Come valutare una Società. 5 Indicatori per capire il Valore di un’Azione

Come si valuta una società? Quali informazioni si trovano nei Financial Statements? Cosa sono il P/E Ratio e il Free Cash Flow?Oggi facciamo un viaggio nei bilanci delle società per capire cosa analizzano i value investor quando cercano di scovare azioni sottovalutate di potenziale.

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105. Come valutare una Società. 5 Indicatori per capire il Valore di un’Azione

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Punti Chiave

Vengono spiegati i 3 documenti finanziari base di una società: Income Statement, Balance Sheet e Cash Flow Statement.

Si analizzano 5 metriche fondamentali per valutare la salute di un'azienda: P/E Ratio, Price to Book, Debt-to-Equity, Free Cash Flow e Payout Ratio.

Trascrizione Episodio

Bentornati a The Bull — Il tuo podcast di finanza personale.

Sabato 4 maggio 2024 si è svolta ad Omaha, Nebraska la tradizionale convention annuale di Berkshire Hathaway, la nona società più capitalizzata del mondo e guidata dal più grande investitore di tutti i tempi, l’eroe onnipresente di questo podcast Warren Buffett.

Lo “Shareholders’ meeting” di Berkshire è l’equivalente finanziario del Coachella, un evento a cui accorrono decina di migliaia di persone da tutto il mondo per poter fare domande al 94enne multimiliardario e cogliere ogni spunto possibile dalla sua infinita saggezza.

E ovviamente non c’è stato un solo media che non abbia dedicato a quest’evento articoli, episodi di podcast, video su Youtube, editoriali e via dicendo.

Un po’ perché “When Warren Buffett speaks, people listen”, ossia quando l’oracolo di Omaha apre la bocca, tutti stanno ad ascoltare; quindi, ogni minima parola pronunciata durante la tradizionale conferenza è oggetto di grande attenzione perché potrebbe avere impatti massivi per miliardi di dollari sui mercati.

Ma soprattutto perché questo era il primo Shareholders’ meeting senza il suo partner di una vita Charlie Munger, che si è spento qualche mese fa alla tenera età di 99 anni.

E il timore che sia sempre più vicina anche l’ora di Buffett ha aleggiato neanche troppo velatamente su tutta la conferenza, tanto che il grande uomo non si è sottratto, con la sua consueta brillantezza, a ironizzare sul fatto che spera di essere presente al meeting del 2025.

Da esperto di assicurazioni qual è, ha spiegato che due o tre cose sulle tavole attuariali le conosce e quindi sa bene che i suoi 94 anni sono già un traguardo oltre la media.

Tutti si stanno interrogando su cosa farà Berkshire senza di lui, quanto pesi il Buffett’s premium, ossia il valore differenziale che il mercato attribuisce alla sua società per il solo fatto che ci sia lui a guidarla, se il suo successore designato Greg Abel sarà in grado di prendersi sulle spalle la monumentale eredità del più grande investitore di sempre e così via.

Si potrebbero dire tante cose su Warren Buffett e Berkshire e farci addirittura un intero podcast ma oggi siamo qui per un altro motivo.

Le decine di articoli che ho letto in questi giorni sull’argomento mi hanno fatto venire in mente un libro che lessi tempo fa dal titolo “Warren Buffett and the Interpretation of the Financial Statements”, scritto tra gli altri da una ex nuora di Buffett, che provò a spiegare come parte rilevante del suo eccezionale successo derivasse, oltre che dal suo intuito sovraumano, dalla sua straordinaria capacità di analisi dei Financial Statements delle società in cui intendeva di volta in volta investire, quello che impropriamente chiameremmo “i Bilanci” delle società.

Ora, patti chiari e amicizia lunga.

Non ho nessuna intenzione di spiegarvi in questo episodio come funziona il value investing e come fare ad investire come fa lui perché … beh perché semplicemente non ho la benché minima competenza per farlo (ammesso che questa competenza in generale esista, dato che se esistesse davvero e bastasse studiare per apprenderla chiunque potrebbe diventare multimiliardario, ma evidentemente non è così).

Comunque se volete leggetevi il libro, ve lo linko negli shownote e poi fate le vostre valutazioni.

Purtroppo è solo in Inglese.

L’obiettivo dell’episodio di oggi è invece vedere insieme quali sono i valori fondamentali, le metriche che aiutano a comprendere lo stato di salute di una società e poi se qualcuno tra voi vuole cimentarsi in esperimenti di Value Investing convinto di poter essere la prematura reincarnazione di Buffett, faccia pure.

In generale, in questo podcast in cui cerchiamo di capire la finanza da diverse angolature, dopo 104 episodi mi sembra sia giunto il momento che vi sorbiate ciò che io, nel lontano ottobre del 2016, dovetti spararmi durante il corso di Financial Accounting al primo anno di MBA.

Allora pensai “che palle!” ma chissene frega di imparare a leggere i bilanci!

Oggi penso invece che quello sia stato uno dei corsi più importanti di tutta la mia vita e che ora capirei la metà di tutte le cose di cui parlo qui se non avessi appreso allora cosa bisogna guardare nei documenti finanziari di una società per capire come sta messa.

Poi, da lì a capire se sia un buon investimento oppure no, è tutta un’altra questione.

Ma intanto essere in grado di capire da dove derivino cose di cui parliamo sempre come il price/earning rato, il book value, il free cash flow e altre cose del genere credo sia importante per chi come voi, pazzi da legare che vi siete ascoltati 104 episodi di questo squinternato podcast delirante, ha sviluppato una certa passione per la finanza.

Quello di cui parleremo oggi vi aiuterà a costruire portafogli migliori?

Probabilmente no.

Però sono convinto che, almeno indirettamente, più consapevolezza si abbia, migliori decisioni alla fine si prendano.

E magari chissà, oggi uno di voi ascolta sta cosa, si intrippa, inizia a studiarsi 4 ore al giorno i bilanci come fa Buffett e domani diventa il prossimo più grande investitore di tutti i tempi.

Tra l’altro, due giorni prima dell’uscita di quest’episodio si è liberato un posto come leggenda vivente dell’investimento con la dipartita di Jim Simons, il genialo matematico fondatore di Renaissance, l’hedge fund più di successo di tutti i tempi.

Ma di Simons, di Renaissance e del mitologico fondo Medallion, parleremo un’altra volta.

La grande sfida dell’episodio di oggi, in generale, sarà parlarvi di questa roba, trasmettere i concetti fondamentali e soprattutto non far addormentare nessuno.

Dai mi raccomando seguitemi che sta cosa sembra una palla ma in realtà è figa, così finalmente smettete di brancolare nel buio ogni volta che sentite dire che il mercato è sopravvalutato e imparate a capire ste cose da soli.

Allora, andiamo con ordine.

Per chiunque non avesse studiato economia e anche per chi l’avesse studiata ma si è dimenticato tutto un secondo dopo aver dato l’esame di Accounting, cosa sono i Financial Statement?

Ah una cosa, la maggior parte delle cose di cui parlerò hanno nomi in Inglese non perché voglio menarmela ma perché le ho studiate a suo tempo in Inglese e non mi sono mai preso la briga di andare a guardare i termini equivalente in Italiano, quindi li traduciamo nel caso un po’ alla buona via via.

Colgo l’occasione per salutare Dimitrii, Ben, Virginia e tutti gli altri sciagurati compagni del lavoro di gruppo che facemmo al tempo su questa materia, ricordando con affetto il casino che era venuto fuori tentando di analizzare i bilanci delle 4 più importanti società produttrici di birra al mondo.

Che poi a me manco mi piace la birra e a malapena conoscevo i nomi di quelle società, ma va beh…

Alla fine un misero 24, mentre me la cavai decisamente meglio nell’esame individuale, senza birre in mezzo alle palle, con un dignitoso 28.

Dicevamo: Financial Statements.

Ogni anno tutte le società pubblicano i risultati dell’anno appena chiuso e fondamentalmente ci sono tre documenti che per legge devono scribacchiare e poi far validare da una società di revisione (per le grandi società quotate, quasi sempre le revisioni vengono fatte da una tra Deloitte, EY, KPMG e PwC, le cosiddette Big 4).

Questi documenti sono:

– L’INCOME STATEMENT, che credo si chiami conto economico in Italiano, che è il documento che in pratica racconta come è andato l’anno dal punto di vista delle vendite, dei costi e del profitto; poi abbiamo

– Il BALANCE SHEET, che dovrebbe essere lo stato patrimoniale, e che è il vero e proprio bilancio, ossia il documento che fa la fotografia della società e dice quanti beni possiede, quanti debiti e quindi in generale il suo valore; infine abbiamo il cosiddetto

– CASH FLOW STATEMENT, che in Italiano non so come si chiami e che alle 5:43 del mattino non ho voglia di andare a cercarlo, che è il documento che racconta i flussi di denaro in ingresso e in uscita che ci sono stati nel corso dei 12 mesi precedenti.

Perché servono addirittura tre documenti?

Non ne basta uno?

E no che non ne basta uno, perché anche nel nostro piccolo un conto è quello che nel corso di un anno abbiamo guadagnato e speso, un conto è a quanto ammonta il nostro patrimonio complessivo.

L’INCOME STATEMENT fa il riepilogo di come è andato l’anno dal punto di vista del business, delle operations come si dice; il BALANCE SHEET invece è la fotografia al 31 dicembre (o cmq il giorno in cui la società chiude il bilancio) di tutti i possedimenti e tutti i debiti della società accumulati nel corso della sua vita fino a quel momento.

E perché serve anche il terzo, il Cash Flow Statement?

Eh perché c’è un famoso detto che recita: “Revenue is vanity, Profit is sanity but only Cash is reality”, ossia il fatturato è vanità, il profitto è salute, ma solo il cash è realtà.

Se alla fine dell’anno le società fatturano, fanno profitti — o almeno così sembra anche grazie ad alcuni accrocchi contabili che vedremo più avanti — ma non c’è sta cash sul conto corrente, beh, game over baby.

Vedremo che la quantità di “cassa” che una società è in grado di produrre ogni anno ha il suo bel peso nella valutazione azionaria.

Ora, vediamoli velocemente e capiamo quali sono le informazioni più interessanti che si trovano in ciascuno di essi.

Per rendere la cosa un po’ meno noiosa prendo l’annual report del 2023 di Apple, così facciamo un esempio concreto usando la più spettacolare società mai creata e giusto per il gusto di sparare numeri così alti da mandarci fuori di testa.

Partiamo dal Conto Economico, l’Income Statement.

In pratica questo documento è una lunga serie di sottrazioni dall’alto verso il basso, in cui si parte dal fatturato, ossia le vendite totali di iPhone, iPad, MacBook e via dicendo, si tolgono tutti i vari costi e le tasse e si arriva al profitto.

Apple ha un anno fiscale che si chiude il 30 settembre, quindi i dati che prendo vanno dal 1 ottobre 2022 al 30 settembre 2023.

Dunque:

Fatturato: 383 miliardi di dollari (sì miliardi, avete capito bene). Praticamente il doppio del PIL della Grecia.

Che costi deve sostenere Apple per fatturare questa montagna di soldi?

I costi si dividono tipicamente in due. Ci sono:

– I costi diretti, cioè quelli strettamente legati alla produzione dei beni e servizi di Apple e che in qualche modo sono direttamente proporzionali alle vendite, che nel 2023 sono stati di 169 miliardi;

– E poi ci sono le spese operative chiamate SGA, che sta per Selling, general and administrative, che consistono nei costi necessari per la vendita (come la pubblicità, gli Apple Store, gli E-commerce, ecc.), i servizi generali e tutte le attività amministrative necessarie per fare andare avanti la gigantesca baracca di Apple. E qui siamo a 25 miliardi di dollari.

– Infine Apple è chiaramente una società che investe tanto anche in ricerca e sviluppo, voce che rientra sempre nella categoria di spese operative, altri 30 miliardi di dollari (di cui circa 10 se non ricordo male sbattuti letteralmente nel cesso nel tentativo di creare un’improbabile auto elettrica con la mela sopra).

A questo punto fatturato meno costi totali e ottieni il cosiddetto EBIT, ossia Earnings before interests and taxes, che sarebbe il profitto della società prima di pagere le tasse, in questo caso 114 miliardi di dollari.

Da notare un piccolo dettaglio: Apple fa un profitto gargantuesco di 114 miliardi su un fatturato di 383 miliardi, praticamente il 30%.

Avere un margine di profitto del 30% su questi volumi è ovviamente qualcosa di eccezionale sotto ogni standard.

Una volta che Apple ha pagato al governo federale americano quasi 17 miliardi di tasse, arriviamo al profitto netto di 97 miliardi di dollari, che teoricamente è quanto è finito sul gigantesco conto in banca della società di Cupertino nel 2023.

Siccome Apple ha sul mercato 15.744.231.000 azioni, se dividiamo il profitto netto per il numero di azioni otteniamo l’Earnings per Share, ossia l’utile per azione, 6,16 dollari.

Facile no.

L’Income Statement però dice come sono andate vendite, costi e profitti (o perdite) ogni anno, non dice niente sul valore patrimoniale dell’azienda, su cosa possiede, su quanti debiti ha e di che tipo e tutto il resto.

Per questo si usa il Balance Sheet, che è ciò che noi abbiamo in mente quando pensiamo al bilancio.

Nel primo minuto del primo corso di contabilità di solito viene spiegato che il principio fondamentale del bilancio è che la somma di tutte le attività di una società, ossia di tutti gli asset che possiede, deve essere uguale alla somma di tutti i debiti verso soggetti esterni alla società PIU’ il debito — tra virgolette — verso gli azionisti, ciò che comunemente si chiama Equity.

Detta in maniera più chiara:

Asset (ossia tutte le cose dotate di valore della società) MENO Debiti UGUALE Equity.

In pratica l’idea è che se la società chiude baracca e burattini e vende tutti i suoi asset e paga tutti i debiti, i soldi che restano sono ciò che rimane in mano agli azionisti, ossia ai veri proprietari della società.

L’Equity è quindi il valore netto della società.

Adesso non voglio entrare troppo nel dettaglio, comunque per farla breve nella colonna degli asset si trovano i Current Asset, ossia tutte quelle cose che, diciamo così, hanno un orizzonte temporale per essere trasformati in denaro liquido entro i prossimi 12 mesi, e i non current asset, che sono quelli più a lungo termine.

Tornando ad Apple tra i current asset abbiamo, in ordine grossomodo dal più liquido al meno liquido:

– Cash e prodotti monetari (come Treasury a breve scadenza)

– Altri asset finanziari obbligazionari a breve termine;

– Fatture non ancora saldate

– Giacenze in magazzino più altra roba non meglio specificata

Per un totale di 143 miliardi di dollari

Se prendiamo solo le prime due, ossia roba che il CFO di Apple, che peraltro è italiano, può trasformare in tempo zero in soldi sul conto corrente parliamo di oltre 60 miliardi di dollari.

Una società come Stellantis oggi ha un market cap intorno ai 64 miliardi.

In pratica Apple se volesse se la potrebbe comprare in contanti.

Tra gli asset non ricorrenti, invece, abbiamo:

– Altri investimenti finanziari a medio e lungo termine;

– PPE, che sta per property, plant and equipment, ossia proprietà fisiche, stabilimenti, strumentazione e così via;

– E altri asset non meglio precisati, come il suo brand, licenze, brevetti eccetera

Per un totale di oltre 200 miliardi di dollari.

Fatta la somma, il totale dei beni di Apple ammonta a 352 miliardi di dollari.

Dall’altro lato del bilancio troviamo tutti i suoi debiti e anche qui ci sono quelli ricorrenti, da saldare nei prossimi 12 mesi, e quelli non ricorrenti più a lungo termine.

Anche qui abbiamo:

– Fatture da pagare

– Accantonamenti vari

– Debito finanziario e via dicendo

Per un totale di 290 miliardi di dollari.

Facciamo la sottrazione, 352 miliardi di asset MENO 290 miliardi di debiti fa 62 miliardi di Shareholders’ Equity, che è il valore residuo in mano agli azionisti se oggi Apple dismettesse tutto.

Il terzo documento è il CASH FLOW STATEMENT che in pratica spiega come Apple è arrivata a chiudere il bilancio con circa 30 miliardi di dollari sul conto in banca o investiti in Treasury bills, che è la prima voce del bilancio nella parte asset a breve.

Ok scusate il pippone un po’ noioso ma se Warren Buffett è diventato quell’inarrivabile leggenda che tutti conosciamo e ammiriamo è proprio perché dalla mattina alla sera da 60 anni si legge nel microdettaglio ogni singolo report finanziario che gli passa sotto le mani di qualunque società americana (e qualche società estera, anche se Buffett non ama molto uscire dagli Stati Uniti).

Quindi, noioso o no, se uno vuole capire i valori fondamentali di una società per poi prendere una determinata decisione di investimento, eh, è qui che deve andare a cercarli.

Ora però il punto non è tanto prendere i singoli valori.

Cioè ogni singolo dato che, per fare l’esempio di Apple, abbiamo raccontato, in sé e per sé non vuol dire assolutamente nulla.

Quello che voi potreste aver capito è che Apple fattura una montagna inimmaginabile di soldi, con un margine imbarazzante e con una situazione patrimoniale invidiabile, seduti come sono sulla bellezza di oltre 60 miliardi di cash o quasi cash.

Tra l’altro, nota di colore.

In questi ultimi 2 anni in cui praticamente i titoli di stato americani a breve termine, chiamati T-Bills, hanno raggiunto rendimenti del 5% all’anno, facendo un po’ i conti della serva Apple in un anno ha guadagnato 3 miliardi di dollari solo tenendo questi soldi fermi in obbligazioni governative a breve.

Come dire, senza fare un cazzo, Apple ha fatto semplicemente tenendo fermi i propri soldi più profitto di quanto non ne abbia fatto qualunque banca italiana dalle proprie attività tranne Unicredit e Intesa.

Però insomma al di là di questi esempi del menga che sto facendo, prendere i singoli dati dai bilanci di una società non ci dà alcuna informazione interessante rispetto al suo generale stato di salute e rispetto alla fondatezza di un investimento o meno in questa società.

Oh, chiariamoci un attimo.

Non è che ci sia un modo giusto per leggere i dati e poi investire sicuri di far soldi.

Fosse così, sarebbero capaci tutti.

Il fatto di investire in una società con un bilancio clamoroso non dà alcuna garanzia di ottenere un certo rendimento nel tempo, anche perché in qualche modo questa cosa è già incorporata nei prezzi della sua azione.

Ciò che fanno i Value Investor alla Warren Buffett è cercare di scovare, nelle pieghe dei bilanci, degli indizi che facciano pensare che la società sia sottovalutata e che quindi possa produrre dei rendimenti tendenzialmente superiori a quelli del mercato negli anni a venire.

Dico superiori perché altrimenti tanto vale comprarsi un ETF su quel mercato e buona notte, non c’è bisogno di diventar matti a scovare le aziende migliori.

Però è una cosa difficilissima al cubo.

Solo pochissimi eletti nella storia della finanza sono stati in grado di fare questa cosa e avere successo in maniera sistematica.

Poi anche qui, c’è sempre il solito survivorship bias, il bias del sopravvisuto.

Ci saranno stati migliaia di investitori geniali, ma ci ricordiamo solo dei Warren Buffet, Peter Lynch, George Soros e via dicendo perché tutti quelli che invece, pur facendo tutto giusto, hanno preso una cantonata sono stati cancellati dalla storia.

Comunque sia, dicevamo che guardare solo i dati non serve a una beata mazza, mentre invece per trarre qualche informazione più interessante bisogna fare la cosiddetta RATIO ANALYSIS, ossia l’analisi dei rapporti.

Che vuol dire sta cosa mi chiederete?

Ed è la stessa domanda che feci al mio compagno di banco Peter sempre quel primo giorno di MBA alla prima lezione di Financial Accounting.

Peter bravissimo ragazzo, intelligentissimo, molto pacato e di una gentilezza estrema, aveva studiato economia in Polonia e faceva il Finance Manager in qualche azienda che non ricordo ed era super preparato, ma non era esattamente di molte parole e soprattutto parlava con una voce così bassa che io essendo praticamente mezzo sordo non capii quasi mai cosa mi diceva.

Ciao Peter, ti stimo.

Comunque, la RATIO ANALYSIS significa prendere due dati dai report finanziari di un’azione, fare uno diviso l’altro (o qualche operazione solo leggermente più elaborata) e tipicamente i valori che vengono fuori sono più interessanti dei dati singoli, anche perché permettono di confrontare società diverse tra di loro.

Tutto qua direte?

Eh sì, alla fine questo è The Bull — Il tuo podcast di finanza personale, non The Bull — Il tuo podcast di fisica quantistica avanzata.

Per quanto complesso e gigantesco possa essere il modello di business di un colosso globale, alla fine si tratta di fare più vendite che costi e di avere più asset che debiti, non è che si tratta di catturare il bosone di Higgs.

Detto questo e prima di fare ulteriori valutazioni sull’utilità di sta roba quando si tratta di investire in azioni, vediamo quali sono le 5 metriche più usate quando si tratta di valutare i fondamentali di una società.

NUMERO UNO: il nostro amico e compagno di tante puntate di The Bull, il Price/Earning Ratio.

Il Price/Earning Ratio, chiamato per brevità P/E ratio, è semplicemente il rapporto tra il prezzo di un’azione e l’utile per azione degli ultimi 12 mesi della società.

Sempre usando Apple come esempio, oggi la sua azione è quotata a circa 180 dollari, mentre come abbiamo visto prima il suo utile per azione alla chiusura del bilancio del 2023 era di 6,16 dollari.

180 diviso 6,16 fa circa 29, quindi l’Azione di Apple è scambiata sul mercato ad un prezzo che è 29 volte i suoi utili.

Sotto qualunque punto di vista, storico, statistico e tecnico, un P/E ratio di 29 è considerato altissimo, cosa che fa di Apple un’azione estremamente costosa e che, teoricamente, dovrebbe far pensare che i rendimenti futuri non saranno particolarmente generosi dato che il prezzo di acquisto è piuttosto elevato.

In realtà sappiamo che il mercato se ne sbatte dei ragionamenti razionali che possiamo fare e quindi un’azione quotata 29 volte il suo utile può benissimo continuare a crescere di valore.

Però statisticamente più un’azione è costosa rispetto ai suoi utili — e in particolare se parliamo di realtà consolidate, non realtà superinnovative che devono ancora esplodere — minore sarà il rendimento atteso.

A dire il vero quando si parla di PE ratio, il più delle volte ci si riferisce al forward PE ratio, ossia al rapporto tra il prezzo attuale e gli utili attesi nei prossimi 12 mesi, che spesso è più basso nella misura in cui si presuppone un aumento dei profitti nel corso dell’anno.

Nel momento in cui stiamo parlando il trailing PE ratio, ossia rapporto tra prezzo e utili dell’anno passato, dell’S&P 500 è intorno a 25-26, a seconda di dove prendete i dati e dal giorno in cui li prendete.

Il forward PE ratio, invece, si attesta intorno a 20-21, quindi l’idea è che gli utili delle società americane possano crescere ad un ritmo più sostenuto delle valutazioni azionarie.

20 è comunque un valore molto alto, rispetto ad una media storica più nell’ordine di 15-17 e in effetti abbiamo parlato molto spesso della convinzione generale sul fatto che l’azionario americano sia sopravvalutato.

Per fare un paragone, il forward PE ratio dello Stoxx 600, l’indice delle 600 società più capitalizzate d’Europa, è intorno a 14-15.

Molto spesso ci è capitato di parlare dello Shiller CAPE ratio, che è uno degli indicatori più usati per stimare la valutazione dell’S&P 500 e quindi i rendimenti attesi a 10 anni.

CAPE sta per Cyclically Adjusted Price Earning, il che significa che il rapporto Prezzo e utili tiene conto della media degli ultimi 10 anni ed è aggiustato per l’inflazione.

Oggi l’S&P ha un CAPE ratio intorno a 33, decisamente molto alto rispetto a qualunque media storica, anche se non siamo a livelli record, come quando nel 2000, all’alba dello scoppio della bolla delle dot.com, il valore era arrivato a oltre 40.

Come noto se prendiamo l’inverso del PE ratio, ossia il rapporto tra utili e prezzi, otteniamo l’Earning Yield, che spesso viene usato come metrica per stimare il rendimento atteso di un’azione o di un indice.

Se il forward PE ratio è circa 20,4 il suo inverso, ossia 1/20,4, fa circa 4,8%.

Usando invece il trailing PE ratio, a circa 26, l’earning yield è inferiore a 4%.

Quando i treasury a 10 anni hanno rendimenti superiori all’earning yield, teoricamente questo significa che il premio al rischio per il fatto di detenere azioni invece che supersicuri titoli di stato diventa negativo, cosa che in effetti non va benissimo per le azioni.

In teoria questa cosa ha perfettamente senso.

Come molti di voi ricorderanno, nello scorso episodio Costantino Forgione aveva espresso il suo punto di vista molto scettico sul mondo azionario, spiegando come per i suoi portafogli stesse prediligendo obbligazioni subordinate alle azioni per via delle valutazioni azionarie troppo alte.

Può essere benissimo che abbia ragione lui, e non sarebbe la prima volta.

D’altra parte è difficile dire QUANDO sia il momento di mollare le azioni e di investire in alto.

C’è un famoso detto che recita “the market can stay irrational longer than you stay solvent”, ossia il mercato può rimanere irrazionale più a lungo di quanto tu non te lo possa permettere.

Il fatto di dire che il mercato sia sopravvalutato e che quindi i rendimenti attesi saranno mediocri non ci dice QUANDO questa sopravvalutazione comincerà a far sentire i suoi effetti.

Il mercato potrebbe crollare domani, così come andare avanti a crescere ancora per anni, magari sospinto dall’enorme liquidità in circolazione dopo oltre un decennio di stimoli monetari e fiscali che hanno inondato il mercato di soldi che gli investitori non sanno dove mettere.

Come avevamo calcolato in passato, l’S&P 500 dovrebbe fare quasi il 12% di media all’anno fino al 2029 compreso solo per pareggiare il peggior trentennio della sua gloriosa storia.

Trentennio peraltro che racchiudeva la crisi del 29, la grande depressione, la seconda guerra mondiale e via dicendo.

Questo non vuole dire che i prossimi anni saranno necessariamente positivi, ma neanche che valutazioni del mercato molto alte debbano necessariamente causare un crollo dei rendimenti nell’immediato e neanche nel medio termine.

Staremo a vedere.

Comunque sul PE ratio siamo andati un po’ più lunghi perché è davvero l’indicatore per eccellenza per capire quanto un’azione sia costosa o a buon mercato.

Sui prossimi, invece, cerchiamo di andare un po’ più snelli.

Veniamo al NUMERO DUE.

Il cugino un po’ più sfigato del PE Ratio, ma in realtà sempre molto importante, è il Price To Book ratio, ossia il rapporto tra il prezzo dell’azione e il book value per azione, dove il book value è la differenza tra gli asset (con esclusione di quelli intangibili, come licenze, brand, una roba che si chiama goodwill che però è troppo noiosa da spiegare e non così tanto interessante e via dicendo) e i debiti.

Quindi prezzo diviso valore contabile netto della società per azione dà il Price to Book ratio.

Perché viene monitorato questo valore?

Perché mentre il PE ratio si base sulle performance annuali di una società — e quindi in qualche modo è legato ad un indicatore di breve termine come il profitto derivante dalle vendite dei propri prodotti e servizi — il Price to Book ratio si basa sul valore patrimoniale della società.

E’ quindi, come dire, una metrica più conservativa che tiene in considerazione l’intera struttura patrimoniale di una certa società o di un indice.

Un Price to book ratio uguale a 1 significa che l’azione della società è scambiata sul mercato ad un valore identico al suo book value.

Tanto più è Maggiore di 1, quanto più sopravvalutata può essere considerata quell’azione.

Viceversa l’azione di una società con Price to Book ratio significativamente inferiore a 1 viene tipicamente considerata undervalued, ossia una società sottovalutata che in teoria non ha ancora espresso nel suo prezzo il suo vero valore.

Naturalmente bastasse comprare società sottovalutate per essere sicuri di far soldi nel mercato sarebbero capaci tutti.

A volte certe azioni sono particolarmente economiche perché il mercato non le reputa più dei buoni investimenti a lungo termine. E quindi sempre a buon mercato potrebbero rimanere.

In questo caso non prendiamo Apple come esempio perché ha un Price to Book ratio altissimo, intorno a 38, dovuto al fatto che tipicamente nel book value non vengono considerati gli asset intangibili come il suo brand e il suo sistema operativo iOS.

Il brand “Apple” è quello con il più alto valore al mondo.

Qualunque sia l’importo che contabilmente viene imputato al brand tra gli asset di Apple, ovviamente una volta che viene tolto il book value si abbassa e quindi si alza il price to book ratio.

Le altre Magnificent seven invece, a parte Nvidia, hanno dei valori tra 7 e 12.

In questo momento il price to book ratio dell’S&P 500 è intorno a 4,5, più del doppio di quello dello Stoxx 600, intorno a 2.

Questo 4,5 però è una media tra valori molto diversi tra loro.

Andiamo dall’oltre 50 di Nvidia all’1,5 di Berkshire Hathaway, mentre solo 11 semisconosciute società sono scambiate sul mercato ad un prezzo inferiore al book value.

Non c’è bisogno di precisare che l’investitore alla ricerca di aziende sottovalutate cercherà dei price to book ratio più bassi.

Bene.

E fin qua abbiamo visto due metriche che mettono in rapporto il prezzo di un’azione con i profitti e con il valore netto degli asset di una società.

Ma una società non ha solo asset.

Ha anche debiti.

E non potrebbe essere altrimenti, poiché viceversa non sarebbe in grado di finanziare sistematicamente le proprie attività e la propria crescita.

Quindi oltre a guardare quanto profitto una società produce e quanto vale il suo book, è molto importante guardare anche il livello di indebitamento complessivo.

La metrica NUMERO TRE fondamentale da guardare si chiama Debt-to-Equity Ratio, che in pratica è il rapporto tra tutti i debiti della società e ciò che viene chiamato Shareholders’ Equity, che come abbiamo detto prima è la differenza tra Asset e Debiti, ossia il valore residuo che resterebbe in mano agli azionisti il giorno che la società liquidasse tutto.

Più tipicamente però si utilizza non il debito totale, quanto piuttosto il debito a lungo termine.

Cioè si tende a non includere nel valore del debito le fatture da pagare nei prossimi mesi, gli accantonamenti fiscali o retributivi e comunque in generale debiti che saranno saldati da qui alla chiusura del prossimo bilancio.

Torniamo a Apple.

Dicevamo che nel 2023 ha chiuso il bilancio con 290 miliardi di debiti, di cui circa 95 di debito a lungo termine, e con 62 miliardi di Equity.

95 diviso 62 fa circa 1,5.

Che comunque è un livello di indebitamento piuttosto elevato.

Una società come Microsoft, per intenderci, ha un debt to equity di 0,3, leggermente sotto la media dell’S&P 500.

Diciamo che, in generale, un rapporto inferiore a 2 è considerato accettabile, mentre oltre 2 la posizione finanziaria della società comincia a diventare squilibrata perché significa che per ogni dollaro di valore netto, ci sono 2 dollari di debito a lungo termine in bilancio.

Chiaramente le società growth tendono ad avere un maggior rapporto di indebitamento perché solitamente hanno bisogno di ricorrere a maggiori finanziamenti per supportare la propria crescita, mentre le società value hanno un basso rapporto di indebitamento.

Giusto per dirne una, il debt to equity di Berkshire è 0,2.

Benissimo, andiamo alle ultime due che sono particolarmente interessanti.

La metrica NUMERO QUATTRO è il Free Cash Flow.

Questa è straordinariamente importante, anche se spesso sottovalutata, perché come dicevamo prima Profit is sanity but only cash is reality.

E voi direte: “eh, ma cosa cambia? Una volta che ho venduto i prodotti, vendite MENO costi uguali profitto e profitto uguale soldi che mi entrano in tasca”.

Questa cosa è parzialmente vera.

Seguitemi un attimo perché il FCF è una metrica un filo più complicata da capire.

Diciamo intanto che, dal punto di vista dell’investitore, il free cash flow è importante perché rappresenta il valore della liquidità “libera”, ossia ciò che la società teoricamente può usare per distribuire dividendi o per ricomprarsi le proprie azioni tramite buyback, che sono i due modi tramite cui una società remunera i propri azionisti.

Perché però il profitto e il free cash flow non coincidono?

La risposta lunga è tecnica e noiosa.

Quella breve, invece, ha a che fare con il fatto che nel conto economico di una società, spesso ci sono delle regole contabili che possono distorcere il significato di un certo valore.

Un esempio classico è il concetto di Ammortamento, che in inglese si chiama depreciation.
(altro termine che la prima volta che l’ho sentito mi sono girato verso il mio compagno di banco polacco Peter che sempre a voce bassissima gentilmente me lo spiegò — credo — ma io non sentii niente quindi ci misi un po’ a capirlo.

Ammettiamo che voi avete una società che produce bevande gassate, colorate e dolcificate con fenil alanina e che quest’anno avete deciso di comprare un nuovo macchinario che vi permetterà di produrre più bottiglie al giorno e a costi inferiori.

Avete dunque fatto un investimento no?

Diciamo che questa macchina vi costa un milione di euro.

Voi chiaramente questo milione di euro lo dovete cacciare fuori seduta stante, altrimenti il fornitore col cavolo che vi manda la macchina e ve la monta nello stabilimento.

Quindi un milione esce dal conto della vostra società e il vostro CFO dovrà togliere un milione alla voce cash del bilancio e segnare nel cashflow statement che è uscito un milione per, come si dice, capital expenditures.

Contemporaneamente dovrà segnare alla voce non current asset il milione di euro di valore della macchina.

Però quando quest’anno chiuderete il bilancio, nel conto economico non dovrete mettere un milione all’interno della voce costi.

Perché mi chiederete?

Eh perché le regole internazionali di contabilità dicono che è sbagliato.

E qui che subentra il concetto di ammortamento (anche se secondo me depreciation è più chiaro).

Diciamo che questo macchinario avrà 10 anni di vita, dopodiché il suo valore sarà zero e dovrete portarlo in discarica, allora i principi contabili dicono che quel milione di euro pagato subito lo dovrai spalmare nel tuo conto economico per i prossimi 10 anni.

Cioè quando farai il conto di quanto profitto hai fatto alla fine di ogni anno, il tuo CFO dovrà ricordarsi di considerare 100.000 € all’anno di costo di ammortamento del macchinario e contemporaneamente ridurre di 100.000 € all’anno il valore del macchinario tra i non current asset sul bilancio.

Quindi, per effetto di cose come gli ammortamenti e di altre su cui non vi annoio, il profitto e il cash sono due cose ben diverse.

In questo caso, ad esempio, alla fine dell’anno avrò fatto un certo profitto, ma il mio free cash flow, la mia liquidità disponibile sarà diversa perché intanto ho già dovuto pagare il milione per intero al mio fornitore.

Senza complicarci troppo la vita, il Free Cash Flow si calcola prendendo la liquidità netta che deriva dalle cosiddette operation activities, cioè tutte le attività legate alle vendite dei propri prodotti e servizi, che è un valore che si trova nel cash flow statement, e si sottraggono i cosiddetti CapEx, ossia capital expenditures, le spese tipo quella che abbiamo visto nell’esempio per l’acquisto di un macchinario.

Questa metrica è molto importante perché intanto ci dice qual è la reale capacità della società di generare soldi, per dirla male.

Un conto infatti è vedere che una società ha un certo profitto e di conseguenza un certo PE ratio, ma poi magari vai a scoprire che il profitto è viziato da ammortamenti e altre cose simili e quindi la vera capacità della società di produrre cash è limitata.

Inoltre spesso la crescita del FCF può essere un indicatore della crescita futura dei guadagni.

Se vi ricordate quando abbiamo avuto da noi Nick Protasoni la seconda volta ci aveva parlato di David Einhorn, il tizio che da Barry Ritholz aveva detto che per colpa degli ETF la struttura del mercato si è rotta.

Einhorn, una leggenda di Wall Street, ultimamente non ne imbroccava più una perché il suo approccio da value investor aveva smesso di funzionare e lui aveva dato la colpa agli ETF che creano bolle, non prezzano correttamente le azioni e bla bla bla.

Quindi lui cosa ha fatto? Ha cambiato strategia e invece che concentrarsi su aziende value che comprava a poco e poi non salivano mai perché nessun altro le comprava, ha iniziato a focalizzarsi su aziende con un free cash flow elevato, sapendo che in questo modo aveva maggiori probabilità che i suoi investimenti venissero ripagati da dividendi e buybacks grazie alle ampie disponibilità di cassa delle società in cui investiva.

Ora che abbiamo capito cos’è il free cash flow forse è più chiaro perché si è messo a fare sta cosa.

Anche qui, naturalmente, investire in società con un Free Cash Flow alto non dà in sé e per sé alcuna garanzia di successo dal punto di vista del rendimento azionario. Però sotto certi punti di vista e valutato assieme ad altre metriche, il Free Cash Flow può essere un indicatore molto significativo sullo stato di salute di un business.

Visto che stiamo usando Apple come esempio, il suo Free Cash Flow nel 2023 è stato di quasi 100 miliardi di dollari.

Che io sappia, nessuna società al mondo genera più free cash flow di Apple.

Microsoft ne ha prodotto nel 2023 circa 60, così come anche Google più o meno, mentre poi tutte le altre sono nettamente dietro.

Per confrontare poi le diverse società tra loro, anche qui ci sono diversi ratio che si possono usare, il più banale dei quali è il price to fcf ratio, ossia il rapporto tra il prezzo dell’azione e il fcf.

In linea di principio, più basso è questo rapporto, meglio è dal punto di vista delle aspettative di rendimento dell’investitore.

Veniamo infine alla METRICA NUMERO CINQUE e poi chiudiamo che inizia a seccarmisi la gola, il PAYOUT RATIO.

Molto semplicemente, questo è il rapporto tra il valore dei dividendi pagati dalla società e l’utile per azione.

Se non sbaglio Apple nel 2023 ha pagato circa 1 dollaro di dividendi su 6 dollari di utile per azione, quindi il payout ratio è poco meno del 17%.

Come rule of thumb, come regola a spanne, più il dividendo si avvicina al valore dell’utile per azione, più ballerina sta diventando la struttura finanziaria della società, perché significa che questa è costretta a metter le mani a fondo nei profitti per pagare gli azionisti, che se non ricevono il dividendo si incazzano e vendono, limitando le capacità della società di fare investimenti per la crescita futura.

Il payout ratio è una metrica importante da abbinare al più noto dividend yield, che è il rendimento da dividendo, ossia importo del dividendo diviso prezzo dell’azione.

Qui bisognerebbe aprire un gigantesco capitolo per trattare il tema dei dividendi, riprendendo quello che avevamo detto nell’episodio 71.

Giusto come accenno.

Molto spesso ci si fa abbagliare da corposi rendimenti da dividendo ma ci si dimentica altrettanto spesso che “yield” è una cosa diversa da “return”.

Una società che paga ad esempio l’8% di dividendi non significa che io ho guadagnato l’8% dall’investimento da quell’azione.

Non significa un bel niente.

Al netto di tutti gli altri movimenti del prezzo dell’azione sul mercato, il fatto che stacchi un dividendo significa solo che una parte del valore dell’azione mi viene restituita, tassata, in cash.

Se quell’azione ha un prezzo di 100 dollari e paga un dividendo dell’8%, ossia 8 dollari, non è che magicamente mi trovo 108 dollari di valore.

Questo si chiamerebbe creare denaro “out of thin air”.

Io avrò sempre 100 dollari, solo che invece che essere tutti in azioni saranno 92 dollari in azioni e 8 in cash, che subito dopo diventeranno 6 perché devo pagarci il 26% di tasse e se sono aziende americane pago pure doppia tassazione.

Comunque sia il dividendo è una cosa importante perché è un componente dell’apprezzamento del valore dell’azione, che viene restituito all’azionista nel corso della sua vita senza che questo debba vendere l’azione per monetizzare il rendimento.

Ma attenzione a non farsi rincoglionire dall’importo di un dividendo, soprattutto perché se il payout ratio è molto vicino a 1, allora significa che la società sta raschiando il fondo del barile per pagare dividendi e non far scappare gli azionisti ma non ha una struttura finanziaria solidissima e un modello di business efficacie.

Bene mazza che puntatona secchiona che è venuta fuori e quanti ricordi di quegli anni al Politecnico di Milano, in cui spesi metà dei soldi per la cospicua retta dell’MBA e metà per saccheggiare le macchinette che distribuivano merendine nei lunghissimi venerdì e sabato che per oltre 10 ore al giorno ci vedevano chiusi là dentro a leggere tonnellate di business case e produrre … cose … a volte intelligenti … a volte facevamo delle cagate senza senso.

Con quest’inutile amarcord dei miei anni da studente lavoratore ci avviamo alla fine di quest’episodio con l’auspicio che abbiate trovato le informazioni che ho condiviso utili e interessanti.

I vostri portafogli non cambieranno di una virgola, ma almeno non brancolate più nel buio quando sentirete parlare di PE ratio e altra robaccia simile.

Come sempre vi invito a mettere segui e attivare le notifiche su Spotify, Apple Podcast o dove vi pare e a lasciare una recensione a 5 stelle per supportarci e permetterci di continuare a produrre contenuti che vi spiegano come si fa la ratio analysis di una società perché se come me aspettate che ve lo spieghi il buon Peter con una voce così bassa che neanche un pipistrello la sentirebbe state freschi sempre nuovi.

Per questo episodio invece è davvero tutto e noi ci rivediamo mercoledì prossimo con un episodio dedicato ai principi senza tempo dell’investimento, ma forse poi cambio idea e vi parlo di nuove cose che ho letto sulla correlazioni tra azioni e obbligazioni o chissà di cos’altro in base a come mi sveglio ma in ogni caso, sempre qui, naturalmente, con The Bull Il tuo podcast di finanza personale.

Recensioni

Quando capisci come funziona la finanza… ti viene voglia di raccontarla!

Podcast che dà sempre spunti interessanti che personalmente mi ha fatto appassionare alla finanza personale spingendomi ad approfondire in prima persona.

Lorenzo, 13 Mar 2025

Veramente interessante, chiaro e conciso. Cambia la vita finanziaria di chiunque.. da ascoltare assolutamente anche per chi di finanza non vuole occuparsi mai

Francesca B., 6 Apr 2024

Veramente veramente raccomandato! la finanza personale riassunta alla perfezione! e spiegata partendo dall'ABC! Ottimo anche da ascoltare a velocita 1,5x!

Giorgia R., 23 Gen 2025

Ho seguito tutte le puntate! Grazie veramente

Amalia A., 17 Set 2025

Riccardo mi ha letteralmente cambiato la vita e fatto scoprire che amo la finanza, ho ascoltato il podcast già due volte e non mi stufo mai di ascoltarlo, parla in modo semplice e chiaro

Massimo D., 23 Set 2025

La mia ignoranza in materia mi ha sempre creato dei dubbi, ma grazie a un amico ho iniziato ad ascoltare il podcast. Per fortuna che ho 24 anni e un po' di tempo e soldi da dedicarmi a imparare le varie nozioni per me stesso. Grazie mille!

Luca G. 10 Ott 2025

Non sono solito a mettere recensioni e specialmente non ascolto podcast, ma da quando ho iniziato questo, faccio fatica a staccarmi, e quasi non posso più fare a meno di ascoltare e arricchirmi culturalmente.

Andrea V., 22 Set 2025

Ho acquistato e letto il suo libro e l' ho trovato. Esprime i concetti economici in modo semplice e chiaro. Sentirlo parlare conferma che è un professionista del settore.

Giulia N., 11 Ago 2025

Da quando l'ho scoperto in 15 gg mi sono ascoltato 150 puntate senza fermarmi, ho annullato gli altri podcast per portarmi alla pari ed ascoltare tutte le precedenti puntate, ben fatto, esattamente il livello di informazione che mi serviva

Gianluca G., 11 Set 2025
Facile.it
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