Come l’Inflazione cambia le Regole della Diversificazione
Stocks and Bonds! 60/40! Portafogli bilanciati di azioni e obbligazioni per non soffrire mai i tumultuosi saliscendi dei mercati. E poi? E poi l'inflazione cambia tutte le carte in tavola e la nostra convinzione che le obbligazioni parassero i colpi quando le azioni vanno già crolla, così come è successo nel 2022. Oggi cerchiamo di capire come l'Inflazione cambia le regole della correlazione tra azioni e obbligazioni.

106. Come l’Inflazione cambia le Regole della Diversificazione
Risorse
Punti Chiave
La correlazione azioni-obbligazioni varia con inflazione e tassi.
Alta inflazione può causare alta correlazione, riducendo la diversificazione.
Un portafoglio bilanciato a lungo termine resta valido, con attenzione ai contesti di tassi.
Trascrizione Episodio
Bentornati a The Bull — Il tuo podcast di finanza personale.
Oggi colpo di scena qui a The Bull!
Parleremo di una cosa nuova assolutamente originale.
Parleremo di … Azioni e Obbligazioni!
Sapete che ho bisogno di essere originale e di trovare sempre spunti creativi out of the box altrimenti mi annoio e quindi per la prima volta dopo 105 episodi eccoci qua: Azioni e Obbligazioni.
Dunque le obbligazioni sono titoli di debito emessi da Stati o società….
Sto scherzando!
Lo so che ormai sapete cos’è un’obbligazione meglio del teorema di Pitagora.
O meglio
Non sto scherzano.
Parleremo davvero di azioni e obbligazioni, però, ora che ne sapete quasi come Jerome Powell di tassi di interesse e roba simile, ci occuperemo di una cosa un po’ più sottile ossia di come cambia la loro correlazione in base a una delle più importanti variabili macroeconomiche che esistano: quella simpatica spina nel culo chiamata inflazione.
Scopo dell’episodio di oggi, quindi, sarà parlare di queste cose:
– UNO: qual è la teoria alla base della costruzione di un portafoglio efficiente che ottimizzi il profilo di rischio rendimento;
– DUE: cosa succede nei contesti ad alta inflazione e in che modo la tradizionale collaborazione di successo tra azioni e obbligazioni si inceppa;
– TRE: cercheremo di capire se e quando continui ad aver senso ancora oggi impostare il cuore del nostro portafoglio con azioni e obbligazioni e quali potrebbero essere gli adattamenti del portafoglio da prendere in considerazione in presenza di circostanze macroeconomiche mutate.
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Oh era da un po’ che non dicevo qualche cagata di questo genere.
Torniamo a noi.
Perché dobbiamo fare questo episodio?
In primo luogo, perché questa settimana ho letto almeno 4 articoli e paper sull’argomento, di cui uno super di Nick Protasoni sul suo blog the Italian Leather sofa, che vi linko negli shownote, che ho già ringraziato anticipandogli che avrei scopiazzato a man bassa parti del suo post.
Il secondo motivo è perché effettivamente è giunto il momento di iniziare a ragionare in maniera un po’ più dinamica sui portafogli.
Adesso, non è che ho fatto 105 episodi a dirvi, praticamente, set it and forget it, fai il portafoglio che più ti piace e fallo andare fino alla fine dei tempi, e mo’ cambio tutto e vi dico “bisogna avere un approccio attivo all’investimento”.
No!
Sennò tanto vale andare da un gestore che sicuramente queste cose le sa fare meglio di voi.
Forse…
Oddio…
Ripensandoci questa frase forse la taglio…
Dicevo qui più che altro si tratta di capire come non avere un approccio ingenuo, perché il portafoglio si comporta in un certo modo e che decisioni prendere ogni volta che si tratta di investire i nostri risparmi nel modo teoricamente più coerente con la situazione in cui ci troviamo.
Dunque,
CAPITOLO UNO: la teoria alla base della costruzione di un portafoglio diversificato.
Niente di troppo tecnico eh, tranquilli, solo due richiami a cose che abbiamo già detto più volte.
1952 o giù di lì il futuro premio Nobel Harry Markowitz scrive il paper sulla Modern Portfolio Theory e spiega tutte le cose che noi oggi diamo più o meno per scontato quando investiamo.
In particolare, spiega che esiste una cosa chiamata Frontiera Efficiente, una linea teorica a forma di C sbilenca che collega tutti i portafogli che ottimizzano il rapporto tra rischio e rendimento rappresentati dentro un bel grafico con il rendimento atteso sull’asse verticale e il rischio, inteso come deviazione standard, su quello orizzontale.
Quindi, grafico cartesiano.
Rendimento atteso sulle ascisse.
Deviazione standard sulle ordinate.
Mettete dentro tutti i portafoglietti che vi vengono in mente e quelli che avranno il miglior rapporto tra rischio e rendimento li vedrete tutti belli allineati su questa curva a C.
Se non è ancora chiaro scrivete frontiera efficiente su google e vi usciranno tipo 100 milioni di immagini tutte uguali.
Comunque Markowitz dice: sulla frontiera efficiente si collocano tutti i portafogli che hanno un asset allocation tale da massimizzare il rendimento per un dato livello di rischio o di minimizzare il rischio per un certo rendimento atteso.
Il principio teorico alla base di questa cosa è la diversificazione tra asset NON CORRELATI tra loro.
Come abbiamo detto tante volte se investo 100% nell’S&P 500 avrò un certo rendimento atteso ma anche un’alta volatilità (oltre ad una certa dose di rischio specifico), mentre se investo in un portafoglio azionario diversificato a livello globale e poi ci aggiungo anche altre asset class ottengo un maggior livello di diversificazione.
Sappiamo anche che la diversificazione non te la regala nessuno.
Il trade-off, di solito, è ottenere un portafoglio con un minor rendimento atteso in cambio di una maggiore stabilità.
In termini di rendimento, inserire ad esempio bond in portafoglio abbassa il mio expected return ma, sempre in teoria, riduce anche la volatilità del mio portafoglio.
Nei primi decenni della mia fase di accumulo del patrimonio può anche fregarmene il giusto della volatilità, mentre in una fase più avanzata della mia vita mi interesserà eccome che il mio portafoglio non perda in un anno il 40% del suo valore.
Inoltre, c’è sempre il rischio di sequenza.
Se periodicamente metto soldi nel portafoglio o prelevo soldi dal portafoglio la sequenza dei rendimenti anno dopo anno conta eccome.
A parità di rendimento complessivo se mi becco anni negativi all’inizio del mio percorso di accumulo i è un conto, se invece mi succede quando nel mio portafoglio ci ho messo 20 anni di risparmi è tutta un’altra storia decisamente più brutta.
Purtroppo, il rendimento dei backtest è quello che non ha realizzato quasi nessuno, perché ciascuna storia di investimento è molto soggettiva e molte variabili del tutto casuali incidono anche in maniera importante sul risultato finale.
Bene, come si esprime in maniera sintetica tutta sta pappardella del rapporto tra rischio e rendimento di un portafoglio?
Dopo Markowitz sono arrivati William Sharpe e altri e hanno inventato il CAPM, il Capital Asset Pricing Model, che dice che il rendimento di un certo asset equivale al rendimento in eccesso del mercato di cui quell’asset fa parte MENO il rendimento risk-free dei titoli di stato il tutto moltiplicato per Beta, che è un coefficiente che esprime la volatilità relativa di quell’asset rispetto al mercato.
Che poi è quel beta a cui fanno riferimento gli ETF “smart beta” che utilizzano strategie fattoriali per provare a ottimizzare le performance, cosa di cui parleremo in uno dei prossimi episodi.
Sharpe è poi quotidianamente citato nel mondo della finanza perché ha inventato il rapporto di Sharpe, noto come Sharpe Ratio, che esprime esattamente il rapporto tra rischio e rendimento di un asset o di un portafoglio.
Lo Sharpe Ratio si calcola come rendimento aggiuntivo di quell’asset o di quel portafoglio, cioè il risk premium rispetto al rendimento risk-free, diviso la sua deviazione standard.
Maggiore è il valore dell’indice di Sharpe, migliore è il profilo di rischio-rendimento dell’investimento.
Sempre in teoria.
Ok?
Quindi sulla frontiera efficiente ci finiscono tutti i portafoglio con il miglior Sharpe Ratio.
Finito il pippone teorico.
Ora, come si fa a provare a massimizzare lo Sharpe Ratio e quindi a fare un portafoglio che ottiene il massimo rendimento con la minima volatilità?
Eh-eh, qui viene il difficile.
Nessuno lo sa.
Quello che più che più o meno si sa è che asset tra loro non correlati dovrebbero rispondere alle diverse fasi dei mercati e quindi ottimizzare il risk adjusted return del portafoglio riducendo il più possibile la volatilità generale.
Noi sappiamo che grossomodo il ciclo economico è composto di 4 fasi, che sono:
– Crescita;
– Inflazione;
– Recessione e infine
– Deflazione.
Come abbiamo detto tre o quattro episodi fa, le azioni di solito performano molto bene a deflazione inoltrata, durante la crescita e all’inizio della fase di inflazione, mentre tendono a crollare quando l’inflazione inizia a galoppare e quando l’aumento dei tassi di interessi provoca una recessione.
Sapendo appunto che le azioni sono l’asset class con il maggior rendimento atteso ma che di frequente i bull run sono inframezzati da crolli più o gravi, con un ritmo di circa un anno negativo su quattro, una correzione ogni circa 18 mesi e un bear market ogni 4-5 anni, tradizionalmente si è sempre cercato di costruire il core del portafoglio mescolando insieme un tot di azioni e un tot di obbligazioni.
L’idea di base è che le azioni in media producono il grosso del rendimento del portafoglio ma quando queste vanno giù le obbligazioni fanno da cuscinetto grazie ai loro rendimenti prevedibili e in risposta a quella pratica nota come Fed Put che più volte abbiamo citato, ossia il fatto che durante una crisi economico-finanziaria, la Fed e le altre banche centrali possono tagliare i tassi di interesse per rianimare così l’economia e così facendo i prezzi dei bond salgono.
Vi ricordate no?
Tassi giù, prezzi su.
Tassi su, prezzi giù.
Sappiamo tutti molto bene che questa cosa succede perché per ogni punto percentuale di taglio dei tassi, grossomodo il prezzo delle obbligazioni aumenta di tanti punti percentuali quant’è la duration residua.
Diciamo che dagli anni ’80 al 2021 questa cosa ha funzionato benissimo, tanto che il portafoglio per eccellenza, 60% azioni e 40% obbligazioni, è diventato il portafoglio di default per milioni di investitori nel mondo.
Azioni e obbligazioni nel portafoglio hanno sempre funzionato piuttosto bene nella loro partnership grazie alla loro de-correlazione, ossia molto spesso queste due asset class hanno avuto comportamenti indipendenti l’una dall’altra.
Poi però è arrivata la sequenza micidiale: covid, invasione russa dell’Ucraina ed esplosione dell’inflazione.
Quello che tutti abbiamo scoperto nel 2022 è che quando c’è un picco di inflazione e una conseguente reazione sotto steroidi delle banche centrali sui tassi di interesse per arginarla drasticamente, improvvisamente azioni e obbligazioni cominciano ad avere un comportamento estremamente correlato e ad andare giù entrambi.
Il 2022 è stato, per un investitore americano almeno, il peggior anno di sempre per il portafoglio 60/40.
Perché la funzione di protezione delle obbligazioni non ha funzionato nel 2022?
Banalmente perché si partiva da tassi a zero all’indomani dei lockdown imposti dalla pandemia e non appena i tassi sono stati alzati — e sono stati alzati nella maniera più violenta dagli anni ’70 — le obbligazioni che già non rendevano quasi niente prima sono crollate a picco.
I Treasury a lunga scadenza, quelli che per intenderci hanno scadenza da 20 anni in su, dal 2021 ad oggi hanno perso oltre il 40% del loro valore.
Quelli intermedi, tra 7 e 10 anni, sono ancora sotto del 20%.
Un’ecatombe visto che parleremmo dell’asset class per antonomasia più tranquilla, roba da pensionati per chi non si vuole prendere troppi rischi.
Ecco, invece è qui che bisogna usare il cervello e ragionare sulle cose prima di prendere per oro colato convinzioni che avevamo nel passato o che qualcuno altro ci ha ficcato in testa.
Come tutti voi sapete molto bene, la formula di asset allocation di cui parliamo sempre qui a The Bull risponde a questa logica ossia: adattare l’esposizione ad azioni e obbligazioni IN BASE AL contesto dei tassi di interesse.
Se qualcuno se lo fosse dimenticato, la regoletta dice: investi in azioni una percentuale del portafoglio uguale a 125 — i tuoi anni — i tassi della banca centrale che più impatta sul tuo portafoglio per 5.
Chi avesse iniziato ad investire nel 2021, per esempio, secondo questa regola non si sarebbe riempito il portafoglio di obbligazioni e si sarebbe risparmiato il Bondageddon che è iniziato nel 2022.
Ad esempio un 35enne nel 2021 avrebbe fatto un portafoglio probabilmente con il 90% di azioni (e gli sarebbe andata alla grande fino alla fine dell’anno).
Nel 2022 sarebbe andato giù mentre nel 2023 avrebbe nuovamente ricominciato a correre e solo a quel punto sarebbe forse stato opportuno un progressivo ribilanciamento verso l’obbligazionario, che nel frattempo aveva ricominciato ad avere un senso perché i tassi alti sono un problema per chi le obbligazioni ce le aveva già e sono invece una manna per chi le compra quando i tassi sono già saliti.
Oggi i tassi sono tra il 4 e il 5 in Europa e US.
E’ chiaro che quando hai obbligazioni governative ultrasicure che rendono il 3 e passa per cento e obbligazioni corporate investment grade oltre il 4%, avere obbligazioni nel portafoglio assume tutto un altro senso rispetto a quando i tassi sono a zero.
Il punto ora però è chiedersi se, nel contesto in cui ci troviamo, abbia in generale ancora senso continuare a mettere bond in portafoglio dato che, alla luce di quello che è successo negli ultimi anni, ora sembra che la decorrelazione in realtà non sussista più e che in effetti azioni e obbligazioni siano oggi molto più legate allo stesso destino.
Veniamo allora al
CAPITOLO DUE, ossia cosa succede tipicamente nei contesti ad alta inflazione e come questa cosa impatta sul discorso della correlazione.
Breve recap prima di proseguire.
Il tema di cui stiamo parlando oggi è esattamente quello della correlazione tra azioni e obbligazioni.
In pratica stiamo cercando di capire se oggi, diversamente dal passato, ha ancora senso rinunciare all’extra rendimento delle azioni, perlomeno teorico, per mettersi nel portafoglio delle obbligazioni che non è chiaro se sono in grado di fare da contrappeso alle azioni quando queste crollano.
Questo è il punto.
Allora da un lato dagli anni 80 al 2021 abbiamo avuto un bull run delle obbligazioni durato 40 anni, con poche interruzioni in mezzo.
Per la maggior parte del tempo abbiamo vissuto condizioni particolarmente favorevoli dal punto di vista dell’inflazione e in generale, a parte un leggero aumento nella prima metà degli anni 2000, è stata generalmente al di sotto della sua media storica, che più o meno nei paesi sviluppati è intorno al 3%.
Quest’inflazione così bassa, che ad un certo punto abbiamo quasi finito per dimenticarci della sua esistenza, aveva creato le condizioni ideali per un portafoglio decorrelato fatto di azioni e obbligazioni, con il 60/40 massima espressione di questa logica.
Dato che l’inflazione se ne stava in letargo, azioni e obbligazioni si muovevano ciascuna per i fatti propri.
In un articolo sull’edizione americana di Morningstar ho trovato una bella sintesi di come si è evoluto questo storico matrimonio tra azioni e obbligazioni negli ultimi 60 anni e, come in ogni matrimonio che si rispetti, in alcuni momenti si va d’accordo nella stessa direzione, mentre in altri si diverge verso interessi opposti.
Ovviamente qualunque riferimento di questa metafora a matrimoni di più o meno noti podcaster italiani di finanza personale è puramente casuale, anzi oserei dire che in quel caso la correlazione è sempre 100% e si è sempre d’accordo su tutto.
Dicevamo, cosa è successo al rapporto tra azioni e obbligazioni dagli anni 60 ad oggi?
Ricordiamo che la correlazione tra due asset viene espressa con un numero compreso tra 1 e -1, dove “1” significa: perfetta correlazione, cioè i due asset si muovono proprio in sincrono, mentre “-1” significa che ciascuno va esattamente nella direzione opposta.
In generale ogni numero positivo esprime correlazione, mentre un numero negativo decorrelazione.
Quando adesso diamo i numeri sulla correlazione che c’è stata nei vari periodi ci riferiamo sempre alla correlazione “a tre anni”, cioè in ogni momento si prendono i tre anni precedenti e si misura come azioni e obbligazioni si sono comportati in media fino a quel momento.
In pratica abbiamo avuto, secondo Morningstar, 5 fasi:
– FASE 1: La Grande Inflazione, dal 1965 alla fine del 1979.
Qui c’è stata alta inflazione acuita dalle gravi crisi petrolifere in medio oriente, quando gli Stati Uniti non erano ancora, come invece sono oggi, il più grande produttore mondiale di greggio.
La correlazione è stata in media 0,24 (quindi positiva) con dei picchi fino a 0,5 durante le svolte della Fed sulla politica dei tassi chiamate Pivot, cioè quando la politica monetaria cambia direzione e in questo caso si era trattato di alzare i tassi.
Il rendimento nominale sia di azioni che obbligazioni lungo questi 15 anni è stato abbastanza uno schifo, uno dei peggiori di sempre, intorno al 5% all’anno, peraltro in un periodo in cui l’inflazione era molto alta, quindi il rendimento reale è stato probabilmente negativo.
– FASE 2: la riforma di Volcker, dal 1979 al 1982.
In questa fase Paul Volcker, capo della Fed, intervenne pesantemente per contrastare la seconda ondata di inflazione, dopo che la prima era stata giudicata vinta troppo presto (e che è lo spauracchio che oggi tutti vogliono evitare) e arrivò ad alzare i tassi di interesse fin oltre il 20%.
Nota per i profeti del “ormai i tassi possono solo scendere”, ricordiamoci che 40 anni fa abbiamo avuto tassi 4 volte più alti di quelli attuali. Quindi il 5,5% odierno dei Fed Funds in confronto sono una caramella.
In questi 4 anni abbiamo avuto una correlazione ancora più alta, dello 0,35, però ciononostante azioni e bond hanno riportato rendimenti nominali molto positivi, rispettivamente 15 e 14% all’anno in media, probabilmente per il fatto che entrambi avevano cominciato a scontare il futuro taglio dei tassi.
Da lì in poi inizia la
– FASE 3: la grande Moderazione, quasi interamente coincisa con l’era del mitologico e controverso capo della Fed Alan Greenspam, inventore, tra le varie cose, della formula “Irrational Exhuberance”, Euforia Irrazionale, riferendosi in tempi ancora non sospetti alla sopravvalutazione azionaria che avrebbe poi portato alla bolla delle dot.com.
Questa fase è durata dal 1982 al 2008.
Greenspam ha lasciato nel 2006 e poi ha lasciato la più bollente patata finanziaria di sempre al successore Ben Bernanke, che non aveva fatto ancora in tempo a svuotare gli scatoloni che dovette gestire nientemeno che le Great Financial Crisis del 2008.
Ricordate no? Lehman Brothers, i mutui subprime, i derivati, ecc.
Grande moderazione un cazzo avrà pensato Bernanke appena preso il comando della Fed.
Cmq la grande moderazione è stato un periodo in cui i tassi sono gradualmente scesi, pur con qualche episodica risalita, ma di fatto siamo passai dal 20% del 1981 allo ZERO del dicembre 2008.
Ed è in questo periodo che si è consolidata l’idea della Fed Put ossia l’idea che qualunque casino succeda sui mercati azionari, alla fine ci sono sempre le banche centrali lì a mettere una pezza abbassando i tassi e riversando liquidità sul mercato (che è uno dei motivi per cui il livello di debito mondiale dei vari governi è salito senza mai più arrestarsi).
Durante questo periodo la correlazione tra azioni e obbligazioni è stata quasi ZERO, salita durante i due momenti di rialzo dei tassi intorno al 1994 e al 2006, e in effetti questa è stata un’epoca d’oro per l’investimento azionario e per il 60/40.
O meglio: epoca d’oro fino al 1999. Poi mazzate fino al marzo del 2009 per i motivi che sappiamo tutti bene.
Ciononostante, però, in quel periodo azioni e bond americani hanno fatto comunque bene e il portafoglio 60/40, forte della correlazione quasi nulla tra i due asset, si è portato a casa addirittura un 10% all’anno di media.
Finito il disastro della Grande crisi, nel 2009 comincia la
– FASE 4: la ZIRP, che sta per Zero Interest Rates Policy, ossia la lunghissima fase di tassi accomodanti un po’ in tutto il mondo che è durata fino al febbraio del 2022.
In questo più che decennio abbiamo avuto: tassi di interesse rasoterra PIU’ inflazione quasi inesistente, dovuta anche al surplus di offerta di beni a basso costo proveniente dalla Cina, che ha contribuito a tenere l’inflazione giù, e il risultato è stata che la correlazione tra stocks and bonds sia stata addirittura negativa, -0,24 in media.
Anche in questo periodo, il 60/40 americano ha fatto quasi il 10% di media, letteralmente una manna per gli investitori al di là dell’Atlantico che si sono portati a casa il rendimento storico dell’S&P 500 con il rischio ridotto di un portafoglio bilanciato e uno Sharpe Ratio commovente di 1,13.
Per capirci, uno Sharpe Ratio maggiore di 1 significa o che il risk premium del portafoglio è molto alto o che la volatilità è molto bassa o, come probabilmente è stato, un mix delle due cose.
A differenza del periodo precedente, però, il rendimento l’hanno portato quasi esclusivamente le azioni, dato che i tassi così bassi hanno finito per annullare quasi del tutto i rendimenti obbligazionari, che in media sono stati un asfittico 2% lungo tutto il periodo (e molto meno in Europa peraltro).
So far so good verrebbe da dire.
Ma mai stare troppo sereni quando si investe.
E in fondo, l’abbiamo detto tante volte, se la questione dovesse diventare troppo semplice e tranquilla immediatamente verrebbero meno anche tutti i rendimenti derivanti dall’incertezza che avvolge l’investimento in asset finanziari.
E infatti nel Febbraio 2022, con l’inflazione che già stava salendo a manetta per gli effetti del post Covid, Putin a sorpresa invade l’Ucraina e comincia così la
– FASE 5: che Morningstar ha chiamato il Grande Ignoto.
Per ora questa fase ha poco più di 2 anni di vita; quindi, non è che si possano fare grandi ragionamenti.
Ad oggi però abbiamo:
– correlazione tra azioni e obbligazioni salita addirittura a 0,64 , che significa che in pratica vanno quasi a braccetto;
– rendimento delle azioni positivo ma non troppo, 8% in media, figlio però di una media tra un MENO tantissimo nel 2022 e un eccellente 2023 e inizio 2024;
– rendimento dei bond negativo, in media intorno al -3% all’anno, con quelle molto lunghe acquistate poche anni prima che hanno anche dimezzato il loro valore;
– e il portafoglio 60/40 che ha avuto nel 2022 il suo annus horribilis, tanto che il suo Sharpe ratio in questi 2 anni è stato praticamente zero.
Questo è quindi il momento della grande incertezza perché obiettivamente non è più chiaro fino a che punto le obbligazioni possano essere una reale copertura rispetto al rischio dell’investimento azionario, dato che oggi questa correlazione è molto alta e se diversifico usando due asset correlati tra loro, di fatto non diversifico.
Comunque, prima di tirare qualche conclusione facciamo un attimo il punto e fissiamo un paio di concetti.
Se guardiamo come sono andate le cose in questo mezzo secolo di storia possiamo dire che, un po’ alla buona:
– Nelle fasi di inflazione crescente — e con una politica monetaria incerta e fondamentalmente prociclica — la correlazione tra azioni e obbligazioni aumenta e tende a mantenersi anche durante i pivot delle banche centrali e il successivo periodo deflattivo; in questo caso azioni e obbligazioni performano peggio perché i loro flussi di casa futuri sono attualizzati ad un tasso di sconto maggiore, diminuendone quindi il valore presente.
– Nelle fasi invece di inflazione stabile e tassi tendenzialmente decrescenti — e con una politica monetaria maggiormente prevedibile — la correlazione diminuisce.
Ok, allora, CAPITOLO TRE: capite ste cose, che indicazioni possiamo trarre per avere un approccio, se non proprio attivo, almeno consapevole con il nostro portafoglio?
Oggi le mettiamo o no le obbligazioni nel portafoglio, oppure è inutile perché se tanto sono correlate alle azioni finiscono solo per abbassarci il rendimento ma non ci danno protezione?
Direi che ci sono 5 indicazioni interessanti da portarsi a casa:
– UNO: benché i pivot delle banche centrali siano dolorosi, alla fine sono brevi e intense sofferenze necessari per ristabilire la funzione a lungo termine di protezione dei bond. Una volta che i tassi sono troppo bassi, le obbligazioni hanno rendimenti quasi nulli e rischiano solo di sprofondare al primo risveglio dell’inflazione, come infatti è stato nel 2022.
– DUE: questi momenti di sofferenza sono tipicamente rapidi e non così devastanti, visto che la correlazione a tre anni tra stocks and bonds ha superato lo 0,3 solo il 30% delle volte nei sessant’anni alle nostre spalle.
Come dire, per chi ha un orizzonte a lungo termine, un portafoglio diversificato di azioni e obbligazioni tende a fare il suo nel lungo termine e le obbligazioni diversificano meglio il portafoglio rispetto ad altre cose maggiormente correlate alle azioni come i fondi immobiliari (i REIT), gli high-yield o l’azionario internazionale.
– TRE: azioni e obbligazioni è più probabile che crescano insieme lungo un qualsiasi periodo di 12 mesi, piuttosto che crollino insieme. Diciamo che crescono entrambe il 67% degli anni, mentre crollano tutte e due contemporaneamente solo il 3% delle volte, cosa che fa del 2022 un anno davvero eccezionalmente sfigato.
– QUATTRO: nel restante 30% dei casi le due asset class hanno rendimenti di segno opposto, cioè quando va bene una l’altra va male e viceversa.
In generale, comunque, quando le azioni scendono, i bond tendono ad andare più frequentemente su che giù: circa l’85% delle volte succede questa cosa e a prescindere dal regime di correlazione.
– CINQUE: anche con correlazione positiva, quando ci sono eventi estremi che coinvolgono l’azionario, come ad esempio il Black Monday del 1987 o la crisi dei bond Russi del 1998, le obbligazioni tendono a svolgere il loro ruolo di tail-hedging, ossia di protezione in caso di shock e ciò a prescindere dal livello di correlazione.
Per questi ultimi 3 punti, che non mi sono neanche preso la briga di riformulare ma ho solo tradotto in italiano, ringrazio l’Ing. Protasoni e il suo articolo linkato qua negli shownote.
Quindi, alla luce di tutte queste considerazioni, come ce la gestiamo con il nostro portafoglio?
Allora distinguiamo cosa fare nel lungo termine da cosa fare nel breve termine.
Nel lungo termine, uno può partire dal metodo The Bull, sovrappesare le obbligazioni in fasi di tassi alti e in particolari se ci troviamo vicini ad un pivot verso il basso dei tassi, o al contrario sottopesare le obbligazioni in fasi a tassi bassi.
Oserei anche aggiungere che, probabilmente, dovessimo trovarci un domani nuovamente con tassi prossimi allo zero, se uno proprio deve avere obbligazioni in portafoglio forse conviene stare su scadenze brevi, altrimenti con quelle lunghe, che magari danno sì un 1% di rendimento in più, c’è il rischio di fare -50% se l’inflazione divampa.
In caso di situazione tipo Fed Put, invece, ossia in uno scenario di stress con equity che crolla e tassi che vengono rasi al suolo, a quel punto probabilmente ha senso ribilanciare e investire il guadagno derivante dal rally obbligazionario conseguente in azioni a buon mercato.
Tutte queste informazioni che abbiamo condiviso oggi mi portano a dire che nel lungo termine un portafoglio composto da azioni e obbligazioni fa spesso il suo.
In alcuni momenti meglio.
In altri peggio.
Ma in generale, a prescindere dalla correlazione tra i due, l’aspettativa di rendimento è positiva per entrambi e quindi entrambi daranno un contributo in termini di rendimento generale del portafoglio riducendo la volatilità complessiva di un investimento solo azionario.
Oggi, quindi, anche se stocks and bond sembra abbiano un’alta correlazione, ha senso averli entrambi in portafoglio?
Probabilmente più sì che no perché, intanto, i rendimenti obbligazionari sono più interessanti che in passato e inoltre è vero che se l’inflazione non si abbassa — o addirittura risale — c’è sì il rischio che i bond vadano giù, ma allo stesso tempo partendo già da interessi del 3-4-5% all’anno anche sull’investment grade l’effetto complessivo sarà meno negativo di quanto accaduto due anni fa.
E poi c’è sempre l’assicurazione sulla vita legata al fatto che in caso di shock sistemico come era stata la crisi del 2008, lì i bond probabilmente mettono una pezza nelle situazioni più gravi ed estreme.
Sul breve termine invece il discorso è un po’ diverso.
Fare operazioni tattiche sul portafoglio per ottimizzare sempre al meglio la sua composizione in base alla correlazione variabile tra azioni e obbligazioni e cercando di intuire la fase del ciclo di mercato in cui ci si trova non è semplicissimo.
Riprendendo una cosa che ho letto in un bel post di Ben Carlson, fare market timing richiede aver ragione due volte.
Quando si esce.
E quando si rientra.
Ad esempio, capire oggi che l’azionario è sopravvalutato e che quindi potrebbe essere saggio vendere le azioni e sovrappesare le obbligazioni che hanno rendimenti interessanti è un ragionamento relativamente semplice.
Diverso è capire quando poi arriva il momento giusto per rientrare.
Se io oggi vendessi tutto il mio portafoglio azionario monetizzerei sicuramente un bel guadagno e poi potrei bloccare questo guadagno a lungo termine con delle obbligazioni.
Ma non so se così facendo mi perderei l’ulteriore crescita del mercato o se invece mi scamperei il prossimo bear market.
Non solo.
Anche giocare con le scadenze delle obbligazioni non è semplicissimo.
Teoricamente negli ultimi mesi dovrei aver allungato le duration visto che tutti si aspettano che dei tagli dei tassi avvengano da qui al 2026.
D’altra parte, è quasi impossibile prevedere il comportamento delle banche centrali, perché nemmeno le banche centrali sanno che politica monetaria seguiranno nei prossimi mesi e figurarsi anni.
Anche qui, quindi, forse l’approccio a lungo termine con un portafoglio con una componente diversificata su varie scadenze resta la scelta più saggia.
Sì lo so è un consiglio non consiglio, un po’ come suggerire di tifare per Juve, Milan, Inter, Roma e Napoli, così quasi sempre si vincerà lo scudetto.
Ma alla fine la finanza è così, meglio avere in portafoglio sia i vincenti che i perdenti, che scommettere tutto su un vincente e rischiare di prenderselo in quel posto se ci si sbaglia.
Del resto tutti quanti gli attori hanno il loro ruolo da recitare nel copione del nostro portafoglio:
– Le obbligazioni a breve e i fondi monetari danno stabilità e permettono di gestire le esigenze di liquidità a breve (e non soffrono del rischio tassi);
– Le obbligazioni medio-lunghe invece garantiscono un certo rendimento e proteggono da momenti di deflazione e da tail-risk, da rischi estremi tipo 2008;
– Le azioni infine come noto sono ciò che dovrebbe produrre un maggiore ritorno atteso storicamente si sono sempre rivelati la migliore protezione contro l’inflazione.
In conclusione:
– Azioni e obbligazioni saranno probabilmente più correlate nel prossimo futuro di quanto non ci siamo abituati negli ultimi 20 anni? Probabilmente sì.
– Ha comunque senso continuare ad avere entrambi nel portafoglio se si ha una prospettiva di lungo termine che attraverserà diversi cicli? Probabilmente sì.
Eh niente, vi ho fatto ascoltare mezz’ora di episodio e poi alla fine l’estrema sintesi di tutto è continuare a fare quello che stavate facendo prima.
Va beh dai meglio così.
Metti che vi dicevo “oh ragazzi ho letto delle cose pazzesche, bisogna cambiare tutto, la regola 125 — anni eccetera è una cagata, rifate tutti i portafogli da capo” eh, era un casino.
C’avevate messo mesi a mettere insieme il vostro portafoglio come pensavate fosse giusto farlo e poi vengo a sminchiarvi tutto.
Invece no, sereni, continuate per la vostra strada.
Però oggi abbiamo visto insieme che il mercato non ha leggi così scolpite nella pietra come può sembrare e sapere che in certe situazioni accadono delle cose, mentre in altre ne accadono altre, sicuramente è utile soprattutto quando ci dovessimo trovare in presenza di importanti cambi di contesto macroeconomico.
E perlomeno la prossima volta che i tassi d’interesse saranno vicini allo zero non farete la minchiata che hanno fatto tanti di riempirsi il portafoglio di bond lunghi con le conseguenze che si sono viste.
Se poi volete vedere come si comporterà il vostro portafoglio in uno scenario di tassi che si muovono in una direzione che non vi aspettavate, vi ricordo che il nostro partner Scalable Capital ha al suo interno la funzione Scalable Insights, realizzata con Blackrock, che oltre a dirvi in ogni momento come è composto tutto il vostro portafoglio, vi fa vedere come si comporterebbe in determinati scenari di shock.
Per avere tutto questo, oltre a zero costi per l’acquisto di ETF di almeno 250 €, zero costì d’ordine sui piani di accumulo e 4% di interessi per 4 mesi sulla liquidità non investita (e poi 2,6% all’anno), trovate un link negli shownote dell’episodio e in 10 minuti aprite l’account.
Se usate il link Scalable pagherà al sottoscritto una commissione che finanzierà con i proventi dell’attività del suo country manager nel weekend a fare le foto da gladiatore al colosseo.
Grazie invece a tutti quanti per essere ancora qui con me dopo 106 episodi e per le centinaia di messaggi che ogni giorno mi scrivete su instagram a thebull_finance.
Mentre imperterriti abbiamo messo le tende nei pressi della top 10 di Spotify Italia, per continuare la sfida con la regina Elisa True Crime là in vetta vi invito come sempre a mettere segui e attivare le notifiche su Spotify, Apple Podcast o dove volete e a lasciare una recensione a 5 stelle per supportarci e permetterci di continuare a produrre contenuti che sono un po’ correlati e un po’ no ai podcast di cronaca nera e che appena la Fed taglia i tassi noi schizziamo su in classifica più in alto di un bond matusalemme austriaco sempre nuovi.
Per questo episodio invece è davvero tutto e noi ci ritroviamo domenica prossima a parlare, questa volta sì non come oggi che ho cambiato idea all’ultimo, dei principi fondamentali e universali dell’investimento sempre qui, naturalmente, con The Bull — Il tuo podcast di finanza personale.
Bentornati a The Bull — Il tuo podcast di finanza personale.
Oggi colpo di scena qui a The Bull!
Parleremo di una cosa nuova assolutamente originale.
Parleremo di … Azioni e Obbligazioni!
Sapete che ho bisogno di essere originale e di trovare sempre spunti creativi out of the box altrimenti mi annoio e quindi per la prima volta dopo 105 episodi eccoci qua: Azioni e Obbligazioni.
Dunque le obbligazioni sono titoli di debito emessi da Stati o società….
Sto scherzando!
Lo so che ormai sapete cos’è un’obbligazione meglio del teorema di Pitagora.
O meglio
Non sto scherzano.
Parleremo davvero di azioni e obbligazioni, però, ora che ne sapete quasi come Jerome Powell di tassi di interesse e roba simile, ci occuperemo di una cosa un po’ più sottile ossia di come cambia la loro correlazione in base a una delle più importanti variabili macroeconomiche che esistano: quella simpatica spina nel culo chiamata inflazione.
Scopo dell’episodio di oggi, quindi, sarà parlare di queste cose:
– UNO: qual è la teoria alla base della costruzione di un portafoglio efficiente che ottimizzi il profilo di rischio rendimento;
– DUE: cosa succede nei contesti ad alta inflazione e in che modo la tradizionale collaborazione di successo tra azioni e obbligazioni si inceppa;
– TRE: cercheremo di capire se e quando continui ad aver senso ancora oggi impostare il cuore del nostro portafoglio con azioni e obbligazioni e quali potrebbero essere gli adattamenti del portafoglio da prendere in considerazione in presenza di circostanze macroeconomiche mutate.
Prima di cominciare, però, permettetemi di ricordarvi che, qualunque sia la composizione che volete per il vostro portafoglio, il nostro partner Scalable Capital è il broker europeo leader per investire in ETF e Azioni a bassissimo costo.
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Oh era da un po’ che non dicevo qualche cagata di questo genere.
Torniamo a noi.
Perché dobbiamo fare questo episodio?
In primo luogo, perché questa settimana ho letto almeno 4 articoli e paper sull’argomento, di cui uno super di Nick Protasoni sul suo blog the Italian Leather sofa, che vi linko negli shownote, che ho già ringraziato anticipandogli che avrei scopiazzato a man bassa parti del suo post.
Il secondo motivo è perché effettivamente è giunto il momento di iniziare a ragionare in maniera un po’ più dinamica sui portafogli.
Adesso, non è che ho fatto 105 episodi a dirvi, praticamente, set it and forget it, fai il portafoglio che più ti piace e fallo andare fino alla fine dei tempi, e mo’ cambio tutto e vi dico “bisogna avere un approccio attivo all’investimento”.
No!
Sennò tanto vale andare da un gestore che sicuramente queste cose le sa fare meglio di voi.
Forse…
Oddio…
Ripensandoci questa frase forse la taglio…
Dicevo qui più che altro si tratta di capire come non avere un approccio ingenuo, perché il portafoglio si comporta in un certo modo e che decisioni prendere ogni volta che si tratta di investire i nostri risparmi nel modo teoricamente più coerente con la situazione in cui ci troviamo.
Dunque,
CAPITOLO UNO: la teoria alla base della costruzione di un portafoglio diversificato.
Niente di troppo tecnico eh, tranquilli, solo due richiami a cose che abbiamo già detto più volte.
1952 o giù di lì il futuro premio Nobel Harry Markowitz scrive il paper sulla Modern Portfolio Theory e spiega tutte le cose che noi oggi diamo più o meno per scontato quando investiamo.
In particolare, spiega che esiste una cosa chiamata Frontiera Efficiente, una linea teorica a forma di C sbilenca che collega tutti i portafogli che ottimizzano il rapporto tra rischio e rendimento rappresentati dentro un bel grafico con il rendimento atteso sull’asse verticale e il rischio, inteso come deviazione standard, su quello orizzontale.
Quindi, grafico cartesiano.
Rendimento atteso sulle ascisse.
Deviazione standard sulle ordinate.
Mettete dentro tutti i portafoglietti che vi vengono in mente e quelli che avranno il miglior rapporto tra rischio e rendimento li vedrete tutti belli allineati su questa curva a C.
Se non è ancora chiaro scrivete frontiera efficiente su google e vi usciranno tipo 100 milioni di immagini tutte uguali.
Comunque Markowitz dice: sulla frontiera efficiente si collocano tutti i portafogli che hanno un asset allocation tale da massimizzare il rendimento per un dato livello di rischio o di minimizzare il rischio per un certo rendimento atteso.
Il principio teorico alla base di questa cosa è la diversificazione tra asset NON CORRELATI tra loro.
Come abbiamo detto tante volte se investo 100% nell’S&P 500 avrò un certo rendimento atteso ma anche un’alta volatilità (oltre ad una certa dose di rischio specifico), mentre se investo in un portafoglio azionario diversificato a livello globale e poi ci aggiungo anche altre asset class ottengo un maggior livello di diversificazione.
Sappiamo anche che la diversificazione non te la regala nessuno.
Il trade-off, di solito, è ottenere un portafoglio con un minor rendimento atteso in cambio di una maggiore stabilità.
In termini di rendimento, inserire ad esempio bond in portafoglio abbassa il mio expected return ma, sempre in teoria, riduce anche la volatilità del mio portafoglio.
Nei primi decenni della mia fase di accumulo del patrimonio può anche fregarmene il giusto della volatilità, mentre in una fase più avanzata della mia vita mi interesserà eccome che il mio portafoglio non perda in un anno il 40% del suo valore.
Inoltre, c’è sempre il rischio di sequenza.
Se periodicamente metto soldi nel portafoglio o prelevo soldi dal portafoglio la sequenza dei rendimenti anno dopo anno conta eccome.
A parità di rendimento complessivo se mi becco anni negativi all’inizio del mio percorso di accumulo i è un conto, se invece mi succede quando nel mio portafoglio ci ho messo 20 anni di risparmi è tutta un’altra storia decisamente più brutta.
Purtroppo, il rendimento dei backtest è quello che non ha realizzato quasi nessuno, perché ciascuna storia di investimento è molto soggettiva e molte variabili del tutto casuali incidono anche in maniera importante sul risultato finale.
Bene, come si esprime in maniera sintetica tutta sta pappardella del rapporto tra rischio e rendimento di un portafoglio?
Dopo Markowitz sono arrivati William Sharpe e altri e hanno inventato il CAPM, il Capital Asset Pricing Model, che dice che il rendimento di un certo asset equivale al rendimento in eccesso del mercato di cui quell’asset fa parte MENO il rendimento risk-free dei titoli di stato il tutto moltiplicato per Beta, che è un coefficiente che esprime la volatilità relativa di quell’asset rispetto al mercato.
Che poi è quel beta a cui fanno riferimento gli ETF “smart beta” che utilizzano strategie fattoriali per provare a ottimizzare le performance, cosa di cui parleremo in uno dei prossimi episodi.
Sharpe è poi quotidianamente citato nel mondo della finanza perché ha inventato il rapporto di Sharpe, noto come Sharpe Ratio, che esprime esattamente il rapporto tra rischio e rendimento di un asset o di un portafoglio.
Lo Sharpe Ratio si calcola come rendimento aggiuntivo di quell’asset o di quel portafoglio, cioè il risk premium rispetto al rendimento risk-free, diviso la sua deviazione standard.
Maggiore è il valore dell’indice di Sharpe, migliore è il profilo di rischio-rendimento dell’investimento.
Sempre in teoria.
Ok?
Quindi sulla frontiera efficiente ci finiscono tutti i portafoglio con il miglior Sharpe Ratio.
Finito il pippone teorico.
Ora, come si fa a provare a massimizzare lo Sharpe Ratio e quindi a fare un portafoglio che ottiene il massimo rendimento con la minima volatilità?
Eh-eh, qui viene il difficile.
Nessuno lo sa.
Quello che più che più o meno si sa è che asset tra loro non correlati dovrebbero rispondere alle diverse fasi dei mercati e quindi ottimizzare il risk adjusted return del portafoglio riducendo il più possibile la volatilità generale.
Noi sappiamo che grossomodo il ciclo economico è composto di 4 fasi, che sono:
– Crescita;
– Inflazione;
– Recessione e infine
– Deflazione.
Come abbiamo detto tre o quattro episodi fa, le azioni di solito performano molto bene a deflazione inoltrata, durante la crescita e all’inizio della fase di inflazione, mentre tendono a crollare quando l’inflazione inizia a galoppare e quando l’aumento dei tassi di interessi provoca una recessione.
Sapendo appunto che le azioni sono l’asset class con il maggior rendimento atteso ma che di frequente i bull run sono inframezzati da crolli più o gravi, con un ritmo di circa un anno negativo su quattro, una correzione ogni circa 18 mesi e un bear market ogni 4-5 anni, tradizionalmente si è sempre cercato di costruire il core del portafoglio mescolando insieme un tot di azioni e un tot di obbligazioni.
L’idea di base è che le azioni in media producono il grosso del rendimento del portafoglio ma quando queste vanno giù le obbligazioni fanno da cuscinetto grazie ai loro rendimenti prevedibili e in risposta a quella pratica nota come Fed Put che più volte abbiamo citato, ossia il fatto che durante una crisi economico-finanziaria, la Fed e le altre banche centrali possono tagliare i tassi di interesse per rianimare così l’economia e così facendo i prezzi dei bond salgono.
Vi ricordate no?
Tassi giù, prezzi su.
Tassi su, prezzi giù.
Sappiamo tutti molto bene che questa cosa succede perché per ogni punto percentuale di taglio dei tassi, grossomodo il prezzo delle obbligazioni aumenta di tanti punti percentuali quant’è la duration residua.
Diciamo che dagli anni ’80 al 2021 questa cosa ha funzionato benissimo, tanto che il portafoglio per eccellenza, 60% azioni e 40% obbligazioni, è diventato il portafoglio di default per milioni di investitori nel mondo.
Azioni e obbligazioni nel portafoglio hanno sempre funzionato piuttosto bene nella loro partnership grazie alla loro de-correlazione, ossia molto spesso queste due asset class hanno avuto comportamenti indipendenti l’una dall’altra.
Poi però è arrivata la sequenza micidiale: covid, invasione russa dell’Ucraina ed esplosione dell’inflazione.
Quello che tutti abbiamo scoperto nel 2022 è che quando c’è un picco di inflazione e una conseguente reazione sotto steroidi delle banche centrali sui tassi di interesse per arginarla drasticamente, improvvisamente azioni e obbligazioni cominciano ad avere un comportamento estremamente correlato e ad andare giù entrambi.
Il 2022 è stato, per un investitore americano almeno, il peggior anno di sempre per il portafoglio 60/40.
Perché la funzione di protezione delle obbligazioni non ha funzionato nel 2022?
Banalmente perché si partiva da tassi a zero all’indomani dei lockdown imposti dalla pandemia e non appena i tassi sono stati alzati — e sono stati alzati nella maniera più violenta dagli anni ’70 — le obbligazioni che già non rendevano quasi niente prima sono crollate a picco.
I Treasury a lunga scadenza, quelli che per intenderci hanno scadenza da 20 anni in su, dal 2021 ad oggi hanno perso oltre il 40% del loro valore.
Quelli intermedi, tra 7 e 10 anni, sono ancora sotto del 20%.
Un’ecatombe visto che parleremmo dell’asset class per antonomasia più tranquilla, roba da pensionati per chi non si vuole prendere troppi rischi.
Ecco, invece è qui che bisogna usare il cervello e ragionare sulle cose prima di prendere per oro colato convinzioni che avevamo nel passato o che qualcuno altro ci ha ficcato in testa.
Come tutti voi sapete molto bene, la formula di asset allocation di cui parliamo sempre qui a The Bull risponde a questa logica ossia: adattare l’esposizione ad azioni e obbligazioni IN BASE AL contesto dei tassi di interesse.
Se qualcuno se lo fosse dimenticato, la regoletta dice: investi in azioni una percentuale del portafoglio uguale a 125 — i tuoi anni — i tassi della banca centrale che più impatta sul tuo portafoglio per 5.
Chi avesse iniziato ad investire nel 2021, per esempio, secondo questa regola non si sarebbe riempito il portafoglio di obbligazioni e si sarebbe risparmiato il Bondageddon che è iniziato nel 2022.
Ad esempio un 35enne nel 2021 avrebbe fatto un portafoglio probabilmente con il 90% di azioni (e gli sarebbe andata alla grande fino alla fine dell’anno).
Nel 2022 sarebbe andato giù mentre nel 2023 avrebbe nuovamente ricominciato a correre e solo a quel punto sarebbe forse stato opportuno un progressivo ribilanciamento verso l’obbligazionario, che nel frattempo aveva ricominciato ad avere un senso perché i tassi alti sono un problema per chi le obbligazioni ce le aveva già e sono invece una manna per chi le compra quando i tassi sono già saliti.
Oggi i tassi sono tra il 4 e il 5 in Europa e US.
E’ chiaro che quando hai obbligazioni governative ultrasicure che rendono il 3 e passa per cento e obbligazioni corporate investment grade oltre il 4%, avere obbligazioni nel portafoglio assume tutto un altro senso rispetto a quando i tassi sono a zero.
Il punto ora però è chiedersi se, nel contesto in cui ci troviamo, abbia in generale ancora senso continuare a mettere bond in portafoglio dato che, alla luce di quello che è successo negli ultimi anni, ora sembra che la decorrelazione in realtà non sussista più e che in effetti azioni e obbligazioni siano oggi molto più legate allo stesso destino.
Veniamo allora al
CAPITOLO DUE, ossia cosa succede tipicamente nei contesti ad alta inflazione e come questa cosa impatta sul discorso della correlazione.
Breve recap prima di proseguire.
Il tema di cui stiamo parlando oggi è esattamente quello della correlazione tra azioni e obbligazioni.
In pratica stiamo cercando di capire se oggi, diversamente dal passato, ha ancora senso rinunciare all’extra rendimento delle azioni, perlomeno teorico, per mettersi nel portafoglio delle obbligazioni che non è chiaro se sono in grado di fare da contrappeso alle azioni quando queste crollano.
Questo è il punto.
Allora da un lato dagli anni 80 al 2021 abbiamo avuto un bull run delle obbligazioni durato 40 anni, con poche interruzioni in mezzo.
Per la maggior parte del tempo abbiamo vissuto condizioni particolarmente favorevoli dal punto di vista dell’inflazione e in generale, a parte un leggero aumento nella prima metà degli anni 2000, è stata generalmente al di sotto della sua media storica, che più o meno nei paesi sviluppati è intorno al 3%.
Quest’inflazione così bassa, che ad un certo punto abbiamo quasi finito per dimenticarci della sua esistenza, aveva creato le condizioni ideali per un portafoglio decorrelato fatto di azioni e obbligazioni, con il 60/40 massima espressione di questa logica.
Dato che l’inflazione se ne stava in letargo, azioni e obbligazioni si muovevano ciascuna per i fatti propri.
In un articolo sull’edizione americana di Morningstar ho trovato una bella sintesi di come si è evoluto questo storico matrimonio tra azioni e obbligazioni negli ultimi 60 anni e, come in ogni matrimonio che si rispetti, in alcuni momenti si va d’accordo nella stessa direzione, mentre in altri si diverge verso interessi opposti.
Ovviamente qualunque riferimento di questa metafora a matrimoni di più o meno noti podcaster italiani di finanza personale è puramente casuale, anzi oserei dire che in quel caso la correlazione è sempre 100% e si è sempre d’accordo su tutto.
Dicevamo, cosa è successo al rapporto tra azioni e obbligazioni dagli anni 60 ad oggi?
Ricordiamo che la correlazione tra due asset viene espressa con un numero compreso tra 1 e -1, dove “1” significa: perfetta correlazione, cioè i due asset si muovono proprio in sincrono, mentre “-1” significa che ciascuno va esattamente nella direzione opposta.
In generale ogni numero positivo esprime correlazione, mentre un numero negativo decorrelazione.
Quando adesso diamo i numeri sulla correlazione che c’è stata nei vari periodi ci riferiamo sempre alla correlazione “a tre anni”, cioè in ogni momento si prendono i tre anni precedenti e si misura come azioni e obbligazioni si sono comportati in media fino a quel momento.
In pratica abbiamo avuto, secondo Morningstar, 5 fasi:
– FASE 1: La Grande Inflazione, dal 1965 alla fine del 1979.
Qui c’è stata alta inflazione acuita dalle gravi crisi petrolifere in medio oriente, quando gli Stati Uniti non erano ancora, come invece sono oggi, il più grande produttore mondiale di greggio.
La correlazione è stata in media 0,24 (quindi positiva) con dei picchi fino a 0,5 durante le svolte della Fed sulla politica dei tassi chiamate Pivot, cioè quando la politica monetaria cambia direzione e in questo caso si era trattato di alzare i tassi.
Il rendimento nominale sia di azioni che obbligazioni lungo questi 15 anni è stato abbastanza uno schifo, uno dei peggiori di sempre, intorno al 5% all’anno, peraltro in un periodo in cui l’inflazione era molto alta, quindi il rendimento reale è stato probabilmente negativo.
– FASE 2: la riforma di Volcker, dal 1979 al 1982.
In questa fase Paul Volcker, capo della Fed, intervenne pesantemente per contrastare la seconda ondata di inflazione, dopo che la prima era stata giudicata vinta troppo presto (e che è lo spauracchio che oggi tutti vogliono evitare) e arrivò ad alzare i tassi di interesse fin oltre il 20%.
Nota per i profeti del “ormai i tassi possono solo scendere”, ricordiamoci che 40 anni fa abbiamo avuto tassi 4 volte più alti di quelli attuali. Quindi il 5,5% odierno dei Fed Funds in confronto sono una caramella.
In questi 4 anni abbiamo avuto una correlazione ancora più alta, dello 0,35, però ciononostante azioni e bond hanno riportato rendimenti nominali molto positivi, rispettivamente 15 e 14% all’anno in media, probabilmente per il fatto che entrambi avevano cominciato a scontare il futuro taglio dei tassi.
Da lì in poi inizia la
– FASE 3: la grande Moderazione, quasi interamente coincisa con l’era del mitologico e controverso capo della Fed Alan Greenspam, inventore, tra le varie cose, della formula “Irrational Exhuberance”, Euforia Irrazionale, riferendosi in tempi ancora non sospetti alla sopravvalutazione azionaria che avrebbe poi portato alla bolla delle dot.com.
Questa fase è durata dal 1982 al 2008.
Greenspam ha lasciato nel 2006 e poi ha lasciato la più bollente patata finanziaria di sempre al successore Ben Bernanke, che non aveva fatto ancora in tempo a svuotare gli scatoloni che dovette gestire nientemeno che le Great Financial Crisis del 2008.
Ricordate no? Lehman Brothers, i mutui subprime, i derivati, ecc.
Grande moderazione un cazzo avrà pensato Bernanke appena preso il comando della Fed.
Cmq la grande moderazione è stato un periodo in cui i tassi sono gradualmente scesi, pur con qualche episodica risalita, ma di fatto siamo passai dal 20% del 1981 allo ZERO del dicembre 2008.
Ed è in questo periodo che si è consolidata l’idea della Fed Put ossia l’idea che qualunque casino succeda sui mercati azionari, alla fine ci sono sempre le banche centrali lì a mettere una pezza abbassando i tassi e riversando liquidità sul mercato (che è uno dei motivi per cui il livello di debito mondiale dei vari governi è salito senza mai più arrestarsi).
Durante questo periodo la correlazione tra azioni e obbligazioni è stata quasi ZERO, salita durante i due momenti di rialzo dei tassi intorno al 1994 e al 2006, e in effetti questa è stata un’epoca d’oro per l’investimento azionario e per il 60/40.
O meglio: epoca d’oro fino al 1999. Poi mazzate fino al marzo del 2009 per i motivi che sappiamo tutti bene.
Ciononostante, però, in quel periodo azioni e bond americani hanno fatto comunque bene e il portafoglio 60/40, forte della correlazione quasi nulla tra i due asset, si è portato a casa addirittura un 10% all’anno di media.
Finito il disastro della Grande crisi, nel 2009 comincia la
– FASE 4: la ZIRP, che sta per Zero Interest Rates Policy, ossia la lunghissima fase di tassi accomodanti un po’ in tutto il mondo che è durata fino al febbraio del 2022.
In questo più che decennio abbiamo avuto: tassi di interesse rasoterra PIU’ inflazione quasi inesistente, dovuta anche al surplus di offerta di beni a basso costo proveniente dalla Cina, che ha contribuito a tenere l’inflazione giù, e il risultato è stata che la correlazione tra stocks and bonds sia stata addirittura negativa, -0,24 in media.
Anche in questo periodo, il 60/40 americano ha fatto quasi il 10% di media, letteralmente una manna per gli investitori al di là dell’Atlantico che si sono portati a casa il rendimento storico dell’S&P 500 con il rischio ridotto di un portafoglio bilanciato e uno Sharpe Ratio commovente di 1,13.
Per capirci, uno Sharpe Ratio maggiore di 1 significa o che il risk premium del portafoglio è molto alto o che la volatilità è molto bassa o, come probabilmente è stato, un mix delle due cose.
A differenza del periodo precedente, però, il rendimento l’hanno portato quasi esclusivamente le azioni, dato che i tassi così bassi hanno finito per annullare quasi del tutto i rendimenti obbligazionari, che in media sono stati un asfittico 2% lungo tutto il periodo (e molto meno in Europa peraltro).
So far so good verrebbe da dire.
Ma mai stare troppo sereni quando si investe.
E in fondo, l’abbiamo detto tante volte, se la questione dovesse diventare troppo semplice e tranquilla immediatamente verrebbero meno anche tutti i rendimenti derivanti dall’incertezza che avvolge l’investimento in asset finanziari.
E infatti nel Febbraio 2022, con l’inflazione che già stava salendo a manetta per gli effetti del post Covid, Putin a sorpresa invade l’Ucraina e comincia così la
– FASE 5: che Morningstar ha chiamato il Grande Ignoto.
Per ora questa fase ha poco più di 2 anni di vita; quindi, non è che si possano fare grandi ragionamenti.
Ad oggi però abbiamo:
– correlazione tra azioni e obbligazioni salita addirittura a 0,64 , che significa che in pratica vanno quasi a braccetto;
– rendimento delle azioni positivo ma non troppo, 8% in media, figlio però di una media tra un MENO tantissimo nel 2022 e un eccellente 2023 e inizio 2024;
– rendimento dei bond negativo, in media intorno al -3% all’anno, con quelle molto lunghe acquistate poche anni prima che hanno anche dimezzato il loro valore;
– e il portafoglio 60/40 che ha avuto nel 2022 il suo annus horribilis, tanto che il suo Sharpe ratio in questi 2 anni è stato praticamente zero.
Questo è quindi il momento della grande incertezza perché obiettivamente non è più chiaro fino a che punto le obbligazioni possano essere una reale copertura rispetto al rischio dell’investimento azionario, dato che oggi questa correlazione è molto alta e se diversifico usando due asset correlati tra loro, di fatto non diversifico.
Comunque, prima di tirare qualche conclusione facciamo un attimo il punto e fissiamo un paio di concetti.
Se guardiamo come sono andate le cose in questo mezzo secolo di storia possiamo dire che, un po’ alla buona:
– Nelle fasi di inflazione crescente — e con una politica monetaria incerta e fondamentalmente prociclica — la correlazione tra azioni e obbligazioni aumenta e tende a mantenersi anche durante i pivot delle banche centrali e il successivo periodo deflattivo; in questo caso azioni e obbligazioni performano peggio perché i loro flussi di casa futuri sono attualizzati ad un tasso di sconto maggiore, diminuendone quindi il valore presente.
– Nelle fasi invece di inflazione stabile e tassi tendenzialmente decrescenti — e con una politica monetaria maggiormente prevedibile — la correlazione diminuisce.
Ok, allora, CAPITOLO TRE: capite ste cose, che indicazioni possiamo trarre per avere un approccio, se non proprio attivo, almeno consapevole con il nostro portafoglio?
Oggi le mettiamo o no le obbligazioni nel portafoglio, oppure è inutile perché se tanto sono correlate alle azioni finiscono solo per abbassarci il rendimento ma non ci danno protezione?
Direi che ci sono 5 indicazioni interessanti da portarsi a casa:
– UNO: benché i pivot delle banche centrali siano dolorosi, alla fine sono brevi e intense sofferenze necessari per ristabilire la funzione a lungo termine di protezione dei bond. Una volta che i tassi sono troppo bassi, le obbligazioni hanno rendimenti quasi nulli e rischiano solo di sprofondare al primo risveglio dell’inflazione, come infatti è stato nel 2022.
– DUE: questi momenti di sofferenza sono tipicamente rapidi e non così devastanti, visto che la correlazione a tre anni tra stocks and bonds ha superato lo 0,3 solo il 30% delle volte nei sessant’anni alle nostre spalle.
Come dire, per chi ha un orizzonte a lungo termine, un portafoglio diversificato di azioni e obbligazioni tende a fare il suo nel lungo termine e le obbligazioni diversificano meglio il portafoglio rispetto ad altre cose maggiormente correlate alle azioni come i fondi immobiliari (i REIT), gli high-yield o l’azionario internazionale.
– TRE: azioni e obbligazioni è più probabile che crescano insieme lungo un qualsiasi periodo di 12 mesi, piuttosto che crollino insieme. Diciamo che crescono entrambe il 67% degli anni, mentre crollano tutte e due contemporaneamente solo il 3% delle volte, cosa che fa del 2022 un anno davvero eccezionalmente sfigato.
– QUATTRO: nel restante 30% dei casi le due asset class hanno rendimenti di segno opposto, cioè quando va bene una l’altra va male e viceversa.
In generale, comunque, quando le azioni scendono, i bond tendono ad andare più frequentemente su che giù: circa l’85% delle volte succede questa cosa e a prescindere dal regime di correlazione.
– CINQUE: anche con correlazione positiva, quando ci sono eventi estremi che coinvolgono l’azionario, come ad esempio il Black Monday del 1987 o la crisi dei bond Russi del 1998, le obbligazioni tendono a svolgere il loro ruolo di tail-hedging, ossia di protezione in caso di shock e ciò a prescindere dal livello di correlazione.
Per questi ultimi 3 punti, che non mi sono neanche preso la briga di riformulare ma ho solo tradotto in italiano, ringrazio l’Ing. Protasoni e il suo articolo linkato qua negli shownote.
Quindi, alla luce di tutte queste considerazioni, come ce la gestiamo con il nostro portafoglio?
Allora distinguiamo cosa fare nel lungo termine da cosa fare nel breve termine.
Nel lungo termine, uno può partire dal metodo The Bull, sovrappesare le obbligazioni in fasi di tassi alti e in particolari se ci troviamo vicini ad un pivot verso il basso dei tassi, o al contrario sottopesare le obbligazioni in fasi a tassi bassi.
Oserei anche aggiungere che, probabilmente, dovessimo trovarci un domani nuovamente con tassi prossimi allo zero, se uno proprio deve avere obbligazioni in portafoglio forse conviene stare su scadenze brevi, altrimenti con quelle lunghe, che magari danno sì un 1% di rendimento in più, c’è il rischio di fare -50% se l’inflazione divampa.
In caso di situazione tipo Fed Put, invece, ossia in uno scenario di stress con equity che crolla e tassi che vengono rasi al suolo, a quel punto probabilmente ha senso ribilanciare e investire il guadagno derivante dal rally obbligazionario conseguente in azioni a buon mercato.
Tutte queste informazioni che abbiamo condiviso oggi mi portano a dire che nel lungo termine un portafoglio composto da azioni e obbligazioni fa spesso il suo.
In alcuni momenti meglio.
In altri peggio.
Ma in generale, a prescindere dalla correlazione tra i due, l’aspettativa di rendimento è positiva per entrambi e quindi entrambi daranno un contributo in termini di rendimento generale del portafoglio riducendo la volatilità complessiva di un investimento solo azionario.
Oggi, quindi, anche se stocks and bond sembra abbiano un’alta correlazione, ha senso averli entrambi in portafoglio?
Probabilmente più sì che no perché, intanto, i rendimenti obbligazionari sono più interessanti che in passato e inoltre è vero che se l’inflazione non si abbassa — o addirittura risale — c’è sì il rischio che i bond vadano giù, ma allo stesso tempo partendo già da interessi del 3-4-5% all’anno anche sull’investment grade l’effetto complessivo sarà meno negativo di quanto accaduto due anni fa.
E poi c’è sempre l’assicurazione sulla vita legata al fatto che in caso di shock sistemico come era stata la crisi del 2008, lì i bond probabilmente mettono una pezza nelle situazioni più gravi ed estreme.
Sul breve termine invece il discorso è un po’ diverso.
Fare operazioni tattiche sul portafoglio per ottimizzare sempre al meglio la sua composizione in base alla correlazione variabile tra azioni e obbligazioni e cercando di intuire la fase del ciclo di mercato in cui ci si trova non è semplicissimo.
Riprendendo una cosa che ho letto in un bel post di Ben Carlson, fare market timing richiede aver ragione due volte.
Quando si esce.
E quando si rientra.
Ad esempio, capire oggi che l’azionario è sopravvalutato e che quindi potrebbe essere saggio vendere le azioni e sovrappesare le obbligazioni che hanno rendimenti interessanti è un ragionamento relativamente semplice.
Diverso è capire quando poi arriva il momento giusto per rientrare.
Se io oggi vendessi tutto il mio portafoglio azionario monetizzerei sicuramente un bel guadagno e poi potrei bloccare questo guadagno a lungo termine con delle obbligazioni.
Ma non so se così facendo mi perderei l’ulteriore crescita del mercato o se invece mi scamperei il prossimo bear market.
Non solo.
Anche giocare con le scadenze delle obbligazioni non è semplicissimo.
Teoricamente negli ultimi mesi dovrei aver allungato le duration visto che tutti si aspettano che dei tagli dei tassi avvengano da qui al 2026.
D’altra parte, è quasi impossibile prevedere il comportamento delle banche centrali, perché nemmeno le banche centrali sanno che politica monetaria seguiranno nei prossimi mesi e figurarsi anni.
Anche qui, quindi, forse l’approccio a lungo termine con un portafoglio con una componente diversificata su varie scadenze resta la scelta più saggia.
Sì lo so è un consiglio non consiglio, un po’ come suggerire di tifare per Juve, Milan, Inter, Roma e Napoli, così quasi sempre si vincerà lo scudetto.
Ma alla fine la finanza è così, meglio avere in portafoglio sia i vincenti che i perdenti, che scommettere tutto su un vincente e rischiare di prenderselo in quel posto se ci si sbaglia.
Del resto tutti quanti gli attori hanno il loro ruolo da recitare nel copione del nostro portafoglio:
– Le obbligazioni a breve e i fondi monetari danno stabilità e permettono di gestire le esigenze di liquidità a breve (e non soffrono del rischio tassi);
– Le obbligazioni medio-lunghe invece garantiscono un certo rendimento e proteggono da momenti di deflazione e da tail-risk, da rischi estremi tipo 2008;
– Le azioni infine come noto sono ciò che dovrebbe produrre un maggiore ritorno atteso storicamente si sono sempre rivelati la migliore protezione contro l’inflazione.
In conclusione:
– Azioni e obbligazioni saranno probabilmente più correlate nel prossimo futuro di quanto non ci siamo abituati negli ultimi 20 anni? Probabilmente sì.
– Ha comunque senso continuare ad avere entrambi nel portafoglio se si ha una prospettiva di lungo termine che attraverserà diversi cicli? Probabilmente sì.
Eh niente, vi ho fatto ascoltare mezz’ora di episodio e poi alla fine l’estrema sintesi di tutto è continuare a fare quello che stavate facendo prima.
Va beh dai meglio così.
Metti che vi dicevo “oh ragazzi ho letto delle cose pazzesche, bisogna cambiare tutto, la regola 125 — anni eccetera è una cagata, rifate tutti i portafogli da capo” eh, era un casino.
C’avevate messo mesi a mettere insieme il vostro portafoglio come pensavate fosse giusto farlo e poi vengo a sminchiarvi tutto.
Invece no, sereni, continuate per la vostra strada.
Però oggi abbiamo visto insieme che il mercato non ha leggi così scolpite nella pietra come può sembrare e sapere che in certe situazioni accadono delle cose, mentre in altre ne accadono altre, sicuramente è utile soprattutto quando ci dovessimo trovare in presenza di importanti cambi di contesto macroeconomico.
E perlomeno la prossima volta che i tassi d’interesse saranno vicini allo zero non farete la minchiata che hanno fatto tanti di riempirsi il portafoglio di bond lunghi con le conseguenze che si sono viste.
Se poi volete vedere come si comporterà il vostro portafoglio in uno scenario di tassi che si muovono in una direzione che non vi aspettavate, vi ricordo che il nostro partner Scalable Capital ha al suo interno la funzione Scalable Insights, realizzata con Blackrock, che oltre a dirvi in ogni momento come è composto tutto il vostro portafoglio, vi fa vedere come si comporterebbe in determinati scenari di shock.
Per avere tutto questo, oltre a zero costi per l’acquisto di ETF di almeno 250 €, zero costì d’ordine sui piani di accumulo e 4% di interessi per 4 mesi sulla liquidità non investita (e poi 2,6% all’anno), trovate un link negli shownote dell’episodio e in 10 minuti aprite l’account.
Se usate il link Scalable pagherà al sottoscritto una commissione che finanzierà con i proventi dell’attività del suo country manager nel weekend a fare le foto da gladiatore al colosseo.
Grazie invece a tutti quanti per essere ancora qui con me dopo 106 episodi e per le centinaia di messaggi che ogni giorno mi scrivete su instagram a thebull_finance.
Mentre imperterriti abbiamo messo le tende nei pressi della top 10 di Spotify Italia, per continuare la sfida con la regina Elisa True Crime là in vetta vi invito come sempre a mettere segui e attivare le notifiche su Spotify, Apple Podcast o dove volete e a lasciare una recensione a 5 stelle per supportarci e permetterci di continuare a produrre contenuti che sono un po’ correlati e un po’ no ai podcast di cronaca nera e che appena la Fed taglia i tassi noi schizziamo su in classifica più in alto di un bond matusalemme austriaco sempre nuovi.
Per questo episodio invece è davvero tutto e noi ci ritroviamo domenica prossima a parlare, questa volta sì non come oggi che ho cambiato idea all’ultimo, dei principi fondamentali e universali dell’investimento sempre qui, naturalmente, con The Bull — Il tuo podcast di finanza personale.
Recensioni
Quando capisci come funziona la finanza… ti viene voglia di raccontarla!
Ho seguito tutte le puntate! Grazie veramente
Amalia A., 17 Set 2025Da quando l'ho scoperto in 15 gg mi sono ascoltato 150 puntate senza fermarmi, ho annullato gli altri podcast per portarmi alla pari ed ascoltare tutte le precedenti puntate, ben fatto, esattamente il livello di informazione che mi serviva
Gianluca G., 11 Set 2025Podcast che dà sempre spunti interessanti che personalmente mi ha fatto appassionare alla finanza personale spingendomi ad approfondire in prima persona.
Lorenzo, 13 Mar 2025Veramente interessante, chiaro e conciso. Cambia la vita finanziaria di chiunque.. da ascoltare assolutamente anche per chi di finanza non vuole occuparsi mai
Francesca B., 6 Apr 2024Podcast piacevole, scorre veloce ma in modo estremamente chiaro, spiega i concetti chiave per gestire le proprie finanze, fornendo la classica cassetta degli attrezzi. Complimenti, davvero ben fatto!
Massimiliano, 29 Mag 2024Veramente veramente raccomandato! la finanza personale riassunta alla perfezione! e spiegata partendo dall'ABC! Ottimo anche da ascoltare a velocita 1,5x!
Giorgia R., 23 Gen 2025Riccardo mi ha letteralmente cambiato la vita e fatto scoprire che amo la finanza, ho ascoltato il podcast già due volte e non mi stufo mai di ascoltarlo, parla in modo semplice e chiaro
Massimo D., 23 Set 2025Dovrebbero ascoltarlo buona parte degli italiani e io avrei dovuto scoprirlo con qualche anno in anticipo ma meglio tardi che mai
Matteo C., 3 Set 2025Ho acquistato e letto il suo libro e l' ho trovato. Esprime i concetti economici in modo semplice e chiaro. Sentirlo parlare conferma che è un professionista del settore.
Giulia N., 11 Ago 2025