori; e infine
– Il colosso francese del lusso LVMH, titolare di un’infinità di brand tra cui soprattutto Louis Vuitton e Cristian Dior.
Oltre a queste, come sapete Golmand Sachs tempo fa aveva lanciato l’acronimo Granolas, per mettere insieme le 11 società più importanti del vecchio continente. Oltre alle 3 citate abbiamo infatti: GSK, Roche, Novartis, Nestlé, L’Oreal, Astrazeneca, Sanofi e SAP.
UBS invece, al di là delle 3 più grandi, ha messo sul piatto, Richemont, Siemens e Airbus (soprattutto dopo l’annus horribilis della rivale Boing, che a quanto pare mette insieme i pezzi degli aerei con la colla vinilica e non gli riesce più di far atterrare un velivolo senza che questo non abbia perso qualche pezzo lungo la rotta).
Societé Generale invece, da brava francese, raddoppia sul lusso e pesca anche Hermes tra le aziende su cui scommettere.
Interpellata sull’argomento, anche mia moglie condivide pienamente l’opinione su Hermes dell’investment board di Societé Generale anche se ho il sospetto che quando io e lei parliamo di “borse” abbiamo in mente due cose un po’ diverse.
Citigroup invece è l’unica che parla un po’ di Italiano, perché tra i gioielli Europei annovera la nostra Ferrari, che negli ultimi anni è stata sicuramente una delle azioni più performanti del mondo.
Un po’ tutte insomma sono convinte che queste large cap europee siano il meglio del meglio del mercato azionario continentale e che nonostante abbiano dei multipli superiori alla media, siano comunque molto più economiche delle Magnifiche Sette e che quindi avrebbero un profilo di rischio / rendimento più favorevole.
In teoria.
Come sempre.
Ora, se qualcuno sposa l’idea di ridurre in qualche misura l’esposizione verso gli Stati Uniti a favore di altri mercati sviluppati, allora si tratta di capire quali sono le modalità più efficienti per farlo.
Come vi sto raccontando da qualche settimana, Xtrackers ha finalmente lanciato sul mercato europeo il primo ETF globale ex US, che in pratica è un MSCI World, quindi solo paesi sviluppati, senza gli Stati Uniti.
Nel momento in cui stiamo parlando, tuttavia, siamo ad appena 30 milioni di capitalizzazione.
Decisamente piccolino secondo gli standard che comunemente si consigliano, che partono da almeno 500 milioni.
Magari anche a partire da 100-200 milioni comincia a diventare un ETF abbastanza stabile, ma a 30 milioni sinceramente mi sembra un filino azzardato investirci.
Se volessimo però replicare quest’ETF in maniera artigianale, come potremmo fare?
Allora guardiamo intanto la sua composizione:
– 21% Giappone
– 10% Gran Bretagna, Canada e Francia;
– 8% Svizzera e Germania;
– 6% Australia e Olanda
E poi via via tutti gli altri.
Le prime 10 società sono praticamente 8 tra i Granolas, Shell e l’unica extraeuropea è Toyota.
Se vogliamo quindi investire al di fuori degli Stati Uniti senza usare una svagonata di singoli ETF, il numero minimo da utilizzarne è 2 e probabilmente la scelta migliore è 3, come dirò tra poco.
In pratica si tratta di replicare un 65% di Europa e un 35% di APAC, acronimo che sta per Asia Pacific, come chiunque abbia passato una vita a giocare a videogame sul calcio usando le nazionali sa benissimo.
Per l’Europa abbiamo fondamentalmente tre strade e quindi dipende un po’ da ciascuno cosa vuole fare e dalla quantità di volatilità che si vuole portare in casa.
SCELTA UNO: Stoxx 600.
Uno si prende tutta l’Europa continentale, 600 società ben diversificate, tanto Regno Unito, Francia, Germania e Svizzera e via via le altre.
Scelta sicuramente molto solida, purché si tengano in considerazione due aspetti:
– In primis, c’è una forte componente di esposizione valutaria verso Sterlina, Franco Svizzero e Corona Danese;
– In secondo luogo il peso delle Granolas è di circa il 20%, mentre il restante 80% ha dentro un po’ di tutto.
Questi due punti in sé e per sé non sono né negativi né positivi.
Possono portare benefici come anche penalizzare l’investimento a seconda degli sviluppi del mercato.
Dalla sua, puntare sullo Stoxx 600 ha sicuramente il pregio di essere molto diversificato.
SCELTA DUE: MSCI EMU, dove EMU non sta per il simpatico pennuto ma è l’acronimo di European Monetary Union.
In pratica con questo indice abbiamo le 220 e fischia società più grandi dell’area Euro.
Anche qui, un 30% è fatto dalla componente in Euro delle Granolas con l’aggiunta di realtà come Schneider, Allianz e Total.
Per il resto, altre realtà ad alta e media capitalizzazione dei paesi che condividono la nostra valuta.
Rispetto allo Stoxx non abbiamo qua il tema dell’esposizione valutaria.
Dall’altro lato è un indice meno diversificato e ci perdiamo le Large Cap Inglesi, Svizzere, Novo Nordisk e via dicendo.
La SCELTA TRE è invece l’EUROSTOXX 50, l’indice delle 50 società più capitalizzate dell’area Euro.
Qui abbiamo un indice ancora meno diversificato, ma d’altra parte l’investimento sarebbe fortemente concentrato nelle più grandi società dell’area Euro per quasi il 50% dell’intero indice.
Se qualcuno crede che le Granolas in Euro, oltre ad altre Blue Chip Tedesche, Francesi, Italiane e via dicendo siano effettivamente le realtà più promettenti d’Europa, allora l’Eurostoxx 50 è un modo semplice per prendersi un’esposizione importante verso queste Large cap, escludendo quasi del tutto le realtà a media capitalizzazione.
Se invece si vuole fare una cosa simile, ma incorporando tutte le Granolas, quindi anche quelle fuori dall’area Euro, allora l’unica opzione è un ETF di Ishares con ticker EUN, che replica l’indice Stoxx Europe 50, da non confondere con l’Euro Stoxx 50.
Come già detto in un episodio passato, le due cose da tenere in considerazione in un ETF di questo tipo è che esiste solo a distribuzione e che ha un costo non esattamente economicissimo, 0,35%.
Niente di grave eh, però rispetto ai soliti 0,1-0,2%, 0,35% mi fa girare un pochino le palle.
Scelto quello che più vi piace, ora dobbiamo gestire l’APAC.
Anche qui, le strade che si possono seguire non sono infinite, ma in buona sostanza sono due:
La prima consiste nell’utilizzare un unico ETF che replica tutto il mercato azionario dei paesi sviluppati dell’area Asia Pacifico, che sono soprattutto Giappone, Australia, Hong Kong e Singapore. In alcuni casi c’è anche la Corea del Sud, che però si trova più di frequente rappresentata in altri indici, a volte in quelli dei paesi sviluppati (secondo gli indici FTSE), oppure in quelli emergenti (secondo gli indici MSCI).
Che io sappia, l’unico ETF UCTIS che replica tutta la regione APAC incluso il Giappone è il Vanguard Developed Asia Pacific All Cap, che sarebbe un ETF ideale per questo scopo se non fosse che ha una capitalizzazione mignon da 20 milioni di euro.
Per tanto così allora uno si prende l’ETF World di Xtrackers senza gli Stati Uniti.
L’altra strada invece si basa sull’idea di usare due strumenti, che chiaramente saranno:
– Un ETF sul Giappone e
– Un ETF su un indice Asia Pacific ex Japan, come lo sono quasi tutti.
Se uno volesse replicare la stessa composizione che troverebbe nell’ETF globale ex US di Xtrackers, dovrebbe mettere circa un 35% dell’investimento totale suddiviso su questi due e in particolare al Giappone dovrebbe andare circa il 70% e la quota restante sulla parte ex Japan.
Chi resterebbe fuori?
Eh avrete notato che in questo modo ci perdiamo le giubbe rosse, i lodevoli inventori dello sciroppo d’Acero del Canada.
Il Canada non se lo ricorda mai nessuno, ma comunque è un membro del G7 e ha un prodotto interno lordo leggermente superiore al nostro.
Tra l’altro il rendimento del suo mercato azionario è tutt’altro che da buttare, perfettamente in linea con quello dell’MSCI World e nell’ordine dell’8,5% all’anno da 40 anni a questa parte.
Dato che però ha una correlazione totale con l’MSCI World e il suo rendimento degli ultimissimi anni è stato praticamente identico a quello dell’Europa, non sono certo che porti grande valore aggiunto al portafoglio.
Se proprio ci tenete perché una volta siete stati alle cascate del Niagara e vi ci siete affezionati, avete a disposizione 9 comodi ETF che replicano quel mercato, tra cui peraltro uno bello grosso di Ishares da quasi un miliardo.
Bene.
Ora gli strumenti per fare questa cosa li abbiamo visti e abbiamo fatto qualche ragionamento che dovrebbe supportare le nostre decisioni in tal senso.
La cosa da capire ora, al di là della geografia, è cosa comporta investire in questo modo rispetto a seguire il puro e semplice approccio Market Cap Weighted a prova di scemo.
Se io mi reputo un investitore passivo, cioè se parto presupposto che “non ci capisco niente, non posso prevedere il futuro, non ho informazioni che mi possano dare alcun vantaggio competitivo bla bla bla” e così via, allora l’idea di stare nel mercato e replicarlo così com’è non può che basarsi sulla logica della capitalizzazione.
In tal caso prenderò, per la parte azionaria, un ETF globale oppure singoli ETF regionali ma comunque con una proporzione in linea con quella globale, quindi circa 60% Stati Uniti, 30% Paesi Sviluppati di cui almeno un 20% Europa e il resto Paesi Emergenti.
Qualunque altra decisione diversa da questa si traduce in un approccio attivo all’investimento.
Cioè, scegliere di sottopesare gli Stati Uniti significa prendere una certa decisione che ritengo debba portarmi ad un rendimento migliore (o perlomeno allo stesso rendimento ma con una volatilità inferiore, come si dice un miglior “risk-adjusted return”).
Vediamo quindi cosa comporterebbe questa decisione attiva, nelle sue implicazioni pratiche.
Per prima cosa, abbiamo un tema di esposizione geografica verso i mercati emergenti.
Cazzo c’entrano i mercati emergenti direte voi?
Eh c’entrano eccome!
Ricordiamoci che quando investiamo in una società è certamente importante dove questa si trova la sua sede legale, ma allo stesso tempo è anche importante capire dove fa business.
Le aziende americane hanno ovviamente business globali, perché esportano i propri prodotti in tutto il mondo.
Come facile immaginare, gli iPhone sono venduti in Cina, in India, in Africa, in Arabia e così via. E lo stesso vale per i BigMac, la Coca Cola, le scarpe della Nike, eccetera.
Ma il più grande mercato per gli Stati Uniti … sono gli Stati Uniti.
Più del 50% del PIL americano è dovuto al consumo interno dei suoi benestanti 300 milioni di abitanti.
Quindi investire tanto sulle società americane vuol dire esporsi tanto anche all’economia interna americana (e questo può essere sia un bene che un male).
Se invece investo in società Europee, queste sono più esposte ai paesi emergenti, perché molte di essere hanno degli importanti mercati di sbocco per i propri prodotti soprattutto in Cina e poi via via da quelle parti là lontane dal mondo occidentale.
Prendiamo l’esempio per eccellenza: LVMH.
La holding proprietaria di Louis Vuitton è la seconda società più grande d’Europa.
Ma le sue costosissime borse sono particolarmente amate in Cina, quindi per quanto strano possa sembrare il destino di questa società basata a Parigi è fortemente legata al buono stato di saluto dell’economia a Pechino.
Ora, non è che stiamo parlando di un’esposizione enorme dell’Europa nei confronti dei paesi emergenti, però diciamo che rispetto al classico MSCI World, l’MSCI ex US ha un 3-4% di esposizione in più verso quest’angolo del mondo e in generale un 20% di esposizione in più sull’Europa e i paesi sviluppati dell’APAC.
L’altra cosa da considerare, invece, riguarda l’esposizione settoriale.
Anche mia figlia di 7 mesi sa che investire nell’MSCI World comporta attribuire un peso predominante al settore informatico, oltre un quarto del totale.
Se però togliamo gli Stati Uniti, il primato passa al settore finanziario (quindi in particolare Banche e Assicurazioni) con oltre il 20% e poi abbiamo Prodotti Industriali, Beni Discrezionali e solo al quarto posto l’Informatica con il 9%.
Ovviamente è impossibile dire a priori se questa cosa sia un bene o un male.
Lascio alla sensibilità di ciascuno di voi decidere cosa sia meglio per il proprio portafoglio, tenuto presente che sottopesare gli Stati Uniti non significa solo prendere una decisione “geografica”, ma una vera e propria decisione strategica basata sull’aspettativa che settori più tradizionali, come Banche, Manifattura e Largo Consumo, avranno un futuro più roseo che il settore informatico.
On top a tutto questo discorso, naturalmente, c’è il discorso più generale sulle valutazioni delle società nei diversi mercati di cui parlavamo all’inizio.
Quindi al di là dei singoli settori, si tratta di decidere fino a che punto pensiamo che valutazioni molto alte negli Stati Uniti avranno ripercussioni sui rendimenti nel medio termine e agire di conseguenza scegliendo se privilegiare il momentum attuale, la tendenza che hanno le società più performanti a continuare a crescere ancora, o l’aspetto “value”, cioè l’idea di investire in società con multipli bassi ma con un alto valore intrinseco.
Vedete un po’ voi.
Comunque assumiamo che ci prendiamo quest’idea di ridurre l’esposizione americana e che magari, mercati emergenti esclusi, sulla parte azionaria facciamo un Salomonico 50% Stati Uniti e 50% suddiviso tra Europa e APAC.
Quali sono PRO e CONTRO che ci posso vedere in un approccio di questo tipo?
Molte grazie per la puntualissima domanda.
Partiamo dai possibili PRO:
– UNO: sicuramente ci portiamo a casa una maggiore diversificazione. A parità di rendimento (ammesso e non concesso che il rendimento sia lo stesso naturalmente) avremo probabilmente un miglior “risk-adjusted return”.
L’obiezione tipica a questa cosa è che tutti i mercati sviluppati sono molto correlati a quello Americano.
Verissimo.
Ma il fatto che siano correlati non significa, soprattutto nel medio lungo termine, che riporteranno le stesse performance.
– DUE: abbassiamo senza dubbio il price/earning ratio medio del nostro portafoglio, ossia ci mettiamo in pancia società con valutazioni un po’ più economiche di quelle esorbitanti al di là dell’Atlantico, che in qualche modo è un approccio più da value investing.
– TRE — e questo non è un dettaglio da poco — se scegliamo di sovrappesare l’area Euro, magari privilegiando indici come l’MSCI EMU o l’Euro Stoxx 50, riduciamo il rischio valutario.
Come sapete il rischio è sempre bidirezionale.
Ossia rischio significa che dall’esposizione valutaria possiamo tanto guadagnarci quanto perderci, in maniera fondamentalmente casuale.
Aumentando però la quota di investimenti in Euro, a parità di altre condizioni, dovremmo abbassare la volatilità generale del portafoglio.
Veniamo ora ai CONTRO:
– CONTRO NUMERO UNO: ci perdiamo il momentum.
Come abbiamo detto all’inizio “trend is your friend”.
Decidere di andare contro il trend significa perdersi, nel breve, i rendimenti maggiori delle società che stanno correndo di più facendo la scommessa che i rendimenti a lungo termine saranno invece più favorevoli puntando sulle società oggi più sottovalutate.
Potrebbe essere verissimo, ma resta pur sempre una scommessa.
Dal punto di vista dell’analisi fondamentale non farebbe una piega.
Però sappiamo anche che il mercato non è perfettamente razionale e che il solo fatto che l’opinione generale creda che l’S&P 500 sia il place to be almeno per un po’ crea una profezia che si autoavvera che fa confluire più capitali di quanto i valori fondamentali delle sue società giustificherebbero.
Come dire: “sì le valutazioni sono alte. Però l’America è l’America e la sua economia continua a macinare numeri record. Nel dubbio continuo ad investire lì” beh questo volente o nolente continua a spingere il mercato verso l’alto.
– Il CONTRO NUMERO DUE ne è la diretta conseguenza, ossia che ci possiamo perdere i rendimenti. La statistica basata sui dati storici di oltre 100 anni ci dice che l’S&P 500, tra i grandi mercati, non ha eguali in termini di rendimento.
E’ vero che, come abbiamo detto un paio di episodi fa, quel 10% di media è un pezzo sopra al 7-8% che più ragionevolmente dovrebbe produrre l’azionario globale e che questo premio non può durare per sempre.
Come avevamo visto, dagli anni 70 ad oggi questo 2% di sovraperformance in più va ricondotto quasi tutto nella crescita delle VALUTAZIONI delle società americane, che oggi appunto hanno dei multipli molto elevati rispetto alle controparti Europee o Giapponesi.
In effetti non so se sia legittimo aspettarci che un domani le azioni saranno quotate 35, 40, 50 volte i loro utili. Le valutazioni in fondo on possono crescere all’infinito rispetto alla capacità di queste società di generare profitti.
D’altra parte non sappiamo quando ci sarà un’inversione della tendenza.
A partire da domani il mercato americano potrebbe cominciare ad andare in picchiata e riassestarsi sulmultipli più bassi, o magari per i prossimi 10 anni continuerà a crescere fino a raggiungere valutazioni che ad oggi ci sembrano folli.
Folli o non folli, perdere quei rendimenti potrebbe essere una mannaia sulla performance generale a lungo termine del nostro portafoglio.
Quindi alla fine, come era facile prevedere, una risposta soddisfacente non la può dare nessuno.
Il consiglio NON FINANZIARIO che mi sento di dare è: fate ciò che rispecchio al meglio la vostra predisposizione psicologica.
Volete avere un approccio completamente passivo e dire: “copio il mercato esattamente per quello che è”? Allora Market Cap Weighted è la scelta giusta.
Volete invece avere un approccio maggiormente diversificato e vi sentite meglio senza avere singoli mercati che dominano quasi tre quarti della vostra componente azionaria e magari preferite avere più investimenti denominati in Euro? Allora abbiamo visto che, in attesa che l’ETF di Xtrackers cresca di volume, abbiamo una serie di opzioni piuttosto comodo per bilanciare diversamente la nostra esposizione globale.
Qualunque previsione sul futuro, di solito, non gode di lunga vita a Wall Street.
Le proiezioni delle banche d’investimento e lo Shiller CAPE ratio dicono chiaramente che in futuro l’America farà peggio che in passato.
Ma il mercato non sembra comunque troppo d’accordo su questa cosa.
Se queste stime fossero al di là di ogni ragionevole dubbio, il mercato le avrebbe già prezzate e oggi saremmo su valori ben più bassi.
Il punto vero, tanto per cambiare, è che noi siamo affetti da tanti bias cognitivi che condizionano anche il modo in cui andiamo a prendere i numeri e li interpretiamo per trovare appigli per le nostre decisioni future.
Noi per esempio sappiamo che mediamente in passato le valutazioni delle società americane non sono mai state così alte. E questo ci porta naturalmente a pensare che se in passato non sono mai state così, allora oggi ci troviamo in un’anomalia.
Ma in realtà questa cosa può essere sia vera che falsa.
O può essere vera in teoria ma non abbiamo idea di quando in pratica potrebbe verificarsi un’inversione di tendenza.
In fondo il mondo cambia e non è detto che i parametri che erano validi in passato restino validi anche nel presente e soprattutto nel futuro.
Ho letto paper in cui per supportare certe tesi si prendevano dati relativi alla performance delle azioni nel diciannovesimo secolo.
Ragazzi ma di cosa stiamo parlando?
Mica stiamo studiando il cambiamento climatico.
Come si possono confrontare dati finanziari di un’epoca in cui nemmeno esisteva il telefono, con quelli di un’epoca in cui l’informazione si propaga nel mondo ad una velocità prossima a quella della luce.
Ma anche solo il mondo degli anni 90 della mia adolescenza è radicalmente diverso da quello odierno.
Questo non significa che quello attuale sia un mondo migliore o più propizio per i mercati azionari.
Non abbiamo proprio idea di come la futura configurazione del mondo inciderà sull’andamento dei mercati.
Non sappiamo se gli Stati Uniti continueranno a vincere, né se al contrario come fu nell’anno 476 dopo Cristo per l’Impero Romano d’Occidente, anche il suo erede moderno a stelle e strisce cederà la sua apparentemente intoccabile supremazia globale.
Quindi boh.
Dubitate di tutto.
Dubitate perché finché dubitate il vostro cervello mantiene il suo spirito critico e non dà niente per scontato.
Dubitate perché così le vostre decisioni saranno sempre consapevoli.
Ma dopo aver dubitato per bene, fate un bel respiro, accettate l’incertezza assoluta sul futuro e prendete la decisione che meglio vi farà dormire la notte.
Per quel che ne sapete, il vostro stomaco e il vostro cuore hanno le stesse probabilità di battere il mercato dei più brillanti analisti di Wall Street.
Solo il tempo svelerà pian piano la verità, che per noi limitati e minuscoli esseri umani resterà sempre fondamentalmente inaccessibile in anticipo.
Bene, care amiche e cari amici di The Bull, spero che abbiate trovato utile anche questo 97esimo episodio e vi ringrazio come sempre per aver scelto questo podcast come compagno nel vostro viaggio nel mondo della finanza.
Prima di lasciarci vi ricordo che questo episodio è stato sponsorizzato da 4Books e che se volete avere accesso a migliaia di audioriassunti dei saggi più rappresentativi mai scritti in qualunque ambito dello scibile umano, l’abbonamento annuale è scontato per voi, e per voi soltanto, a 69,99 € anziché 99,99.
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Detto questo, prima di partire per le Fiji è con grande onore ed emozione che condivido qui con voi che abbiamo raggiunto insieme l’incredibile traguardo di un milione di download!
Un milione di Grazie, grazie e sempre e soltanto grazie per questa cosa letteralmente al di là della più rosea allucinazione che avrei mai potuto avere quando per la prima volta vi ho dato il Benvenuto a The Bull ormai 10 mesi fa.
Sometimes our dreams come true e di questo sogno siete indubbiamente la parte migliore.
Finite invece le smancerie che mi sta già salendo il diabete, vi invito come sempre a mettere segui e attivare le notifiche su Spotify, Apple Podcast o dove ci ascoltate e a lasciare una recensione a 5 stelle per supportarci e permetterci di continuare a produrre contenuti che mentre vi fanno sorgere mille dubbi ovunque pensavate di aver consolidato delle certezze se non altro vi danno la conferma che continuate ad essere vivi per davvero sempre nuovi.
Per questo episodio invece è davvero tutto e noi ci diamo quindi appuntamento mercoledì prossimo quando tornerà a trovarci sua Sapienza e Saggezza Nicola Protasoni che avrà l’arduo compito di spiegarci in una mezzoretta tutto l’affascinante mondo dei Futures e delle Opzioni, quindi non mancate perché sarà una puntata imperdibile, sempre qui, naturalmente, con The Bull Il tuo podcast di finanza personale.
Bentornati a THE BULL – Il tuo podcast di finanza personale
Il tema è caldo, care amiche e cari amici di questo podcast. Lo stiamo toccando da diverse angolature ormai da un pezzo ed è forse perché più ci penso mi invece che avere chiarezza di pensiero mi sorgono nuovi dubbi e nuovi spunti.
Ma del resto, Dubito Ergo Sum come disse il buon Renato Cartesio nel suo Discorso sul Metodo, anche se poi sarebbe passato alla storia con il più famoso Cogito Ergo Sum, benché chiunque abbia avuto l’onere di studiare il celebre filosofo del ‘600, sa che la prova provata della nostra esistenza non sta innanzitutto nel fatto che noi pensiamo — traduzione italiana dal latino cogitare — bensì nel fatto che noi dubitiamo.
Finché dubitiamo, possiamo stare certi che siamo vivi e che la nostra vita non sia un’illusione.
Nel momento in cui smettiamo di dubitare invece, beh, probabilmente siamo stecchiti.
Ora, non so quando sia sostenibile la pretesa di Cartesio di dimostrare che il fondamento ultimo di ogni verità universale risieda nel pensiero umano, ma resta condivisibile il fatto che il dubbio sia un po’ la cifra del nostro essere unici e speciali in tutto l’universo.
Lo so a sta cosa non ci avevate mai pensato, anzi! Probabilmente avreste vissuto meglio senza che stamattina nessun podcast di finanza vi avesse costretto a sto pippone.
Però se ci pensate una delle cose più fighe del nostro pensiero non è appunto il fatto che pensa e che magari ogni tanto pensa pure cose intelligenti.
No.
La cosa più figa è che è un cazzo di San Tommaso diffidente che mette in dubbio ogni cosa.
Dubitiamo e non diamo niente per scontato.
Finché è così, siamo vivi.
E di cosa dubitiamo oggi?
Oggi dubitiamo di come costruire l’allocazione geografica del nostro portafoglio, perché uno dei temi che più di ogni altro anima le mie discussioni intracraniche è sempre quello: quanta America avere in portafoglio?
Come sappiamo l’S&P 500 è l’indice più grande e performante del mondo e questo ci pone di fronte ad un dubbio amletico:
– Continuare a dargli un peso spropositato nel portafoglio OPPURE
– Valutare di sottopesarlo e andare a mettere i soldi anche da altre parti?
Dubitiamo gente.
Dubitiamo e teniamo il cervello in funzione.
Prima di cominciare però, permettetemi di proporvi un modo per tenere il cervello sempre attivo, con poca fatica e ottimizzando in qualunque situazione vi troviate, purché abbiate la possibilità di usare uno smartphone e un paio di auricolari.
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Allora, breve recap della questione che ha fatto scaturire il presente episodio.
Il tema ancora una volta riguarda l’approccio da tenere nell’impostazione della propria asset allocation per quanto riguarda la distribuzione geografica della componente azionaria del portafoglio.
Come sanno anche le piante mezze morte del mio salotto — eh che volete, il pollice verde non è una skill di questa casa, penso che potremmo far morire anche una pianta finta dell’Ikea — dicevo le due principali interpretazione su come costruire un portafoglio azionario sono chiamate: Market Cap Weighted ed Equally Weighted (o comunque qualche altro “qualcosa” wighted che non segue paro paro la capitalizzazione globale).
Nel primo caso si assegna ai vari mercati azionari un peso proporzionale a quello della loro rispettiva capitalizzazione, mentre nel secondo si cerca di attribuire un peso maggiormente uniforme alle varie regioni.
Come sempre, il fulcro della vicenda è appunto il ruolo degli Stati Uniti, dato che in un indice azionario globale il mercato azionario americano ha un peso che va dal 60 al 70%.
Se non fosse per gli Stati Uniti, utilizzare un approccio basato su Market Cap o Equally Weighted farebbe davvero pochissima differenza.
Riassumiamo in breve il tema, poi se volete la versione lunga riascoltatevi l’episodio 95.
Per via di come sono andate la cose dal 2010 ad oggi, l’approccio basato su Market Cap avrebbe stravinto perché l’S&P 500 è stato, per distanza, l’indice più performante del mondo, quindi sovrappesare gli Stati Uniti sarebbe stata l’idea migliore possibile.
Un investitore europeo che avesse investito nell’S&P 500 dal gennaio 2010 ad oggi si sarebbe portato a casa la bellezza di quasi il 16% di crescita all’anno, una roba al di fuori di qualunque logica.
Tradotto in soldoni, 10.000 € iniziali oggi sarebbero 80.000.
Investire nell’azionario globale dei paesi sviluppati, invece, sarebbe stato meno entusiasmante ma avrebbe comunque dato delle belle soddisfazioni perché gli stessi 10.000 € iniziali sarebbero diventati quasi 50.000.
Per contro, un Equal Weight fatto di 1/3 America, 1/3 Paesi Sviluppati e 1/3 Emergenti si sarebbe fermato a circa 37.000 €.
Cmq non una tragedia, ma nettamente meno di un Market Cap Weighted.
Ora: oggi cosa ha senso fare?
Continuare ad investire sovrappesando l’America oppure, basandoci sulle considerazioni che dirò a breve, sottopesare gli Stati Uniti e puntare maggiormente su altri Paesi Sviluppati (ed eventualmente sugli Emergenti)?
Vediamo quali sono i potenziali rischi dei due approcci, così come mi vengono in mente poi magari ce ne sono pure altri che sto ignoando,.
I rischi di investire Market Cap Weighted sono:
– UNO: le valutazioni delle società americane sono altissime. Mentre le società europee hanno un rapporto tra prezzo delle azioni e utili di circa 15, negli Stati Uniti siamo oltre 25.
Se prendiamo il Cyclically Adjusted Price Earning Ratio, noto anche come Shiller CAPE ratio, le valutazioni attuali si trovano oggi nel 97° percentile rispetto ai dati del passato, il che significa oltre 2 deviazioni standard verso destra rispetto alla media.
Da un punto di vista squisitamente statistico, ciò fa pensare che valutazioni così alte non possano che preludere a rendimenti nettamente inferiori in futuro.
Le grandi società di asset management come Vanguard, Blackrock, Schwab, JP Morgan e compagnia bella, stimano un ritorno a 10 anni dell’S&P 500 intorno al 5-6%, contro l’oltre 10% di media storica.
– DUE: banalmente c’è il principio della regressione verso la media. Più delle variabili fondamentalmente casuali, come i rendimenti di mercato, si discostano dalla loro media, più nel lungo termine tendono a regredire verso di essa.
Come dire: dopo 15 anni che gli Stati Uniti dominano e gli altri muti, prima o poi potrebbe ribaltarsi lo scenario e avere magari gli altri mercati sugli scudi e l’S&P 500 più sommesso.
D’altra parte i rischi di investire con un approccio Equally Weighted sono:
– UNO: non c’è modo di sapere se e quanto questa cosa potrebbe verificarsi. Quindi nel frattempo rischio di perdermi il grosso dei rendimenti del mercato, che oggi sono ancora dovuti all’eccezionale performance di poche mega società americane.
Ricordiamo che le prime 10 società dell’S&P 500 oggi pesano per un terzo di tutto l’indice e per oltre un quinto dell’MSCI World.
Non bisogna infatti sottovalutare l’effetto momentum, ossia il fatto che per un certo periodo di tempo le società più performanti tendono ad essere quelle che continueranno a performare meglio — almeno per un po’.
Trend is your friend, recita un vecchio adagio di Wall Street.
– DUE: come ci ha ricordato Alessandro Saldutti, Country Manager di Scalable, nello scorso episodio, il 75% di tutta la crescita del mercato azionario è dovuta alla performance del 4% delle società più di successo. In pratica la stragrande maggioranza delle azioni non produce in media un rendimento superiore a quello dei titoli di stato a breve termine.
Mancare questo 4% può quindi avere un effetto devastante e irrecuperabile sul rendimento del portafoglio.
Bel problema eh?
Comunque la giri ci sono minacce dappertutto.
In questo episodio però non cercherò neanche lontanamente di suggerire una strada da seguire — anche perché se lo sapessi questo podcast lo farei dalla mia isola alle Fiji, come Tim Robbins che c’ha la sua isola personale.
Oggi partiamo dall’assunto che ciascuno tra voi farà quel che gli pare con il proprio portafoglio a seconda della propria sensibilità e inclinazione e ci concentreremo piuttosto su come fare ad investire in maniera alternativa al classicum classicorum che consiste nel prendere un ETF azionario globale e tanti saluti.
Partiamo dall’Europa intanto, che non ce la caghiamo quasi mai ma zitta zitta, quatta quatta, ultimamente sta dando soddisfazioni come non faceva da un decennio.
Questo perché, al di là dell’andamento non esattamente brillante delle economie del vecchio continente, ci sono tuttavia una serie di società che se la stanno giocando per conquistare la status di Magnifiche Europee, in contrapposizione alle note Magnificient Seven Americane.
(anche su ultimamente si sta parlando più di Fab Four, perché da inizio 2024 3 delle magnifiche 7, Google, Apple e soprattutto Tesla, stanno andando maluccio).
Comunque in tanti, soprattutto in America, consci del fatto che il loro mercato azionario sia diventato più caro delle aragostelle da Peck sotto Natale, si stanno chiedendo quali siano le società su cui puntare in Europa nei prossimi anni.
Perché proprio in Europa?
Il motivo principale sono appunto le valutazioni relativamente basse rispetto agli utili, con un rapporto medio tra prezzi e profitti per azione di circa 15 come dicevamo prima.
L’altro motivo è che alcune realtà stanno effettivamente diventando dei piccoli colossi, cosa che piace molto agli Americani per cui più una cosa è grande più è bella, sapete che là hanno questo gusto per l’esagerazione e devono fare tutto più grande di quel che servirebbe.
Un ultimo fatto non trascurabile è che, diversamente da quanto sempre accaduto nel passato, ultimamente anche le società Europee hanno cominciato a rivedere la loro tradizionale politica di distribuzione dei dividendi optando per un crescente ricorso ai buyback, che è una prassi più tipicamente americana.
Buyback, come sapete, significa che le società si ricomprano le proprie azioni sul mercato riducendone la quantità disponibile e quindi facendone salire il prezzo, che è un modo fiscalmente più efficiente per remunerare gli azionisti invece che staccando dividendi che sono tassati da cima a fondo nel momento stesso in cui vengono elargiti.
Ora, le varie grandi banche di investimento stanno esprimendo ciascuna la propria idea su chi siano le Magnifiche d’Europa su cui puntare e come sempre, giusto per rimarcare il fatto che in Finanza non c’è mai un’evidenza oggettiva su un bel niente, ogni banca ha tirato fuori la propria personale selezione.
Diciamo che almeno su tre società c’è un consenso abbastanza universale, se non fosse che sono le prime tre per capitalizzazione in Europa
(caspita, meno male che questi a Wall Street hanno tutti MBA costati centinaia di migliaia di dollari, altrimenti non ci saremmo mai arrivati che le più grandi d’Europa potessero essere l’alternativa europea alle più grandi d’America! Va che a Wall Street sono sempre due passi avanti…).
Comunque ste tre sono:
– La società farmaceutica danese Novo Nordisk, titolare di celeberrimi farmaci contro l’obesità come Ozempyc;
– La società olandese ASML produttrice di macchinari necessari alla produzione di semiconduttori; e infine
– Il colosso francese del lusso LVMH, titolare di un’infinità di brand tra cui soprattutto Louis Vuitton e Cristian Dior.
Oltre a queste, come sapete Golmand Sachs tempo fa aveva lanciato l’acronimo Granolas, per mettere insieme le 11 società più importanti del vecchio continente. Oltre alle 3 citate abbiamo infatti: GSK, Roche, Novartis, Nestlé, L’Oreal, Astrazeneca, Sanofi e SAP.
UBS invece, al di là delle 3 più grandi, ha messo sul piatto, Richemont, Siemens e Airbus (soprattutto dopo l’annus horribilis della rivale Boing, che a quanto pare mette insieme i pezzi degli aerei con la colla vinilica e non gli riesce più di far atterrare un velivolo senza che questo non abbia perso qualche pezzo lungo la rotta).
Societé Generale invece, da brava francese, raddoppia sul lusso e pesca anche Hermes tra le aziende su cui scommettere.
Interpellata sull’argomento, anche mia moglie condivide pienamente l’opinione su Hermes dell’investment board di Societé Generale anche se ho il sospetto che quando io e lei parliamo di “borse” abbiamo in mente due cose un po’ diverse.
Citigroup invece è l’unica che parla un po’ di Italiano, perché tra i gioielli Europei annovera la nostra Ferrari, che negli ultimi anni è stata sicuramente una delle azioni più performanti del mondo.
Un po’ tutte insomma sono convinte che queste large cap europee siano il meglio del meglio del mercato azionario continentale e che nonostante abbiano dei multipli superiori alla media, siano comunque molto più economiche delle Magnifiche Sette e che quindi avrebbero un profilo di rischio / rendimento più favorevole.
In teoria.
Come sempre.
Ora, se qualcuno sposa l’idea di ridurre in qualche misura l’esposizione verso gli Stati Uniti a favore di altri mercati sviluppati, allora si tratta di capire quali sono le modalità più efficienti per farlo.
Come vi sto raccontando da qualche settimana, Xtrackers ha finalmente lanciato sul mercato europeo il primo ETF globale ex US, che in pratica è un MSCI World, quindi solo paesi sviluppati, senza gli Stati Uniti.
Nel momento in cui stiamo parlando, tuttavia, siamo ad appena 30 milioni di capitalizzazione.
Decisamente piccolino secondo gli standard che comunemente si consigliano, che partono da almeno 500 milioni.
Magari anche a partire da 100-200 milioni comincia a diventare un ETF abbastanza stabile, ma a 30 milioni sinceramente mi sembra un filino azzardato investirci.
Se volessimo però replicare quest’ETF in maniera artigianale, come potremmo fare?
Allora guardiamo intanto la sua composizione:
– 21% Giappone
– 10% Gran Bretagna, Canada e Francia;
– 8% Svizzera e Germania;
– 6% Australia e Olanda
E poi via via tutti gli altri.
Le prime 10 società sono praticamente 8 tra i Granolas, Shell e l’unica extraeuropea è Toyota.
Se vogliamo quindi investire al di fuori degli Stati Uniti senza usare una svagonata di singoli ETF, il numero minimo da utilizzarne è 2 e probabilmente la scelta migliore è 3, come dirò tra poco.
In pratica si tratta di replicare un 65% di Europa e un 35% di APAC, acronimo che sta per Asia Pacific, come chiunque abbia passato una vita a giocare a videogame sul calcio usando le nazionali sa benissimo.
Per l’Europa abbiamo fondamentalmente tre strade e quindi dipende un po’ da ciascuno cosa vuole fare e dalla quantità di volatilità che si vuole portare in casa.
SCELTA UNO: Stoxx 600.
Uno si prende tutta l’Europa continentale, 600 società ben diversificate, tanto Regno Unito, Francia, Germania e Svizzera e via via le altre.
Scelta sicuramente molto solida, purché si tengano in considerazione due aspetti:
– In primis, c’è una forte componente di esposizione valutaria verso Sterlina, Franco Svizzero e Corona Danese;
– In secondo luogo il peso delle Granolas è di circa il 20%, mentre il restante 80% ha dentro un po’ di tutto.
Questi due punti in sé e per sé non sono né negativi né positivi.
Possono portare benefici come anche penalizzare l’investimento a seconda degli sviluppi del mercato.
Dalla sua, puntare sullo Stoxx 600 ha sicuramente il pregio di essere molto diversificato.
SCELTA DUE: MSCI EMU, dove EMU non sta per il simpatico pennuto ma è l’acronimo di European Monetary Union.
In pratica con questo indice abbiamo le 220 e fischia società più grandi dell’area Euro.
Anche qui, un 30% è fatto dalla componente in Euro delle Granolas con l’aggiunta di realtà come Schneider, Allianz e Total.
Per il resto, altre realtà ad alta e media capitalizzazione dei paesi che condividono la nostra valuta.
Rispetto allo Stoxx non abbiamo qua il tema dell’esposizione valutaria.
Dall’altro lato è un indice meno diversificato e ci perdiamo le Large Cap Inglesi, Svizzere, Novo Nordisk e via dicendo.
La SCELTA TRE è invece l’EUROSTOXX 50, l’indice delle 50 società più capitalizzate dell’area Euro.
Qui abbiamo un indice ancora meno diversificato, ma d’altra parte l’investimento sarebbe fortemente concentrato nelle più grandi società dell’area Euro per quasi il 50% dell’intero indice.
Se qualcuno crede che le Granolas in Euro, oltre ad altre Blue Chip Tedesche, Francesi, Italiane e via dicendo siano effettivamente le realtà più promettenti d’Europa, allora l’Eurostoxx 50 è un modo semplice per prendersi un’esposizione importante verso queste Large cap, escludendo quasi del tutto le realtà a media capitalizzazione.
Se invece si vuole fare una cosa simile, ma incorporando tutte le Granolas, quindi anche quelle fuori dall’area Euro, allora l’unica opzione è un ETF di Ishares con ticker EUN, che replica l’indice Stoxx Europe 50, da non confondere con l’Euro Stoxx 50.
Come già detto in un episodio passato, le due cose da tenere in considerazione in un ETF di questo tipo è che esiste solo a distribuzione e che ha un costo non esattamente economicissimo, 0,35%.
Niente di grave eh, però rispetto ai soliti 0,1-0,2%, 0,35% mi fa girare un pochino le palle.
Scelto quello che più vi piace, ora dobbiamo gestire l’APAC.
Anche qui, le strade che si possono seguire non sono infinite, ma in buona sostanza sono due:
La prima consiste nell’utilizzare un unico ETF che replica tutto il mercato azionario dei paesi sviluppati dell’area Asia Pacifico, che sono soprattutto Giappone, Australia, Hong Kong e Singapore. In alcuni casi c’è anche la Corea del Sud, che però si trova più di frequente rappresentata in altri indici, a volte in quelli dei paesi sviluppati (secondo gli indici FTSE), oppure in quelli emergenti (secondo gli indici MSCI).
Che io sappia, l’unico ETF UCTIS che replica tutta la regione APAC incluso il Giappone è il Vanguard Developed Asia Pacific All Cap, che sarebbe un ETF ideale per questo scopo se non fosse che ha una capitalizzazione mignon da 20 milioni di euro.
Per tanto così allora uno si prende l’ETF World di Xtrackers senza gli Stati Uniti.
L’altra strada invece si basa sull’idea di usare due strumenti, che chiaramente saranno:
– Un ETF sul Giappone e
– Un ETF su un indice Asia Pacific ex Japan, come lo sono quasi tutti.
Se uno volesse replicare la stessa composizione che troverebbe nell’ETF globale ex US di Xtrackers, dovrebbe mettere circa un 35% dell’investimento totale suddiviso su questi due e in particolare al Giappone dovrebbe andare circa il 70% e la quota restante sulla parte ex Japan.
Chi resterebbe fuori?
Eh avrete notato che in questo modo ci perdiamo le giubbe rosse, i lodevoli inventori dello sciroppo d’Acero del Canada.
Il Canada non se lo ricorda mai nessuno, ma comunque è un membro del G7 e ha un prodotto interno lordo leggermente superiore al nostro.
Tra l’altro il rendimento del suo mercato azionario è tutt’altro che da buttare, perfettamente in linea con quello dell’MSCI World e nell’ordine dell’8,5% all’anno da 40 anni a questa parte.
Dato che però ha una correlazione totale con l’MSCI World e il suo rendimento degli ultimissimi anni è stato praticamente identico a quello dell’Europa, non sono certo che porti grande valore aggiunto al portafoglio.
Se proprio ci tenete perché una volta siete stati alle cascate del Niagara e vi ci siete affezionati, avete a disposizione 9 comodi ETF che replicano quel mercato, tra cui peraltro uno bello grosso di Ishares da quasi un miliardo.
Bene.
Ora gli strumenti per fare questa cosa li abbiamo visti e abbiamo fatto qualche ragionamento che dovrebbe supportare le nostre decisioni in tal senso.
La cosa da capire ora, al di là della geografia, è cosa comporta investire in questo modo rispetto a seguire il puro e semplice approccio Market Cap Weighted a prova di scemo.
Se io mi reputo un investitore passivo, cioè se parto presupposto che “non ci capisco niente, non posso prevedere il futuro, non ho informazioni che mi possano dare alcun vantaggio competitivo bla bla bla” e così via, allora l’idea di stare nel mercato e replicarlo così com’è non può che basarsi sulla logica della capitalizzazione.
In tal caso prenderò, per la parte azionaria, un ETF globale oppure singoli ETF regionali ma comunque con una proporzione in linea con quella globale, quindi circa 60% Stati Uniti, 30% Paesi Sviluppati di cui almeno un 20% Europa e il resto Paesi Emergenti.
Qualunque altra decisione diversa da questa si traduce in un approccio attivo all’investimento.
Cioè, scegliere di sottopesare gli Stati Uniti significa prendere una certa decisione che ritengo debba portarmi ad un rendimento migliore (o perlomeno allo stesso rendimento ma con una volatilità inferiore, come si dice un miglior “risk-adjusted return”).
Vediamo quindi cosa comporterebbe questa decisione attiva, nelle sue implicazioni pratiche.
Per prima cosa, abbiamo un tema di esposizione geografica verso i mercati emergenti.
Cazzo c’entrano i mercati emergenti direte voi?
Eh c’entrano eccome!
Ricordiamoci che quando investiamo in una società è certamente importante dove questa si trova la sua sede legale, ma allo stesso tempo è anche importante capire dove fa business.
Le aziende americane hanno ovviamente business globali, perché esportano i propri prodotti in tutto il mondo.
Come facile immaginare, gli iPhone sono venduti in Cina, in India, in Africa, in Arabia e così via. E lo stesso vale per i BigMac, la Coca Cola, le scarpe della Nike, eccetera.
Ma il più grande mercato per gli Stati Uniti … sono gli Stati Uniti.
Più del 50% del PIL americano è dovuto al consumo interno dei suoi benestanti 300 milioni di abitanti.
Quindi investire tanto sulle società americane vuol dire esporsi tanto anche all’economia interna americana (e questo può essere sia un bene che un male).
Se invece investo in società Europee, queste sono più esposte ai paesi emergenti, perché molte di essere hanno degli importanti mercati di sbocco per i propri prodotti soprattutto in Cina e poi via via da quelle parti là lontane dal mondo occidentale.
Prendiamo l’esempio per eccellenza: LVMH.
La holding proprietaria di Louis Vuitton è la seconda società più grande d’Europa.
Ma le sue costosissime borse sono particolarmente amate in Cina, quindi per quanto strano possa sembrare il destino di questa società basata a Parigi è fortemente legata al buono stato di saluto dell’economia a Pechino.
Ora, non è che stiamo parlando di un’esposizione enorme dell’Europa nei confronti dei paesi emergenti, però diciamo che rispetto al classico MSCI World, l’MSCI ex US ha un 3-4% di esposizione in più verso quest’angolo del mondo e in generale un 20% di esposizione in più sull’Europa e i paesi sviluppati dell’APAC.
L’altra cosa da considerare, invece, riguarda l’esposizione settoriale.
Anche mia figlia di 7 mesi sa che investire nell’MSCI World comporta attribuire un peso predominante al settore informatico, oltre un quarto del totale.
Se però togliamo gli Stati Uniti, il primato passa al settore finanziario (quindi in particolare Banche e Assicurazioni) con oltre il 20% e poi abbiamo Prodotti Industriali, Beni Discrezionali e solo al quarto posto l’Informatica con il 9%.
Ovviamente è impossibile dire a priori se questa cosa sia un bene o un male.
Lascio alla sensibilità di ciascuno di voi decidere cosa sia meglio per il proprio portafoglio, tenuto presente che sottopesare gli Stati Uniti non significa solo prendere una decisione “geografica”, ma una vera e propria decisione strategica basata sull’aspettativa che settori più tradizionali, come Banche, Manifattura e Largo Consumo, avranno un futuro più roseo che il settore informatico.
On top a tutto questo discorso, naturalmente, c’è il discorso più generale sulle valutazioni delle società nei diversi mercati di cui parlavamo all’inizio.
Quindi al di là dei singoli settori, si tratta di decidere fino a che punto pensiamo che valutazioni molto alte negli Stati Uniti avranno ripercussioni sui rendimenti nel medio termine e agire di conseguenza scegliendo se privilegiare il momentum attuale, la tendenza che hanno le società più performanti a continuare a crescere ancora, o l’aspetto “value”, cioè l’idea di investire in società con multipli bassi ma con un alto valore intrinseco.
Vedete un po’ voi.
Comunque assumiamo che ci prendiamo quest’idea di ridurre l’esposizione americana e che magari, mercati emergenti esclusi, sulla parte azionaria facciamo un Salomonico 50% Stati Uniti e 50% suddiviso tra Europa e APAC.
Quali sono PRO e CONTRO che ci posso vedere in un approccio di questo tipo?
Molte grazie per la puntualissima domanda.
Partiamo dai possibili PRO:
– UNO: sicuramente ci portiamo a casa una maggiore diversificazione. A parità di rendimento (ammesso e non concesso che il rendimento sia lo stesso naturalmente) avremo probabilmente un miglior “risk-adjusted return”.
L’obiezione tipica a questa cosa è che tutti i mercati sviluppati sono molto correlati a quello Americano.
Verissimo.
Ma il fatto che siano correlati non significa, soprattutto nel medio lungo termine, che riporteranno le stesse performance.
– DUE: abbassiamo senza dubbio il price/earning ratio medio del nostro portafoglio, ossia ci mettiamo in pancia società con valutazioni un po’ più economiche di quelle esorbitanti al di là dell’Atlantico, che in qualche modo è un approccio più da value investing.
– TRE — e questo non è un dettaglio da poco — se scegliamo di sovrappesare l’area Euro, magari privilegiando indici come l’MSCI EMU o l’Euro Stoxx 50, riduciamo il rischio valutario.
Come sapete il rischio è sempre bidirezionale.
Ossia rischio significa che dall’esposizione valutaria possiamo tanto guadagnarci quanto perderci, in maniera fondamentalmente casuale.
Aumentando però la quota di investimenti in Euro, a parità di altre condizioni, dovremmo abbassare la volatilità generale del portafoglio.
Veniamo ora ai CONTRO:
– CONTRO NUMERO UNO: ci perdiamo il momentum.
Come abbiamo detto all’inizio “trend is your friend”.
Decidere di andare contro il trend significa perdersi, nel breve, i rendimenti maggiori delle società che stanno correndo di più facendo la scommessa che i rendimenti a lungo termine saranno invece più favorevoli puntando sulle società oggi più sottovalutate.
Potrebbe essere verissimo, ma resta pur sempre una scommessa.
Dal punto di vista dell’analisi fondamentale non farebbe una piega.
Però sappiamo anche che il mercato non è perfettamente razionale e che il solo fatto che l’opinione generale creda che l’S&P 500 sia il place to be almeno per un po’ crea una profezia che si autoavvera che fa confluire più capitali di quanto i valori fondamentali delle sue società giustificherebbero.
Come dire: “sì le valutazioni sono alte. Però l’America è l’America e la sua economia continua a macinare numeri record. Nel dubbio continuo ad investire lì” beh questo volente o nolente continua a spingere il mercato verso l’alto.
– Il CONTRO NUMERO DUE ne è la diretta conseguenza, ossia che ci possiamo perdere i rendimenti. La statistica basata sui dati storici di oltre 100 anni ci dice che l’S&P 500, tra i grandi mercati, non ha eguali in termini di rendimento.
E’ vero che, come abbiamo detto un paio di episodi fa, quel 10% di media è un pezzo sopra al 7-8% che più ragionevolmente dovrebbe produrre l’azionario globale e che questo premio non può durare per sempre.
Come avevamo visto, dagli anni 70 ad oggi questo 2% di sovraperformance in più va ricondotto quasi tutto nella crescita delle VALUTAZIONI delle società americane, che oggi appunto hanno dei multipli molto elevati rispetto alle controparti Europee o Giapponesi.
In effetti non so se sia legittimo aspettarci che un domani le azioni saranno quotate 35, 40, 50 volte i loro utili. Le valutazioni in fondo on possono crescere all’infinito rispetto alla capacità di queste società di generare profitti.
D’altra parte non sappiamo quando ci sarà un’inversione della tendenza.
A partire da domani il mercato americano potrebbe cominciare ad andare in picchiata e riassestarsi sulmultipli più bassi, o magari per i prossimi 10 anni continuerà a crescere fino a raggiungere valutazioni che ad oggi ci sembrano folli.
Folli o non folli, perdere quei rendimenti potrebbe essere una mannaia sulla performance generale a lungo termine del nostro portafoglio.
Quindi alla fine, come era facile prevedere, una risposta soddisfacente non la può dare nessuno.
Il consiglio NON FINANZIARIO che mi sento di dare è: fate ciò che rispecchio al meglio la vostra predisposizione psicologica.
Volete avere un approccio completamente passivo e dire: “copio il mercato esattamente per quello che è”? Allora Market Cap Weighted è la scelta giusta.
Volete invece avere un approccio maggiormente diversificato e vi sentite meglio senza avere singoli mercati che dominano quasi tre quarti della vostra componente azionaria e magari preferite avere più investimenti denominati in Euro? Allora abbiamo visto che, in attesa che l’ETF di Xtrackers cresca di volume, abbiamo una serie di opzioni piuttosto comodo per bilanciare diversamente la nostra esposizione globale.
Qualunque previsione sul futuro, di solito, non gode di lunga vita a Wall Street.
Le proiezioni delle banche d’investimento e lo Shiller CAPE ratio dicono chiaramente che in futuro l’America farà peggio che in passato.
Ma il mercato non sembra comunque troppo d’accordo su questa cosa.
Se queste stime fossero al di là di ogni ragionevole dubbio, il mercato le avrebbe già prezzate e oggi saremmo su valori ben più bassi.
Il punto vero, tanto per cambiare, è che noi siamo affetti da tanti bias cognitivi che condizionano anche il modo in cui andiamo a prendere i numeri e li interpretiamo per trovare appigli per le nostre decisioni future.
Noi per esempio sappiamo che mediamente in passato le valutazioni delle società americane non sono mai state così alte. E questo ci porta naturalmente a pensare che se in passato non sono mai state così, allora oggi ci troviamo in un’anomalia.
Ma in realtà questa cosa può essere sia vera che falsa.
O può essere vera in teoria ma non abbiamo idea di quando in pratica potrebbe verificarsi un’inversione di tendenza.
In fondo il mondo cambia e non è detto che i parametri che erano validi in passato restino validi anche nel presente e soprattutto nel futuro.
Ho letto paper in cui per supportare certe tesi si prendevano dati relativi alla performance delle azioni nel diciannovesimo secolo.
Ragazzi ma di cosa stiamo parlando?
Mica stiamo studiando il cambiamento climatico.
Come si possono confrontare dati finanziari di un’epoca in cui nemmeno esisteva il telefono, con quelli di un’epoca in cui l’informazione si propaga nel mondo ad una velocità prossima a quella della luce.
Ma anche solo il mondo degli anni 90 della mia adolescenza è radicalmente diverso da quello odierno.
Questo non significa che quello attuale sia un mondo migliore o più propizio per i mercati azionari.
Non abbiamo proprio idea di come la futura configurazione del mondo inciderà sull’andamento dei mercati.
Non sappiamo se gli Stati Uniti continueranno a vincere, né se al contrario come fu nell’anno 476 dopo Cristo per l’Impero Romano d’Occidente, anche il suo erede moderno a stelle e strisce cederà la sua apparentemente intoccabile supremazia globale.
Quindi boh.
Dubitate di tutto.
Dubitate perché finché dubitate il vostro cervello mantiene il suo spirito critico e non dà niente per scontato.
Dubitate perché così le vostre decisioni saranno sempre consapevoli.
Ma dopo aver dubitato per bene, fate un bel respiro, accettate l’incertezza assoluta sul futuro e prendete la decisione che meglio vi farà dormire la notte.
Per quel che ne sapete, il vostro stomaco e il vostro cuore hanno le stesse probabilità di battere il mercato dei più brillanti analisti di Wall Street.
Solo il tempo svelerà pian piano la verità, che per noi limitati e minuscoli esseri umani resterà sempre fondamentalmente inaccessibile in anticipo.
Bene, care amiche e cari amici di The Bull, spero che abbiate trovato utile anche questo 97esimo episodio e vi ringrazio come sempre per aver scelto questo podcast come compagno nel vostro viaggio nel mondo della finanza.
Prima di lasciarci vi ricordo che questo episodio è stato sponsorizzato da 4Books e che se volete avere accesso a migliaia di audioriassunti dei saggi più rappresentativi mai scritti in qualunque ambito dello scibile umano, l’abbonamento annuale è scontato per voi, e per voi soltanto, a 69,99 € anziché 99,99.
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Detto questo, prima di partire per le Fiji è con grande onore ed emozione che condivido qui con voi che abbiamo raggiunto insieme l’incredibile traguardo di un milione di download!
Un milione di Grazie, grazie e sempre e soltanto grazie per questa cosa letteralmente al di là della più rosea allucinazione che avrei mai potuto avere quando per la prima volta vi ho dato il Benvenuto a The Bull ormai 10 mesi fa.
Sometimes our dreams come true e di questo sogno siete indubbiamente la parte migliore.
Finite invece le smancerie che mi sta già salendo il diabete, vi invito come sempre a mettere segui e attivare le notifiche su Spotify, Apple Podcast o dove ci ascoltate e a lasciare una recensione a 5 stelle per supportarci e permetterci di continuare a produrre contenuti che mentre vi fanno sorgere mille dubbi ovunque pensavate di aver consolidato delle certezze se non altro vi danno la conferma che continuate ad essere vivi per davvero sempre nuovi.
Per questo episodio invece è davvero tutto e noi ci diamo quindi appuntamento mercoledì prossimo quando tornerà a trovarci sua Sapienza e Saggezza Nicola Protasoni che avrà l’arduo compito di spiegarci in una mezzoretta tutto l’affascinante mondo dei Futures e delle Opzioni, quindi non mancate perché sarà una puntata imperdibile, sempre qui, naturalmente, con The Bull Il tuo podcast di finanza personale.
Recensioni
Quando capisci come funziona la finanza… ti viene voglia di raccontarla!
Da quando l'ho scoperto in 15 gg mi sono ascoltato 150 puntate senza fermarmi, ho annullato gli altri podcast per portarmi alla pari ed ascoltare tutte le precedenti puntate, ben fatto, esattamente il livello di informazione che mi serviva
Gianluca G., 11 Set 2025Dovrebbero ascoltarlo buona parte degli italiani e io avrei dovuto scoprirlo con qualche anno in anticipo ma meglio tardi che mai
Matteo C., 3 Set 2025Veramente veramente raccomandato! la finanza personale riassunta alla perfezione! e spiegata partendo dall'ABC! Ottimo anche da ascoltare a velocita 1,5x!
Giorgia R., 23 Gen 2025Podcast piacevole, scorre veloce ma in modo estremamente chiaro, spiega i concetti chiave per gestire le proprie finanze, fornendo la classica cassetta degli attrezzi. Complimenti, davvero ben fatto!
Massimiliano, 29 Mag 2024Riccardo mi ha letteralmente cambiato la vita e fatto scoprire che amo la finanza, ho ascoltato il podcast già due volte e non mi stufo mai di ascoltarlo, parla in modo semplice e chiaro
Massimo D., 23 Set 2025Podcast che dà sempre spunti interessanti che personalmente mi ha fatto appassionare alla finanza personale spingendomi ad approfondire in prima persona.
Lorenzo, 13 Mar 2025Ho acquistato e letto il suo libro e l' ho trovato. Esprime i concetti economici in modo semplice e chiaro. Sentirlo parlare conferma che è un professionista del settore.
Giulia N., 11 Ago 2025Veramente interessante, chiaro e conciso. Cambia la vita finanziaria di chiunque.. da ascoltare assolutamente anche per chi di finanza non vuole occuparsi mai
Francesca B., 6 Apr 2024Non sono solito a mettere recensioni e specialmente non ascolto podcast, ma da quando ho iniziato questo, faccio fatica a staccarmi, e quasi non posso più fare a meno di ascoltare e arricchirmi culturalmente.
Andrea V., 22 Set 2025