Delusioni e Sorprese. Come gli Errori nelle Previsioni condizionano i Rendimenti azionari

Siamo forse al picco di un ciclo prima della discesa? Nulla dura per sempre e anche i bull market sono destinati a terminare. Ma è impossibile dire quando. Parliamo del perché le previsioni finanziarie non solo non riescono a stimare i rendimenti futuri, ma addirittura li condizionano e come delusioni e sorprese ne spiegano una buona parte.

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Delusioni e Sorprese. Come gli Errori nelle Previsioni condizionano i Rendimenti azionari
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160. Delusioni e Sorprese. Come gli Errori nelle Previsioni condizionano i Rendimenti azionari

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I rendimenti azionari sono ampiamente influenzati da errori sistematici nelle previsioni di analisti e investitori, dovuti a bias comportamentali.

Valutazioni alte indicano rendimenti futuri attesi più bassi; cruciali diversificazione e risk management, non il market timing.

Trascrizione Episodio

Bentornati a The Bull — il tuo podcast di finanza personale

Nothing lasts forever cantava negli anni ’90 Axel Rose, voce degli straordinari Guns n Roses, uno dei gruppi del cuore della mia vita.

Niente dura per sempre.

La visione di Axel Rose era un po’ pessimistica, credo si riferisse ad un amore che si spegne come una candela nella pioggia di Novembre.

In realtà quest’ineluttabile legge universale della vita tocca indistintamente le cose buone, le cose cattive e le cose che… beh… che sono semplicemente cose.

Tutto passa, niente è destinato a rimanere tale.

Panta Rei hanno insegnato a tutti noi più o meno alla seconda ora di filosofia in 3° superiore.

Tutto scorre e non ci si può immergere due volte nello stesso fiume, perché intanto quello se ne è andato e non tornerà più.

E come tutto scorre e passa, anche i mercati hanno i loro cicli.

Care amiche e cari amici che state condividendo con me questo viaggio che spero non termini mai, almeno finché ci sarà qualcuno tra voi ad ascoltarmi, questo podcast è nato durante un periodo particolarmente fortunato.

Iniziai a pensarci intorno a marzo del 2023, pubblicai i primi episodi a giugno e praticamente negli ultimi due anni tutti voi che vi siete uniti a questa allegra associazione di psicopatici amanti della finanza avete visto i mercati andare praticamente solo su.

Sì ok, a settembre e ottobre del 23 c’era stata un po’ di tensione perché il rendimento dei Treasury non si fermava più.

Quest’anno ad agosto c’è stato il flash crash del Giappone, del carry trade e tutto il resto.

Ma a parte queste due inezie, negli ultimi due anni il total return in euro dell’S&P è stato su per giù del 60% e quello dell’MSCI World poco meno.

Non è che è sempre così eh…

Prima o poi la pacchia finirà.

Ed è giusto che sia così, per definizione un ciclo fa il giro, deve attraversare tutte le sue fasi e quindi è importante arrivare alla prossima fase preparati onde evitare una sberla sui denti.

Tra l’altro sul ciclo dei mercati vi consiglio di leggere How to master the market cicle di Howard Marks, un libro notevole scritto da una leggenda vivente di wall street, di cui vi avevo parlato anche un paio di episodi fa.

Di recente Marks è stato ospite di Goldman Sachs per uno speech interessantissimo, lo trovate su YouTube, vi straconsiglio pure questo.

In quella chiacchierata di un’ora Marks ha parlato del suo punto di vista maturato nel corso di una vita intera dedicata ai mercati finanziari.

Ed estremamente rilevante per l’episodio di oggi sono due suoi pensieri radicati nel suo credo:

1) il primo è che, appunto, nulla dura per sempre: quando un mercato cresce e cresce e cresce e ancora cresce, è solo questione di tempo perché prima o poi venga giù; dall’altra parte è vero anche il contrario. E lui è uno che, insieme allo zio Warren naturalmente, nel 2008 comprò azioni come se non ci fosse un domani, mentre il mondo sembrava stesse crollando.

La persona di Goldman che lo stava intervistando gli chiese: “ma non avevate paura che il mercato potesse non riprendersi più?”.

La sua risposta è stata geniale: “ma sa, se avevamo ragione, sapevamo che avremmo fatto un pozzo di soldi. Se avevamo torto, non era un problema, perché se non ci fossimo più ripresi da quel che stava accadendo nel 2008, il capitalismo sarebbe finito”.

Il suo secondo pensiero è invece che non crede nelle previsioni — e anche qui se ne è uscito con una battuta tipica della sua ironica finezza intellettuale.

È impossibile prevedere il futuro, mentre è possibile prevedere il presente, ossia capire in che contesto ci stiamo muovendo.

Lui, diversamente da quel che io vado professando in continuazione, crede che sia possibile fare market timing e che quindi capendo il presente si possano prendere decisioni migliori per il futuro.

Sì, ci credo anch’io che LUI sia in grado di fare sta cosa.

Ma LUI è appunto una leggenda.

Io sono un povero str***o che non sa niente — e come me il 99% degli investitori (senza offesa se qualcuno di voi invece facesse parte dell’1% insieme a Marks e pochi altri eletti).

E lui, giusto per la cronaca, non solo ha capito perfettamente cosa fare durante il 2008.

Già a inizio 2000 scrisse uno dei suoi memo, che da lì in poi sarebbero diventati celebri, dicendo: ragazzi, siamo in una bolla che sta per scoppiare. Tutte ste società di questa nuova cosa chiamata internet, megagonfiate che non fanno uno straccio di profitto, sono dei fallimenti già scritti.

Così sarebbe stato di lì a pochi mesi.

Così, probabilmente, è iniziata la leggenda di Howard Marks.

Perché vi sto parlando di questo?

Come sapete ogni tanto la prendo un po’ larga, ma adesso pian piano arriviamo al punto.

Questo è un episodio dedicato non solo a parlare di quanto sia difficile fare previsioni in finanza, come abbiamo fatto mille altre volte.

Oggi facciamo un passo avanti per arrivare a spiegare in che misura le previsioni sbagliate non sono solo qualcosa che fallisce nel tentativo di anticipare la futura realtà, ma in qualche modo la condizionano.

Il concetto chiave dell’episodio di oggi è che gli errori nelle previsioni degli analisti, delle banche, degli hedge fund e e degli investitori tutti, sono ciò che in larga parte spiega il rendimento azionario, sia in negativo che, come vedremo, anche e forse soprattutto in positivo.

Cioè diremo che in qualche modo il rendimento del mercato azionario può essere spiegato a partire dagli errori nelle previsioni del mercato stesso e da sentimenti conseguenti: delusioni e sorprese.

Quest’idea non è mia naturalmente — vi ricordo quanto detto sopra: io sono un povero str***o che al limite legge molto.

L’idea arriva da tre paper pazzeschi pubblicati da un team composto dall’equivalente accademico dei Galacticos di Florentino Perez.

Vi metto tutti i riferimenti in nota, cmq vi basti sapere che i 4 professori che hanno pubblicato i paper insegnano rispettivamente a Oxford, Bocconi, Brown e Harvard.

Non proprio gli ultimi 4 pirla che si sono messi a trovare un collegamento tra gli errori sistematici nelle previsioni finanziarie e i rendimenti azionari perché il 5° non si era presentato al calcetto e non sapevano come passare il lunedì sera.

I paper sono tostini.

Anzi, se devo dirla tutta, vanno giù come un bicchiere di sabbia.

Però noi saltiamo tutta la parte quantitativa, ci prendiamo solo le conclusioni e diamo per buono che siano vere, anche perché Dan Rasmussen e Larry Swedrow mi hanno fatto la cortesia di pubblicare un paio di articoletti a fine ottobre in cui sintetizzavano le tesi fondamentali di questi paper, che altrimenti fosse stato solo per me ero ancora a lì a cercare di capirli.

Allora, dove siamo oggi.

La situazione la conoscete a memoria.

– Negli Stati Uniti le valutazioni azionarie sono molto alte, anche se in realtà sono alte perché le mega tech alzano nettamente la media. Tolte Apple & company, il forward price-to-earning ratio, ossia il rapporto tra i prezzi e gli utili per azione previsti per i prossimi 12 mesi non sarebbe un esorbitante 22 ma sarebbe ad un pur sempre alto ma meno sconvolgente 19.

– In Europa e Giappone invece le valutazioni sono molto basse, ma mentre il mercato Giapponese appare interessante per molti investitori, l’Europa è alle prese con grandissime difficoltà, soprattutto per i suoi settori trainanti, le Auto tedesche e il lusso Francese in primis, stanno pagando più di tutti la frenata cinese degli ultimi anni.

– Gli Emergenti, infine, beh sono emergenti. È sempre una scommessa complicata.

Quindi siamo al solito punto.

L’S&P 500 è carissimo — e per definizione più è alto il prezzo a cui investi, minore sarà il rendimento atteso — ma, come si dice, sembra che il mercato americano resti comunque “the only game in town”.

Cosa si fa?

Si continua a credere nel miracolo dell’Intelligenza artificiale e che l’eccezionalismo americano durerà per sempre, o forse ci sono segnali in giro che le cose potrebbero andare diversamente?

Un po’ e un po’.

Ci arriviamo un po’ per volta.

Sicuramente noi, come Marks, non crediamo tanto alle previsioni.

Marks stesso, che nel 2000 chiamò perfettamente la bolla, a domanda sull’oggi ha risposto: “non credo siamo in una bolla; siamo sicuramente in una situazione sopra la media, ma neanche lontanamente vicini agli eccessi del 2000”.

Tra l’altro la tizia di Goldman, quando Marks dice nell’intervista che non crede alle previsioni, fa la simpatica e gli dice “eheh, però credi a quelle di Goldman Sachs”.

Lui fa finta di niente e fa scendere il gelo…

Ne abbiamo parlato in lungo in largo della famigerata previsione di Goldman per i prossimi 10 anni, che vede un rendimento medio del S&P 500 intorno al 3%.

Secondo Goldman ci sono 5 motivi per questa stima così misera, che sarebbe appena nel 7° percentile su base storica (tradotto: il 93% dei decenni sarebbe andato meglio).

Questi 5 motivi sono: l’elevato punto di partenza del rapporto tra prezzi e utili, l’altissima concentrazione del mercato, dove le prime 10 società pesano per oltre un terzo dell’indice, la ciclicità delle recessioni, le previsioni sugli utili e la possibile risalita dei tassi d’interesse.

In particolare, è il primo motivo quello che di solito viene comunemente considerato per fare una stima dei rendimenti futuri.

Se tu prendi il prezzo a cui compri oggi puoi formulare una stima a lungo termine del rendimento che otterrai domani, con un rapporto inversamente proporzionale.

In teoria.

In teoria perché in pratica la correlazione che c’è tra le valutazioni attuali e il rendimento futuro non è di nessun aiuto per prendere decisioni di conseguenza.

Mi spiego.

L’indicatore per eccellenza che viene usato per misurare “quanto sia costoso” il mercato azionario, soprattutto quello americano, non è tanto il rapporto tra prezzo e utili quanto il rapporto tra prezzi e utili degli ultimi 10 anni aggiustato per inflazione, il solito Shiller CAPE ratio.

Le due cose vanno abbastanza a braccetto e come il primo è quasi a livello di record di tutti i tempi, pure il secondo lo è — e non potrebbe essere altrimenti.

Ma mentre c’è, perlomeno guardando al passato, una correlazione significativa tra il CAPE ratio di partenza e il rendimento medio dei 10 anni successivi, c’è anche un’ampia dispersione dei risultati.
Cosa significa questa cosa?

Significa che è probabile che con un CAPE ratio alto i rendimenti futuri saranno bassi. Ma allo stesso tempo è anche possibile che non lo siano.

10 anni fa il CAPE era intorno a 27 e a quel valore il ritorno atteso dei 10 anni successivi sarebbe stato intorno al 6%. Sappiamo che il ritorno dell’S&P è stato il doppio.

Quindi il CAPE non è un buono strumento per fare market-timing — e Shiller stesso confermerebbe questa frase che ho appena detto se capisse l’italiano e ascoltasse il mio podcast.

Probabilmente però dice il giusto mettendo in guardia le nostre aspettative su possibili ritorni attesi inferiori nel futuro — anche se Ed Yardeni e il suo istituto vedono addirittura un 11% all’anno anche per i prossimi 10 anni.

Perché sia la previsione di Goldman che quella di Yardeni sono plausibili?

– Quella negativa di Goldman è plausibile perché c’è una correlazione storica alta tra valutazioni di partenza e rendimenti futuri;

– Quella di Yardeni è però altrettanto plausibile per una serie di motivi.

Il PRIMO motivo è che ci sono dei fondamentali sotto che reggono: l’economia è molto forte; i tassi d’interesse hanno una traiettoria discendente (al netto di folli decisioni di Trump che dovessero rianimare l’inflazione) e soprattutto le prospettive sugli utili sono stabili, con il possibile jolly aggiuntivo dei miracoli attesi dall’Intelligenza Artificiale.

Il SECONDO motivo è che dire: “la valutazioni odierne sono alte rispetto alla media storica” è fuorviante, perché sono 40 anni almeno che le valutazioni crescono in maniera pressoché continua e quindi quello di “media” è un concetto dinamico che si sta spostando gradualmente verso l’alto. Confrontare le valutazioni odierne con quelle degli anni ’70 o ’80, per esempio, lascia il tempo che trova per molto è cambiato sul mercato azionario e sulla massiccia partecipazione che per esempio è stata veicolata dall’introduzione degli ETF e dall’abbattimento dei costi di trading.

Il TERZO motivo è che lo stesso Shiller CAPE ratio tende a sottostimare i rendimenti futuri.

Da una parte questa è una caratteristica intrinseca delle previsioni finanziarie e in realtà delle previsioni in generale.

Come dirò anche tra poco, quando facciamo previsioni noi tendiamo a sovrastimare il breve termine, cioè ad essere eccessivamente overconfident, eccessivamente ottimisti nel breve e al contrario a sottostimare per eccesso di pessimismo il lungo termine.

È nota la battuta di Bill Gates secondo la quale noi in media sopravvalutiamo ciò che saremo in grado di fare tra un anno ma sottovalutiamo ciò che saremo in grado di fare in dieci anni.

Tenete qua buono per un attimo questo concetto che ci servirà per il discorso generale di oggi.

Dicevo, il CAPE ratio tende a sottostimare il futuro.

In questo caso specifico, il motivo per cui il CAPE è una misura piuttosto conservativa dipende esattamente dal modo in cui è stato costruito da Shiller negli anni ’80. Da allora molte cose sono cambiate, sono cambiate alcune regole contabili e, cosa non trascurabile, si è gradualmente passati da società che distribuivano significativi dividendi a società che sempre di più hanno favorito i buyback.

Ora teoricamente dividendi o buyback non dovrebbe cambiare niente.

Come avevamo spiegato qualche episodio fa, sono fondamentalmente la stessa cosa da due prospettive diverse e in effetti se un’azienda fa un buyback è vero che da un lato spinge verso l’alto il prezzo dell’azione, ma dall’altro riduce il numero di azioni sul mercato, quindi in teoria l’utile per azione si alza e il rapporto prezzo utili non cambia.

Ma nella realtà le cose non funzionano proprio così, perché l’evidenza empirica sembra dire che ci sia un rapporto più che proporzionale tra l’aumento dei buyback e la crescita dei prezzi.

In qualche modo il buyback potrebbe spiegare una parte della crescita delle valutazioni.

Quest’estate, per esempio, Victor Haghani ha pubblicato un paper in cui ha proposto un’alternativa interessante al CAPE Ratio.

E voi direte: “e chi cazz’è Victor Haghani?”.

Oggi lavora per una società che si chiama Elm Wealth.

Ma è sicuramente più rilevante il fatto che lui era uno dei funding partner del mitologico Long Term Capital Management, l’hedge fund dei premi nobel di cui avevamo parlato con Nick Protasoni qualche mese fa e che dopo avere realizzato performance astronomiche dal 1994 al 1998, fallì nell’arco di pochi mesi creando una spaventosa voragine nel mercato obbligazionario.

Ok, essere stato uno dei fondatori di uno più spettacolari fallimenti finanziari di tutti i tempi forse non è il massimo.

Però ricordiamoci che Long Term Capital Management era un dream team della finanza.

Il più scemo che lavorava lì dentro aveva due lauree all’MIT.

Con la storia dell’arbitraggio sui bond russi l’hanno fatta un po’ fuori dal vaso.

Ma che fossero dei geni, c’è poco da discutere.

Torniamo al CAPE ratio.

Haghani fa sto paper in cui dice: lo Shiller CAPE ratio che tutti usano per dire “oddio le valutazioni sono alte! Scappiamo, si salvi chi può, compriamo BTP e i buoni postali” parte da un presupposto, ossia che tutti gli utili siano distribuiti come dividendi.

In realtà, come anche noi avevamo detto nel recente episodio su Meb Faber e sullo Shareholder Yield, parte degli utili possono essere utilizzati dalla società per fare buyback o per fare investimenti sulla propria crescita futura.

Quindi come è giusto adeguare all’inflazione gli utili degli ultimi 10 anni, devi anche però considerare il fatto che tutto ciò che non è distribuito come dividendo ma reinvestito nella società farà crescere gli utili per azione futuri.

E infatti usando un adattamento della formula che considera anche gli utili reinvestiti nel business della società, Haghani tira fuori una versione del CAPE Ratio con un maggior valore predittivo, perlomeno rispetto al passato.

In pratica il CAPE Ratio produrrebbe delle stime più conservative in media del 15%, mentre questa versione adatta che lui chiama P-CAPE Ratio (dove P sta per Payout ma chissene) c’avrebbe preso con una precisione sorprendente.

Il punto comunque qual è?

È che, anche utilizzando questa versione — diciamo così — migliorata, le valutazioni di partenza restano comunque uno strumento sì utile per avere un’idea del possibile rendimento medio del futuro, ma sono perfettamente inutili per prendere decisioni di conseguenza perché la dispersione dei risultati resta molto ampia.

La dico in maniera più chiara.

Sia che usiamo il CAPE Ratio, sia che usiamo il P-CAPE Ratio, che sarà pure un po’ più ottimista, la stima che possiamo tirare fuori sarà una cosa del tipo: “il rendimento al 50° percentile dei prossimi 10 anni sarà, che ne so, 5%. Però il 25° percentile sarà 1% e il 75 percentile 9%”.

La differenza tra 1 e 9 è quella tra la vita e la morte.

Tutta sta variabilità non è altro che il premio al rischio.

Se investire in azioni non avesse quest’enorme incertezza, non ci sarebbe nemmeno il rendimento che porta.

Quindi anche se i risultati probabili si aggregano intorno al valore centrale, il risultato reale potrebbe essere anche molto diverso — sia nel bene che nel male. E sappiamo bene che in finanza le leggi della probabilità valgono fino ad un certo punto perché “cose che non erano mai accadute, accadono in continuazione”.

Pertanto prevedere è sì in qualche modo possibile, ma è buono per la statistica e quasi del tutto inutile ai fini pratici.

E ricordiamoci il “quasi” per le conclusioni dell’episodio.

Allora fin qui abbiamo detto:

– Il mercato ha dei cicli

– Di solito più si arriva in alto (ossia più le valutazioni crescono) maggiore è la probabilità di cadere in basso (ossia minori saranno i rendimenti attesi futuri) e infine

– Non è possibile prendere decisioni fondate sulla base delle previsioni.

Ma ora facciamo il passo in più.

Non solo le previsioni fanno fatica a centrare i risultati futuri.

In qualche modo, sono proprio gli ERRORI nelle previsioni a spiegare parte dei rendimenti futuri.

La serie di 3 paper dei 4 superprofessori di Oxford, Harvard, Bocconi e Brown gira intorno ad una serie di concetti che riflettono una versione comportamentale della finanza, ossia che certi bias nel nostro giudizio non solo ci fanno vedere le cose in maniera distorta, ma hanno proprio un ruolo attivo nel determinare quel che sui mercati accade.

Apparentemente questa può sembrare una confutazione della teoria dei mercati efficienti, in realtà non è così come avevo già provato a dire nell’episodio 144 e su cui torneremo in futuro.

Comunque i nostri 4 amici fanno tutti i conti e tirano fuori una serie di conclusioni interessanti.

La PRIMA conclusione è che gli analisti hanno una sistematica tendenza a sovrastimare la crescita futura delle società e questo si traduce in un rendimento futuro deludente.

Cioè nei paper, in particolare in quello intitolato: Belief Overreaction and Stock Market Puzzle, la tesi è che le buone notizie tendano a generare aspettative sovradimensionate negli investitori che gonfiano i prezzi — ossia incorporano nei prezzi previsioni troppo ottimistiche — e generano rendimenti futuri deludenti.

Questa cosa ovviamente vale anche al contrario.

Già nel 1985 il futuro premio nobel Richard Thaler aveva mostrato come le performance a 5 anni fossero correlate all’overreaction del mercato e in particolare all’eccessivo pessimismo rispetto alle società con prezzi molto economici rispetto al loro valore contabile, che poi è la definizione di società Value.

Questa cosa è coerente con quel che in effetti tipicamente succede.

Nel breve le azioni sono autocorrelate e tendono a crescere in base a trend e momentum.

Ma nel medio lungo termine entra in gioco la regressione verso la media.

Alla fine degli anni ’90 Fama e French scrissero un paper dal titolo Forecast Profitability and Earnings nel quale avevano mostrato come le previsioni tendono sistematicamente a sottostimare la velocità a cui i profitti tendono a regredire verso la media, cioè: profitti eccezionalmente bassi ed eccezionalmente alti tendono a ritornare entro valori diciamo normali più velocemente di quanto gli analisti si aspettano.

Tra l’altro il giorno dell’uscita di quest’episodio coincide con il giorno di pubblicazione dei dati del 3° Trimestre di Nvidia.

Chissaà…

Però l’altra cosa che avevano scoperto Fama e French è che profitti eccezionalmente negativi tendono a regredire verso la media più velocemente di quelli positivi.

Probabilmente perché quando una società genera profitti oversized, si crea anche un circolo virtuoso di maggiore ottimismo che sostiene più a lungo le performance — come dire: una sorta di profezia che si autoavvera, almeno per un po’.

Questa comunque è una buona notizia.

Mi vien da pensare che il fatto che la regressione verso la media sia più veloce nelle società che vanno male rispetto a quelle che vanno bene possa spiegare in parte perché il rendimento azionario in generale abbia un saldo netto positivo.

Però dall’altra parte è connaturata in noi quest’idea estremamente iperottimistica, nel breve, secondo cui società che stanno crescendo a manetta, cresceranno sempre di più.

E quest’aspettativa è storicamente disattesa.

Quini a tutti voi che mi chiedete cosa ne pensi di investimenti in settoriali sull’AI, sui semiconduttori o su quel che vi pare che in questo momento è molto in voga, occhio, siete probabilmente già in ritardo.

Giusto per fare un esempio.

Dal 1960 al 1990 solo 2 società, 2 sulle migliaia di società quotate negli Stati Uniti, avuto una crescita annua media dei propri utili superiore al 15%: Philip Morris e Boeing.

Quindi prevedere sistematicamente delle crescite abnormi si scontra spesso con una realtà molto più deludente del previsto.

La SECONDA conclusione dei paper, invece, è ancora più interessante secondo me.

Ricordiamo una cosa: da dove arriva il rendimento azionario?

Secondo la teoria classica, il prezzo dell’azione riflette i dividendi futuri attualizzati da un tasso di sconto corrispondente al rendimento atteso.

Sempre il grande Robert Shiller, però, coniò il concetto di Volatilty Puzzle, l’enigma della volatilità, secondo il quale, come dire, se la definizione della teoria classica è vera le azioni si muovono troppo rispetto alle variazioni nei dividendi distribuiti.

Ci deve essere qualche altro fattore che fa muovere i prezzi delle azioni e che in media tra l’altro porta rendimenti superiori nel mercato in generale.

Negli anni ’60 il premio al rischio era associato esclusivamente al concetto di Beta.

Il movimento dell’azione è maggiore o superiore a quello del mercato in cui si trova a seconda che il suo Beta, la sua volatilità, sia maggiore o minore.

Però sappiamo anche che beta non spiega tutto l’extra rendimento azionario rispetto al risk free rate, rispetto al rendimento dei titoli di stato senza rischio.

E infatti Fama e French avevano scoperto i fattori di rischio.

Certe società, quelle piccole, quelle value, quelle che investono poco e quelle con un’elevata profittabilità rendono di più perché incorporano un maggiore rischio che non investire in tutto il mercato.

Storicamente infatti le small cap sovraperformano le large cap, le società value sovraperformano le società growth, quelle che fanno pochi investimenti sovraperformano quelle che ne fanno di più e così via.

La spiegazione di solito è che investire in società che presentano questi fattori genera un extra rendimento perché c’è una maggiore assunzione di rischio.

I paper propongo invece un’altra spiegazione, non necessariamente alternativa — che può semplicemente essere vista come un altro modo per inquadrare la questione.

I loro studi, in particolare il paper Finance without exotic risk, mettono in luce il fatto che i fattori funzionano perché gli analisti, gli investitori e il mercato tutto sbaglia in maniera sistematica le previsioni.

Come funziona un fattore di rischio, perlomeno nella versione accademica, che non è quello che fa il vostro ETF fattoriale.

Sovrappesa le società che esprimono un certo fattore, ad esempio: società con basso prezzo rispetto al valore contabile oppure società che fanno pochi investimenti, e shortano le società che sono all’opposto di quel fattore; per restare nell’esempio: società growth o società con elevati capital expenditures.

E loro dimostrano che queste ultime, che nel paper chiamano “la gamba short” del portafoglio, deludono sistematicamente le aspettative, mentre la gamba long è quella che presenta sorprese positive.

Questo è il motivo per cui i fattori di rischio funzionano.

Perché siamo noi investitori a sbagliare a prevedere.

Vediamo società che crescono e pensiamo che continueranno a crescere.

Vediamo società che investono tanto nel proprio business e pensiamo che il cielo sia il loro limite.

Vediamo società che diventano sempre più grandi e pensiamo che il loro dominio sul mercato sarà eterno.

Ma come dico forse dal 15° episodio di questo podcast: la regressione verso la media è la legge universale più potente che esiste nell’universo.

E voi potreste dirmi: “va beh ma sticazzi, se io investo, per esempio, in un ETF market cap weighted e non in ETF fattoriali, che mi frega dei fattori?”.

In realtà, anche dentro l’ETF globale market cap weighted c’è la presenza più o meno spinta dei vari fattori.

Se prendete un il factsheet del MSCI World, per esempio, trovate indicati quali fattori sono sovrappesati e quali sottopesati.

Ad oggi abbiamo un leggero sovrappeso di Momentum e Quality e un netto sottopeso di Small Caps — ed è ovvio visto che MSCI World è solo Large Caps.

Vediamo però le differenze regionali:

– Nell’MSCI US Momentum e Quality sono ancora più spinti, per via della predominanza dei megacolossi tech, che esprimono meglio questi fattori;

– Nell’MSCI Europe, invece, Momentum è nettamente sottopesato e prevalgono Low Volatility e Dividend Yield.

Un portafoglio equipesato, 50% US e 50% Europa, per esempio, avrà una spinta su Momentum da un lato e una spinta più sul lato Low Volatility, Dividend e Value in un certo senso dall’altra.

Non che uno debba prendere particolari decisioni di conseguenza.

Però sapere quali sono le “forze” che agiscono dentro i nostri portafogli globali e diversificati è importante per una questione di consapevolezza in generale e per questioni pratiche di asset allocation che diremo alla fine.

Dicevo: niente dura per sempre, ciò che va su deve tornare giù e ciò che va giù deve tornare su.

Fortunatamente, ad oggi almeno, sembra che il contributo positivo dell’effetto sorpresa, quello di società che vanno meglio del previsto, sia maggiore del contributo negativo dell’effetto delusione.

C’è un motivo dietro a questo, che non so se definire economico, psicologico, filosofico o semplicemente attinente a come siamo fatti noi essere umani.

In qualche modo la citazione di Bill Gates di prima è una semplificazione di quel che sto per dire.

Un modo più interessante è invece la cosiddetta legge Amara, coniata da Robert Amara, un ricercatore dello Standford Research Institute e che dice che noi tendiamo a sovrastimare gli effetti a breve termine di una nuova tecnologia o di un’innovazione e a sottostimare gli effetti a lungo termine.

Internet, se ci pensate, è stato un caso clamoroso.

Nel 2000 si era creata l’immensa dot-com bubble che Howard Marks aveva correttamente individuato.

L’aspettativa era che nel breve qualunque sito internet avrebbe generato miliardi di profitti.

In realtà nel breve la bolla di internet collassò, tanto che il Daily Mail ebbe la tragica idea di scrivere a fine 2000 che internet fosse una “passing fad”, una moda passeggera.

Oggi la previsione che siti internet avrebbero generato miliardi di dollari di profitto si è avverata.

Meta, Google, Amazon, Netflix, solo per citare i casi più impressionanti.

Ma ci volle tempo.

L’idea allora era giusta.

Ma si corse troppo in fretta.

E oggi con AI potrebbe succedere la stessa cosa.

Se qualcuno mi chiedesse se l’Ai potrà rivoluzionare il mondo almeno tanto quanto ha fatto internet, pistola alla testa risponderei: “assolutamente sì”. Nell’immediato, senza delusioni e senza qualcuno che penserà ad un certo punto che forse l’AI era na cagata: “assolutamente no”.

È ovvio che c’è overconfidence rispetto ai miracoli dell’Ai.

Il problema è che anche sapendolo, non è detto che non stare dentro al trend sia una cattiva idea.

L’importante è essere consapevoli che prima o poi ci potrà essere qualche passo indietro, qualche crollo più o meno grave e che probabilmente solo nel lungo termine i veri valori verranno fuori.

Per chiudere, riprendo un bell’articoletto del Man Institute uscito qualche settimana fa che si fa tre domande, giusto per tirare le somme e andare un po’ sul pratico dopo che questo episodio è rimasto piuttosto astratto.

PRIMA DOMANDA che si fa Man: ha senso investire in altro al di fuori dell’S&P 500, con l’economia americana che domina incontrastata, il dollaro più forte che mai, tutte le società più fighe del mondo lì e prospettive di utili futuri astronomici.

RISPOSTA: ovviamente sì. Perché anche se oggi non ce ne rendiamo conto, investire solo in US vuol dire fare una grossa scommessa praticamente su un solo settore.

Sì ok, tecnicamente Amazon e Google non sono tech, ma communication service, ma se non è zuppa e pan bagnato.

Tech è un settore estremo.

Storicamente, o va benissimo (e molto spesso è stato il settore più performante in varie fasi storiche) o va malissimo (altrettanto spesso è stato infatti il peggiore).

Se Robert Amara aveva ragione, ci sta che ad un certo punto le promesse dell’AI tardino a venir realizzate, Tech faccia schifo per un po’ e poi riprenda a dominare magari tra 15 anni.

Avere un’esposizione geografica — e quindi settoriale — diversificata è senz’altro una buona idea per proteggersi dal rischio di un brusco sector rotation.

Lo dico soprattutto a tutti coloro che mi scrivono e mi dicono: io ho il 90% del portafoglio su SP500, cosa ne pensi?

E cosa ne penso amico mio: so far so good. In futuro… boh…

Fino al 2009 investire in US o nei mercati sviluppati ex US ha dato performance simili, perlomeno in dollari, in euro non proprio.

Ma sicuramente è da dopo il 2009 che il divario è diventato una voragine.

Durerà per sempre questa voragine.

Eh… chi può dirlo… nel dubbio…

LA SECONDA DOMANDA di Man è: ok investo in azioni diversificate a livello globale così mi espongo a più settori e (come abbiamo detto) a più fattori. Ma ha senso investire anche in altro oltre alle azioni, visto che è da 100 anni che rendono più di qualunque altra cosa?

RISPOSTA: ovviamente sì anche qui. Per un motivo però più comportamentale che statistico.

A parole, tutti bravi a dire che abbiamo un orizzonte di 20 o 30 anni.

Nella pratica, non è quasi mai così, perché la nostra vita è nel breve termine.

L’S&P 500 ha avuto 19 anni chiusi con una perdita maggiore del 10% nell’ultimo secolo.

In pratica, quasi un anno su 5.

E sappiamo anche che in quest’ultimo secolo c’è stato un 5% di casi in cui il rendimento decennale è stato negativo.

Ok con i piani di accumulo sarebbe stato meno, però vedere il mercato che va male per 10 anni fa bruciare il culo comunque, pac o non pac.

Ma il tema non è solo il mio fastidio per risultati negativi.

Il tema è soprattutto, quanto sono solido al punto da non prendere decisioni stupide durante quei momenti di crollo.

E la cosa importante da ricordare è che la maggior parte dei giorni migliori in borsa ha luogo in stretta vicinanza ai giorni peggiori.

Sapete quando l’S&P ha messo a segno i suoi giorni migliori, con chiusure anche del +8, +9, +10% in una sola giornate di borsa?

Nel 1929, dopo lo scoppio della peggiore crisi di sempre.

Nel ottobre 2008, dopo il fallimento di Lehman.

Nel marzo 2020, in piena crisi durante la pandemia di Covid.

Se hai un portafoglio che fa -30 o -40% in un certo momento, sarà più facile che tu faccia qualcosa di molto stupido, tipo vendere ai minimi e perderti quella manciata di grandi recuperi, rispetto al caso in cui tu abbia un portafoglio con stocks e bonds, che invece che perdere 40% magari perde solo 20%.

Ti perdi i 10 giorni migliori lungo 30 anni e sei fottuto.

Termine tecnico per spiegare l’asimmetria della distribuzione dei ritorni azionari.

La TERZA DOMANDA di MAN è infine: ma allora è conviene provare a fare un po’ di timing e quando ci sono valutazioni evidentemente sovradimensionate, come oggi, sarebbe meglio tirarsi fuori dal mercato azionario.

Man dice sì e no e propone un modello piuttosto complesso secondo cui ci sono degli indicatori che potrebbero identificare dei regimi in cui sarebbe meglio avere poche azioni, come ad esempio fasi ad alta inflazione e recessioni.

Sì, molto più facile a dirsi che ha farsi.

Dice però anche un’altra cosa.

Se tu avessi investito 100 dollari nel 1926, da quando esistono dati coerenti sull’S&P 500, oggi facendo buy and hold avresti 1.100.000 dollari.

Se facendo timing fossi riuscito a saltare i 65 giorni in cui il mercato ha perso dal 5% in giù, oggi avresti 120 milioni di dollari.

Capite perché ci provano tutti a fare timing: l’incentivo è veramente enorme.

Peccato però che se avessi sbagliato e ti fossi invece perso i 60 giorni in cui l’S&P ha fatto dal 5% in su, oggi avresti solo 20.000 dollari.

Preferisci accontentarti, tra molte virgolette, di 1 milione di dollari o rischiare di vincere 120 milioni ma anche di rimanere con soli 20.000.

Risposta facile.

Ultima considerazione.

Alla luce di tutto quello che abbiamo detto sembra che tutto porti a pensare che siamo prossimi ad un qualche culmine e che ci siano opportunità migliori in giro che non il nostro ETF market cap weighted americanocentrico.

Sì e no.

Sì, se vogliamo farne una questione non di market timing, ma di risk management.

Se per me oggi, in una fase in cui ovviamente il rischio è sempre più alto man mano che i mercati crescono, è importante comprimere il rischio che mi voglio assumere, allora ci sta, per esempio, alleggerire la posizione azionaria o magari tiltare il portafoglio verso value o verso fattori difensivi.

Ma non perché sia meglio in termini di rendimento, bensì perché per mie esigenze personali ritengo di voler ridurre il mio rischio sistematico.

Dico invece no perché in tutto quel che abbiamo detto c’è un grandissimo però.

Se oggi i prezzi sono alti i rendimenti futuri tendono ad essere inferiori. E su questo non ci piove.

Ma dove invece i prezzi sono bassi, ecco non è che non ci sia un motivo. Il mercato ha delle inefficienze, ma non è stupido.

Se oggi l’Europa ha multipli a 14 invece che a 22, non è che sono tutti scemi e non sono accorti, ci sono anche dei motivi fondamentali per cui le società Europee forse presentano dei limiti.

Se le società value costano poco, anche qui, un motivo ci sarà.

Poi nel lungo termine assisteremo a tante alternanze e probabilmente value ricomincerà a battere growth e tutti i fattori faranno il loro.

Ma il rischio di sbagliare il momento per fare gli switch e di perderci la corsa del mercato è spesso sottovalutata.

Quindi il mio inutile consiglio è:

– Sapere cosa abbiamo nel portafoglio, cosa lo muove e cosa aspettarci

– Prendere decisioni per il nostro migliore risk management

– Non prendere decisioni perché in questo momento il mercato è caro e quindi “conviene” fare questo o quello, perché tanto a far così si sbaglia sempre e si fanno solo minchiate.

Bene amici miei, puntata densa, spero vi sia piaciuta e che abbia gettato qualche luce sui fondamenti, quasi filosofici, di quel che succede sui mercati.

Grazie come sempre di cuore per essere ancora qui con me, per le migliaia di messaggi che mi inviate, sia i tantissimi messaggi di apprezzamento che anche quelli di critiche, che mi permettono di migliorare e cercare di fare di questo podcast la casa più accogliente per tutti coloro che vogliono ritrovarsi assieme a capire la finanza e come gestire al meglio i propri soldi.

Vi invito ancora una volta a mettere segui e attivare la notifiche su Spotify, Apple Podcast o dove ci ascoltate e a lasciare una recensione a 5 stelle per supportarci e permetterci di continuare a produrre contenuti che tra sorprese e delusioni, overconfidence e pessimismo, vi faranno compagnia sia lungo gli inciampi di breve termine che incontreremo nel cammino, sia in vista delle grandi soddisfazioni che tutto questo regalerà, spero, alle nostre vite sempre nuovi.

Per questo episodio invece è davvero tutto e noi ci risentiamo domenica prossima con un nuovo episodio che penso sarà dedicato al portafoglio per vivere di rendita, sempre qui, naturalmente con The Bull — il tuo podcast di finanza personale

Recensioni

Quando capisci come funziona la finanza… ti viene voglia di raccontarla!

Ho seguito tutte le puntate! Grazie veramente

Amalia A., 17 Set 2025

Podcast che dà sempre spunti interessanti che personalmente mi ha fatto appassionare alla finanza personale spingendomi ad approfondire in prima persona.

Lorenzo, 13 Mar 2025

Veramente veramente raccomandato! la finanza personale riassunta alla perfezione! e spiegata partendo dall'ABC! Ottimo anche da ascoltare a velocita 1,5x!

Giorgia R., 23 Gen 2025

Non sono solito a mettere recensioni e specialmente non ascolto podcast, ma da quando ho iniziato questo, faccio fatica a staccarmi, e quasi non posso più fare a meno di ascoltare e arricchirmi culturalmente.

Andrea V., 22 Set 2025

Podcast piacevole, scorre veloce ma in modo estremamente chiaro, spiega i concetti chiave per gestire le proprie finanze, fornendo la classica cassetta degli attrezzi. Complimenti, davvero ben fatto!

Massimiliano, 29 Mag 2024

Dovrebbero ascoltarlo buona parte degli italiani e io avrei dovuto scoprirlo con qualche anno in anticipo ma meglio tardi che mai

Matteo C., 3 Set 2025

Veramente interessante, chiaro e conciso. Cambia la vita finanziaria di chiunque.. da ascoltare assolutamente anche per chi di finanza non vuole occuparsi mai

Francesca B., 6 Apr 2024

La mia ignoranza in materia mi ha sempre creato dei dubbi, ma grazie a un amico ho iniziato ad ascoltare il podcast. Per fortuna che ho 24 anni e un po' di tempo e soldi da dedicarmi a imparare le varie nozioni per me stesso. Grazie mille!

Luca G. 10 Ott 2025

Riccardo mi ha letteralmente cambiato la vita e fatto scoprire che amo la finanza, ho ascoltato il podcast già due volte e non mi stufo mai di ascoltarlo, parla in modo semplice e chiaro

Massimo D., 23 Set 2025
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