Dividendi e Buyback: perché investiamo in Azioni
Qual è il senso ultimo dell'investimento azionario? Che differenza c'è tra Yield e Return? Perché lo Shareholder Yield è un potente indicatore del rendimento atteso di un'azione? Come investire in maniera sensata con un occhio ai dividendi in fasi di incertezza?

156. Dividendi e Buyback: perché investiamo in Azioni
Risorse
Punti Chiave
Shareholder Yield unisce dividendi, buyback netti e debito saldato per il ritorno agli azionisti.
Analizza Yield vs Return e l'equivalenza fiscale tra dividendi e buyback.
Alto Shareholder Yield correla con rendimenti superiori e un tilt Value/Quality.
Trascrizione Episodio
Bentornati a The Bull — il tuo podcast di finanza personale
Il momento è infin giunto, care amiche e cari amici di questo podcast.
Se tra quando ho registrato quest’episodio e quando è uscito non è successo qualche evento clamoroso al di fuori dell’umana immaginazione, mentre lo starete ascoltando avremo un nuovo presidente degli Stati Uniti.
O forse un candidato che sembrerebbe aver raggiunto i 270 grandi elettori necessari e l’altro che parla di brogli e che contesta la vittoria dell’avversario.
Comunque sia, inizia una nuova epoca nella storia, e solo il padreterno sa cosa ci dovremo attenere quanto alle future sorti di questo nostro mondo.
In attesa di scoprire chi sarà il nuovo uomo /o la nuova donna, più potente della Terra, oggi ho scelto un argomento a cui sono particolarmente affezionato.
Non tanto per le possibili strategie di investimento che potrebbe implicare.
Quanto perché l’argomento va proprio al nocciolo, al senso ultimo dell’investimento azionario sin dalla notte dei tempi.
Oggi parleremo di questa cosa che si chiama Shareholder’s Yield ma in realtà l’oggetto dell’episodio che state ascoltando riguarda esattamente il perché chi possiede dei capitali dovrebbe mai investirli in azioni.
E trovo che quest’episodio sia fondamentale perché a furia di parlare solo di ETF, che sono e restano il mio strumento preferito in assoluto per investire i miei soldi, a volte ho la sensazione che si perda di vista cosa ci stia sotto, come funzioni in generale l’investimento in azioni.
Noi con gli ETF semplicemente compriamo un botto di azioni alla volta.
E investendo in ETF abbiamo deciso che ci sta bene prendere tutto il mercato e non fare selezioni minuziose.
Ma ciò non toglie che il sottostante degli ETF azionari siano singole azioni, singole società che ricevono capitali e tramite quei capitali fanno “cose” che in qualche modo dovrebbero restituirci del rendimento.
A questo punto arrivati è necessario chiarire il senso profondo dell’investimento azionario, demistificare alcuni luoghi comuni ed eventualmente trarre qualche spunto per chi vorrà magari prendere per il proprio portafoglio qualche decisione che si rifà alle cose che diremo oggi.
Tra i vari materiali su cui mi sono basato per scrivere i contenuti che sentirete, ancora una volta è stata una preziosissima fonte quell’inesauribile pozzo di conoscenza che prende il nome di Meb Faber.
Meb Faber viene spesso citato in questo podcast, assieme ai due Nick e ai due Ben, e viene citato a buon diritto perché è un raro esempio di un professionista con una preparazione teorica su tematiche di finanza di livello accademico, ma allo stesso tempo un approccio incredibilmente pragmatico che deriva dal suo lavoro di founder e chief investoment officer di Cambio, il tutto condito da uno straordinario talento divulgativo.
Un altro personaggio che ha questo fantastico mix di preparazione teorica, approccio pratico e pure un certo stile ironico è il fondatore del noto hedge fund AQR Cliff Asness.
Il problema di Asness è che leggere un suo paper è solitamente un’esperienza che consuma metà dei neuroni.
Meb, invece, ha il raro dono di andare dritto al punto e rendere ultrasemplici e comprensibili cose che in realtà sarebbero tutt’altro che di facile digestione.
A lui devo la migliore interpretazione di cosa sia il cosiddetto rendimento dell’azionista, che è appunto la tradizione di Shareholder Yield, e delle sue implicazioni nella propria strategia azionaria.
Liberamente ispirati da lui — e in particolare dal suo libro, viva l’originalità, Shareholder Yield — oggi parleremo di come funziona l’investimento azionario, come si è evoluto, cosa ci fa un’azienda con si soldi che ha in mano e che implicazioni ha tutto ciò dentro una strategia di investimento.
Veniamo allo Shareholder Yield, ma facendo qualche passo indietro.
Se una persona ha dei capitali e vuole che questi capitali gli generino altro capitale cosa fa?
Le opzioni principali ce le avete già tutti sicuramente in mente:
– Può comprare un immobile e metterlo in affitto, così che l’affitto gli generi una rendita mensile;
– Oppure può prestare i soldi al proprio governo attraverso i titoli di Stato e ricevere una rendita tipicamente semestrale o annuale attraverso il pagamento degli interessi su queste obbligazioni;
– Oppure ancora può prestare questi soldi ad una società, che li utilizzerà per finanziare il proprio business e in cambio pagherà all’investitore degli interessi, tipicamente più alti di quelli di un titolo di stato, con determinate scadenze e a determinate condizioni;
– Oppure può investire in azioni.
Investire in azioni significa naturalmente diventare socio, acquisire la titolarità di una quota della società e condividerne il rischio d’impresa chiaramente con l’auspicio che la società sia profittevole, faccia utile e condivida con l’investitore una parte di quegli utili.
Chiaro no?
Invece che prestare i soldi ad una società, come nel caso del Corporate Bond, compro una quota della società e ne divento appunto azionista.
Sarò rappresentato nel consiglio di amministrazione, questo nominerà l’amministratore delegato, ne condividerà le strategie e in ultima istanza approverà che farne del capitale a disposizione della società e il bilancio finale.
Ora, prima di proseguire, ribadiamo un piccolo tema linguistico, altrimenti non ci capiamo da qui a fine episodio.
Ne avevo già parlato ma repetita iuvant.
Purtroppo per noi — viste le aberrazioni che poi ne derivano — in italiano ci manca un termine per distinguere il concetto di rendimento, che in inglese si dice Yield, dal concetto di rendimento, che in inglese si dice Return.
Noi siamo abituati a chiamare rendimento sia l’una che l’altra cosa — e questo è un errore.
Perché benché siano due cose evidentemente collegate, si riferiscono a due concetti molto diversi e la differenza non è solo una sottigliezza linguistica.
Yield, diciamo così, è quella parte del capitale investito che torna indietro all’investitore.
Nel caso delle obbligazioni, gli interessi pagati attraverso le cedole periodiche sono lo Yield rispetto al capitale investito.
Il rendimento complessivo dell’investimento in obbligazioni, che considera sia gli interessi che il capital gain che deriva dalla differenza di prezzo tra quando ho acquistato l’obbligazione e quando la vendo o va a scadenza è ciò che si chiama Return o Total Return.
Con le azioni c’è un’analogia più o meno speculare.
Lo Yield deriva dal capitale che, tipicamente sotto forma di cash, torna all’azionista. Tradizionalmente siamo abituati a identificare questo “rendimento del capitale azionario” con il dividendo.
Invece la somma tra il valore dei dividendi distribuiti e la crescita del prezzo dell’azione si chiama Return.
Quando diciamo che il rendimento medio annuo storico dell’S&P 500 è circa 10%, questo 10% è il Total Return, ossia la somma tra l’apprezzamento del valore dell’indice espresso dall’aumento dei prezzi delle società che ne fanno parte e il reinvestimento sistematico dei dividendi distribuiti.
E questa cosa del reinvestimento dei dividendi non è un fatto da poco.
Noi siamo abituati ad investire in ETF soprattutto ad accumulazione, dove il reinvestimento dei dividendi avviene in automatico.
Ma se io avessi investito 100 dollari nel mercato americano nel 1871 il price return, cioè il rendimento legato al solo apprezzamento dei prezzi delle azioni quotate, sarebbe stato di circa 1000x, cioè quei 100 dollari sarebbero diventati 100.000.
Con il reinvestimento dei dividendi, il total return sarebbe stato di 600.000x e qui 100 dollari sarebbero diventati oltre 60 milioni.
Lo so che questo backtest è un po’ assurdo perché non esiste un investitore di 150 anni.
Però rende l’idea di quale enorme differenza faccia considerare solo l’apprezzamento di un investimento azionario invece che il suo intero total return, fatto anche del reinvestimento dei dividendi.
Cosa vuol dire “reinvestimento dei dividendi”?
Naturalmente vuol dire che se sto investendo in che so? Coca Cola, per esempio, quando Coca Cola mi paga 1.000 .
Dopo un anno questa azione va bene e sale a 120 .
Fantastico, mi arrivano 6 . Semplicemente, invece che avere 120 in azioni e 6 $ in cash per ogni singola azione che possiedo.
Al netto di considerazioni fiscali, ricevere un dividendo del 5% o vendere il 5% delle mie azioni produce lo stesso risultato.
Che poi investire in azioni che staccano dividendi possa essere una cosa positiva lo vedremo nel corso dell’episodio.
Ma presa in sé e per sé, il fatto che un’azienda paghi un dividendo più o meno alto non è un fatto particolarmente interessante né qualcosa che ci dia informazioni utili sulla bontà di quella particolare azione come investimento.
Detto questo, dalla notte dei tempi i dividendi sono stati un meccanismo quasi sacro per restituire cash agli azionisti, in particolare se la società non aveva in mente modi più proficui di utilizzare i profitti.
Tra poco vedremo quali sono i 5 modi in cui può essere impiegato il capitale di una società.
Però anche senza entrare nel dettaglio, se ci pensate ha senso: se sono socio di una società e non so che farmene di tutto il profitto che genera, uno dei modi canonici di utilizzare quel profitto è di pagarlo agli investitori che ci faranno quel che vorranno.
Così è sempre stato sia negli Stati Uniti che in Europa.
Però a partire dagli anni ’80 e con una sempre maggiore frequenza nell’ultimo ventennio, le società americane hanno cominciato a distribuire sempre meno dividendi e a fare sempre più buyback, ossia riacquisto sul mercato di azioni proprie.
La società di Asset Management Verdad, anche lei spesso citata in questo podcast per le sue sopraffine ricerche, ha fatto una puntuale analisi che mostra che mentre in Europa c’è una correlazione lineare tra dividend yield e total return — ossia le società che distribuiscono più dividendi sono anche quelli che hanno in media i rendimenti maggiori — negli Stati Uniti questa cosa non si vede. Al contrario, negli Stati Uniti le società con il total return a 12 mesi maggiore sono quelle che hanno fatto maggiori riacquisti di azioni proprie, maggiori buyback.
Tra poco spieghiamo perché una società dovrebbe ricomprarsi le proprie azioni, ma già fin da ora è importante che per tutti sia chiaro il seguente concetto: un dividendo o un buyback, in termini contabili e al netto di alcuni aspetti fiscali, sono la stessa identica e medesima cosa.
Cioè, dal mio punto di vista come investitore, che una società paghi un dividendo del 5% o si ricompri il 5% delle sue azioni, non fa alcuna differenza.
Questa cosa suona un po’ strana di primo acchito.
Lasciatemi quindi fare un esempio semplice semplice che chiarisce tutto.
Io sono un investitore che ha la sua bella azione nella società The Bull Spa che scambiata sul mercato a 100 €.
Grazie al commovente supporto dei suoi ascoltatori, la The Bull Spa ha generato un certo profitto e il suo consiglio di amministrazione, tra le varie cose che ci può fare con quel profitto, si interroga se pagare un dividendo del 10% oppure se ricomprarsi il 10% delle proprie azioni.
10% è tanto di solito, ma giusto per semplificare i conti.
CASO 1: paga il 10% di dividendo.
Cosa succede? Succede che gli azionisti di The Bull, come detto prima, si troveranno con 10 € per azione sul conto corrente mentre il prezzo dell’azione verosimilmente scenderà a 90 €, perché chiaramente chi compra l’azione dopo lo stacco del dividendo non avrà i 10 € che vi siete intascati e quindi sarà disposto a comprarla solo ad un prezzo “scontato” del valore del dividendo.
Se avevo 10 azioni mi ritroverò con 900 € come controvalore azionario e 100 € in cash.
Semplice no?
OK
Ora vediamo il
CASO 2: The Bull decide di non pagare nessun dividendo e di ricomprarsi il 10% delle azioni sul mercato.
Però — e qui viene il passaggio che molti spesso si dimenticano — se la The Bull Spa si ricompra le azioni, chi glie le vende? Per forza di cose glie le possono rivendere solo i suoi azionisti.
A questo punto l’azionista di The Bull cosa può fare? Ha due opzioni chiaramente:
– La prima opzione è dire: no, preferivo il dividendo, quindi accetto di vendere a The Bull Spa il 10% delle mie azioni.
Se prima avevo 10 azioni a 100 € l’una, quindi 1.000 € in totale e adesso decido di venderne una, ossia il 10% di 10, mi ritroverò con 9 azioni da 100 € più 100 € derivanti dalla vendita. Esattamente come nel caso 1, mi ritrovo con 900 € come controvalore azionario e sempre 100 € in cash.
– Nel caso del buyback però ho anche un’altra opzione, ossia dire: ok, io non voglio disinvestire neanche una parte del mio capitale nella The Bull Spa, quindi a The Bull non vendo nessun azione.
In questo caso la The Bull Spa si ricompra il suo 10% di azioni da altri investitori, si riduce del 10% la quantità di azioni in circolazione — dette outstanding shares — e io resto con i miei 1.000 € in azioni The Bull.
L’unica vera differenza tra i due casi è che con i dividendi sono costretto a pagarci sopra le tasse, mentre invece se la società fa buyback il mio investimento nella società resta tax free.
Bisogna dire una cosa.
Sinceramente non so come funzioni nel dettaglio la fiscalità americana.
Ma in Italia di per certo il buyback ha un vantaggio fiscale.
Se ricevo 10 € di dividendo pago il 26% di tasse, quindi se avevo 10 azioni pagherà 26 € di tasse.
Se invece vendo il 10% delle mie azioni, pago il 26% sulla differenza tra il prezzo di vendita e il prezzo medio di acquisto.
Ammettiamo che le mie 10 azioni erano in profitto del 20%.
Se vendo un’azione a 100 €, le tasse le pagherò solo su 20 €, non su 100 come nel caso dei dividendi.
È ovvio che le tasse che non pago ora presto o tardi le pagherò, ma sappiamo bene che per il principio dell’interesse composto, più tardi pago le tasse, maggiori sono i benefici sulla crescita del mio patrimonio.
Ci si potrebbe chiedere, a questo punto, perché una società debba pagare un dividendo o effettuare un buyback. O perché in generale debba fare una di queste due cose.
Allora per capire questo — nonché per capire come funziona il lavoro principale del CEO di una società quotata — grazie a Meb Faber ho sistematizzato una serie di idee che avevo intesta un po’ disperse.
Con grande chiarezza Meb spiega che ci sono solo 5 modi per una società quotata di utilizzare il proprio capitale.
PRIMO MODO: investirlo nel business stesso, per esempio in ricerca e sviluppo oppure nell’acquisto di infrastrutture o altre cose.
Se Apple, Microsoft, Google e tutte quante non investissero centinaia di miliardi di dollari nel proprio business per sviluppare nuovi prodotti e servizi, queste si sarebbero estinte da un pezzo.
SECONDO MODO: Merge and Acquisition. Una società può quindi decidere di fondersi o più frequentemente di comprarne un’altra più piccola.
Giusto per citare un paio di casi celebri: la allora Facebook comprò Instagram, che oggi è chiaramente il prodotto di punta di Meta. Google comprò YouTube, che è praticamente una macchina che stampa soldi.
Yahoo invece si rifiutò di acquisire Google perché riteneva la cifra di un miliardo di dollari eccessiva. Oggi Google ne vale più di 2.000 mentre Yahoo è finita in miseria.
Comunque, senza arrivare a casi così eclatanti, il processo di acquisizione di nuove società è parte integrante del modello operativo di tante grandi società.
Spesso è più semplice ed economico portarsi in casa una tecnologia, un brand, un servizio o quel che volete comprando un’intera società che non mettendosi a sviluppare queste cose in autonomia.
Quando una società decide di reinvestire i propri capitali nel proprio business oppure di fare acquisizioni?
Quando ritiene che in questi due casi il Ritorno sul capitale investito — il ROIC, Return on invested capital — sia superiore al costo del capitale stesso.
Se invece la società ritiene che non sia conveniente investire ulteriori capitali nel proprio business o in acquisizioni, allora che fa? Mica può tenersi i soldi sul conto in banca.
E qui arrivano gli altri tre modi per utilizzare il proprio capitale.
TERZO MODO: ripagare i debiti.
Non esiste una società senza debito.
Il debito è parte integrante del capitalismo.
Persino le magnifiche 7 hanno nei propri bilanci un debito a lungo termine. Apple in particolare.
Ma questo non è un problema, perché un’azienda sana riterrà più conveniente finanziare certe attività tramite debito e altre pagandole direttamente in cash, a seconda di tanti fattori, tra cui i tassi di interesse vigenti.
Quando i tassi erano a zero, finanziare alcune attività a debito era spesso più conveniente che usare soldi propri.
Oggi con i tassi quasi al 5% negli Stati Uniti, probabilmente verrebbe presa una decisione diversa.
Comunque, nel momento in cui la società ritiene di aver un rapporto di indebitamento eccessivo rispetto al suo valore contabile, allora potrebbe decidere che un buon modo per utilizzare i soldi che gli avanzano e pagare dei debiti e ridurre gli interessi che deve pagarci sopra.
Di solito la metrica di riferimento è il Debt-to-Equity ratio, cioè il rapporto tra il debito a lungo termine e la differenza tra Asset e Liabilities della società.
Se invece il CEO e il consiglio di amministrazione ritengono che non ci sia un buon motivo per ripagare alcuni debiti, allora questi soldi verranno utilizzati ricompensare gli azionisti, gli shareholder.
E qui abbiamo le due opzioni viste sinora.
Il quarto e il quinto modo sono appunto: pagare un dividendo oppure ricomprarsi le proprie azioni tramite buyback.
Qual è il criterio di scelta?
Tanto per cambiare, la risposta migliore a questa domanda non poteva che arrivare da sua maestà Warren Buffett, forse la persona più esperta sulla faccia di questa Terra in materia di allocazione del capitale.
Come noto, Berkshire Hathaway non paga dividendi.
Una volta disse che negli anni ’60 Berkshire deliberò il pagamento di 10 centesimi di dividendi, ma lui probabilmente era in bagno.
Qual è secondo lui il criterio in base al quale decidere se sia meglio pagare un dividendo o fare un buyback?
Il criterio è l’intrinsic value.
Cioè lui dice:
– In questo momento l’azione della società ha un prezzo sottovalutato rispetto al suo valore intrinseco? Se sì, allora il CEO dovrebbe propendere per un riacquisto delle proprie azioni, quello che lui definisce pagare 80 centesimi per avere un dollaro.
– Se invece l’azione della società è sopravvalutata e non ci sono altri modi profittevoli per investire nel proprio business o ripagare debiti, allora avrebbe più senso pagare un dividendo, così che poi l’azionista possa scegliere di riallocare il capitale da un’altra parte.
Certo, sapere se il prezzo di un’azione sia sopra o sotto l’intrinsic value è tutta un’altra faccenda.
Non è che ci sia un metodo oggettivo per farlo.
Lui è il più grande value investor di tutti i tempi.
In genere, la capacità di capire se un’azione sia sottovalutata o sopravvalutata non è un talento che appartiene ai più.
Per i tanti che stanno sbroccando vedendo Buffet che ha venduto un’altra manica di miliardi di azioni di Apple e che ha impilato la più grande montagna di cash che si sia mai vista, oltre 300 miliardi di dollari parcheggiati in Treasury Bills, ecco, ricordatevi sempre come ragiona Buffet.
Lui inizio ad investire in Apple nel 2016, quando il suo price earnings ratio era 10.
Oggi è sopra i 30.
Per lui è perfettamente sensato ritenere che un’esposizione, come era fino a pochi mesi fa, del 50% del suo portafoglio in una società così costosa non si sposasse con il suo modello di value investing.
Non è che lui sa qualcosa che non sappiamo.
Non sta prevedendo un disastro geopolitico o una crisi finanziaria epocale.
Semplicemente ritiene che per n motivi, di natura strategica, finanziaria e fiscale, avere 300 miliardi in T-Bills che rendono il 5% all’anno sia meglio che averli investiti in Apple, Bank of America o altre società da cui ha disinvestito, nell’attesa in cui si presentino altre opportunità in cui fare un nuovo investimento leggendario.
Quando hai 300 miliardi di dollari non è che sia facilissimo trovare roba da comprare che risponda ai suoi soliti requisiti, ossia:
– Modello di business che lui riesca a capire al volo;
– Wide moat, ossia società con un vantaggio competitivo devastante nel proprio settore, come Coca Cola, American Express e certamente la stessa Apple; ma soprattutto
– Un prezzo al di sotto del suo intrinsic value.
In questo momento in cui si sprecano parole a descrivere il livello esorbitante di costo dell’S&P 500, difficile trovare società in cui investire con quei requisiti.
Aggiungici poi che di Tech non ci capisce una mazza, resta ben poco.
Torniamo a noi e veniamo all’idea a cui è tanto affezionato Meb Faber, ossia il rendimento dell’azionista, lo Shareholder Yield.
Abbiamo capito che quando investo dei soldi in una società, parte di questo capitale mi torna indietro o come dividendo o come buyback — o naturalmente come combinazione di entrambi, perché io oggi sto un po’ semplificando, ma non è che uno dei 5 modi di usare il capitale escluda gli altri 4.
Apple, per esempio, usa i propri soldi in ricerca e sviluppo, fa acquisizioni, ripaga a volte i debiti e soprattutto PAGA DIVIDENDI ed è la società che fa più BUYBACK al mondo.
Gli investitori in azione, in generale, hanno in media quest’aberrazione per i dividendi, perché in qualche modo ricevere soldi sul conto li fa felici.
Al contrario capiscono meno i buyback e non comprendono che è la stessa identica cosa.
Bisogna dire che è una deformazione soprattutto europea — per non parlare dell’Italia.
Da noi è veramente un mantra prediligere azioni con un alto dividendo, ignorando il fatto che se una società paga un alto dividendo ma il suo total return è mediocre, fondamentalmente paghi più tasse per niente.
Ad ogni modo, Meb Faber dice: attenzione, il vero valore dello Shareholder Yield non coincide con i dividendi pagati da una società, bensì dalla somma dei seguenti 3 elementi
– Il primo è il dividend yield, cioè quanto la società paga in dividendi rispetto al prezzo dell’azione;
– Il secondo è il net buyback yield, cioè la differenza tra quante azioni la società si è ricomprata e il numero di nuove azioni che ha immesso sul mercato, il tutto diviso per la capitalizzazione di mercato;
– Il terzo è il net debr payout yield, cioè semplicemente quanto debito la società ha saldato diviso il valore dell’azione.
Dividendi + Buyback netti + Debito saldato.
Questo è il vero Shareholder Yield e secondo Meb Faber — e non solo secondo lui peraltro — ciò dovrebbe essere il vero oggetto di interesse di chi persegue strategie di dividend investing, mentre invece di solito ci si fissa sui dividendi e si perde metà della storia.
Perché Buyback netti?
Perché come sapete molte società, soprattutto quelle americane, emettono una montagna di nuove azioni per i pacchetti retributivi dei propri dipendenti più strategici.
Se Apple assume 100 nuovi ingegneri e a ciascuno deve dare un pacchetto di Stock options, ad un certo punto queste azioni glie le devi dare.
E per dargliele devi immetterle sul mercato.
Ma se immetti azioni sul mercato, diluisci l’utile per azione degli investitori, perché lo stesso utile si distribuirà su più azioni.
Se invece fai buyback, puoi controbilanciare questo impatto.
E invece perché anche il debito ripagato?
Questa in realtà è una spiegazione molto più complessa e lo stesso Faber dice che potendo tornare indietro, a quando per la prima volta ha pubblicato il suo white paper sullo shareholder yield, non avrebbe parlato di questa cosa perché crea confusione.
Comunque, senza entrare troppo nel dettaglio, anche il pagamento di un debito può essere visto come trasferimento indiretto di valore all’azionista.
Se una società ha meno debiti — e meno interessi su questi debiti — da pagare, allora è come se maggiori risorse fossero a disposizione degli azionisti.
Ad ogni modo, anche se quest’ultimo punto non fosse chiaro, considerare lo Shareholder Yield anche solo come la somma di dividendi e buyback è sufficiente per capire la cosa più importante, ossia: c’è in tutti i mercati sviluppati una correlazione chiara tra le società con il maggior Shareholder Yield e il loro rendimento complessivo.
In Europa, pesa di più la parte dividendi.
Negli Stati Uniti, pesa di più la parte buyback.
Ma in generale, maggiore è lo Shareholder Yield, maggiore sembra sia il ritorno atteso dall’investimento in quell’azione.
Stando al backtest che ha elaborato Alpha Architect per Meb Faber, se prendiamo il ritorno dell’S&P 500 degli ultimi 50 anni e lo confrontiamo con un portafoglio equally weighted composto di volta in volta dal 25% delle società con il maggiore Shareholder Yield, questo portafoglio avrebbe massacrato l’onnipotente S&P 500: 13,3% di rendimento medio annuo contro 10,3%.
Una tonnellata di soldi in più.
Perché?
Per quale motivo dividendi e buyback dovrebbero generare un extra rendimento?
In fondo abbiamo detto che il cash pagato come dividendo o il buyback non creano rendimento dal nulla, sono solo dei modi equivalenti per restituire capitali agli azionisti.
Eppure, la sovraperformance è schiacciante ed emerge anche in altri mercati.
Ora, capire i motivi di un qualunque factor premium non è mai semplice.
Probabilmente ci sono una serie di motivazioni che concorrono a creare questa correlazione tra alto Yield e alto Return.
NUMERO UNO: per definizione, società hanno un alto Shareholder Yield difficilmente saranno società Growth, che di solito non distribuiscono un dollaro di dividendo e reinvestono tutti i profitti nel proprio business. È invece più facile che le società ad alto rendimento abbiamo un naturale tilt verso fattori come Value e Quality.
Fama e French avevano già dimostrato che le società value tendono a sovraperformare il mercato perché devono compensare l’assunzione di un rischio sistematico maggiore rispetto al mercato.
Quality invece non è esattamente uno dei 5 fattori di Fama e French, ma una via di mezzo tra i fattor Profitability e investment ossia: le società con un’alta profittabilità e un basso livello di capital expenditures tendono a battere il mercato in aggregato.
NUMERO DUE: un altro motivo di sovraperformance potrebbe essere il focus del management sul trasferimento di valore agli azionisti, invece che sull’utilizzo del capitale in maniera meno oculata. Se una società per esempio sovrainveste in ricerca e sviluppo o si lancia in progetti di acquisizione troppo ottimistici, in media questo ha un impatto negativo sui rendimenti. Se invece il management della società ha come obiettivo primario generare free cash flow da restituire in qualche modo agli investitori, questo evidentemente genera un ritorno complessivo maggiore su quell’azione.
Per chi non se lo ricordasse, il Free Cash Flow è — detta male — la quantità di cash reale che una società genera ogni anno.
Per calcolarlo si prende il profitto netto dell’anno, si aggiungono gli ammortamenti, si tolgono i capital expenditure e la differenza nel capitale netto circolante, che è la differenza tra current asset e current liabilities.
Il risultato è il cash reale che la società ha a disposizione e che può usare nei 5 modi descritti prima.
NUMERO TRE: la butto lì, ma più per suggestione su un nuovo episodio che sto preparando sugli errori nelle previsioni, che non perché ci sia qualche evidenza in merito.
Lo Shareholder Yield è in generale una metrica più sfumata di altre e meno visibile — per così dire.
Il mercato in generale potrebbe essere incline a sottostimare il rendimento atteso di una società con alto shareholder yield rispetto ad una società growth. E probabilmente nel breve termine avrebbe ragione. Nel lungo termine, invece, sottovalutare queste società produrrebbe rendimenti attesi superiori.
La società di Meb Faber ha un noto ETF che si chiama Shareholder Yield ETF appunto che si basa proprio su questa logica.
Non è un caso che il price/earnings ratio medio delle società incluse nel suo ETF sia sotto 12, rispetto alla media di oltre 27 dell’S&P 500.
Come dire: per definizione, società con alto shareholder yield tendono ad essere sottovalutate.
Questo ETF batte l’S&P 500?
No.
Fa molto bene, ma negli ultimi 10 anni comunque l’S&P avrebbe fatto meglio.
Questo però, paradossalmente, potrebbe essere più un punto a favore di Meb Faber che non il contrario.
Negli ultimi 10, anni, ragazzi, c’è poco da fare.
Se non avevi portafoglio Apple, Microsoft, Google, Meta, Tesla, Amazon e soprattutto Nvidia, l’S&P 500, mi spiace, non lo battevi praticamente mai.
Diverso è il discorso sul futuro.
Oggi le società che stanno trainando la carretta hanno valutazioni elevatissime.
L’avevamo già detto per caso? Sensazione di dejavu…
Dicevo oggi valutazioni elevatissime.
Non è questo il caso invece delle società con le caratteristiche di cui abbiamo parlato oggi, che invece potrebbero avere valutazioni relativamente economiche e quindi un rendimento atteso superiore.
Come dire, in un momento in cui molti stanno proponendo strategie value-oriented, spaventati dalle dimensioni colossali delle big tech e dalla sostenibilità di un mercato molto dipendente dalle sorti di una manciata di società, quello orientato allo Shareholder Yield è un modo per interpretare una strategia di investimento con un’inclinazione value.
Ora, l’ETF di Meb Faber non è UCITS, quindi non si può investirci da qua.
Ho provato a cercare un po’, non è che abbia trovato molto in Europa che va in quella direzione.
Gli unici che in qualche modo mi sembrano costruiti attorno alle idee di cui abbiamo parlato oggi sono questi.
– Uno è iShares MSCI World Quality dividend, che è appunto un ETF a distribuzione che replica società con caratteristiche quality e dividendi sopra la media; in generale ha sottoperformato rispetto all’MSCI world, ma se prendiamo gli ultimi 3 anni, uno dei quali è stato il terribile 2022, in realtà ha fatto meglio;
– Un altro potrebbe essere Fidelity Global Quality Income, un ETF che replica un indice di azioni globali con elevati dividendi e un tilt verso quality, che esattamente come il precedente ha fatto bene in anni difficili come il 2022, mentre fatica a tenere il passo in anni positivi come gli ultimi 2;
– Un altro ancora potrebbe essere Invesco S&P 500 High Dividend Low Volatility, che investe in una selezione di società dell’S&P 500 con elevato dividendo e bassa volatilità oppure, per una versione globale, Ishares MSCI World Minimum Volatilty, che investe in una versione dell’MSCI World incentrata su società a bassa volatilità e maggior dividend yield
Questi tre/quattro strumenti, a cui se ne potrebbero aggiungere molti altri, sono esempi di approcci tendenzialmente difensivi, tiltati verso società che spesso ricalcano le cose di cui abbiamo parlato oggi, anche se non in maniera così diretta come fa l’ETF di Meb Faber, e tipicamente vanno meglio del mercato quando questo va male.
Se l’anatema di Goldman Sachs di cui abbiamo parlato la volta scorsa si dovesse rivelare corretto, con tutti i se e i ma del caso, certamente portafogli che vanno in questa direzione hanno un rendimento atteso migliore del mercato.
L’obiettivo di quest’episodio era spiegare più che altro come funziona, a grandissime linee, l’allocazione del capitale in una società quotata e quali impatti potrebbe avere sulle strategie di investimento, non suggerire strumenti o tanto meno fornire raccomandazioni.
Se però quest’idea dello Shareholder Yield vi piace e inclinare il vostro portafoglio in questa direzione rispecchia meglio il vostro profilo di investitori, allora sappiate che esistono strumenti per provare a fare questa cosa in maniera piuttosto semplice, benché magari non super minuziosa come farebbe Meb.
Care amiche e cari amici di The Bull, eccoci infine giunti al termine del primo episodio della nuova era che ancora non so se sarà l’era Harris o l’era Trump bis.
In tutta onestà, me ne frega il giusto di chi dei due governerà, dato che fino a prova contraria il sistema Stati Uniti è ancora più forte dei suoi singoli esponenti politici. Per ora almeno.
L’unica cosa che auspico che la vittoria di uno o dell’altro sia netta e che appena uno vince l’altro ammetta la sconfitta come fece con grande senso dello stato Al Gore nel 2000 quando probabilmente vinse le elezioni ma il pasticcio dei riconteggi in Florida diede la vittoria per 500 voti a Bush Jr.
Ai mercati interessa poco chi siede alla Casa Bianca.
Interessa molto di più avere un quadro stabile e definito.
Niente come l’incertezza, invece, manda fuori di testa le borse.
Con questo auspicio vi saluto, vi ringrazio ancora una volta per essere qui con me e vi invito a mettere segui e attivare le notifiche su Spotify, Apple podcast o dove ci ascoltate e a lasciare una recensione a 5 stelle per supportarci e permetterci di continuare a produrre contenuti che
– B: ma tu non dovevi andare alla presentazione del tuo libro?
– R: sì perché che ore sono?
– B: vedi un po’ te, sono le cinque e devi ancora prepararti
– R: ma porca…
sempre nuovi
Per questo episodio invece è davvero tutto e noi ci risentiamo domenica prossima per imparare insieme un nuovo passo in questa complicatissima danza chiamata finanza sempre qui, naturalmente, con The Bull — il tuo podcast di finanza personale.
Bentornati a The Bull — il tuo podcast di finanza personale
Il momento è infin giunto, care amiche e cari amici di questo podcast.
Se tra quando ho registrato quest’episodio e quando è uscito non è successo qualche evento clamoroso al di fuori dell’umana immaginazione, mentre lo starete ascoltando avremo un nuovo presidente degli Stati Uniti.
O forse un candidato che sembrerebbe aver raggiunto i 270 grandi elettori necessari e l’altro che parla di brogli e che contesta la vittoria dell’avversario.
Comunque sia, inizia una nuova epoca nella storia, e solo il padreterno sa cosa ci dovremo attenere quanto alle future sorti di questo nostro mondo.
In attesa di scoprire chi sarà il nuovo uomo /o la nuova donna, più potente della Terra, oggi ho scelto un argomento a cui sono particolarmente affezionato.
Non tanto per le possibili strategie di investimento che potrebbe implicare.
Quanto perché l’argomento va proprio al nocciolo, al senso ultimo dell’investimento azionario sin dalla notte dei tempi.
Oggi parleremo di questa cosa che si chiama Shareholder’s Yield ma in realtà l’oggetto dell’episodio che state ascoltando riguarda esattamente il perché chi possiede dei capitali dovrebbe mai investirli in azioni.
E trovo che quest’episodio sia fondamentale perché a furia di parlare solo di ETF, che sono e restano il mio strumento preferito in assoluto per investire i miei soldi, a volte ho la sensazione che si perda di vista cosa ci stia sotto, come funzioni in generale l’investimento in azioni.
Noi con gli ETF semplicemente compriamo un botto di azioni alla volta.
E investendo in ETF abbiamo deciso che ci sta bene prendere tutto il mercato e non fare selezioni minuziose.
Ma ciò non toglie che il sottostante degli ETF azionari siano singole azioni, singole società che ricevono capitali e tramite quei capitali fanno “cose” che in qualche modo dovrebbero restituirci del rendimento.
A questo punto arrivati è necessario chiarire il senso profondo dell’investimento azionario, demistificare alcuni luoghi comuni ed eventualmente trarre qualche spunto per chi vorrà magari prendere per il proprio portafoglio qualche decisione che si rifà alle cose che diremo oggi.
Tra i vari materiali su cui mi sono basato per scrivere i contenuti che sentirete, ancora una volta è stata una preziosissima fonte quell’inesauribile pozzo di conoscenza che prende il nome di Meb Faber.
Meb Faber viene spesso citato in questo podcast, assieme ai due Nick e ai due Ben, e viene citato a buon diritto perché è un raro esempio di un professionista con una preparazione teorica su tematiche di finanza di livello accademico, ma allo stesso tempo un approccio incredibilmente pragmatico che deriva dal suo lavoro di founder e chief investoment officer di Cambio, il tutto condito da uno straordinario talento divulgativo.
Un altro personaggio che ha questo fantastico mix di preparazione teorica, approccio pratico e pure un certo stile ironico è il fondatore del noto hedge fund AQR Cliff Asness.
Il problema di Asness è che leggere un suo paper è solitamente un’esperienza che consuma metà dei neuroni.
Meb, invece, ha il raro dono di andare dritto al punto e rendere ultrasemplici e comprensibili cose che in realtà sarebbero tutt’altro che di facile digestione.
A lui devo la migliore interpretazione di cosa sia il cosiddetto rendimento dell’azionista, che è appunto la tradizione di Shareholder Yield, e delle sue implicazioni nella propria strategia azionaria.
Liberamente ispirati da lui — e in particolare dal suo libro, viva l’originalità, Shareholder Yield — oggi parleremo di come funziona l’investimento azionario, come si è evoluto, cosa ci fa un’azienda con si soldi che ha in mano e che implicazioni ha tutto ciò dentro una strategia di investimento.
Veniamo allo Shareholder Yield, ma facendo qualche passo indietro.
Se una persona ha dei capitali e vuole che questi capitali gli generino altro capitale cosa fa?
Le opzioni principali ce le avete già tutti sicuramente in mente:
– Può comprare un immobile e metterlo in affitto, così che l’affitto gli generi una rendita mensile;
– Oppure può prestare i soldi al proprio governo attraverso i titoli di Stato e ricevere una rendita tipicamente semestrale o annuale attraverso il pagamento degli interessi su queste obbligazioni;
– Oppure ancora può prestare questi soldi ad una società, che li utilizzerà per finanziare il proprio business e in cambio pagherà all’investitore degli interessi, tipicamente più alti di quelli di un titolo di stato, con determinate scadenze e a determinate condizioni;
– Oppure può investire in azioni.
Investire in azioni significa naturalmente diventare socio, acquisire la titolarità di una quota della società e condividerne il rischio d’impresa chiaramente con l’auspicio che la società sia profittevole, faccia utile e condivida con l’investitore una parte di quegli utili.
Chiaro no?
Invece che prestare i soldi ad una società, come nel caso del Corporate Bond, compro una quota della società e ne divento appunto azionista.
Sarò rappresentato nel consiglio di amministrazione, questo nominerà l’amministratore delegato, ne condividerà le strategie e in ultima istanza approverà che farne del capitale a disposizione della società e il bilancio finale.
Ora, prima di proseguire, ribadiamo un piccolo tema linguistico, altrimenti non ci capiamo da qui a fine episodio.
Ne avevo già parlato ma repetita iuvant.
Purtroppo per noi — viste le aberrazioni che poi ne derivano — in italiano ci manca un termine per distinguere il concetto di rendimento, che in inglese si dice Yield, dal concetto di rendimento, che in inglese si dice Return.
Noi siamo abituati a chiamare rendimento sia l’una che l’altra cosa — e questo è un errore.
Perché benché siano due cose evidentemente collegate, si riferiscono a due concetti molto diversi e la differenza non è solo una sottigliezza linguistica.
Yield, diciamo così, è quella parte del capitale investito che torna indietro all’investitore.
Nel caso delle obbligazioni, gli interessi pagati attraverso le cedole periodiche sono lo Yield rispetto al capitale investito.
Il rendimento complessivo dell’investimento in obbligazioni, che considera sia gli interessi che il capital gain che deriva dalla differenza di prezzo tra quando ho acquistato l’obbligazione e quando la vendo o va a scadenza è ciò che si chiama Return o Total Return.
Con le azioni c’è un’analogia più o meno speculare.
Lo Yield deriva dal capitale che, tipicamente sotto forma di cash, torna all’azionista. Tradizionalmente siamo abituati a identificare questo “rendimento del capitale azionario” con il dividendo.
Invece la somma tra il valore dei dividendi distribuiti e la crescita del prezzo dell’azione si chiama Return.
Quando diciamo che il rendimento medio annuo storico dell’S&P 500 è circa 10%, questo 10% è il Total Return, ossia la somma tra l’apprezzamento del valore dell’indice espresso dall’aumento dei prezzi delle società che ne fanno parte e il reinvestimento sistematico dei dividendi distribuiti.
E questa cosa del reinvestimento dei dividendi non è un fatto da poco.
Noi siamo abituati ad investire in ETF soprattutto ad accumulazione, dove il reinvestimento dei dividendi avviene in automatico.
Ma se io avessi investito 100 dollari nel mercato americano nel 1871 il price return, cioè il rendimento legato al solo apprezzamento dei prezzi delle azioni quotate, sarebbe stato di circa 1000x, cioè quei 100 dollari sarebbero diventati 100.000.
Con il reinvestimento dei dividendi, il total return sarebbe stato di 600.000x e qui 100 dollari sarebbero diventati oltre 60 milioni.
Lo so che questo backtest è un po’ assurdo perché non esiste un investitore di 150 anni.
Però rende l’idea di quale enorme differenza faccia considerare solo l’apprezzamento di un investimento azionario invece che il suo intero total return, fatto anche del reinvestimento dei dividendi.
Cosa vuol dire “reinvestimento dei dividendi”?
Naturalmente vuol dire che se sto investendo in che so? Coca Cola, per esempio, quando Coca Cola mi paga 1.000 .
Dopo un anno questa azione va bene e sale a 120 .
Fantastico, mi arrivano 6 . Semplicemente, invece che avere 120 in azioni e 6 $ in cash per ogni singola azione che possiedo.
Al netto di considerazioni fiscali, ricevere un dividendo del 5% o vendere il 5% delle mie azioni produce lo stesso risultato.
Che poi investire in azioni che staccano dividendi possa essere una cosa positiva lo vedremo nel corso dell’episodio.
Ma presa in sé e per sé, il fatto che un’azienda paghi un dividendo più o meno alto non è un fatto particolarmente interessante né qualcosa che ci dia informazioni utili sulla bontà di quella particolare azione come investimento.
Detto questo, dalla notte dei tempi i dividendi sono stati un meccanismo quasi sacro per restituire cash agli azionisti, in particolare se la società non aveva in mente modi più proficui di utilizzare i profitti.
Tra poco vedremo quali sono i 5 modi in cui può essere impiegato il capitale di una società.
Però anche senza entrare nel dettaglio, se ci pensate ha senso: se sono socio di una società e non so che farmene di tutto il profitto che genera, uno dei modi canonici di utilizzare quel profitto è di pagarlo agli investitori che ci faranno quel che vorranno.
Così è sempre stato sia negli Stati Uniti che in Europa.
Però a partire dagli anni ’80 e con una sempre maggiore frequenza nell’ultimo ventennio, le società americane hanno cominciato a distribuire sempre meno dividendi e a fare sempre più buyback, ossia riacquisto sul mercato di azioni proprie.
La società di Asset Management Verdad, anche lei spesso citata in questo podcast per le sue sopraffine ricerche, ha fatto una puntuale analisi che mostra che mentre in Europa c’è una correlazione lineare tra dividend yield e total return — ossia le società che distribuiscono più dividendi sono anche quelli che hanno in media i rendimenti maggiori — negli Stati Uniti questa cosa non si vede. Al contrario, negli Stati Uniti le società con il total return a 12 mesi maggiore sono quelle che hanno fatto maggiori riacquisti di azioni proprie, maggiori buyback.
Tra poco spieghiamo perché una società dovrebbe ricomprarsi le proprie azioni, ma già fin da ora è importante che per tutti sia chiaro il seguente concetto: un dividendo o un buyback, in termini contabili e al netto di alcuni aspetti fiscali, sono la stessa identica e medesima cosa.
Cioè, dal mio punto di vista come investitore, che una società paghi un dividendo del 5% o si ricompri il 5% delle sue azioni, non fa alcuna differenza.
Questa cosa suona un po’ strana di primo acchito.
Lasciatemi quindi fare un esempio semplice semplice che chiarisce tutto.
Io sono un investitore che ha la sua bella azione nella società The Bull Spa che scambiata sul mercato a 100 €.
Grazie al commovente supporto dei suoi ascoltatori, la The Bull Spa ha generato un certo profitto e il suo consiglio di amministrazione, tra le varie cose che ci può fare con quel profitto, si interroga se pagare un dividendo del 10% oppure se ricomprarsi il 10% delle proprie azioni.
10% è tanto di solito, ma giusto per semplificare i conti.
CASO 1: paga il 10% di dividendo.
Cosa succede? Succede che gli azionisti di The Bull, come detto prima, si troveranno con 10 € per azione sul conto corrente mentre il prezzo dell’azione verosimilmente scenderà a 90 €, perché chiaramente chi compra l’azione dopo lo stacco del dividendo non avrà i 10 € che vi siete intascati e quindi sarà disposto a comprarla solo ad un prezzo “scontato” del valore del dividendo.
Se avevo 10 azioni mi ritroverò con 900 € come controvalore azionario e 100 € in cash.
Semplice no?
OK
Ora vediamo il
CASO 2: The Bull decide di non pagare nessun dividendo e di ricomprarsi il 10% delle azioni sul mercato.
Però — e qui viene il passaggio che molti spesso si dimenticano — se la The Bull Spa si ricompra le azioni, chi glie le vende? Per forza di cose glie le possono rivendere solo i suoi azionisti.
A questo punto l’azionista di The Bull cosa può fare? Ha due opzioni chiaramente:
– La prima opzione è dire: no, preferivo il dividendo, quindi accetto di vendere a The Bull Spa il 10% delle mie azioni.
Se prima avevo 10 azioni a 100 € l’una, quindi 1.000 € in totale e adesso decido di venderne una, ossia il 10% di 10, mi ritroverò con 9 azioni da 100 € più 100 € derivanti dalla vendita. Esattamente come nel caso 1, mi ritrovo con 900 € come controvalore azionario e sempre 100 € in cash.
– Nel caso del buyback però ho anche un’altra opzione, ossia dire: ok, io non voglio disinvestire neanche una parte del mio capitale nella The Bull Spa, quindi a The Bull non vendo nessun azione.
In questo caso la The Bull Spa si ricompra il suo 10% di azioni da altri investitori, si riduce del 10% la quantità di azioni in circolazione — dette outstanding shares — e io resto con i miei 1.000 € in azioni The Bull.
L’unica vera differenza tra i due casi è che con i dividendi sono costretto a pagarci sopra le tasse, mentre invece se la società fa buyback il mio investimento nella società resta tax free.
Bisogna dire una cosa.
Sinceramente non so come funzioni nel dettaglio la fiscalità americana.
Ma in Italia di per certo il buyback ha un vantaggio fiscale.
Se ricevo 10 € di dividendo pago il 26% di tasse, quindi se avevo 10 azioni pagherà 26 € di tasse.
Se invece vendo il 10% delle mie azioni, pago il 26% sulla differenza tra il prezzo di vendita e il prezzo medio di acquisto.
Ammettiamo che le mie 10 azioni erano in profitto del 20%.
Se vendo un’azione a 100 €, le tasse le pagherò solo su 20 €, non su 100 come nel caso dei dividendi.
È ovvio che le tasse che non pago ora presto o tardi le pagherò, ma sappiamo bene che per il principio dell’interesse composto, più tardi pago le tasse, maggiori sono i benefici sulla crescita del mio patrimonio.
Ci si potrebbe chiedere, a questo punto, perché una società debba pagare un dividendo o effettuare un buyback. O perché in generale debba fare una di queste due cose.
Allora per capire questo — nonché per capire come funziona il lavoro principale del CEO di una società quotata — grazie a Meb Faber ho sistematizzato una serie di idee che avevo intesta un po’ disperse.
Con grande chiarezza Meb spiega che ci sono solo 5 modi per una società quotata di utilizzare il proprio capitale.
PRIMO MODO: investirlo nel business stesso, per esempio in ricerca e sviluppo oppure nell’acquisto di infrastrutture o altre cose.
Se Apple, Microsoft, Google e tutte quante non investissero centinaia di miliardi di dollari nel proprio business per sviluppare nuovi prodotti e servizi, queste si sarebbero estinte da un pezzo.
SECONDO MODO: Merge and Acquisition. Una società può quindi decidere di fondersi o più frequentemente di comprarne un’altra più piccola.
Giusto per citare un paio di casi celebri: la allora Facebook comprò Instagram, che oggi è chiaramente il prodotto di punta di Meta. Google comprò YouTube, che è praticamente una macchina che stampa soldi.
Yahoo invece si rifiutò di acquisire Google perché riteneva la cifra di un miliardo di dollari eccessiva. Oggi Google ne vale più di 2.000 mentre Yahoo è finita in miseria.
Comunque, senza arrivare a casi così eclatanti, il processo di acquisizione di nuove società è parte integrante del modello operativo di tante grandi società.
Spesso è più semplice ed economico portarsi in casa una tecnologia, un brand, un servizio o quel che volete comprando un’intera società che non mettendosi a sviluppare queste cose in autonomia.
Quando una società decide di reinvestire i propri capitali nel proprio business oppure di fare acquisizioni?
Quando ritiene che in questi due casi il Ritorno sul capitale investito — il ROIC, Return on invested capital — sia superiore al costo del capitale stesso.
Se invece la società ritiene che non sia conveniente investire ulteriori capitali nel proprio business o in acquisizioni, allora che fa? Mica può tenersi i soldi sul conto in banca.
E qui arrivano gli altri tre modi per utilizzare il proprio capitale.
TERZO MODO: ripagare i debiti.
Non esiste una società senza debito.
Il debito è parte integrante del capitalismo.
Persino le magnifiche 7 hanno nei propri bilanci un debito a lungo termine. Apple in particolare.
Ma questo non è un problema, perché un’azienda sana riterrà più conveniente finanziare certe attività tramite debito e altre pagandole direttamente in cash, a seconda di tanti fattori, tra cui i tassi di interesse vigenti.
Quando i tassi erano a zero, finanziare alcune attività a debito era spesso più conveniente che usare soldi propri.
Oggi con i tassi quasi al 5% negli Stati Uniti, probabilmente verrebbe presa una decisione diversa.
Comunque, nel momento in cui la società ritiene di aver un rapporto di indebitamento eccessivo rispetto al suo valore contabile, allora potrebbe decidere che un buon modo per utilizzare i soldi che gli avanzano e pagare dei debiti e ridurre gli interessi che deve pagarci sopra.
Di solito la metrica di riferimento è il Debt-to-Equity ratio, cioè il rapporto tra il debito a lungo termine e la differenza tra Asset e Liabilities della società.
Se invece il CEO e il consiglio di amministrazione ritengono che non ci sia un buon motivo per ripagare alcuni debiti, allora questi soldi verranno utilizzati ricompensare gli azionisti, gli shareholder.
E qui abbiamo le due opzioni viste sinora.
Il quarto e il quinto modo sono appunto: pagare un dividendo oppure ricomprarsi le proprie azioni tramite buyback.
Qual è il criterio di scelta?
Tanto per cambiare, la risposta migliore a questa domanda non poteva che arrivare da sua maestà Warren Buffett, forse la persona più esperta sulla faccia di questa Terra in materia di allocazione del capitale.
Come noto, Berkshire Hathaway non paga dividendi.
Una volta disse che negli anni ’60 Berkshire deliberò il pagamento di 10 centesimi di dividendi, ma lui probabilmente era in bagno.
Qual è secondo lui il criterio in base al quale decidere se sia meglio pagare un dividendo o fare un buyback?
Il criterio è l’intrinsic value.
Cioè lui dice:
– In questo momento l’azione della società ha un prezzo sottovalutato rispetto al suo valore intrinseco? Se sì, allora il CEO dovrebbe propendere per un riacquisto delle proprie azioni, quello che lui definisce pagare 80 centesimi per avere un dollaro.
– Se invece l’azione della società è sopravvalutata e non ci sono altri modi profittevoli per investire nel proprio business o ripagare debiti, allora avrebbe più senso pagare un dividendo, così che poi l’azionista possa scegliere di riallocare il capitale da un’altra parte.
Certo, sapere se il prezzo di un’azione sia sopra o sotto l’intrinsic value è tutta un’altra faccenda.
Non è che ci sia un metodo oggettivo per farlo.
Lui è il più grande value investor di tutti i tempi.
In genere, la capacità di capire se un’azione sia sottovalutata o sopravvalutata non è un talento che appartiene ai più.
Per i tanti che stanno sbroccando vedendo Buffet che ha venduto un’altra manica di miliardi di azioni di Apple e che ha impilato la più grande montagna di cash che si sia mai vista, oltre 300 miliardi di dollari parcheggiati in Treasury Bills, ecco, ricordatevi sempre come ragiona Buffet.
Lui inizio ad investire in Apple nel 2016, quando il suo price earnings ratio era 10.
Oggi è sopra i 30.
Per lui è perfettamente sensato ritenere che un’esposizione, come era fino a pochi mesi fa, del 50% del suo portafoglio in una società così costosa non si sposasse con il suo modello di value investing.
Non è che lui sa qualcosa che non sappiamo.
Non sta prevedendo un disastro geopolitico o una crisi finanziaria epocale.
Semplicemente ritiene che per n motivi, di natura strategica, finanziaria e fiscale, avere 300 miliardi in T-Bills che rendono il 5% all’anno sia meglio che averli investiti in Apple, Bank of America o altre società da cui ha disinvestito, nell’attesa in cui si presentino altre opportunità in cui fare un nuovo investimento leggendario.
Quando hai 300 miliardi di dollari non è che sia facilissimo trovare roba da comprare che risponda ai suoi soliti requisiti, ossia:
– Modello di business che lui riesca a capire al volo;
– Wide moat, ossia società con un vantaggio competitivo devastante nel proprio settore, come Coca Cola, American Express e certamente la stessa Apple; ma soprattutto
– Un prezzo al di sotto del suo intrinsic value.
In questo momento in cui si sprecano parole a descrivere il livello esorbitante di costo dell’S&P 500, difficile trovare società in cui investire con quei requisiti.
Aggiungici poi che di Tech non ci capisce una mazza, resta ben poco.
Torniamo a noi e veniamo all’idea a cui è tanto affezionato Meb Faber, ossia il rendimento dell’azionista, lo Shareholder Yield.
Abbiamo capito che quando investo dei soldi in una società, parte di questo capitale mi torna indietro o come dividendo o come buyback — o naturalmente come combinazione di entrambi, perché io oggi sto un po’ semplificando, ma non è che uno dei 5 modi di usare il capitale escluda gli altri 4.
Apple, per esempio, usa i propri soldi in ricerca e sviluppo, fa acquisizioni, ripaga a volte i debiti e soprattutto PAGA DIVIDENDI ed è la società che fa più BUYBACK al mondo.
Gli investitori in azione, in generale, hanno in media quest’aberrazione per i dividendi, perché in qualche modo ricevere soldi sul conto li fa felici.
Al contrario capiscono meno i buyback e non comprendono che è la stessa identica cosa.
Bisogna dire che è una deformazione soprattutto europea — per non parlare dell’Italia.
Da noi è veramente un mantra prediligere azioni con un alto dividendo, ignorando il fatto che se una società paga un alto dividendo ma il suo total return è mediocre, fondamentalmente paghi più tasse per niente.
Ad ogni modo, Meb Faber dice: attenzione, il vero valore dello Shareholder Yield non coincide con i dividendi pagati da una società, bensì dalla somma dei seguenti 3 elementi
– Il primo è il dividend yield, cioè quanto la società paga in dividendi rispetto al prezzo dell’azione;
– Il secondo è il net buyback yield, cioè la differenza tra quante azioni la società si è ricomprata e il numero di nuove azioni che ha immesso sul mercato, il tutto diviso per la capitalizzazione di mercato;
– Il terzo è il net debr payout yield, cioè semplicemente quanto debito la società ha saldato diviso il valore dell’azione.
Dividendi + Buyback netti + Debito saldato.
Questo è il vero Shareholder Yield e secondo Meb Faber — e non solo secondo lui peraltro — ciò dovrebbe essere il vero oggetto di interesse di chi persegue strategie di dividend investing, mentre invece di solito ci si fissa sui dividendi e si perde metà della storia.
Perché Buyback netti?
Perché come sapete molte società, soprattutto quelle americane, emettono una montagna di nuove azioni per i pacchetti retributivi dei propri dipendenti più strategici.
Se Apple assume 100 nuovi ingegneri e a ciascuno deve dare un pacchetto di Stock options, ad un certo punto queste azioni glie le devi dare.
E per dargliele devi immetterle sul mercato.
Ma se immetti azioni sul mercato, diluisci l’utile per azione degli investitori, perché lo stesso utile si distribuirà su più azioni.
Se invece fai buyback, puoi controbilanciare questo impatto.
E invece perché anche il debito ripagato?
Questa in realtà è una spiegazione molto più complessa e lo stesso Faber dice che potendo tornare indietro, a quando per la prima volta ha pubblicato il suo white paper sullo shareholder yield, non avrebbe parlato di questa cosa perché crea confusione.
Comunque, senza entrare troppo nel dettaglio, anche il pagamento di un debito può essere visto come trasferimento indiretto di valore all’azionista.
Se una società ha meno debiti — e meno interessi su questi debiti — da pagare, allora è come se maggiori risorse fossero a disposizione degli azionisti.
Ad ogni modo, anche se quest’ultimo punto non fosse chiaro, considerare lo Shareholder Yield anche solo come la somma di dividendi e buyback è sufficiente per capire la cosa più importante, ossia: c’è in tutti i mercati sviluppati una correlazione chiara tra le società con il maggior Shareholder Yield e il loro rendimento complessivo.
In Europa, pesa di più la parte dividendi.
Negli Stati Uniti, pesa di più la parte buyback.
Ma in generale, maggiore è lo Shareholder Yield, maggiore sembra sia il ritorno atteso dall’investimento in quell’azione.
Stando al backtest che ha elaborato Alpha Architect per Meb Faber, se prendiamo il ritorno dell’S&P 500 degli ultimi 50 anni e lo confrontiamo con un portafoglio equally weighted composto di volta in volta dal 25% delle società con il maggiore Shareholder Yield, questo portafoglio avrebbe massacrato l’onnipotente S&P 500: 13,3% di rendimento medio annuo contro 10,3%.
Una tonnellata di soldi in più.
Perché?
Per quale motivo dividendi e buyback dovrebbero generare un extra rendimento?
In fondo abbiamo detto che il cash pagato come dividendo o il buyback non creano rendimento dal nulla, sono solo dei modi equivalenti per restituire capitali agli azionisti.
Eppure, la sovraperformance è schiacciante ed emerge anche in altri mercati.
Ora, capire i motivi di un qualunque factor premium non è mai semplice.
Probabilmente ci sono una serie di motivazioni che concorrono a creare questa correlazione tra alto Yield e alto Return.
NUMERO UNO: per definizione, società hanno un alto Shareholder Yield difficilmente saranno società Growth, che di solito non distribuiscono un dollaro di dividendo e reinvestono tutti i profitti nel proprio business. È invece più facile che le società ad alto rendimento abbiamo un naturale tilt verso fattori come Value e Quality.
Fama e French avevano già dimostrato che le società value tendono a sovraperformare il mercato perché devono compensare l’assunzione di un rischio sistematico maggiore rispetto al mercato.
Quality invece non è esattamente uno dei 5 fattori di Fama e French, ma una via di mezzo tra i fattor Profitability e investment ossia: le società con un’alta profittabilità e un basso livello di capital expenditures tendono a battere il mercato in aggregato.
NUMERO DUE: un altro motivo di sovraperformance potrebbe essere il focus del management sul trasferimento di valore agli azionisti, invece che sull’utilizzo del capitale in maniera meno oculata. Se una società per esempio sovrainveste in ricerca e sviluppo o si lancia in progetti di acquisizione troppo ottimistici, in media questo ha un impatto negativo sui rendimenti. Se invece il management della società ha come obiettivo primario generare free cash flow da restituire in qualche modo agli investitori, questo evidentemente genera un ritorno complessivo maggiore su quell’azione.
Per chi non se lo ricordasse, il Free Cash Flow è — detta male — la quantità di cash reale che una società genera ogni anno.
Per calcolarlo si prende il profitto netto dell’anno, si aggiungono gli ammortamenti, si tolgono i capital expenditure e la differenza nel capitale netto circolante, che è la differenza tra current asset e current liabilities.
Il risultato è il cash reale che la società ha a disposizione e che può usare nei 5 modi descritti prima.
NUMERO TRE: la butto lì, ma più per suggestione su un nuovo episodio che sto preparando sugli errori nelle previsioni, che non perché ci sia qualche evidenza in merito.
Lo Shareholder Yield è in generale una metrica più sfumata di altre e meno visibile — per così dire.
Il mercato in generale potrebbe essere incline a sottostimare il rendimento atteso di una società con alto shareholder yield rispetto ad una società growth. E probabilmente nel breve termine avrebbe ragione. Nel lungo termine, invece, sottovalutare queste società produrrebbe rendimenti attesi superiori.
La società di Meb Faber ha un noto ETF che si chiama Shareholder Yield ETF appunto che si basa proprio su questa logica.
Non è un caso che il price/earnings ratio medio delle società incluse nel suo ETF sia sotto 12, rispetto alla media di oltre 27 dell’S&P 500.
Come dire: per definizione, società con alto shareholder yield tendono ad essere sottovalutate.
Questo ETF batte l’S&P 500?
No.
Fa molto bene, ma negli ultimi 10 anni comunque l’S&P avrebbe fatto meglio.
Questo però, paradossalmente, potrebbe essere più un punto a favore di Meb Faber che non il contrario.
Negli ultimi 10, anni, ragazzi, c’è poco da fare.
Se non avevi portafoglio Apple, Microsoft, Google, Meta, Tesla, Amazon e soprattutto Nvidia, l’S&P 500, mi spiace, non lo battevi praticamente mai.
Diverso è il discorso sul futuro.
Oggi le società che stanno trainando la carretta hanno valutazioni elevatissime.
L’avevamo già detto per caso? Sensazione di dejavu…
Dicevo oggi valutazioni elevatissime.
Non è questo il caso invece delle società con le caratteristiche di cui abbiamo parlato oggi, che invece potrebbero avere valutazioni relativamente economiche e quindi un rendimento atteso superiore.
Come dire, in un momento in cui molti stanno proponendo strategie value-oriented, spaventati dalle dimensioni colossali delle big tech e dalla sostenibilità di un mercato molto dipendente dalle sorti di una manciata di società, quello orientato allo Shareholder Yield è un modo per interpretare una strategia di investimento con un’inclinazione value.
Ora, l’ETF di Meb Faber non è UCITS, quindi non si può investirci da qua.
Ho provato a cercare un po’, non è che abbia trovato molto in Europa che va in quella direzione.
Gli unici che in qualche modo mi sembrano costruiti attorno alle idee di cui abbiamo parlato oggi sono questi.
– Uno è iShares MSCI World Quality dividend, che è appunto un ETF a distribuzione che replica società con caratteristiche quality e dividendi sopra la media; in generale ha sottoperformato rispetto all’MSCI world, ma se prendiamo gli ultimi 3 anni, uno dei quali è stato il terribile 2022, in realtà ha fatto meglio;
– Un altro potrebbe essere Fidelity Global Quality Income, un ETF che replica un indice di azioni globali con elevati dividendi e un tilt verso quality, che esattamente come il precedente ha fatto bene in anni difficili come il 2022, mentre fatica a tenere il passo in anni positivi come gli ultimi 2;
– Un altro ancora potrebbe essere Invesco S&P 500 High Dividend Low Volatility, che investe in una selezione di società dell’S&P 500 con elevato dividendo e bassa volatilità oppure, per una versione globale, Ishares MSCI World Minimum Volatilty, che investe in una versione dell’MSCI World incentrata su società a bassa volatilità e maggior dividend yield
Questi tre/quattro strumenti, a cui se ne potrebbero aggiungere molti altri, sono esempi di approcci tendenzialmente difensivi, tiltati verso società che spesso ricalcano le cose di cui abbiamo parlato oggi, anche se non in maniera così diretta come fa l’ETF di Meb Faber, e tipicamente vanno meglio del mercato quando questo va male.
Se l’anatema di Goldman Sachs di cui abbiamo parlato la volta scorsa si dovesse rivelare corretto, con tutti i se e i ma del caso, certamente portafogli che vanno in questa direzione hanno un rendimento atteso migliore del mercato.
L’obiettivo di quest’episodio era spiegare più che altro come funziona, a grandissime linee, l’allocazione del capitale in una società quotata e quali impatti potrebbe avere sulle strategie di investimento, non suggerire strumenti o tanto meno fornire raccomandazioni.
Se però quest’idea dello Shareholder Yield vi piace e inclinare il vostro portafoglio in questa direzione rispecchia meglio il vostro profilo di investitori, allora sappiate che esistono strumenti per provare a fare questa cosa in maniera piuttosto semplice, benché magari non super minuziosa come farebbe Meb.
Care amiche e cari amici di The Bull, eccoci infine giunti al termine del primo episodio della nuova era che ancora non so se sarà l’era Harris o l’era Trump bis.
In tutta onestà, me ne frega il giusto di chi dei due governerà, dato che fino a prova contraria il sistema Stati Uniti è ancora più forte dei suoi singoli esponenti politici. Per ora almeno.
L’unica cosa che auspico che la vittoria di uno o dell’altro sia netta e che appena uno vince l’altro ammetta la sconfitta come fece con grande senso dello stato Al Gore nel 2000 quando probabilmente vinse le elezioni ma il pasticcio dei riconteggi in Florida diede la vittoria per 500 voti a Bush Jr.
Ai mercati interessa poco chi siede alla Casa Bianca.
Interessa molto di più avere un quadro stabile e definito.
Niente come l’incertezza, invece, manda fuori di testa le borse.
Con questo auspicio vi saluto, vi ringrazio ancora una volta per essere qui con me e vi invito a mettere segui e attivare le notifiche su Spotify, Apple podcast o dove ci ascoltate e a lasciare una recensione a 5 stelle per supportarci e permetterci di continuare a produrre contenuti che
– B: ma tu non dovevi andare alla presentazione del tuo libro?
– R: sì perché che ore sono?
– B: vedi un po’ te, sono le cinque e devi ancora prepararti
– R: ma porca…
sempre nuovi
Per questo episodio invece è davvero tutto e noi ci risentiamo domenica prossima per imparare insieme un nuovo passo in questa complicatissima danza chiamata finanza sempre qui, naturalmente, con The Bull — il tuo podcast di finanza personale.
Recensioni
Quando capisci come funziona la finanza… ti viene voglia di raccontarla!
Riccardo mi ha letteralmente cambiato la vita e fatto scoprire che amo la finanza, ho ascoltato il podcast già due volte e non mi stufo mai di ascoltarlo, parla in modo semplice e chiaro
Massimo D., 23 Set 2025Veramente interessante, chiaro e conciso. Cambia la vita finanziaria di chiunque.. da ascoltare assolutamente anche per chi di finanza non vuole occuparsi mai
Francesca B., 6 Apr 2024La mia ignoranza in materia mi ha sempre creato dei dubbi, ma grazie a un amico ho iniziato ad ascoltare il podcast. Per fortuna che ho 24 anni e un po' di tempo e soldi da dedicarmi a imparare le varie nozioni per me stesso. Grazie mille!
Luca G. 10 Ott 2025Non sono solito a mettere recensioni e specialmente non ascolto podcast, ma da quando ho iniziato questo, faccio fatica a staccarmi, e quasi non posso più fare a meno di ascoltare e arricchirmi culturalmente.
Andrea V., 22 Set 2025Da quando l'ho scoperto in 15 gg mi sono ascoltato 150 puntate senza fermarmi, ho annullato gli altri podcast per portarmi alla pari ed ascoltare tutte le precedenti puntate, ben fatto, esattamente il livello di informazione che mi serviva
Gianluca G., 11 Set 2025Veramente veramente raccomandato! la finanza personale riassunta alla perfezione! e spiegata partendo dall'ABC! Ottimo anche da ascoltare a velocita 1,5x!
Giorgia R., 23 Gen 2025Ho seguito tutte le puntate! Grazie veramente
Amalia A., 17 Set 2025Podcast piacevole, scorre veloce ma in modo estremamente chiaro, spiega i concetti chiave per gestire le proprie finanze, fornendo la classica cassetta degli attrezzi. Complimenti, davvero ben fatto!
Massimiliano, 29 Mag 2024Dovrebbero ascoltarlo buona parte degli italiani e io avrei dovuto scoprirlo con qualche anno in anticipo ma meglio tardi che mai
Matteo C., 3 Set 2025