I Rendimenti attesi dei prossimi 10 anni
Quali sono i rendimenti attesi dei prossimi 10 anni delle principali asset class? Quali fattori e macrotrend potrebbero condizionare l'andamento dei portafogli? In questo episodio confrontiamo le stime di 9 Big di Wall Street sul prossimo decennio.

136. I Rendimenti attesi dei prossimi 10 anni
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Punti Chiave
Le previsioni indicano rendimenti attesi inferiori per l'azionario USA e maggiori opportunità in mercati sviluppati ex-USA ed emergenti, con un dollaro in indebolimento che impatta gli investitori in Euro.
La fine dei tassi a zero riabilita i bond e le materie prime, che tornano ad essere componenti chiave in portafogli diversificati, nonostante la fallibilità storica delle previsioni.
Trascrizione Episodio
Bentornati a The Bull, il tuo podcast di finanza personale.
Per essere The Bull un podcast che spende metà del suo tempo a dire che in finanza le previsioni sono efficaci come cercare un parrucchiere di lunedì mattina, un bell’episodio sui rendimenti attesi a 10 anni delle principali asset class, beh che dire?, sembra veramente che abbia battuto la testa.
E invece niente affatto!
Perché oggi facciamo quest’episodio?
Lo facciamo perché dopo 135 episodi in cui abbiamo fatto backtest su ogni portafoglio possibile e immaginabile e dopo aver sviscerato decine di opzioni di asset allocation, ho sentito il bisogno di provare a gettare uno sguardo sul futuro, almeno per cercare di capire insieme se ci siano delle tendenze generali di lungo termine che quelli bravi che lavorano a Wall Street hanno identificato.
Ora, è chiaro che i numeri che daremo oggi sono buoni forse per il Superenalotto, mentre dal punto di vista predittivo lasciano il tempo che trovano, però ci sono comunque dei buoni motivi per fare qualche valutazione e individuare degli insights che possano essere utili per prendere decisioni informate sui nostri portafogli.
Informate non vuole dire “giuste”.
Vuol dire che non mettiamo i soldi a cazzo in questo o quell’asset, ma lo facciamo perché ci siamo fatti prima un’idea supportata dai dati, che almeno limiterà i nostri rimpianti se qualcosa non dovesse andare nel modo che avevamo auspicato.
Allora, in pratica cosa ho fatto?
Ho preso una serie di report usciti tra la fine del 2023 e inizio del 2024 sui Long Term Capital Market Assumptions delle più importanti società di Wall Street.
Queste “assumptions” sono le ipotesi di lungo termine, generalmente 10 anni, che queste società formulano per dichiarare la loro vision sul decennio successivo a supporto della strategia che implementeranno nei portafogli dei loro clienti.
Non potendo star qua a parlare di ogni singolo report, ho preso come campione i dati di 10 società particolarmente rappresentative.
– 4 emittenti di ETF, ossia Vanguard, Blackrock, Amundi e Invesco
– 3 banche con orientamento verso i prodotti di investimento, come JP Morgan, Morgan Stanley e Deutsche Bank
– 1 assicurazione, anch’essa con una divisione di asset management piuttosto rilevante, come Allianz e infine
– 1 dei più celebri e stimati hedge fund negli Stati Uniti, AQR.
Prese queste 10, ho messo insieme le loro “assumptions” sulle seguenti asset class:
– Azionario Americano
– Azionario dei paesi sviluppati, Stati Uniti esclusi (quindi tipicamente l’indice MSCI EAFE);
– Azionario dei paesi emergenti
– Treasury a scadenza intermedia
– Bond governativi globali a scadenza intermedia
– Oro e
– Materie prime
L’obiettivo era vedere in maniera sintetica il punto di vista di queste società e provare a formulare delle considerazioni di carattere generale.
Starà poi a voi valutare se trarne implicazioni per il vostro portafoglio oppure sbattervene e continuare per la vostra strada come se questo episodio non fosse mai esistito.
Prima di vederle, però, partiamo da una nota metodologica.
Nella stragrande maggioranza dei casi i dati sono espressi dal punto di vista di un investitore in dollari.
Questa cosa, come vedremo, non è un dettaglio da poco perché il rendimento atteso dei prossimi 10 anni sembrerebbe nettamente più favorevole per un investitore americano che per un europeo.
Dato che alcune di queste società fornivano anche i dati per un investitore in Euro, come JPM e BR, proveremo anche a stimare il rendimento atteso PER NOI.
Tutti i dati che daremo, invece, fanno riferimento al rendimento in dollari delle varie asset class.
Oltre a vedere i dati delle singole asset class, proveremo anche a tirare qualche stima per diversi modelli di portafoglio.
Adesso parliamo dei singoli valori, che saranno la parte più succulenta dell’episodio, però facciamo prima qualche considerazione di carattere generale sui macrotemi su cui sembra siano più o meno tutti d’accordo sull’andamento dei mercati dei prossimi anni.
Certo, stando alle informazioni attuali.
Poi come sempre basta poco perché tutto questo scenario si ribalti e già ogni quarter queste assumptions potrebbero cambiare significativamente.
PRIMO MACROTEMA: l’azionario americano, il dominatore indiscusso dei mercati degli ultimi 15 anni, prospetta dei rendimenti molto più bassi per il decennio a venire.
Sul rendimento effettivo ci sono pareri piuttosto discordanti, perché andiamo da una previsione di 4,2% all’anno in media per Vanguard a 7% per JP Morgan e Invesco e sappiamo bene che 3 punti percentuali all’anno per 10 anni sono un abisso.
Per in entrambi i casi siamo lontani o lontanissimi dal 10% di media storica dell’S&P 500 per non parlare del quasi 14% all’anno fatto dall’S&P dal 2009 ad oggi.
E già dicendo questo abbiamo buona parte della risposta.
I motivi fondamentali per cui ci si aspetta un rendimento sottotono per i prossimi anni per l’S&P 500 derivano da 3 dati:
– Il primo chiaramente è lo Shiller CAPE ratio, il rapporto medio tra prezzi e utili delle società americane degli ultimi 10 anni aggiustato per inflazione, che oggi è intorno ad un valore di 35.
35 significa che solo altre due volte nella storia è stato superiore: nel 2000, poco prima dello scoppio della bolla di internet, e nel 2021, all’apice della corsa frenetica post Covid.
Se guardiamo la deviazione standard, 35 significa essere nel 95esimo percentile, quindi quasi 2 deviazioni standard dalla media storica.
Anche se c’è da dire che questo valore è stato molto molto basso fino a prima degli anni 90 (intorno a 14), per poi attestarsi su una media di 26 negli ultimi 30 anni.
Rispetto a 14, 35 fa paura; rispetto a 26 ok è molto alto, ma non così spaventosamente alto.
Ad ogni modo, secondo il modello di Shiller preso alla buona, statisticamente il rendimento atteso a 10 anni partendo da un valore di 35 è inferiore al 5% all’anno.
– Il secondo dato è il forward price to earning ratio, ossia il rapporto tra prezzi e utili attesi dei prossimi anni. Ad un livello attuale intorno a 21, ossia in media i prezzi delle azioni dell’S&P 500 costano 21 volte gli utili per azione, siamo nettamente sopra la media storica che è intorno a 16,5. Per trovare un valore così alto, esclusa la parentesi del post covid e della grande crisi finanziaria del 2008, in cui il valore è schizzato alle stelle non tanto perché le valutazioni fossero alte, quanto piuttosto per il fatto che gli utili si erano letteralmente polverizzati, bisogna tornare indietro ai primi 2000. All’alba della bolla di internet, questo valore era arrivato a 24 o giù di lì.
Anche qui, vale la correlazione inversa.
Alto rapporto tra prezzi e utili attesi UGUALE rendimenti futuri inferiori.
E’ abbastanza logico. È come se compro una casa con l’obiettivo di metterla in affitto o di rivenderla. Più alto è il mio prezzo di acquisto, minore sarà il mio rendimento derivante dall’affitto o dalla rivendita.
– Il terzo dato deriva dal cosiddetto Fed Model, elaborato dell’economista Ed Yardeni alla fine degli anni ’90. In pratica si prende l’earning yield, che come ricorderete è l’inverso del price/earning ratio, cioè invece che fare prezzi diviso utili si fa utili diviso prezzi, e gli si sottrae il rendimento dei titoli di stato a dieci anni. Maggiore è il risultato, maggiore è il rendimento atteso dei prossimi anni perché maggiore sarà il “premio al rischio” derivante dall’investire in azioni invece che in obbligazioni.
Se oggi il forward price to earning ratio è 21, l’earning yield è 1 diviso 21, che fa 0,048 ossia 4,7%. Dato che al momento in cui stiamo parlando il rendimento dei Treasury a 10 anni è 3,8%, 4,8 — 3,8 fa 1%, ossia un premio al rischio piuttosto risicato.
Giusto per dare dei riferimenti.
Nel 2011, con i tassi della Fed praticamente a zero e le valutazioni dell’S&P molto basse mentre ci si stava ancora leccando le ferite dopo la crisi del 2008, questo valore era arrivato a 7, quindi investire in azioni aveva un premio al rischio di 7 punti percentuali in più rispetto ai treasury.
All’estremo opposto, invece, abbiamo il valore di -2,5 nel 2000, ossia allora investire in Treasury sarebbe stato paradossalmente più profittevole che investire in azioni (e infatti con il senno di poi questa previsione sarebbe stata perfettamente corretta).
Oggi ci troviamo quindi ben sotto la media, intorno a 3. Non agli eccessi del 2000, dato che comunque investire in azioni sembra ancora più profittevole che investire in bond, ma il margine è molto risicato.
Certo, benché questi tre dati, soprattutto il CAPE ratio, siano stati in grado di anticipare l’85% delle volte i risultati dei 10 anni futuri, perlomeno negli ultimi 40 anni, hanno dei limiti.
Intanto il forward price to earning ratio e il Fed Model si basano sulle stime degli utili dei 12 mesi futuri e tutto ciò che è una stima degli analisti finanziari va preso con le pinze.
Il fed model, tra l’altro, avrebbe preso una cantonata clamorosa nel 2007 quando, con valutazioni azionarie e tassi di interesse che erano scesi per l’inizio della crisi immobiliare, avrebbe dato un valore di 6 nonostante quello si sarebbe poi rivelato uno dei momenti peggiori della storia per compare azioni e vendere bond, vista l’apocalisse finanziaria successa dopo.
Il CAPE ratio è più oggettivo ed efficace.
Tuttavia racconta molto bene i fatti del passato mentre ad oggi non sappiamo molto di come è cambiato il mercato negli ultimi anni e quindi è tutto da capire quanto le medie del passato valgano per il futuro.
Mi spiego.
Il CAPE ratio fornisce una stima dei rendimenti a 10 anni, perché in passato ha dimostrato che c’è un’alta correlazione tra il suo valore e il rendimento dell’S&P nei dieci anni successivi.
Questo però significa che l’ultimo dato buono per questa statistica ce l’abbiamo nel 2014, visto che siamo nel 2024.
Non sappiamo ancora se il valore del CAPE ratio dal 2015 in poi avrà stimato correttamente il rendimento dell’S&P dei 10 anni a venire, dato che da allora 10 anni non sono ancora passati.
E nel 2014 il CAPE ratio era a 26.
26 vuol dire che il rendimento atteso dal 2015 al 2024 sarebbe stato tra il 4 e il 6% all’anno.
In questi 10 anni invece l’S&P ha fatto il 13%. Ossia ha battuto le stime del doppio o del triplo, a seconda di quanto si era stati pessimisti al tempo.
Questo non significa che il CAPE ratio non funziona più.
Come ha scritto il mio adorato James Mackintosh del Wall Street Journal, perché il CAPE ratio torni ai suoi valori medi servirebbe “the mother of all crashes”, la madre di tutti i crolli.
Non che non possa avvenire, ma più verosimilmente le valutazioni azionarie nell’ultimo decennio sono salite anche per la combinazione di due fattori: la politica di tassi a zero durata quasi 15 anni che per cui è nato l’acronimo TINA, ossia there is no alternative, non ci sono alternative a comprare azioni perché i titoli di stato rendono ZERO; e poi l’esplosione degli ETF che sicuramente ha reso molto più semplice ed economico comprare azioni, cosa che in qualche modo ha sospinto verso l’alto le valutazioni azionarie. E quest’ultimo punto è spesso preso in considerazione da chi sostiene che gli ETF creino bolle, anche se tra la premessa e la conclusione ce ne passa. Ma questo sarà l’oggetto di un altro episodio.
Quindi dicevamo, le valutazioni sono salite molto e difficilmente torneremo in un mondo in cui i prezzi delle azioni dell’S&P saranno in media 15 volte gli utili.
Ormai è diventata prassi che le valutazioni azionari americane si siano posizionate su un livello decisamente superiore.
Insomma, dall’anomalia si è gradualmente passati ad una nuova “normalità”.
Forse.
In attesa della prossima madre di tutte le crisi che ci smentisca.
In realtà ci sarebbe anche un’altra ipotesi che ho sempre fissa in testa. Andrebbe verificata numericamente, ma inizio ad esporvi la logica.
Come sappiamo il total return derivante dall’investimento in un indice come l’S&P 500 è composto dalla somma tra rendimento da dividendo, crescita degli utili e variazione nel rapporto prezzi e utili.
Detta più semplicemente, da una parte abbiamo il dividendo distribuito agli azionisti (ed eventualmente reinvestito), dall’altra la crescita del prezzo dell’azione, che in qualche modo deve essere legata all’attesa sugli utili futuri.
Nel corso dei decenni, tuttavia, il dividend yield si è nettamente ridotto. Negli anni ’50 ad esempio quasi il 7% del rendimento complessivo era sottoforma di dividendi.
Nel decennio corrente siamo a meno del 2%.
Al contrario sono aumentati nettamente i buyback, ossia quella prassi secondo cui le società riacquistano proprie azioni per sostenere le valutazioni.
Se il CAPE si basa sul rapporto tra prezzi e utili e ora ci si trova ad avere prezzi nominali più alti per il duplice effetto di minor stacco di dividendi e impatto dei buyback.
Per una questione semplicemente aritmetica, il rapporto prezzi/utili risulta sistematicamente maggiore perché il numeratore è più grande.
Di conseguenza può darsi benissimo che le valutazioni attuali siano molto alte.
Ma può essere che non siano così alte come sembra, perché il confronto con la media storica si basa su premesse differenti. Il fatto che oggi si distribuiscano meno dividendi e ci siano più buyback può contribuire all’illusione ottica.
Quello che abbiamo detto sinora delle valutazioni americane non vale invece per il resto del mondo.
In Europa, Regno Unito, Giappone e Paesi Emergenti le valutazioni sono nettamente inferiori.
E come vedremo tra poco, questo è uno dei motivi per cui tutti si aspettano che dai mercati non americani possano venire rendimenti migliori nei prossimi 10 anni che non dal nostro amato S&P 500.
Ammesso e non concesso che non valga, all’inverso, il discorso che ho fatto prima sui dividendi e i buyback, visto che invece in Europa si tende ancora a distribuire più dividendi e più raramente le società riacquistano le proprie azioni.
Ok su questo sono andato un po’ lungo, però è il cuore delle argomentazioni alla base delle stime di cui parleremo tra poco.
In pratica, minimo comune denominatore per tutti quanti è che le alte valutazioni odierne potrebbero implicare bassi rendimenti futuri.
Sugli altri macrotemi andiamo più spediti.
Il SECONO MACROTEMA riguarda l’indebolimento del dollaro.
Il Wall Street Journal Dollar Index, che è l’indice che traccia il prezzo del dollaro in rapporto ad altre 16 valute, tra cui naturalmente Euro, Sterlina, Yen, Yuan, Peso, Rublo, ecc.
Il valore dell’indice è una media ponderata del rapporto di cambio tra il dollaro e ciascuna di queste valute, in base al peso degli scambi giornalieri sul Forex, ossia sul mercato delle valute.
Dopo aver sfondato il picco di 103 nell’ottobre del 2022, quando un euro valeva meno di un dollaro, proprio il mese prima di un nostro viaggio a New York mannaggia la misera, l’indice ha fatto un po’ di altalena e ora, grazie alla prospettiva di un progressivo percorso di tagli dei tassi di interesse, il dollaro ha iniziato la sua discesa.
Oggi ha un valore di 96 e siamo su livelli che erano stati toccati nel 2004.
Da allora c’era stato un costante indebolimento del dollaro fino al 2011, quando il valore era arrivato a 68, mentre il picco con l’euro era già stato raggiunto nel 2008, con un euro scambiato per 1,58 dollari.
Da lì fino al 2022 c’è stato invece un forte rafforzamento che appunto ha portato ad un euro scambiato a 0,97 dollari, il valore più alto per il dollaro da quanto l’euro esiste.
Al momento siamo ad un rapporto euro/dollaro di 1,12.
Dato che la traiettoria sembra avviata verso un percorso discendente, per tutta una serie di motivazioni legate ai tassi di interesse, all’alto livello di debito degli Stati Uniti e fenomeni geopolitici finalizzati a ridurre l’egemonia del dollaro come valuta di riserva globale, la stima di molti è di un dollaro che si vada ad indebolire nei prossimi anni.
Stimare il cambio euro dollaro nel 2033 è come prevedere chi quell’anno vincerà la Champions League, esercizio estremamente complicato.
Però come stimare che nel 2033 il Real Madrid vincerà la Champions, allo stesso modo la stima più probabile sembra che il dollaro sarà più debole di quanto non lo sia ora.
Di quanto?
Boh.
Rispetto all’Euro forse 1,5% all’anno, cosa che dovrebbe portare ad un cambio euro dollaro di circa 1,30.
Perché sto pippone numerico sul cambio.
Eh perché come vedremo sembra esserci circa un 1,5% di differenza di rendimento medio annuo nei prossimi 10 anni tra un investitore in dollari e uno in euro, a parità di asset allocation.
Questa per noi è una buona notizia o una cattiva notizia?
– È una cattiva notizia perché i nostri portafogli sovraesposti sull’S&P 500 avranno rendimenti parzialmente azzoppati da un euro forte, perché ricordiamoci che se investo in euro su asset in dollari, se l’euro si rafforza il valore del mio investimento diminuisce, viceversa se il dollaro si rafforza il valore del mio investimento aumenta.
– È invece una buona notizia per tre motivi:
– Il primo è che, a meno che qualcuno di voi stia investendo da vent’anni e i prossimi saranno gli ultimi 10 prima della pensione, se siamo in fase di accumulo siamo felici di poter comprare S&P 500 a prezzi più convenienti, anche se questo significa per un po’ rendimenti inferiori;
– Il secondo è che, tipicamente, un dollaro debole favorisce l’export e le società americane, che hanno un volume di export immenso, riporteranno profitti nominali in dollari superiori, dato che venderanno in valute più forti, cosa che fa molto bene alle azioni e al loro price/earning ratio.
– Il terzo è soprattutto una buona notizia per il nostro paese che compra tutte le materie prime di cui ha bisogno, che sono tutte prezzate in dollari. A parità di prezzo, quindi, un euro forte compra più petrolio, più gas, ecc.
Certo abbiamo anche detto la volta scorsa che un dollaro debole in qualche modo fa salire i prezzi delle materie prime, però appunto si tratta di valutare l’entità dei due movimenti.
In generale, comunque, se sarà una buona notizia o una cattiva notizia lo scopriremo nel 2033, una volta visto l’effettivo cambio e gli effettivi impatti.
Per ora possiamo solo ipotizzare che il dollaro si indebolirà e tenerne conto nella stima dei rendimenti attesi.
Il TERZO MACROTEMA riguarda la fine dell’epoca dei tassi a zero e il ritorno dei rendimenti sul fixed income, sui bond governativi e corporate, cosa che ha restituito alle obbligazioni un ruolo di primo piano nei portafogli.
Il QUARTO MACROTEMA riguarda invece un mix di fenomeni più o meno legati al precedente, tra cui il ritorno di una moderata inflazione, la deglobalizzazione, la sostenibilità energetica, la reindustrializzazione (e forse la remilitarizzazione) dell’occidente, tutte cose che potrebbero avere un impatto sull’ambito dei cosiddetti “asset reali”, tra cui soprattutto prenderemo in considerazione le materie prime.
Insomma avrete capito che, ferma restando la bontà dei portafogli classici tipo 60/40, che ogni anno ci si diverte a bistrattarlo e poi alla fine il suo lo fa sempre, qualunque istituzione finanziaria vede per i prossimi anni portafogli maggiormente diversificati, con una significativa presenza di azioni dei paesi sviluppati ex US ed emergenti, obbligazioni governative e corporate e una vasta scelta di real asset tra cui oro, materie prime, asset infrastrutturali, private equity e private credit.
Di questi ultimi tre non parleremo, perché decisamente più adatti a investitori istituzionali che non retail, e ci concentreremo come sempre sugli asset quotati: azioni, obbligazioni, oro e materie prime.
Fatto tutto il predicozzo iniziale, diamo un po’ i numeri.
Ripeto, le 9 società che ho preso come campione sono: Vanguard, JPM, BR, Invesco, Amundi, MS, DB, Allianz e AQR.
I numeri che dirò si riferiscono, salvo dove diversamente specificato, al rendimento medio annuo geometrico per i prossimi 10 anni per un investitore in dollari.
Partiamo dall’azionario Americano.
Le stime, come detto prima, oscillano da un 4,2% di Vanguard a un 7% di JPM e Invesco, con una media di circa 6% tra tutte, che diventa circa 4,5% all’anno per un investitore in Euro (coerente con la stima di un indebolimento del dollaro di circa 1,5% all’anno).
Sarà vero?
Ovviamente non ne ho idea.
Io continuo a giocarmi la mia scommessa con me stesso, di nessun valore e che non vale più di un gioco tra di noi, secondo la quale da qui a fine 2029 l’S&P deve fare poco meno del 12% all’anno solo perché il rendimento di questo trentennio pareggi il peggior trentennio di sempre, ossia 1929-1958.
Però è anche vero che potrebbe benissimo fare 12% all’anno fino al 2029 e poi fare schifo nei 5 anni successivi.
In fondo il ’29 non è un anno che porta bene agli Stati Uniti.
È un noto aneddoto tragicomico il fatto che al picco del 1929, subito prima che scoppiasse la peggiore crisi azionaria di tutti i tempi, il grande economista Irving Fischer disse che i prezzi delle azioni avessero raggiunto ciò che sembrava un plateu che sarebbe rimasto permanentemente alto.
Non ha fatto in tempo a finire la frase che è crollato il mondo sotto i piedi.
Vedremo…
Per quanto riguarda invece i paesi sviluppati ex US andiamo da 9,2% di JP Morgan, la più ottimista anche qui, al 6,6% di Morgan Stanely la più pessimista, con una media di 7,83%. Anche qui, all’inverso dell’S&P, dobbiamo considerare che quasi tutte attribuiscono circa 1-1,5% di rendimento al fattore cambio.
Il rendimento atteso in Euro, perlomeno secondo JPMorgan, Blackrock e Deutsche, che hanno formulato le previsioni in diverse valute, è poco meno di 7%.
I mercati emergenti, infine, sembrano quelli più destinati a sovraperformare il mercato globale, con Invesco che vede addirittura un 9,6% all’anno, contro Vanguard che invece non stima più del 6,7% all’anno.
Stima media: 8,3% in dollari, circa 7,8% in euro.
Anche se non vi siete segnati i vari rendimenti, comunque la fotografia che viene fuori è:
– S&P 500 poco brillante;
– Bene, soprattutto per un investitore in dollari, i mercati sviluppati;
– Molto bene i mercati emergenti.
Sui mercati emergenti ci sarebbe da fare tutto un discorso sulla distinzione tra emergenti e Cina, perché in realtà c’è più fiducia sulla crescita degli emergenti ex-China, ma ce lo teniamo per un’altra volta.
Passiamo alla parte obbligazionaria.
Sui buoni del tesoro americani a scadenza intermedia c’è un consenso più o meno unanime con un rendimento intorno al 4,3%, figlio dei rendimenti attuali e del verosimile ciclo di tagli dei tassi di interesse.
Anche sui bond governativi globali, c’è allineamento intorno al 4%, che diventa 3,1% per un investitore in Euro.
Sulle materie prime, infine, le stime vanno da 3,8% di JP Morgan addirittura a 7,2% di Vanguard, che tanto è pessimista sull’S&P, quanto bullish sulle commodities.
In media la stima è 5%, che però diventa circa 3,5% in Euro.
Come dicevamo la volta scorsa, comunque, dopo un ventennio in cui investire in materie prime voleva dire in pratica buttare via i soldi, il prossimo decennio sembra possa offrire occasione di riscatto per quest’asset class.
L’oro invece non ha stime in tutti i report, quindi il dato lascia un po’ il tempo che trova.
Comunque parliamo di poco più del 4%, per quei pochi che esplicitamente provano a indovinarne il corso futuro, e poco meno del 3% in Euro.
Vediamo invece qualche portafoglio.
Ho fatto i conti con quattro allocation.
Il 60/40, fatto da azionario globale e bond governativi dei paesi sviluppati, ha un rendimento atteso in dollari che va dal 6,6% di JP Morgan al 5,1% di Morgan Stanley, che in totale fa 5,8%, in media. Per un europeo scendiamo intorno al 4,5%.
4,5% effettivamente è un po’ deludente, soprattutto se consideriamo che negli ultimi 10 anni lo stesso portafoglio avrebbe fatto oltre il 7,5%.
Facciamo un esempio con un pac da 500 € al mese.
Negli ultimi 10 anni avrebbe raggiunto quasi 89.000 euro, mentre nei prossimi 10, se sarà effettivamente un rendimento medio del 4,6%, parliamo di circa 76.000.
E tutto questo al netto del rischio di sequenza naturalmente.
Stiamo comunque parlando di investire 60.000 € in 10 anni e, se le stime sono corrette, finire il decennio in positivo.
Però con un rendimento che sarà stato poco più della metà di quello del decennio scorso.
Ricordiamoci comunque che se andiamo indietro ancora di un decennio, quindi 2004-2014, lo stesso portafoglio avrebbe reso solo il 3,3%, fermandosi così a 71.000 €.
Se invece prendiamo un portafoglio 60/40 e gli aggiungiamo un 10% di materie prime, facendo quindi, più o meno 56% azioni, 34% obbligazioni e 10% commodities, abbiamo un risultato medio pressoché in linea, con una volatilità leggermente inferiore uno sharpe ratio migliore. Questo però vale in dollari, mentre in Euro il risultato peggiora probabilmente perché l’effetto cambio è amplificato dalla presenza di materie prime e dalla minor presenza di azioni europee e bond governativi europei, tanto che passiamo da 5,8% a 4,3%.
Per avere invece un rendimento medio superiore al 6% usando questi dati, serve un portafoglio con almeno il 70-75% di azioni, chiaramente con tutti i rischi che comporta.
Finora sulla parte azionaria ho usato un modello market-cap-weighted.
Se però, riprendiamo il 60/40 e la parte azionaria la dividiamo in 20% S&P 500, 20% mercati sviluppati ex US e 20% mercati emergenti, lasciano il restante 40% invariato, il risultato cambia significativamente e la stima media si alza di circa mezzo punto, da 5,8 a 6,3% in dollari e da 4,6 a 5,1% in Euro.
Non è chiaramente un consiglio in alcun modo a sovrappesare gli emergenti rispetto agli Stati Uniti, però il consenso comune di queste stime va in questa direzione.
Fatto questo, poi ho deciso che in questo episodio sarei stato il Marty McFly della finanza, avanti e indietro tra passato e futuro, e per chi non sapesse chi è Marty McFly si vada a vedere subito la trilogia di Ritorno al Futuro.
Cosa ho fatto, sono andato a prendere le assumptions del 2014, per confrontare le previsioni di allora e come sono andate effettivamente le cose.
Sinceramente ho trovato solo quello di JP Morgan, quindi prendiamo per buono quello.
Le previsioni si sono rivelate disastrose.
Nel 2014 infatti la venerabile più grande banca del mondo prevedeva:
Rendimento del mercato americano: 7,5% all’anno mentre avrebbe poi fatto addirittura il 12,8%.
Mercati sviluppati ex US: 7,75% e quindi invece sarebbe stato un più modesto 5%.
Infine la cantonata peggiore sarebbe stata sui Mercati emergenti, per cui era previsto addirittura un 9,75% di crescita all’anno, attestatasi invece ad un decisamente più misero 3,4%.
Sui bond poi forse pure peggio.
JP Morgan aveva visto un 4% circa di rendimento medio annuo sui governativi globali e sui Treasury, che invece si sono mossi di poco intorno all1%.
Certo, probabilmente il solo 2022 ha contribuito da solo a disintegrare la performance dei bond.
Però, oh, lo sappiamo che il mercato è così.
Non è che fa piano piano. Singoli anni, o forse singoli mesi, bastano a spostare le performance di un intero decennio.
Anche sulle commodities male male.
3,75% la stima.
-3,75% il risultato reale del bloomberg commodity index, almeno secondo portfolio visualizer.
Qui avevano fatto tutti i conti giusti, forse lo stagista a cui hanno fatto scrivere il report si è dimenticato di mettere il MENO davanti.
Questa volta sarà diverso?
Questa volta le previsioni ci prenderanno?
E chi può dirlo.
Da un parte è bene sapere che tutto il mondo della finanza che conta vede certi trend all’orizzonte.
Che poi si verifichino davvero è tutto un altro discorso.
Tiriamo quindi qualche considerazione conclusiva.
PRIMA CONSIDERAZIONE: le previsioni non possono servire a costruire il portafoglio migliore. Possono essere tuttavia utili per prendere decisioni informate, con cognizione di causa, rimuovendo l’ingenua aspettativa che quel che è successo nel recente passato debba necessariamente ripetersi anche nel futuro.
SECONDA CONSIDERAZIONE: la cosa fondamentale, preso atto di queste stime, non è vincere scommesse, ma costruire un portafoglio che gestisca bene i rischi.
Nessuno può dire che avere l’80% di Nasdaq nel portafoglio sia sbagliato.
Lo dicevano anche 10 anni fa e non era vero.
Però se oggi c’è questa vision diffusa sul prossimo futuro, forse ancora una volta andrebbe rimarcata l’importanza della diversificazione per cercare di intercettare un rendimento accettabile, evitare il rischio di concentrare troppo il portafoglio e soprattutto settare correttamente le proprie aspettative.
Se il nostro portafoglio ha fatto 7,5% nell’ultimo decennio potrebbe benissimo fare 4,5% nel prossimo (o pure meno). Saperlo e prenderne atto con consapevolezza fa parte di una disciplina sana nel rapporto con i propri investimenti
TERZA CONSIDERAZIONE: queste previsioni potrebbero rivelarsi sbagliatissime per mille motivi. Ma ce n’è uno in particolare che caratterizzerà tutti i report futuri che vedremo ogni 6 mesi.
Per queste società, come dire, è più importante “not being wrong than being right”.
Cioè è più importante comprimere le aspettative e giocare “safe”.
Se tutti gli indicatori ufficiali dicono che le valutazioni azionarie sono alte, beh allora meglio dire che la stima è che le azioni andranno meno bene e che quelle andate benissimo, come quelle americane, andranno peggio, mentre quelle sottoperformanti, come i mercati emergenti, andranno meglio.
Se i multipli fanno pensare a questo, meglio fondare le proprie stime su questo.
Discorso analogo sui bond e sui real asset.
Dopo tanti anni di performance disastrose, ha senso sollevare l’ipotesi che queste asset class possano farsi valere in futuro, visto che abbiamo fior fior di elementi per consolidare quest’idea: tassi reali più alti, moderata inflazione, dedollarizzazione, deglobalizzazione, reindustrializzazione, remilitarizzazione e tematiche di sostenibilità ambientale.
Ma detto questo prendetele tutte con le pinze, perché al netto di macrotrend che potrebbero davvero concretizzarsi, poi può essere benissimo che ci troveremo qua nel 2033 e diremo: cazzo anche questo decennio alla fine l’S&P 500 ha battuto tutti…
E così dicendo concludiamo anche l’episodio di oggi, che vi ha snocciolato così tanti numeri che la prima settimana di rientro al lavoro sarà segnata per i più da forti emicranie ma spero anche nuovi spunti di riflessione su guardare al vostro portafoglio e a rendervi sempre più consapevoli sugli scenari che potrebbero prospettarsi.
A questo punto arrivati, consueto ringraziamento a tutti voi che continuate a seguirmi e soprattutto per aver fatto raggiungere a The Bull i 40.000 follower su Spotify.
Ancora uno zero e avremo raggiunto la regina dei podcast Elisa True Crime con i suoi oltre 400.000.
Ma ce la faremo.
Oh alla fine si stuferà la gente di sentire solo storie di gente morta malissimo.
Tra un crimine e l’altro magari si possono imparare due cose su come gestire meglio i soldi no?
Per continuare questa lotta contro l’oscuro potere della cronaca nera italiana, vi invito a maggior ragione a mettere segui e attivare le notifiche su Spotity, Apple Podcast o dove ci ascoltate e a lasciare una recensione a 5 stelle per supportarci e permetterci di continuare a produrre contenuti che “grande giove” ci fanno andare avanti e indietro nel tempo con la nostra Delorean fatta di asset allocation, backtest e profezie varie sempre nuovi.
Per questo episodio è davvero tutto e noi ci risentiamo domenica prossima con il consueto appuntamento di recap su quel che è successo ad Agosto che tra flash crash, rimbalzo, annuncio della Fed che a settembre taglio dei tassi e Dio solo sa cosa succede nella notte tra il 28 e il 29 con la pubblicazione dei dati di Nvidia, probabilmente verrà fuori una puntata di tre ore, sempre qui, naturalmente, con The Bull il tuo podcast di finanza personale.
Bentornati a The Bull, il tuo podcast di finanza personale.
Per essere The Bull un podcast che spende metà del suo tempo a dire che in finanza le previsioni sono efficaci come cercare un parrucchiere di lunedì mattina, un bell’episodio sui rendimenti attesi a 10 anni delle principali asset class, beh che dire?, sembra veramente che abbia battuto la testa.
E invece niente affatto!
Perché oggi facciamo quest’episodio?
Lo facciamo perché dopo 135 episodi in cui abbiamo fatto backtest su ogni portafoglio possibile e immaginabile e dopo aver sviscerato decine di opzioni di asset allocation, ho sentito il bisogno di provare a gettare uno sguardo sul futuro, almeno per cercare di capire insieme se ci siano delle tendenze generali di lungo termine che quelli bravi che lavorano a Wall Street hanno identificato.
Ora, è chiaro che i numeri che daremo oggi sono buoni forse per il Superenalotto, mentre dal punto di vista predittivo lasciano il tempo che trovano, però ci sono comunque dei buoni motivi per fare qualche valutazione e individuare degli insights che possano essere utili per prendere decisioni informate sui nostri portafogli.
Informate non vuole dire “giuste”.
Vuol dire che non mettiamo i soldi a cazzo in questo o quell’asset, ma lo facciamo perché ci siamo fatti prima un’idea supportata dai dati, che almeno limiterà i nostri rimpianti se qualcosa non dovesse andare nel modo che avevamo auspicato.
Allora, in pratica cosa ho fatto?
Ho preso una serie di report usciti tra la fine del 2023 e inizio del 2024 sui Long Term Capital Market Assumptions delle più importanti società di Wall Street.
Queste “assumptions” sono le ipotesi di lungo termine, generalmente 10 anni, che queste società formulano per dichiarare la loro vision sul decennio successivo a supporto della strategia che implementeranno nei portafogli dei loro clienti.
Non potendo star qua a parlare di ogni singolo report, ho preso come campione i dati di 10 società particolarmente rappresentative.
– 4 emittenti di ETF, ossia Vanguard, Blackrock, Amundi e Invesco
– 3 banche con orientamento verso i prodotti di investimento, come JP Morgan, Morgan Stanley e Deutsche Bank
– 1 assicurazione, anch’essa con una divisione di asset management piuttosto rilevante, come Allianz e infine
– 1 dei più celebri e stimati hedge fund negli Stati Uniti, AQR.
Prese queste 10, ho messo insieme le loro “assumptions” sulle seguenti asset class:
– Azionario Americano
– Azionario dei paesi sviluppati, Stati Uniti esclusi (quindi tipicamente l’indice MSCI EAFE);
– Azionario dei paesi emergenti
– Treasury a scadenza intermedia
– Bond governativi globali a scadenza intermedia
– Oro e
– Materie prime
L’obiettivo era vedere in maniera sintetica il punto di vista di queste società e provare a formulare delle considerazioni di carattere generale.
Starà poi a voi valutare se trarne implicazioni per il vostro portafoglio oppure sbattervene e continuare per la vostra strada come se questo episodio non fosse mai esistito.
Prima di vederle, però, partiamo da una nota metodologica.
Nella stragrande maggioranza dei casi i dati sono espressi dal punto di vista di un investitore in dollari.
Questa cosa, come vedremo, non è un dettaglio da poco perché il rendimento atteso dei prossimi 10 anni sembrerebbe nettamente più favorevole per un investitore americano che per un europeo.
Dato che alcune di queste società fornivano anche i dati per un investitore in Euro, come JPM e BR, proveremo anche a stimare il rendimento atteso PER NOI.
Tutti i dati che daremo, invece, fanno riferimento al rendimento in dollari delle varie asset class.
Oltre a vedere i dati delle singole asset class, proveremo anche a tirare qualche stima per diversi modelli di portafoglio.
Adesso parliamo dei singoli valori, che saranno la parte più succulenta dell’episodio, però facciamo prima qualche considerazione di carattere generale sui macrotemi su cui sembra siano più o meno tutti d’accordo sull’andamento dei mercati dei prossimi anni.
Certo, stando alle informazioni attuali.
Poi come sempre basta poco perché tutto questo scenario si ribalti e già ogni quarter queste assumptions potrebbero cambiare significativamente.
PRIMO MACROTEMA: l’azionario americano, il dominatore indiscusso dei mercati degli ultimi 15 anni, prospetta dei rendimenti molto più bassi per il decennio a venire.
Sul rendimento effettivo ci sono pareri piuttosto discordanti, perché andiamo da una previsione di 4,2% all’anno in media per Vanguard a 7% per JP Morgan e Invesco e sappiamo bene che 3 punti percentuali all’anno per 10 anni sono un abisso.
Per in entrambi i casi siamo lontani o lontanissimi dal 10% di media storica dell’S&P 500 per non parlare del quasi 14% all’anno fatto dall’S&P dal 2009 ad oggi.
E già dicendo questo abbiamo buona parte della risposta.
I motivi fondamentali per cui ci si aspetta un rendimento sottotono per i prossimi anni per l’S&P 500 derivano da 3 dati:
– Il primo chiaramente è lo Shiller CAPE ratio, il rapporto medio tra prezzi e utili delle società americane degli ultimi 10 anni aggiustato per inflazione, che oggi è intorno ad un valore di 35.
35 significa che solo altre due volte nella storia è stato superiore: nel 2000, poco prima dello scoppio della bolla di internet, e nel 2021, all’apice della corsa frenetica post Covid.
Se guardiamo la deviazione standard, 35 significa essere nel 95esimo percentile, quindi quasi 2 deviazioni standard dalla media storica.
Anche se c’è da dire che questo valore è stato molto molto basso fino a prima degli anni 90 (intorno a 14), per poi attestarsi su una media di 26 negli ultimi 30 anni.
Rispetto a 14, 35 fa paura; rispetto a 26 ok è molto alto, ma non così spaventosamente alto.
Ad ogni modo, secondo il modello di Shiller preso alla buona, statisticamente il rendimento atteso a 10 anni partendo da un valore di 35 è inferiore al 5% all’anno.
– Il secondo dato è il forward price to earning ratio, ossia il rapporto tra prezzi e utili attesi dei prossimi anni. Ad un livello attuale intorno a 21, ossia in media i prezzi delle azioni dell’S&P 500 costano 21 volte gli utili per azione, siamo nettamente sopra la media storica che è intorno a 16,5. Per trovare un valore così alto, esclusa la parentesi del post covid e della grande crisi finanziaria del 2008, in cui il valore è schizzato alle stelle non tanto perché le valutazioni fossero alte, quanto piuttosto per il fatto che gli utili si erano letteralmente polverizzati, bisogna tornare indietro ai primi 2000. All’alba della bolla di internet, questo valore era arrivato a 24 o giù di lì.
Anche qui, vale la correlazione inversa.
Alto rapporto tra prezzi e utili attesi UGUALE rendimenti futuri inferiori.
E’ abbastanza logico. È come se compro una casa con l’obiettivo di metterla in affitto o di rivenderla. Più alto è il mio prezzo di acquisto, minore sarà il mio rendimento derivante dall’affitto o dalla rivendita.
– Il terzo dato deriva dal cosiddetto Fed Model, elaborato dell’economista Ed Yardeni alla fine degli anni ’90. In pratica si prende l’earning yield, che come ricorderete è l’inverso del price/earning ratio, cioè invece che fare prezzi diviso utili si fa utili diviso prezzi, e gli si sottrae il rendimento dei titoli di stato a dieci anni. Maggiore è il risultato, maggiore è il rendimento atteso dei prossimi anni perché maggiore sarà il “premio al rischio” derivante dall’investire in azioni invece che in obbligazioni.
Se oggi il forward price to earning ratio è 21, l’earning yield è 1 diviso 21, che fa 0,048 ossia 4,7%. Dato che al momento in cui stiamo parlando il rendimento dei Treasury a 10 anni è 3,8%, 4,8 — 3,8 fa 1%, ossia un premio al rischio piuttosto risicato.
Giusto per dare dei riferimenti.
Nel 2011, con i tassi della Fed praticamente a zero e le valutazioni dell’S&P molto basse mentre ci si stava ancora leccando le ferite dopo la crisi del 2008, questo valore era arrivato a 7, quindi investire in azioni aveva un premio al rischio di 7 punti percentuali in più rispetto ai treasury.
All’estremo opposto, invece, abbiamo il valore di -2,5 nel 2000, ossia allora investire in Treasury sarebbe stato paradossalmente più profittevole che investire in azioni (e infatti con il senno di poi questa previsione sarebbe stata perfettamente corretta).
Oggi ci troviamo quindi ben sotto la media, intorno a 3. Non agli eccessi del 2000, dato che comunque investire in azioni sembra ancora più profittevole che investire in bond, ma il margine è molto risicato.
Certo, benché questi tre dati, soprattutto il CAPE ratio, siano stati in grado di anticipare l’85% delle volte i risultati dei 10 anni futuri, perlomeno negli ultimi 40 anni, hanno dei limiti.
Intanto il forward price to earning ratio e il Fed Model si basano sulle stime degli utili dei 12 mesi futuri e tutto ciò che è una stima degli analisti finanziari va preso con le pinze.
Il fed model, tra l’altro, avrebbe preso una cantonata clamorosa nel 2007 quando, con valutazioni azionarie e tassi di interesse che erano scesi per l’inizio della crisi immobiliare, avrebbe dato un valore di 6 nonostante quello si sarebbe poi rivelato uno dei momenti peggiori della storia per compare azioni e vendere bond, vista l’apocalisse finanziaria successa dopo.
Il CAPE ratio è più oggettivo ed efficace.
Tuttavia racconta molto bene i fatti del passato mentre ad oggi non sappiamo molto di come è cambiato il mercato negli ultimi anni e quindi è tutto da capire quanto le medie del passato valgano per il futuro.
Mi spiego.
Il CAPE ratio fornisce una stima dei rendimenti a 10 anni, perché in passato ha dimostrato che c’è un’alta correlazione tra il suo valore e il rendimento dell’S&P nei dieci anni successivi.
Questo però significa che l’ultimo dato buono per questa statistica ce l’abbiamo nel 2014, visto che siamo nel 2024.
Non sappiamo ancora se il valore del CAPE ratio dal 2015 in poi avrà stimato correttamente il rendimento dell’S&P dei 10 anni a venire, dato che da allora 10 anni non sono ancora passati.
E nel 2014 il CAPE ratio era a 26.
26 vuol dire che il rendimento atteso dal 2015 al 2024 sarebbe stato tra il 4 e il 6% all’anno.
In questi 10 anni invece l’S&P ha fatto il 13%. Ossia ha battuto le stime del doppio o del triplo, a seconda di quanto si era stati pessimisti al tempo.
Questo non significa che il CAPE ratio non funziona più.
Come ha scritto il mio adorato James Mackintosh del Wall Street Journal, perché il CAPE ratio torni ai suoi valori medi servirebbe “the mother of all crashes”, la madre di tutti i crolli.
Non che non possa avvenire, ma più verosimilmente le valutazioni azionarie nell’ultimo decennio sono salite anche per la combinazione di due fattori: la politica di tassi a zero durata quasi 15 anni che per cui è nato l’acronimo TINA, ossia there is no alternative, non ci sono alternative a comprare azioni perché i titoli di stato rendono ZERO; e poi l’esplosione degli ETF che sicuramente ha reso molto più semplice ed economico comprare azioni, cosa che in qualche modo ha sospinto verso l’alto le valutazioni azionarie. E quest’ultimo punto è spesso preso in considerazione da chi sostiene che gli ETF creino bolle, anche se tra la premessa e la conclusione ce ne passa. Ma questo sarà l’oggetto di un altro episodio.
Quindi dicevamo, le valutazioni sono salite molto e difficilmente torneremo in un mondo in cui i prezzi delle azioni dell’S&P saranno in media 15 volte gli utili.
Ormai è diventata prassi che le valutazioni azionari americane si siano posizionate su un livello decisamente superiore.
Insomma, dall’anomalia si è gradualmente passati ad una nuova “normalità”.
Forse.
In attesa della prossima madre di tutte le crisi che ci smentisca.
In realtà ci sarebbe anche un’altra ipotesi che ho sempre fissa in testa. Andrebbe verificata numericamente, ma inizio ad esporvi la logica.
Come sappiamo il total return derivante dall’investimento in un indice come l’S&P 500 è composto dalla somma tra rendimento da dividendo, crescita degli utili e variazione nel rapporto prezzi e utili.
Detta più semplicemente, da una parte abbiamo il dividendo distribuito agli azionisti (ed eventualmente reinvestito), dall’altra la crescita del prezzo dell’azione, che in qualche modo deve essere legata all’attesa sugli utili futuri.
Nel corso dei decenni, tuttavia, il dividend yield si è nettamente ridotto. Negli anni ’50 ad esempio quasi il 7% del rendimento complessivo era sottoforma di dividendi.
Nel decennio corrente siamo a meno del 2%.
Al contrario sono aumentati nettamente i buyback, ossia quella prassi secondo cui le società riacquistano proprie azioni per sostenere le valutazioni.
Se il CAPE si basa sul rapporto tra prezzi e utili e ora ci si trova ad avere prezzi nominali più alti per il duplice effetto di minor stacco di dividendi e impatto dei buyback.
Per una questione semplicemente aritmetica, il rapporto prezzi/utili risulta sistematicamente maggiore perché il numeratore è più grande.
Di conseguenza può darsi benissimo che le valutazioni attuali siano molto alte.
Ma può essere che non siano così alte come sembra, perché il confronto con la media storica si basa su premesse differenti. Il fatto che oggi si distribuiscano meno dividendi e ci siano più buyback può contribuire all’illusione ottica.
Quello che abbiamo detto sinora delle valutazioni americane non vale invece per il resto del mondo.
In Europa, Regno Unito, Giappone e Paesi Emergenti le valutazioni sono nettamente inferiori.
E come vedremo tra poco, questo è uno dei motivi per cui tutti si aspettano che dai mercati non americani possano venire rendimenti migliori nei prossimi 10 anni che non dal nostro amato S&P 500.
Ammesso e non concesso che non valga, all’inverso, il discorso che ho fatto prima sui dividendi e i buyback, visto che invece in Europa si tende ancora a distribuire più dividendi e più raramente le società riacquistano le proprie azioni.
Ok su questo sono andato un po’ lungo, però è il cuore delle argomentazioni alla base delle stime di cui parleremo tra poco.
In pratica, minimo comune denominatore per tutti quanti è che le alte valutazioni odierne potrebbero implicare bassi rendimenti futuri.
Sugli altri macrotemi andiamo più spediti.
Il SECONO MACROTEMA riguarda l’indebolimento del dollaro.
Il Wall Street Journal Dollar Index, che è l’indice che traccia il prezzo del dollaro in rapporto ad altre 16 valute, tra cui naturalmente Euro, Sterlina, Yen, Yuan, Peso, Rublo, ecc.
Il valore dell’indice è una media ponderata del rapporto di cambio tra il dollaro e ciascuna di queste valute, in base al peso degli scambi giornalieri sul Forex, ossia sul mercato delle valute.
Dopo aver sfondato il picco di 103 nell’ottobre del 2022, quando un euro valeva meno di un dollaro, proprio il mese prima di un nostro viaggio a New York mannaggia la misera, l’indice ha fatto un po’ di altalena e ora, grazie alla prospettiva di un progressivo percorso di tagli dei tassi di interesse, il dollaro ha iniziato la sua discesa.
Oggi ha un valore di 96 e siamo su livelli che erano stati toccati nel 2004.
Da allora c’era stato un costante indebolimento del dollaro fino al 2011, quando il valore era arrivato a 68, mentre il picco con l’euro era già stato raggiunto nel 2008, con un euro scambiato per 1,58 dollari.
Da lì fino al 2022 c’è stato invece un forte rafforzamento che appunto ha portato ad un euro scambiato a 0,97 dollari, il valore più alto per il dollaro da quanto l’euro esiste.
Al momento siamo ad un rapporto euro/dollaro di 1,12.
Dato che la traiettoria sembra avviata verso un percorso discendente, per tutta una serie di motivazioni legate ai tassi di interesse, all’alto livello di debito degli Stati Uniti e fenomeni geopolitici finalizzati a ridurre l’egemonia del dollaro come valuta di riserva globale, la stima di molti è di un dollaro che si vada ad indebolire nei prossimi anni.
Stimare il cambio euro dollaro nel 2033 è come prevedere chi quell’anno vincerà la Champions League, esercizio estremamente complicato.
Però come stimare che nel 2033 il Real Madrid vincerà la Champions, allo stesso modo la stima più probabile sembra che il dollaro sarà più debole di quanto non lo sia ora.
Di quanto?
Boh.
Rispetto all’Euro forse 1,5% all’anno, cosa che dovrebbe portare ad un cambio euro dollaro di circa 1,30.
Perché sto pippone numerico sul cambio.
Eh perché come vedremo sembra esserci circa un 1,5% di differenza di rendimento medio annuo nei prossimi 10 anni tra un investitore in dollari e uno in euro, a parità di asset allocation.
Questa per noi è una buona notizia o una cattiva notizia?
– È una cattiva notizia perché i nostri portafogli sovraesposti sull’S&P 500 avranno rendimenti parzialmente azzoppati da un euro forte, perché ricordiamoci che se investo in euro su asset in dollari, se l’euro si rafforza il valore del mio investimento diminuisce, viceversa se il dollaro si rafforza il valore del mio investimento aumenta.
– È invece una buona notizia per tre motivi:
– Il primo è che, a meno che qualcuno di voi stia investendo da vent’anni e i prossimi saranno gli ultimi 10 prima della pensione, se siamo in fase di accumulo siamo felici di poter comprare S&P 500 a prezzi più convenienti, anche se questo significa per un po’ rendimenti inferiori;
– Il secondo è che, tipicamente, un dollaro debole favorisce l’export e le società americane, che hanno un volume di export immenso, riporteranno profitti nominali in dollari superiori, dato che venderanno in valute più forti, cosa che fa molto bene alle azioni e al loro price/earning ratio.
– Il terzo è soprattutto una buona notizia per il nostro paese che compra tutte le materie prime di cui ha bisogno, che sono tutte prezzate in dollari. A parità di prezzo, quindi, un euro forte compra più petrolio, più gas, ecc.
Certo abbiamo anche detto la volta scorsa che un dollaro debole in qualche modo fa salire i prezzi delle materie prime, però appunto si tratta di valutare l’entità dei due movimenti.
In generale, comunque, se sarà una buona notizia o una cattiva notizia lo scopriremo nel 2033, una volta visto l’effettivo cambio e gli effettivi impatti.
Per ora possiamo solo ipotizzare che il dollaro si indebolirà e tenerne conto nella stima dei rendimenti attesi.
Il TERZO MACROTEMA riguarda la fine dell’epoca dei tassi a zero e il ritorno dei rendimenti sul fixed income, sui bond governativi e corporate, cosa che ha restituito alle obbligazioni un ruolo di primo piano nei portafogli.
Il QUARTO MACROTEMA riguarda invece un mix di fenomeni più o meno legati al precedente, tra cui il ritorno di una moderata inflazione, la deglobalizzazione, la sostenibilità energetica, la reindustrializzazione (e forse la remilitarizzazione) dell’occidente, tutte cose che potrebbero avere un impatto sull’ambito dei cosiddetti “asset reali”, tra cui soprattutto prenderemo in considerazione le materie prime.
Insomma avrete capito che, ferma restando la bontà dei portafogli classici tipo 60/40, che ogni anno ci si diverte a bistrattarlo e poi alla fine il suo lo fa sempre, qualunque istituzione finanziaria vede per i prossimi anni portafogli maggiormente diversificati, con una significativa presenza di azioni dei paesi sviluppati ex US ed emergenti, obbligazioni governative e corporate e una vasta scelta di real asset tra cui oro, materie prime, asset infrastrutturali, private equity e private credit.
Di questi ultimi tre non parleremo, perché decisamente più adatti a investitori istituzionali che non retail, e ci concentreremo come sempre sugli asset quotati: azioni, obbligazioni, oro e materie prime.
Fatto tutto il predicozzo iniziale, diamo un po’ i numeri.
Ripeto, le 9 società che ho preso come campione sono: Vanguard, JPM, BR, Invesco, Amundi, MS, DB, Allianz e AQR.
I numeri che dirò si riferiscono, salvo dove diversamente specificato, al rendimento medio annuo geometrico per i prossimi 10 anni per un investitore in dollari.
Partiamo dall’azionario Americano.
Le stime, come detto prima, oscillano da un 4,2% di Vanguard a un 7% di JPM e Invesco, con una media di circa 6% tra tutte, che diventa circa 4,5% all’anno per un investitore in Euro (coerente con la stima di un indebolimento del dollaro di circa 1,5% all’anno).
Sarà vero?
Ovviamente non ne ho idea.
Io continuo a giocarmi la mia scommessa con me stesso, di nessun valore e che non vale più di un gioco tra di noi, secondo la quale da qui a fine 2029 l’S&P deve fare poco meno del 12% all’anno solo perché il rendimento di questo trentennio pareggi il peggior trentennio di sempre, ossia 1929-1958.
Però è anche vero che potrebbe benissimo fare 12% all’anno fino al 2029 e poi fare schifo nei 5 anni successivi.
In fondo il ’29 non è un anno che porta bene agli Stati Uniti.
È un noto aneddoto tragicomico il fatto che al picco del 1929, subito prima che scoppiasse la peggiore crisi azionaria di tutti i tempi, il grande economista Irving Fischer disse che i prezzi delle azioni avessero raggiunto ciò che sembrava un plateu che sarebbe rimasto permanentemente alto.
Non ha fatto in tempo a finire la frase che è crollato il mondo sotto i piedi.
Vedremo…
Per quanto riguarda invece i paesi sviluppati ex US andiamo da 9,2% di JP Morgan, la più ottimista anche qui, al 6,6% di Morgan Stanely la più pessimista, con una media di 7,83%. Anche qui, all’inverso dell’S&P, dobbiamo considerare che quasi tutte attribuiscono circa 1-1,5% di rendimento al fattore cambio.
Il rendimento atteso in Euro, perlomeno secondo JPMorgan, Blackrock e Deutsche, che hanno formulato le previsioni in diverse valute, è poco meno di 7%.
I mercati emergenti, infine, sembrano quelli più destinati a sovraperformare il mercato globale, con Invesco che vede addirittura un 9,6% all’anno, contro Vanguard che invece non stima più del 6,7% all’anno.
Stima media: 8,3% in dollari, circa 7,8% in euro.
Anche se non vi siete segnati i vari rendimenti, comunque la fotografia che viene fuori è:
– S&P 500 poco brillante;
– Bene, soprattutto per un investitore in dollari, i mercati sviluppati;
– Molto bene i mercati emergenti.
Sui mercati emergenti ci sarebbe da fare tutto un discorso sulla distinzione tra emergenti e Cina, perché in realtà c’è più fiducia sulla crescita degli emergenti ex-China, ma ce lo teniamo per un’altra volta.
Passiamo alla parte obbligazionaria.
Sui buoni del tesoro americani a scadenza intermedia c’è un consenso più o meno unanime con un rendimento intorno al 4,3%, figlio dei rendimenti attuali e del verosimile ciclo di tagli dei tassi di interesse.
Anche sui bond governativi globali, c’è allineamento intorno al 4%, che diventa 3,1% per un investitore in Euro.
Sulle materie prime, infine, le stime vanno da 3,8% di JP Morgan addirittura a 7,2% di Vanguard, che tanto è pessimista sull’S&P, quanto bullish sulle commodities.
In media la stima è 5%, che però diventa circa 3,5% in Euro.
Come dicevamo la volta scorsa, comunque, dopo un ventennio in cui investire in materie prime voleva dire in pratica buttare via i soldi, il prossimo decennio sembra possa offrire occasione di riscatto per quest’asset class.
L’oro invece non ha stime in tutti i report, quindi il dato lascia un po’ il tempo che trova.
Comunque parliamo di poco più del 4%, per quei pochi che esplicitamente provano a indovinarne il corso futuro, e poco meno del 3% in Euro.
Vediamo invece qualche portafoglio.
Ho fatto i conti con quattro allocation.
Il 60/40, fatto da azionario globale e bond governativi dei paesi sviluppati, ha un rendimento atteso in dollari che va dal 6,6% di JP Morgan al 5,1% di Morgan Stanley, che in totale fa 5,8%, in media. Per un europeo scendiamo intorno al 4,5%.
4,5% effettivamente è un po’ deludente, soprattutto se consideriamo che negli ultimi 10 anni lo stesso portafoglio avrebbe fatto oltre il 7,5%.
Facciamo un esempio con un pac da 500 € al mese.
Negli ultimi 10 anni avrebbe raggiunto quasi 89.000 euro, mentre nei prossimi 10, se sarà effettivamente un rendimento medio del 4,6%, parliamo di circa 76.000.
E tutto questo al netto del rischio di sequenza naturalmente.
Stiamo comunque parlando di investire 60.000 € in 10 anni e, se le stime sono corrette, finire il decennio in positivo.
Però con un rendimento che sarà stato poco più della metà di quello del decennio scorso.
Ricordiamoci comunque che se andiamo indietro ancora di un decennio, quindi 2004-2014, lo stesso portafoglio avrebbe reso solo il 3,3%, fermandosi così a 71.000 €.
Se invece prendiamo un portafoglio 60/40 e gli aggiungiamo un 10% di materie prime, facendo quindi, più o meno 56% azioni, 34% obbligazioni e 10% commodities, abbiamo un risultato medio pressoché in linea, con una volatilità leggermente inferiore uno sharpe ratio migliore. Questo però vale in dollari, mentre in Euro il risultato peggiora probabilmente perché l’effetto cambio è amplificato dalla presenza di materie prime e dalla minor presenza di azioni europee e bond governativi europei, tanto che passiamo da 5,8% a 4,3%.
Per avere invece un rendimento medio superiore al 6% usando questi dati, serve un portafoglio con almeno il 70-75% di azioni, chiaramente con tutti i rischi che comporta.
Finora sulla parte azionaria ho usato un modello market-cap-weighted.
Se però, riprendiamo il 60/40 e la parte azionaria la dividiamo in 20% S&P 500, 20% mercati sviluppati ex US e 20% mercati emergenti, lasciano il restante 40% invariato, il risultato cambia significativamente e la stima media si alza di circa mezzo punto, da 5,8 a 6,3% in dollari e da 4,6 a 5,1% in Euro.
Non è chiaramente un consiglio in alcun modo a sovrappesare gli emergenti rispetto agli Stati Uniti, però il consenso comune di queste stime va in questa direzione.
Fatto questo, poi ho deciso che in questo episodio sarei stato il Marty McFly della finanza, avanti e indietro tra passato e futuro, e per chi non sapesse chi è Marty McFly si vada a vedere subito la trilogia di Ritorno al Futuro.
Cosa ho fatto, sono andato a prendere le assumptions del 2014, per confrontare le previsioni di allora e come sono andate effettivamente le cose.
Sinceramente ho trovato solo quello di JP Morgan, quindi prendiamo per buono quello.
Le previsioni si sono rivelate disastrose.
Nel 2014 infatti la venerabile più grande banca del mondo prevedeva:
Rendimento del mercato americano: 7,5% all’anno mentre avrebbe poi fatto addirittura il 12,8%.
Mercati sviluppati ex US: 7,75% e quindi invece sarebbe stato un più modesto 5%.
Infine la cantonata peggiore sarebbe stata sui Mercati emergenti, per cui era previsto addirittura un 9,75% di crescita all’anno, attestatasi invece ad un decisamente più misero 3,4%.
Sui bond poi forse pure peggio.
JP Morgan aveva visto un 4% circa di rendimento medio annuo sui governativi globali e sui Treasury, che invece si sono mossi di poco intorno all1%.
Certo, probabilmente il solo 2022 ha contribuito da solo a disintegrare la performance dei bond.
Però, oh, lo sappiamo che il mercato è così.
Non è che fa piano piano. Singoli anni, o forse singoli mesi, bastano a spostare le performance di un intero decennio.
Anche sulle commodities male male.
3,75% la stima.
-3,75% il risultato reale del bloomberg commodity index, almeno secondo portfolio visualizer.
Qui avevano fatto tutti i conti giusti, forse lo stagista a cui hanno fatto scrivere il report si è dimenticato di mettere il MENO davanti.
Questa volta sarà diverso?
Questa volta le previsioni ci prenderanno?
E chi può dirlo.
Da un parte è bene sapere che tutto il mondo della finanza che conta vede certi trend all’orizzonte.
Che poi si verifichino davvero è tutto un altro discorso.
Tiriamo quindi qualche considerazione conclusiva.
PRIMA CONSIDERAZIONE: le previsioni non possono servire a costruire il portafoglio migliore. Possono essere tuttavia utili per prendere decisioni informate, con cognizione di causa, rimuovendo l’ingenua aspettativa che quel che è successo nel recente passato debba necessariamente ripetersi anche nel futuro.
SECONDA CONSIDERAZIONE: la cosa fondamentale, preso atto di queste stime, non è vincere scommesse, ma costruire un portafoglio che gestisca bene i rischi.
Nessuno può dire che avere l’80% di Nasdaq nel portafoglio sia sbagliato.
Lo dicevano anche 10 anni fa e non era vero.
Però se oggi c’è questa vision diffusa sul prossimo futuro, forse ancora una volta andrebbe rimarcata l’importanza della diversificazione per cercare di intercettare un rendimento accettabile, evitare il rischio di concentrare troppo il portafoglio e soprattutto settare correttamente le proprie aspettative.
Se il nostro portafoglio ha fatto 7,5% nell’ultimo decennio potrebbe benissimo fare 4,5% nel prossimo (o pure meno). Saperlo e prenderne atto con consapevolezza fa parte di una disciplina sana nel rapporto con i propri investimenti
TERZA CONSIDERAZIONE: queste previsioni potrebbero rivelarsi sbagliatissime per mille motivi. Ma ce n’è uno in particolare che caratterizzerà tutti i report futuri che vedremo ogni 6 mesi.
Per queste società, come dire, è più importante “not being wrong than being right”.
Cioè è più importante comprimere le aspettative e giocare “safe”.
Se tutti gli indicatori ufficiali dicono che le valutazioni azionarie sono alte, beh allora meglio dire che la stima è che le azioni andranno meno bene e che quelle andate benissimo, come quelle americane, andranno peggio, mentre quelle sottoperformanti, come i mercati emergenti, andranno meglio.
Se i multipli fanno pensare a questo, meglio fondare le proprie stime su questo.
Discorso analogo sui bond e sui real asset.
Dopo tanti anni di performance disastrose, ha senso sollevare l’ipotesi che queste asset class possano farsi valere in futuro, visto che abbiamo fior fior di elementi per consolidare quest’idea: tassi reali più alti, moderata inflazione, dedollarizzazione, deglobalizzazione, reindustrializzazione, remilitarizzazione e tematiche di sostenibilità ambientale.
Ma detto questo prendetele tutte con le pinze, perché al netto di macrotrend che potrebbero davvero concretizzarsi, poi può essere benissimo che ci troveremo qua nel 2033 e diremo: cazzo anche questo decennio alla fine l’S&P 500 ha battuto tutti…
E così dicendo concludiamo anche l’episodio di oggi, che vi ha snocciolato così tanti numeri che la prima settimana di rientro al lavoro sarà segnata per i più da forti emicranie ma spero anche nuovi spunti di riflessione su guardare al vostro portafoglio e a rendervi sempre più consapevoli sugli scenari che potrebbero prospettarsi.
A questo punto arrivati, consueto ringraziamento a tutti voi che continuate a seguirmi e soprattutto per aver fatto raggiungere a The Bull i 40.000 follower su Spotify.
Ancora uno zero e avremo raggiunto la regina dei podcast Elisa True Crime con i suoi oltre 400.000.
Ma ce la faremo.
Oh alla fine si stuferà la gente di sentire solo storie di gente morta malissimo.
Tra un crimine e l’altro magari si possono imparare due cose su come gestire meglio i soldi no?
Per continuare questa lotta contro l’oscuro potere della cronaca nera italiana, vi invito a maggior ragione a mettere segui e attivare le notifiche su Spotity, Apple Podcast o dove ci ascoltate e a lasciare una recensione a 5 stelle per supportarci e permetterci di continuare a produrre contenuti che “grande giove” ci fanno andare avanti e indietro nel tempo con la nostra Delorean fatta di asset allocation, backtest e profezie varie sempre nuovi.
Per questo episodio è davvero tutto e noi ci risentiamo domenica prossima con il consueto appuntamento di recap su quel che è successo ad Agosto che tra flash crash, rimbalzo, annuncio della Fed che a settembre taglio dei tassi e Dio solo sa cosa succede nella notte tra il 28 e il 29 con la pubblicazione dei dati di Nvidia, probabilmente verrà fuori una puntata di tre ore, sempre qui, naturalmente, con The Bull il tuo podcast di finanza personale.
Recensioni
Quando capisci come funziona la finanza… ti viene voglia di raccontarla!
Riccardo mi ha letteralmente cambiato la vita e fatto scoprire che amo la finanza, ho ascoltato il podcast già due volte e non mi stufo mai di ascoltarlo, parla in modo semplice e chiaro
Massimo D., 23 Set 2025Da quando l'ho scoperto in 15 gg mi sono ascoltato 150 puntate senza fermarmi, ho annullato gli altri podcast per portarmi alla pari ed ascoltare tutte le precedenti puntate, ben fatto, esattamente il livello di informazione che mi serviva
Gianluca G., 11 Set 2025Podcast piacevole, scorre veloce ma in modo estremamente chiaro, spiega i concetti chiave per gestire le proprie finanze, fornendo la classica cassetta degli attrezzi. Complimenti, davvero ben fatto!
Massimiliano, 29 Mag 2024Podcast che dà sempre spunti interessanti che personalmente mi ha fatto appassionare alla finanza personale spingendomi ad approfondire in prima persona.
Lorenzo, 13 Mar 2025Ho acquistato e letto il suo libro e l' ho trovato. Esprime i concetti economici in modo semplice e chiaro. Sentirlo parlare conferma che è un professionista del settore.
Giulia N., 11 Ago 2025Veramente veramente raccomandato! la finanza personale riassunta alla perfezione! e spiegata partendo dall'ABC! Ottimo anche da ascoltare a velocita 1,5x!
Giorgia R., 23 Gen 2025La mia ignoranza in materia mi ha sempre creato dei dubbi, ma grazie a un amico ho iniziato ad ascoltare il podcast. Per fortuna che ho 24 anni e un po' di tempo e soldi da dedicarmi a imparare le varie nozioni per me stesso. Grazie mille!
Luca G. 10 Ott 2025Non sono solito a mettere recensioni e specialmente non ascolto podcast, ma da quando ho iniziato questo, faccio fatica a staccarmi, e quasi non posso più fare a meno di ascoltare e arricchirmi culturalmente.
Andrea V., 22 Set 2025Ho seguito tutte le puntate! Grazie veramente
Amalia A., 17 Set 2025