Che Tonfo! Cosa è successo sui Mercati a Luglio (…e due giorni di Agosto)

Recap del mese di luglio ... e di un drammatico inizio agosto! Il mese più estivo dell'anno si è aperto con un tracollo dei mercati mondiali, inaugurato dal secondo più grande crollo giornaliero della borsa giapponese per concludersi con il profondo rosso dell'S&P 500. Overreaction ai dati sull'occupazione USA o che stia per iniziare qualcosa di serio?

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129. Che Tonfo! Cosa è successo sui Mercati a Luglio (…e due giorni di Agosto)

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Risorse

Punti Chiave

Luglio/Agosto: mercati volatili, rotazione da Big Tech a value/small cap, calo del 2 agosto per dati USA e tech.

Analisi tassi Fed (taglio vs mantenimento) e impatto aumento tassi BoJ con rischi globali di Carry Trade.

Trascrizione Episodio

Bentornati a The Bull — Il tuo podcast di finanza personale.

Primo episodio dell’anno scritto ormai in ferie!

E uno si aspetta di essere bello tranquillo e rilassato al mare o in montagna a scrivere con calma la puntata di oggi senza la solita fretta in mezzo a mille altri impegni, invece una beata cippa! Sono le 3:34 di notte (o del mattino, a secondo del vostro punto di vista) e sono davanti al computer perché il comune di Milano ha deciso di fare dio solo sa quali lavori sotto il mio palazzo nel cuore della notte, al che alle due mia figlia si è svegliata manco fosse mezzogiorno e ci ha messo un’ora e mezza a riaddormentarsi.

Quindi sappiate che la qualità di quest’episodio potrebbe risultare pregiudicata dalla scarsa lucidità che uno può avere dopo aver camminato in pigiama per Milano in piena notte sperando invano che il passeggino facesse il suo veloce miracolo.

Dettagli biografici a parte, che mi rendo conto vi interessino il giusto ma non volevo perdermi la rara opportunità di poter sfogare la mia frustrazione da deprivazione del sonno con qualche decina di migliaia di persone, siamo qua per il consueto appuntamento mensile sul recap del mese di Luglio.

Madò si è scatenato un pandemonio a Luglio! Che poi sarà Luglio più un pezzettino di Agosto perché non potremo non parlare di quel che è successo il due agosto, forse il giorno più difficile dell’anno per i mercati e per noi Europei, per motivi che vedremo dopo, tra i peggiori da non mi ricordo nemmeno quando.

Dopo che mi ero lamentato del fatto che fosse tutto incredibilmente piatto e noioso da mesi, oh, sta succedendo di tutto.

A parte due o tre fatti politici di rilevanza marginale, tipo il quasi assassinio in diretta di Trump, il clamoroso ritiro di Biden dalla corsa alla Casa Bianca, le elezioni anticipate in Francia e una sempre più minacciosa escalation della guerra in Medio Oriente tra Israele, Hamas, Hezbollah e indirettamente l’Iran, pure sui mercati non ci siamo fatti mancare niente.

Tanto per cambiare, le notizie che hanno fatto svoltare tutto sono state di natura Macroeconomica e, sempre tanto per cambiare, vengono dagli Stati Uniti.

Il primo è stato il dato sul PIL americano del secondo Trimestre. Ci si aspettava una crescita del 2,1% e invece la superdotata economia a stelle e strisce ha tirato fuori un +2,8%, che se vi sembra poco sappiate che non lo è affatto perché testimonia uno stato di forza soprattutto della capacità di spesa ancora molto sostenuta che hanno i consumatori americani.

Poi è arrivato il dato sull’inflazione. Anche qui, grande sorpresa, dopo mesi che l’inflazione stava risalendo il dato è stato inaspettatamente in calo, 3,3% su base annua invece che 3,4 come da attese.

Uno si aspetterebbe che con questo scenario da Riccioli d’oro, Goldilocks scenario come lo chiamano lì, con l’economia che corre e l’inflazione che scende, i mercati non avrebbero potuto che festeggiare alla grande.

Eh…

Insomma…

Sono successe cose strane che in parte abbiamo già raccontato.

In primis ha preso avvio una corposa rotazione all’interno dei portafogli, con molti investitori che hanno preso queste due notizie come l’occasione buona per liberarsi di un po’ delle costosissime mega realtà tech che da due anni stanno facendo praticamente una corsa in verticale, anche perché ci si sta iniziando a chiedere fino a che punto i colossali investimenti sull’Intelligenza Artificiale siano giustificabili rispetto ai benefici attesi.

Allo stesso tempo economia che va e inflazione che scende sono tipicamente un terreno fertile per le società value e soprattutto quelle a bassa capitalizzazione.

Non a caso il Russell 2000, il fratellino minore dell’S&P 500 che traccia la performance delle società a piccola capitalizzazione, è cresciuto in un mese dell’11,5%, un evento che era davvero difficile da prevedere.

Questa stock rotation, però, data l’enorme concentrazione del mercato americano nei soliti super mega colossi, ha fatto sì che il mese sulle montagne russe di una manciata di società come Tesla, Nvidia, Microsoft e Google abbia pesato fortemente sull’S&P 500 e in realtà su tutto il mercato azionario globale.

In tutto ciò, il mese di luglio si era chiuso con i fuochi d’artificio, con tutti gli indici fortemente verde e in particolare il Nasdaq che ha avuto un colpo di reni e di orgoglio facendo mercoledì 31 oltre il 2,5% di crescita.

Il motivo?

Beh ormai i futures sui titoli di stato americani, ossia i contratti derivati che scommettono sul prezzo futuro di un certo sottostante, scontano una probabilità praticamente del 100% che a settembre la Fed comincerà a tagliare i tassi d’interesse e in effetti anche Jerome Powell, nella sua tradizionale conferenza bimestrale a margine del Federal Open Market Committe, il comitato che decide la politica monetaria degli States, ha fatto capire che ora la sua preoccupazione non è più solo sull’inflazione, ma anche sulla disoccupazione.

Traduzione per i non addetti ai lavori: la Fed taglierà i tassi perché se li tiene troppo alti troppo a lungo rischia di incriccare l’economia e mandare gli Stati Uniti in recessione.

Come dicevo all’inizio è vero che questo è l’episodio dedicato alle vicende di luglio, ma non si può non dire che, prima della mezza Apocalisse del 2 Agosto, già il giorno prima c’è stato un altro bel tonfo di tutti gli indici, ancora una volta guidato dai sell-off sulle realtà tecnologiche, anche se in questo caso pure le small cap sono andate malissimo.

La ragione può essere dovuta al fatto che è stato pubblicato un report mensile a tinte grige sulla produzione manifatturiera e sulle costruzioni e gli investitori possono aver pensato: “ok, va bene che la Fed taglia, ma forse siamo arrivati tardi, adesso l’economia si scatafascia e andiamo in recessione…”.

Insomma, ora che siamo lì lì per assistere ad un pivot della Fed, ossia ad un’inversione del ciclo sui tassi che da restrittivo dovrebbe — condizionale d’obbligo — diventare espansivo sto leggendo diverse opinioni completamente contrastanti tra loro.

Naturalmente c’è chi dice che la Fed NON dovrebbe tagliare i tassi d’interesse.

Dall’altra parte c’è chi dice che la Fed avrebbe GIA’ dovuto tagliare i tassi di interesse.

Capiamo le motivazioni degli uni e degli altri.

Senza entrare nel dettaglio di chi sostiene cosa, le idee generali contro l’idea di tagliare i tassi hanno a che fare con la constatazione che l’economia americana si trovi in uno stato quasi di grazia: continua a crescere, ma non a ritmi così folli da suscitare reali timori inflazionistici, la disoccupazione al 4% è tutto sommato bassa, il dollaro è forte e l’inflazione sta scendendo. Inoltre tassi di interesse a breve del 5% sono alti se paragonati al quindicennio successivo a Lehman Brothers, ma piuttosto in linea con la media storica.

Rendimenti del 5% su strumenti supersicuri come i titoli di stato americani a breve termine sono inoltre una manna per tutti quei risparmiatori che non vogliono prendersi il rischio dell’azionario e ottenere comunque un discreto rendimento dai propri risparmi. Allo stesso modo i fondi pensione — e quelli americani sono enormi, paragonabili a dei piccoli stati — possono gestire meglio i loro enormi bilanci senza dover ricorrere ad asset eccessivamente speculativi.

Insomma, non sembra ci sia affatto un buon motivo per tagliare i tassi, se non fare un favore a Wall Street, ai ricchi che posseggono già asset finanziari e immobiliari, e in generale a tutta quella fascia di popolazione che meno ne avrebbe bisogno.

Inoltre c’è chi sostiene che i tassi tenuti artificiosamente bassi dal 2009 al 2021 abbiano fatto più danni che altro all’economia reale, incentivando modelli di business insostenibili basati sull’accesso ai prestiti praticamente a costo zero.

I tassi bassi insomma avrebbero favorito realtà già finanziariamente molto forti e in posizioni dominanti (e in effetti le Magnificent 7, tranne forse Tesla, rientrano nell’identikit) che con denaro a costo zero hanno potuto fagocitare la concorrenza e in generale si è ridotto l’incentivo all’innovazione e all’incremento della produttività.

Dopo le grandi crisi del 1929 e del 1974 erano seguiti periodi di grande innovazione e allo stesso tempo avevano imposto una sorta di pulizia darwiniana di tutte le realtà che non sono state in grado di rinnovarsi.

La forza del capitalismo americano si è spesso basata anche su questa cinica crudeltà nei confronti di realtà non sufficientemente competitive.

I più forti sopravvivono e gli altri soccombono, creando così un enorme incentivo collettivo verso la crescita e l’innovazione.

So che questa roba sembra molto strana, perché in Europa non ragioniamo così (e in Italia meno ancora, dove vige ancora una cultura assistenzialistica da prima repubblica che certamente non alimenta lo spirito d’impresa).

In Europa generalmente si tende ad avere una visione meno estrema del capitalismo, con un sistematico intervento dello Stato a tutela delle frange più deboli.

In America, invece, c’è poco da fare: si lavora di più, si fanno meno ferie, si corre di più, si sa che se non dai il 100% non c’è nessuno a salvarti — insomma — c’è una cultura enormemente più competitiva che da noi, con tutti i pro e i contro che comporta.

C’è tutto un filone di teorie, che risalgono forse al filosofo e sociologo dell’800 Max Weber che per primo, nella sua opera Etica Protestante e Sviluppo del Capitalismo, sostenne che la religione protestante avesse contribuito a far nascere il capitalismo nei paesi in cui era maggiormente diffuso, come Regno Unito e Stati Uniti, mentre invece i paesi cattolici, in particolare del Sud Europa, ci sarebbero arrivato più tardi.

Senza entrare nel dettaglio per evitare di scassare le palle a tutti, diciamo solo che la religione protestante, rispetto al cattolicesimo, ha una visione fortemente orientata a spingere l’uomo all’impresa, all’impegno individuale e in qualche modo all’autosalvezza. Invece il cattolicesimo è più orientato su tematiche di Provvidenza, in qualche modo mettendo il baricentro di ciò che determina la nostra fortuna e il nostro successo sulla divina provvidenza invece che sull’iniziativa del singolo.

C’è anche un simpatico aneddoto linguistico che lessi anni fa nel libro The Signal and The Noise di Nate Silver, un tizio famoso negli Stati Uniti per aver spesso previsto con grande precisione l’esito delle elezioni presidenziali grazie a metodi di analisi quantitativa che aveva appreso dal baseball.

Bel libro, ve lo consiglio.

Comunque Silver dice che la parola previsione in inglese si dice in due modi: prevision e forecast.

Ma mentre prevision, che è chiaramente di origine latina, porta etimologicamente con sé l’idea tutta cattolica della prov-videnza, ossia che la previsione sia in qualche modo anticipazione di ciò che Dio farà accadere nel futuro, forecast deriva dal ceppo linguistio germanico e significa qualcosa del tipo: contribuire attivamente affinché nel futuro accadano determinate cose.

Detta in termini un po’ estremi e semiseri, gli Europei cattolici farebbero previsioni e starebbero ad aspettare che si realizzino.

Gli anglosassoni protestanti, invece, farebbero previsioni e ci si metterebbero d’impegno per realizzarle.

I pro della visione capitalistica americana, derivante o no dal Protestantesimo, sono ovviamente legati alla maggiore generazione di ricchezza in aggregato. Ho letto la settimana scorsa un report dove si faceva vedere che la ricchezza media, a parità di potere di acquisto, negli Stati più poveri degli Stati Uniti è superiore a quella di stati considerati ricchi come la Germania.

Gli Americani sono ricchi, tanto ricchi.

Altro pro è legato alla competitività della loro economia in praticamente tutti i settori innovativi o in generale dove è richiesto un forte contributo intellettuale. Mentre gli Stati Uniti non sono esattamente una potenza industriale, dato che da vent’anni hanno spostato tutta la loro manifattura in Cina e giù di là, sono il leader indiscusso in tutto ciò che è tecnologia, software, nell’industria farmaceutica, nella produzione intellettuale (si pensi al cinema, alla musica e ad altre forme di intrattenimento), così come nella creazione di brand iconici globali, dalla Coca a McDonalds alla Nike — insomma: l’elenco degli ambiti dove gli americani sono i numeri uno è illimitato.

Questo però non è senza costi ovviamente.

In America vince sempre di più il modello “the winner takes all”, il vincitore prende tutto e chi resta indietro, qui sì possa Dio aver pietà di lui.

È una grande nazione dove vivere se si appartiene alla middle-upper class, mentre rischia di essere un inferno se appartieni alla fascia più debole della popolazione.

È un paese che permette ad immigrati indiani di diventare CEO delle sue più grandi aziende, in questi termini è davvero la più grande terra di opportunità al mondo; ma è anche un paese che notoriamente lascia morire le persone fuori dagli ospedali se non possono permettersi l’assicurazione sanitaria.

Pro e contro, come in tutte le cose.

Tornando ai tassi bassi, il quantitative easing degli anni passati avrebbe un po’ distorto questo modello, agevolando soprattutto il settore finanziario e paradossalmente limitando la spinta all’innovazione che invece il denaro facile avrebbe dovuto accentuare.

Pensate a quante realtà bruciasoldi sono nate negli ultimi anni, molto spesso realtà digitali, e-commerce o in altri settori, sorrette da miliardi di finanziamenti da società di venture capital, private equity e altri soggetti finanziari e che non hanno mai generato un dollaro di utile.

In un contesto a tassi più alti non sarebbero mai nate o ci sarebbe stata un maggiore competizione che forse avrebbe fatto sopravvivere solo quelle davvero solide, mentre invece così non è stato.

In sintesi: abbassare i tassi ora vorrebbe dire creare ulteriori squilibri a favore dei già ricchi e potenti a discapito dei meccanismi competitivi alla base di quella straordinaria fabbrica di ricchezza che è l’economia americana.

Vera o giusta che sia questa tesi, così è.

Dall’altra parte abbiamo invece chi dice: “attenzione, forse la Fed ha già aspettato troppo” e l’economia sta già dirigendosi verso una recessione.

Tra l’altro non avendo iniziato a tagliare i tassi a luglio, il rischio è che a Settembre sia necessario un taglio significativo e che il processo di alleggerimento dei tassi possa diventare brusco, cosa che al mercato e all’economia in generale non piace tantissimo.

Nella notte tra l’1 e il 2 di agosto, ultimo giorno di borsa prima dell’uscita dell’episodio, le cose mi sembrano abbiano cominciato a deporre verso questa seconda tesi, a partire dai dati deludenti arrivati dai conti delle Big Tech, soprattutto di Amazon e Apple, che continua a vendere meno iPhone, soprattutto in Cina.

Altre notizie sono state ancora più brusche, come la comunicazione del gigante dei chip Intel che, dopo un secondo trimestre in perdita, ha annunciato migliaia di licenziamenti e addirittura la sospensione del pagamento dei dividendi, andando a perdere il 27% il giorno dopo giorno.

E quel giorno, appunto, è stato il 2 agosto, che ci ricorderemo per un pezzo.

Era il primo venerdì del mese, quindi consueto report sui nuovi posti di lavoro non agricoli negli Stati Uniti alle 14:30 ora italiana.

I nuovi posti di lavoro creati a Luglio sono stati solo 114 mila contro i 180 mila attesi. È già questa non è stata una buona notizia.

Come se non bastasse, si è aggiunto il problema che la disoccupazione è salita dal 4,1 al 4,3%.

È sempre un valore piuttosto basso, ma ci si aspettava che la disoccupazione rimanesse stabile, invece il fatto che sia salita ha solo confermate le preoccupazioni su una possibile recessione in arrivo.

Negli Stati Uniti è piuttosto celebre la cosiddetta Sahm Rule, la regola di Sahm, dal nome dell’economista Claudia Sahm, secondo la quale quando la disoccupazione, in un trimestre, aumenta di almeno lo 0,5% rispetto al trimestre precedente, allora questo segna l’inizio di una recessione economica.

Animati da tutte queste belle notizie, mercati giù a picco come non si vedeva da un pezzo in maniera così fragorosa e, finalmente come da manuale, rally delle obbligazioni che hanno iniziato a scontare tagli più corposi ai tassi di interesse nei prossimi mesi.

Insomma, sembra che la Fed si possa pentire di non aver tagliato di uno 0,25% i tassi di interesse e a Luglio e trovarsi poi costretta a tagliare di uno 0,50% a Settembre, probabilità che dopo il report sui posti di lavoro viene prezzata al 70% dai futures sui fed funds.

La giornata è stata veramente nera.

S&P giù dell’1,8% e a tratti era andato anche molto più giù.

Nasdaq giù del 2,5% e ingresso ufficiale nel territorio di correzione, ossia -10% rispetto al suo picco registrato il 10 di luglio.

Tra l’altro per noi Europei è andata molto peggio perché il crollo dell’azionario ha contemporaneamente innescando una risalita dei bond. E i prezzi dei bond sono saliti esattamente perché hanno cominciato a scontare più tagli da parte della Fed. E se la Fed taglia i tassi, il dollaro si indebolisce rispetto all’Euro (e meno che anche qui da noi non si decida di tagliare ancora). In pratica quel -1,8% sull’S&P per noi è stato un -3% secco secco.

Sarà molto interessante nelle prossime settimane seguire quindi questo duplice versante: quello dell’andamento dell’azionario e quello del cambio euro-dollaro.

Insomma cari miei: se il buongiorno si vede dal mattino, allacciate le cinture di sicurezza che si prospetta una seconda parte d’estate con i mercati in fibrillazione!

Lo so che molti di voi saranno incazzati come iene perché magari hanno iniziato ad investire da poco e ora è tutto rosso.

Keep calm, questo è investire.

Si va su piano piano piano e poi ogni tanto si va giù di brutto.

È un po’ come l’esperienza delle montagne russe.

In pratica i bull market sono la lenta, lunga e noiosissima fila che vi fate per un’ora per accedere alla giostra, soprattutto se frequentate posti come Gardaland nei weekend di questa stagione, poi come con il picco del mercato c’è la vertiginosa salita del trenino fino al punto più alto della rotaia, per finire infine con un minuto scarso di rapida discesa e giri della morte in cui vi cagate sotto e il tempo sembra non passa mai, per poi sentirvi sollevati quando arrivate vivi a fine corsa.

Investire è così.

Se vi piace bene.

Altrimenti, beh, investite in Titoli di Stato e fate come quelli che a Gardaland stanno giù a curare gli zaini di chi non ha paura a salire sulle giostre.

Lasciamo però Prezzemolo e torniamo ai mercati.

Perché non c’è solo il macello di cui stiamo parlando e di cui iniziamo a intravedere le fosche tinte delle prossime settimane.

C’è anche un’altra minaccia all’orizzonte, che per una volta non riguarda direttamente gli Stati Uniti, anche se indirettamente sì.

Questa è un po’ più complicata da capire e riguarda il Giappone.

In pratica la questione è che la Bank of Japan ha finalmente preso la decisione di alzare di o,25% i tassi di interesse.

Come sapete il Giappone era stato l’unico grande Paese a continuare con la politica di tassi addirittura negativi fino a pochi mesi fa.

Questo aveva causato un ulteriore deprezzamento dello Yen, sceso addirittura a un rapporto di 1 a oltre 160 con il dollaro.

Uno Yen così debole ha favorito nettamente le esportazioni giapponesi e di questo ha beneficiato il suo mercato azionario che in effetti ha corso anche più dell’S&P 500 negli ultimi 2 anni.

Con il rialzo dei tassi abbiamo però una serie di potenziali problemi.

Intanto, giusto per gradire, sempre il 2 agosto il Nikkei ha segnato la sua seconda peggiore seduta della storia, con un bel -5,8% in un giorno solo.

Cazzo mi sono svegliato al mattino — e quando mi sveglio io la borsa di Tokyo è ancora aperta — e ho visto sto tracollo. Ho pensato che ci fosse qualche errore e invece no! Stava venendo giù tutto che ancora un po’ ho temuto un dilagare di harakiri.

Eh va beh uno può dire sticazzi il Giappone.

E vero che il Giappone è il secondo paese più grande nell’MSCI World, ma stiamo sempre parlando di un 6% circa. -5,8% su una cosa che pesa il 6% alla fine fa -0,35% nell’indice globale.

E sticazzi no invece, ma proprio per niente.

Perché lo Yen è fottutamente importanti negli equilibri finanziari globali.

E ci sono due temi che lo legano pericolosamente agli Stati Uniti.

Intanto c’è la questione che i Giapponesi hanno strainvestito in Titoli di Stato Americani visto che i loro, con i tassi negativi fino all’altro ieri, non rendevano niente.

Se i titoli di stato giapponesi cominciano ad apprezzarsi e i giapponesi vendono i loro treasuries per comprarsi i titoli locali, eh, rischia di diventare un cazzo di problema che può destabilizzare il già precario bilancio del governo americano, che potrebbe vedere il rendimento del suo titolo di stato salire.

E questo è il primo problema.

Non magari proprio di oggi, ma di domani sì, soprattutto se la Bank of Japan comincia ad alzare i tassi proprio mentre la Fed comincia a tagliarli.

L’altro tema, più sottile, riguarda un altro fatto legato ad una strategia di investimento nota come Carry Trade.

Per farla breve, Carry Trade significa prendere in prestito soldi in una valuta con bassi tassi d’interesse e investire in titoli di stato denominati in un’altra valuta con alti tassi d’interesse.

L’accoppiata perfetta negli ultimi anni è stata Yen/Dollaro, perché a causa della divergenza tra le due politiche monetarie, è stato possibile indebitarsi in Yen e investire in Treasuries, guadagnando così dal differenziale tra il basso costo d’indebitamento in yen e il rendimento superiore dei titoli di stato americani.

Se si crea un veloce disaccoppiamento, con il dollaro che si indebolisce e lo yen che si rafforza, si potrebbe creare un effetto a catena sui mercati dovuto alle perdite derivanti dalle posizioni in carry trade che devono essere chiuse.

Va beh, se non si è capito una mazza fa niente, avremo modo di tornarci.

Il punto da capire è: quel che succede in Giappone, come l’effetto farfalla della teoria del caos, può riverberarsi direttamente sui mercati occidentali.

Tornando al nostro amato S&P 500, invece, abbiamo parlato a lungo, negli ultimi mesi, del tema della concentrazione del mercato in poche realtà tech, delle prospettive di medio termine dell’azionario rispetto ad altre asset class e del possibile ruolo di diversificatore che alcuni fattori, come value e small cap, possono avere nel portafoglio per cercare di attenuare i rischi — veri o presunti che siano — di un portafoglio market cap weighted che, come tale, è inesorabilmente dipendente dalle sorti di quel pugno di società dalle parti della Silicon Valley californiana.

A parte Tesla, naturalmente, che da bravo cowboy neorepubblicano convinto Elon Mask ha da tempo spostato in Texas.

Ne abbiamo parlato a lungo e ovviamente non abbiamo mai dato una risposta compiuta.

Però, insomma, prima o poi questa situazione di iperconcentrazione del mercato con poche mega realtà che dominano finirà.

Non so se quel che è successo negli ultimi giorni sia l’inizio di qualcosa o solo una overreaction a dati un po’ più brutti sul mercato del lavoro, ma indipendentemente da quel che succederà nel breve è molto probabile che nel lungo le cose non possano rimanere così per sempre.

Bridgewater, il più grande hedge fund del mondo creato da Ray Dalio, ha fatto uscire un bel paper qualche settimana fa in cui si sono messi ad analizzare il ciclo di vita dei big winner del mercato.

Oggi abbiamo le magnifiche 6 della tecnologia informatica, del digitale, della comunicazione e ovviamente dell’intelligenza artificiale, ossia Apple, che nel frattempo è tornata ad essere la società più capitalizzata del mondo, Microsoft, Nvidia, Google, Amazon e Meta.

E raramente abbiamo avuto le prime 10 società, ossia queste più Tesla, Berkshire Hathaway, Broadcom e Eli Lilly pesare per un terzo di tutto l’S&P 500.

Ma in passato abbiamo già assistito a cose simili.

All’inizio del ‘900 ci furono le società ferroviarie, quando il trasporto su treno sembrava la più grande evoluzione di tutti i tempi.

E in effetti forse lo era, finché non sono arrivati camion e aerei.

Poi c’è stata l’epoca delle grandi realtà chimiche fino agli anni ’60, soprattutto quando la plastica divenne onnipresente nei nostri prodotti. Ma negli anni la manifattura si è spostata in realtà a basso costo e le prime economie del mondo sono diventate soprattutto società di servizi.

Nello stesso periodo erano anche i 3 grandi produttori americani di Auto a dominare, Ford, General Motors e Chrysler, finché la saturazione del mercato e la competizione internazionale hanno ridimensionato un settore che è in eterna sofferenza.

Discorso analogo per le società petrolifere, che hanno avuto il loro lungo periodo di gloria fino ad una ventina d’anni fa, quando soprattutto negli Stati Uniti hanno cominciato a farsi largo trend legati alla transizione energetica e, soprattutto, la pratica del fracking, ossia una tecnica per estrarre il cosiddetto Shale gas dalle rocce.

E poi nel 2000 a dominare erano le realtà legate all’infrastruttura di rete per le nascenti telefonia mobile e internet. Allora le regine del mercato erano AT&T, NTT, Cisco, Vodafone e Deutsche Telekom. Oggi tutte queste realtà esistono ancora, ma sono l’ombra dei colossi che erano 24 anni fa.

Oggi il dominio delle Mag 6 o 7 che dir si voglia sembra indiscutibile, ma il risultato più interessante del paper è che nell’arco di uno o due decenni, circa metà delle 10 più grandi realtà del mercato di ogni epoca finisce per sottoperformare e finire fuori dal gruppo dei market champions. Lungo periodi superiori a 20 anni, praticamente nessuna società resta nel gruppo delle prime 15.

Nonostante i tracolli di questi giorni, questi mega colossi continuano a sembrare destinati a dominare in eterno.

Eppure questo studio mostra chiaramente come probabilmente tra dieci anni, precisamente nell’episodio 635 di The Bull, parleremo delle prime 10 società dell’S&P 500 e almeno metà di queste non le troveremo più.

Bene, come di consueto vediamo come sono andati i vari indici nell’ultimo mese e per ovvi motivi consideriamo il periodo che termina il 2 agosto, non il 31 luglio, perché i sarebbero nettamente differenti,

Dunque:

MSCI World = -4,91%, che porta il risultato da inizio anno a +10,3%.

S&P 500 = -4,11%, +14,72% da gennaio ad oggi.

Vale la pena citare anche il Nasdaq 100 = praticamente -10% e +10,6% da inizio anno.

STOXX 600 = -2,4%, +6,28% da inizio anno.

EUROSTOXX 50 = -5,35%, decisamente male male per le realtà del vecchio continente prezzate in Euro, e questo mese nefasto porta il risultato da inizio anno a +5,25%. Qui hanno pesato tanto il -25% di ASML Holding, colosso olandese che produce macchinari strategici per la produzione di chip e il -12% di LVMH, colosso del lusso che, come tutto il settore, sta soffrendo in particolare la contrazione in Cina, principale mercato per le borse e le scarpe di Louis Vuitton, Dior e di tutti gli altri centinaia di brand che fanno capo al gruppo di Bernoit Arnoult.

Andiamo in estremo oriente e lì, come detto, il Giappone si è preso la scoppola più forte.

MSCI JAPAN = addirittura -8,5% in un mese, che porta il risultato dell’anno ad un misero +1,6%

Concludiamo come di consueto la carrellata sull’azionario con i mercati emergenti, che hanno fatto quasi -4% a luglio + i due nefasti primi giorni di agosto e quasi +6% da inizio anno.

Passiamo al fronte obbligazionario.

Questo mese è interessante perché le obbligazioni, dopo tanti anni, hanno fatto quello che dalle obbligazioni uno si aspetterebbe.

Ossia: mercati azionari che vanno giù per timori di recessioni e obbligazioni che vanno su. E come sempre vi ricordo che le obbligazioni vanno su perché i rendimenti vanno giù.

L’indice Bloomberg Euro Aggregate Treasury, quindi titoli di stato dell’eurozona, ha fatto +3,15% a luglio, portandosi finalmente in positivo di circa un 1% da inizio anno.

Sulle scadenze più lunghe, come il Bloomberg Euro Government Bond 15-30, +6,19% a luglio e praticamente break-even da inizio anno.

Le obbligazioni lunghe, come la teoria prescrive, sono quelle più efficaci per contrastare i crolli azionari alimentati da timori recessivi perché più sensibili alle future variazioni dei tassi.

Infine il Treasury a 10 anni ha visto i suoi rendimenti crollare al 3,79% e se parliamo di ETF in Euro, +3,33% a luglio e +4,5% da inizio anno.

Ultimo, la star indiscussa del 2024, l’Oro = +3,69% in un mese che fa +20% da inizio anno.

Insomma, dopo 7 mesi pazzeschi, con l’intervallo di Aprile che pure era stato tosto ma forse in maniera meno roboante, prima notevole sberla sui denti dall’estate scorsa.

L’estate è storicamente un periodo negativo per le borse.

Si sa e a volte c’è anche una componente di profezia che si autoavvera. Se tutti pensano che agosto — e di solito soprattutto settembre — rappresenti un periodo negativo, è più facile assistere ad un’ondata di vendite.

I motivi del sell-off sono chiari ed evidenti in questo caso, non c’è stata una reazione strettamente emotiva.

Però può essere che venga amplificata nell prossime settimane anche da questo trend storico.

Oh mi raccomando!

State sereni! Mi avete già in scritto in duecento per chiedermi cosa è successo.

È successo quello che è successo, ma ricordatevi sempre che i tracolli dei mercati — e questo non è nemmeno stato un tracollo — capitano di continuo.

L’S&P 500 fa un -10% ogni 18 mesi in media.

Un bear market, quindi almeno -20%, circa ogni 4/5 anni.

E poi ogni qualche decennio c’è un tonfo peggiore.

Però a sti crolli fateci l’abitudine, anzi! Superato il nervosismo del momento, ricordatevi sempre che se state investendo attraverso un piano di accumulo VOLETE che succedano queste cose. VOLETE che il mercato abbia dei tonfi. VOLETE comprare ogni tanto a prezzi scontati.

Finché continuate a contribuire al vostro portafoglio con il vostro risparmio, ben venga che il mercato tiri un po’ il fiato e corregga verso il basso.

Quando ci sono i crolli è un problema caso mai per chi ha un portafoglio con il quale vive di rendita. Non è invece un grosso problema per chi è nella fase di accumulazione.

Al contrario, come vi ho detto altre volte, se avete appena iniziato ad investire SPERATE che il prossimo decennio sia nefasto e che invece quello successivo sia esuberante, anziché il contrario.

So che il nostro cervello ragiona in un altro modo e dà priorità soprattutto alle cose che succedono prima.

Ma razionalmente dovete capire che se oggi le cose si mettono male davvero, ottimo!, vuole dire che il grosso del vostro patrimonio andrete ad investirlo a prezzi sempre più bassi invece che più alti e quindi il famoso rischio di sequenza dei rendimenti giocherà a vostro favore.

Quindi keep calm, buoni investimenti e buone ferie!

E se possibile cercate di non guardare i mercati ogni giorno e ricordatevi solo di ascoltare The Bull ogni mercoledì e domenica, che qua non si va MAI in ferie.

E dato che non vado mai in ferie, vi chiedo gentilmente di mettere segui e attivare le notifiche su Spotify, Apple Podcast o dove ci ascoltate e lasciare una recensione a 5 stelle per supportarci e permetterci di continuare a produrre contenuti che vi fanno i recap del mese di luglio che però è anche un po’ e soprattutto agosto e che tra protestanti e cattolici alla fine vi spiegano che il senso ultimo dell’investimento è farsi un giro sul Raptor di Gardaland sempre nuovi.

Per questo episodio invece è davvero tutto e ci si vede mercoledì prossimo con una grandissima ospite, tra i massimi esperti in Italia di investimenti nel settore dell’Arte sempre qui naturalmente con The Bull il tuo podcast di finanza personale.

Recensioni

Quando capisci come funziona la finanza… ti viene voglia di raccontarla!

Non sono solito a mettere recensioni e specialmente non ascolto podcast, ma da quando ho iniziato questo, faccio fatica a staccarmi, e quasi non posso più fare a meno di ascoltare e arricchirmi culturalmente.

Andrea V., 22 Set 2025

Dovrebbero ascoltarlo buona parte degli italiani e io avrei dovuto scoprirlo con qualche anno in anticipo ma meglio tardi che mai

Matteo C., 3 Set 2025

Veramente interessante, chiaro e conciso. Cambia la vita finanziaria di chiunque.. da ascoltare assolutamente anche per chi di finanza non vuole occuparsi mai

Francesca B., 6 Apr 2024

Ho acquistato e letto il suo libro e l' ho trovato. Esprime i concetti economici in modo semplice e chiaro. Sentirlo parlare conferma che è un professionista del settore.

Giulia N., 11 Ago 2025

Da quando l'ho scoperto in 15 gg mi sono ascoltato 150 puntate senza fermarmi, ho annullato gli altri podcast per portarmi alla pari ed ascoltare tutte le precedenti puntate, ben fatto, esattamente il livello di informazione che mi serviva

Gianluca G., 11 Set 2025

Riccardo mi ha letteralmente cambiato la vita e fatto scoprire che amo la finanza, ho ascoltato il podcast già due volte e non mi stufo mai di ascoltarlo, parla in modo semplice e chiaro

Massimo D., 23 Set 2025

Veramente veramente raccomandato! la finanza personale riassunta alla perfezione! e spiegata partendo dall'ABC! Ottimo anche da ascoltare a velocita 1,5x!

Giorgia R., 23 Gen 2025

Podcast che dà sempre spunti interessanti che personalmente mi ha fatto appassionare alla finanza personale spingendomi ad approfondire in prima persona.

Lorenzo, 13 Mar 2025

Podcast piacevole, scorre veloce ma in modo estremamente chiaro, spiega i concetti chiave per gestire le proprie finanze, fornendo la classica cassetta degli attrezzi. Complimenti, davvero ben fatto!

Massimiliano, 29 Mag 2024
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