4 Lezioni sulla Finanza da Premio Nobel
Per l'ultimo episodio dell'anno e per consolidare le fondamenta della nostra pianificazione finanziaria, ripercorriamo quattro lezioni sulla finanza impartite dal premio Nobel Eugene Fama qui a The Bull: efficienza dei mercati, fattori, bolle e investimento passivo.

172. 4 Lezioni sulla Finanza da Premio Nobel
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Punti Chiave
I mercati sono efficienti: l'investitore retail dovrebbe investire passivamente, accettando i prezzi come giusti.
Le bolle sono identificabili solo ex post; è futile tentare di prevederle o sovrappesare fattori per vantaggi certi.
Trascrizione Episodio
Bentornati a The Bull — il tuo podcast di finanza personale
Ultimo episodio del 2024 del nostro podcast, care amiche e cari amici di The Bull.
Siamo in quel momento dell’anno in cui si tirano i bilanci e si fanno i buoni propositi per il futuro.
Il bilancio, almeno dal punto di vista finanziario, credo sia stato piuttosto buono per tutti quanti, con l’S&P 500 che in euro è su di un assurdo +35% da gennaio ad oggi e l’MSCI world del 27%.
Poi, non è che sia domenica tutti i giorni, non abituiamoci troppo bene perché la performance dei mercati di questi due anni è stata più l’eccezione che la regola. Ok che nel lungo termine il rendimento azionario è storicamente piuttosto generoso, ma due anni back-to-back oltre il 25% era francamente difficile da prevedere.
So far so good comunque.
Chi più chi meno siamo tutti contenti, abbiamo aggiustato il tiro con le nostre finanze, facciamo i budget su file Excel che manco la Nasa, stiamo attenti alle spese quotidiane, risparmiamo il più possibile e investiamo nel nostro bel portafoglio fatto come più piace a noi e che meglio risponde ai nostri obiettivi.
I buoni propositi invece riguardano tutto quel che ci sarà da fare a partire dal prossimo anno per continuare il percorso che porterà ciascuno di noi a raggiungere i traguardi finanziari che si è prefisso.
Per l’ultimo episodio dell’anno mi sarei immaginato in effetti di dire qualcosa sulle buone pratiche da implementare per gestire al meglio le proprie finanze nel 2025, così da consolidare alcuni concetti fondamentali che è bene richiamare di tanto in tanto alla memoria.
In fondo tutti i buoni propositi di inizio anno sono così.
Non è che uno scopre il 31 gennaio che se smette di mangiare schifezze e va in palestra dimagrisce, oppure che il fumo fa male o che odia il suo lavoro e che se vuole può cambiarlo.
Sono cose che si sanno già.
Ma a fine anno spesso ci si ferma, si fa il punto con i propri pensieri e si cerca di mettere giù un piano d’azione.
Mi immaginavo di parlare di questo, di come costruire un piano d’azione vincente nel 2025 per tutti, per chi è ormai un supersayan di finanza personale e per chi invece per qualche motivo ha conosciuto The Bull solo oggi e ha pensato bene di cominciare dal 172° episodio.
Ma poi mi sono fermato un attimo anch’io e ho pensato che per quello ci sarà tempo.
E nel momento in cui ho fatto il mio bilancio del 2024 è stato abbastanza facile richiamare alla memoria il momento più alto di questo podcast.
In effetti c’è stato un momento inequivocabile in cui tanta della saggezza sugli investimenti che cerco di condividere con voi due volte a settimana da oltre un anno e mezzo ha trovato la sua massima espressione, in un punto preciso, 30 minuti in cui, come dire, sono state dette nel modo più penetrante possibile alcune delle cose più importanti da sapere su come funziona davvero la finanza.
Quel momento non poteva che essere il mio incontro con Eugene Fama, premio Nobel per l’economia nel 2013 e padre della finanza così come la conosciamo oggi, fissato per sempre nella storia di questo podcast alla fermata n° 164 del nostro viaggio.
Devo dire la verità.
Da quell’incontro non è emerso quasi nulla che non sapessi già prima dalla chiacchierata con lui.
In fondo prima di incontrarlo due o tre cose di Fama le avevo lette, per usare un eufemismo.
Ma ciononostante, sentire dalla sua bocca certi concetti li ha impressi con una forza indescrivibile nella mia testa, al punto che posso dire che la mia comprensione della finanza, dopo quell’intervista, si è ulteriormente cementata nelle sue fondamenta.
In questo ultimo episodio dell’anno, quindi, come buon auspicio per diventare tutti investitori migliori nel 2025, voglio ripercorrere 4 Lezioni fondamentali che ci ha impartito Eugene Fama in quei densissimi, straordinari, 30 minuti.
Non esistono verità assolute in finanza — e Fama stesso sarebbe il primo a confermare questa cosa.
Ma per il 99% degli investitori, quindi esclusi tutti quegli investitori di un’altra categoria che stanno alla finanza come Messi e Ronaldo stanno al calcio e che non fanno testo per noi comuni mortali, queste 4 lezioni andrebbero incorporate nella propria pratica da investitori COME SE fossero verità assolute.
Del resto la finanza non è una scienza esatta.
Anzi non è una scienza per niente, nel senso rigoroso del termine.
Quindi a fronte di quest’incertezza strutturale, il meglio che possiamo fare per i nostri soldi è probabilmente comportarci COME SE il modello creato da Eugene Fama e le sue conseguenze fossero l’equivalente finanziario delle Leggi di Newton.
Tra l’altro, anche le Leggi di Newton a voler essere rigorosi non sono del tutto corrette.
La teoria della relatività generale ha completamente stravolto cose che sembravano delle verità fisiche universali, come il fatto che un corpo nel vuoto si muova in linea retta o che la gravità sia una forza (e i fisici all’ascolto mi perdoneranno se dico cose in maniera poco rigorosa).
Ciononostante, ancora oggi per il 99% delle cose che riguardano la nostra vita quotidiana, le leggi di Newton funzionano abbastanza bene per tutti i nostri scopi e non ci servono le trasformazioni di Lorenz per rendere conto del fatto che a certe velocità lo spazio si contrae e il tempo rallenta.
In finanza è un po’ lo stesso.
Per il 99% di noi, che per restare nella metafora non ci muoviamo a velocità prossime a quelle della luce, il modello Newtoniano di Fama funziona più che bene.
Per l’1% (che forse è più lo 0,0001%) dei più brillanti e geniali investitori del mondo, allora valgono regole diverse, ma non sono completamente al di là della nostra portata.
Ringrazio il mio amico Mr. Rip per questa similitudine tra il modello di Fama e il rapporto tra Newton e Einstein, che credo sia uno dei modi più calzanti per inquadrare la questione e capire perché anche un modello che per definizione ha delle lacune continua a rappresentare una delle mappe più accurate che abbiamo per orientarci nel mondo della finanza.
Per chi vuole tra l’altro c’è un video di Rip molto bello e dettagliato sul concetto di mercati efficienti sul suo canale.
Veniamo a noi e alle 5 lezioni di Eugene Fama.
PRIMA LEZIONE: non poteva che essere che I MERCATI SONO EFFICIENTI.
Cosa significa questa cosa, che è un po’ il cuore di tutto il suo modello e il motivo per cui gli hanno dato il Nobel?
La sua spiegazione più essenziale è che i prezzi, in particolare i prezzi delle azioni, riflettono tutte le informazioni disponibili; in pratica, tutto ciò che si può sapere di una particolare security è già nel suo prezzo.
Di conseguenza non sarebbe possibile formulare delle previsioni migliori di quelle che fa il mercato basandoci su queste stesse informazioni.
E questo, in fin dei conti, non significa altro se non che l’investitore medio non potrà sistematicamente battere il mercato sfruttando informazioni che sono già assorbite dal mercato stesso nei prezzi espressi da tutti gli asset quotati.
L’idea di Fama, quindi, è che tu investitore non puoi affermare cose del tipo:
– Le valutazioni azionarie sono TROPPO elevate; oppure
– Le società tech americane sono SOPRAVVALUTATE mentre le società industriali europee sono SOTTOVALUTATE; oppure ancora
– Esprimere considerazioni di altra natura sul livello del debito, del pil, dell’inflazione, del mercato del lavoro, dei rendimenti dei titoli di stato o di qualunque altro proxy che dovrebbe in qualche modo essere rivelativo del comportamento futuro delle azioni.
E questo perché il concorso dell’attività di tutti gli agenti che operano sui mercati fa sì che i prezzi si adattino praticamente in tempo reale a tutte queste informazioni e a quelle nuove che arriveranno in seguito senza che ci sia quasi mai la possibilità di trarre un vantaggio competitivo.
Alcuni hedge fund ci riescono? Sì
Alcuni investitori leggendari hanno battuto il mercato per vent’anni di fila? Sì
Tuo cugino l’hanno scorso ha doppiato la performance dell’S&P 500 perché ha comprato solo le Magnifiche 7? Benissimo.
Ma tolti un manipolo di investitori dotati di straordinarie capacità e straordinarie risorse che in alcuni casi riescono a battere il mercato e tolto chi in maniera del tutto casuale ogni tanto batte il mercato senza nemmeno sapere come fa, ecco, nel 99% dei casi l’investitore non è in grado di ottenere un rendimento supplementare sistematico rispetto al mercato.
Questo concetto è di capitale importanza soprattutto per il singolo investitore.
La tentazione di prendere specifiche decisioni, pensando che sia meglio fare così o cosà in base a quel dato, quella metrica o quel dolore al nervo sciatico che ti viene solo in prossimità di un bear market, ecco questa tentazione sarà una costante nella lunga vita di ciascun investitore.
Spesso penseremo:
– Mmmmhhh, forse il mercato è cresciuto troppo, meglio vendere, oppure
– Beh ormai la Cina è scesa troppo ed è super economica, può solo salire
O qualsiasi altra considerazione del genere, ecco ricordatevi che a Eugene Fama hanno dato il premio Nobel per aver elaborato un modello che, sulla base di dati empirici, mostra come sia statisticamente impossibile prendere decisioni d’investimento che generano alfa, che generano un extra rendimento in maniera ripetibile sfruttando informazioni già disponibili sui mercati.
Ora attenzione ad una cosa.
Fama non dice che i prezzi sono sempre giusti e che tutto quello che vedete sul mercato è perfetto così.
Anzi.
Quello che lui dice è che i prezzi in un certo senso sono sempre sbagliati.
Il problema è che sono sbagliati “after the fact”, cioè risultano sbagliati a posteriori una volta che nuove informazioni vengono incorporate dal mercato e cambiano i valori in gioco.
Per Fama è assolutamente possibile che, esempio, le valutazioni elevate del mercato americano siano sbagliate, sbagliate nel senso che stanno prezzando degli utili futuri eccessivi che potrebbero non arrivare mai.
Ma il punto non è questo.
Il punto è che OGGI non possiamo prendere decisioni migliori basandoci su queste informazioni.
Mentre parlo l’S&P in media ha un prezzo di 22 volte superiore agli utili attesi l’anno prossimo.
Rispetto alla media storica è una valutazione sicuramente molto elevata.
Storicamente, quando le valutazioni di partenza sono sopra la media i rendimenti futuri sono sotto la media.
Ma anche sapere questa cosa è perfettamente inutile ai fini delle decisioni di investimento.
Se fosse assolutamente ovvio che questi prezzi sono elevati e che c’è qualche precisa azione da intraprendere, allora il mercato si comporterebbe diversamente, tutti si metterebbero a vendere e i prezzi non sarebbero più così elevati.
Sono 10 anni che si dice che il mercato ha valutazioni elevate, eppure sono 10 anni che continua ad andare su.
Questo non vuol dire che andrà su per sempre, anzi sicuramente non sarà così.
Significa solo che il concetto di valutazione elevata, così come qualunque altro criterio vogliamo utilizzare, non è un’informazione che offre vantaggi competitivi rispetto a investire passivamente nel mercato di riferimento.
In fondo il mercato sconta le informazioni che ha sulla base delle stime che riesce a formulare.
Se in futuro nuovi fatti modificheranno il nostro paradigma interpretativo, allora i prezzi si riallineeranno.
Ma appunto, after the fact.
Lui stesso fece una volta un esempio preso dalla dot-com bubble.
Disse: “è vero, i prezzi si sono gonfiati troppo e poi il mercato è andato giù. Ma il mercato non aveva torto. Internet era davvero la grande rivoluzione di quell’era. Ci sono però voluti 10 anni in più per vederne i dirompenti frutti. Bislacche società come pet.com sono scomparse, mentre Amazon, che negli anni ’90 sembrava uno dei simboli dell’allucinazione senza senso della internet economy, oggi è una delle 10 società più grandi del mondo”.
Adesso qualcuno potrebbe dire:
– Eh ma allora Tesla con un prezzo 100 volte gli utili?
– Eh ma allora Gamestop e le altre meme stock?
– Eh ma allora bla bla bla scegliete voi l’azione più pazza del mondo che vi ha fatto mettere in discussione l’idea che i mercati siano efficienti.
Lui dice: “le singole azioni possono essere prezzate anche in maniera molto stupida. Ma nel lungo termine lo sforzo cumulativo di milioni di persone che cercano di battere il mercato è la prova che in media i prezzi sono più spesso corretti che no”.
I prezzi sono sempre sbagliati “dopo i fatti”.
Ma a te, caro investitore medio, conviene investire COME SE I PREZZI FOSSERO GIUSTI.
E a chi gli contesta questa cosa, la sua risposta solitamente mette a tacere chiunque: if prices were obviously wrong, then you should be rich.
Se i prezzi fossero oggettivamente sbagliati, tu dovresti essere ricco.
Se invece non sei ricco è semplicemente perché non puoi sapere SE sono sbagliati, QUANDO sono sbagliati e IN CHE MISURA sono sbagliati.
Non è casuale che sia proprio l’ipotesi dei mercati efficienti il più forte fondamento teorico alla base dell’idea di investire in maniera passiva, replicando il mercato.
E questo è il suggerimento che Fama stesso dà, senza mezzi termini.
L’investitore retail deve investire in tutto il mercato, ossia investire COME SE I PREZZI FOSSERO GIUSTI.
Questo è probabilmente l’approccio che massimizza il rendimento atteso della stragrande maggioranza degli investitori comuni mortali. Uno sceglie il livello di rischio che si vuole assumere e in qualche modo il rendimento atteso sarà proporzionale a questo, entro certi limiti. Ma pretendere di ottenere un migliore risk-adjusted return, cioè un rendimento maggiore del mercato a parità di rischio assunto è qualcosa al di fuori della portata del 99% di noi.
Ricordatelo la prossima volta che penserai di avere avuto una geniale intuizione, la prossima volta che ti chiederai se quel sistema di trading da 3.000 € effettivamente può farti avere una rendita passiva con 10 minuti al mese o semplicemente quando sarai lì lì per vendere tutto perché ti sarà venuto il timore che il mercato stia per crollare da un momento all’altro.
A proposito di correlazione tra rischio e rendimento veniamo alla
LEZIONE NUMERO DUE: ossia il fatto che certi fattori abbiano determinato una sovraperformance nel passato non significa che lo faranno nel futuro.
Quando parliamo di fattori parliamo di portafogli che si espongono in maniera sistematica a società con certe caratteristiche con l’obiettivo di assumersi maggiore rischio per conseguire un maggiore rendimento rispetto al mercato di riferimento.
Da dove arriva quest’idea?
William Sharpe aveva formulato l’idea del Capital Asset Pricing Model, detto CAPM, ossia che il rendimento di un portafoglio è una funzione del rischio del mercato, chiamato beta.
Il rendimento del portafoglio è infatti espresso come prodotto tra premio al rischio (cioè rendimento del portafoglio meno rendimento senza rischio dei titoli di stato a breve) e appunto beta. Premio al rischio per beta.
Se investo tramite un ETF nell’S&P 500 il mio beta è uguale ad 1, quindi mi assumo il rischio del mercato e mi prendo il rendimento del mercato. Premio al rischio per 1 fa premio al rischio punto.
Un rendimento superiore, invece, presuppone un rischio superiore, ossia un beta maggiore di 1, cioè un livello di volatilità maggiore per il mio portafoglio rispetto al mercato.
Però noi sappiamo che il CAPM non è in grado di spiegare tutte le situazioni in cui un portafoglio è in grado di esprimere un rendimento maggiore rispetto al mercato.
Rimane fuori circa almeno un 30% di casi in cui il solo rischio di mercato non rendeva conto di certe performance.
E sappiamo che fu proprio Fama, assieme a Kenneth French a colmare buona parte di questo gap.
Negli anni ’90 Fama e French elaborarono il cosiddetto modello a 3 fattori, poi esteso a 5 fattori, di cui abbiamo già parlato negli episodi 113, 124 e 127.
Quali sono questi 5 fattori, cioè appunto questi 5 motivi, diciamola così un po’ alla buona, per cui un certo portafoglio dovrebbe avere un rendimento sistematico maggiore rispetto al mercato?
Attenzione che non si sta parlando di extra rendimento derivante dal fatto che l’investitore o il gestore di un fondo seleziona solo titoli vincenti.
Stiamo parlando di extra rendimento che deriva dal fatto di sovrappesare nel portafoglio certi fattori di rischio.
Questi 5 fattori sono:
– Beta naturalmente, cioè il rischio proprio del mercato previsto dal modello del CAPM;
– Size, ossia il fatto che le società piccole (le small caps) hanno storicamente sovraperformato le large caps;
– Value, ossia il fatto che le società con un prezzo basso rispetto book value, al valore patrimoniale, hanno storicamente sovraperformato le società growth, quelle cioè con elevati prezzi rispetto ai valori di bilancio;
e questi sono i tre fattori originari.
Gli altri due, introdotti successivamente, sono stati chiamati:
– Profitability, ossia il fatto che le società con un elevato livello di profittabilità rispetto ai propri asset hanno storicamente sovraperformato quelle a bassa profittabilità e infine
– Investment, ossia il fatto che le società che spendono meno in investimenti strutturali sulla propria crescita hanno sovraperformato quelle che spendono di più.
Il filo conduttore di questi 5 fattori è che sbilanciare il portafoglio verso ciascuno di questi fattori comporterebbe l’assunzione di un maggior rischio che non si riduce al solo rischio di mercato, portandosi così dietro un maggior rendimento.
La domanda che gli feci durante l’intervista fu: “prendiamo i fattori più famosi, size e value. Storicamente le small caps e le value stocks hanno sempre sovraperformato, ma negli ultimi due decenni sono stati surclassati da large caps e growth stocks. Stiamo assistendo forse ad un cambio di paradigma oppure l’investimento fattoriale continua a mantenere la sua validità?”.
Anche qui, dalle sue poche parole si potrebbero tirare fuori articoli interi.
Da una parte, disse, non lo puoi sapere perché serve una vita intera e forse anche di più per decretare che un fattore abbia smesso di funzionare al di là di fluttuazioni casuali in certi momenti storici.
Lo spunto universale che ho tratto da questa sua considerazione è che a volte dimentichiamo che i tempi della finanza non sono quelli dell’esperienza del singolo individuo.
Il nostro lungo termine pensiamo siano 10 anni.
Per la finanza sono magari 50 anni o più.
Quindi tirare conclusioni perché “in un certo decennio si è riscontrato questo o quel fenomeno” risulterà sempre del tutto infondato.
Dall’altra parte Fama ha spiegato che dopo aver pubblicato i lavori con Kenneth French, tutti cominciarono a “pile in”, ad incrementare i propri investimenti su size e value.
In qualche modo, questa cosa ha arbitraggiato il fenomeno che avevano descritto, cioè il sovrainvestimento con logiche fattoriali ha in qualche modo fatto evaporare il vantaggio che avrebbero dovuto portare.
Se ci pensiamo, investire massicciamo in size e value vuol dire in qualche modo aumentare la capitalizzazione della prima e il price-to-book-value della seconda. Di fatto, quelle società small e value che avevano sovraperformato in un certo periodo e che mi hanno portato a dire “investo in small caps e value stock” non ci sono più nel portafoglio perché nel frattempo sono diventate Large e Growth (o comunque non più così small e value).
È ampiamente documentato il fatto che i fattori hanno due problemi:
– Il primo è che una volta che viene pubblicato un paper che dimostra l’esistenza di un fattore, il suo extrarendimento si deteriora;
– Il secondo problema è che i fattori sono time-varying, cioè variano nel tempo a seconda di diversi scenari macro.
Se guardiamo a cosa sia successo negli ultimi 50 anni, abbiamo assistito ad un graduale deterioramento della capacità di società small e value di produrre extrarendimento, mentre è sicuramente aumentato nel tempo il contributo di un fattore che non rientra nel modello di Fama, ossia il momentum.
Il punto però è che non bisogna essere ingenui quando si pensa a dare un tilt fattoriale al portafoglio.
Il fatto che in passato l’MSCI Value abbia battuto l’MSCI World non significa che lo farà sicuramente in futuro.
Il fatto che in passato l’MSCI Momentum abbia battuto l’MSCI World non significa che lo farà sicuramente in futuro.
E così per tutti.
Anzi, è possibile che lo faranno in futuro, ma potrebbe volerci un tempo superiore al tempo utile per il nostro orizzonte di investimento.
Il suo consiglio, ancora una volta, è di non sovrappesare specifici fattori di battere il mercato.
Il suo consiglio, per l’investitore privato, è limitarsi all’esposizione verso il mercato e lasciare che l’alternanza dei fattori in esso contribuiscano al rendimento complessivo.
Detto questo, probabilmente non c’è nulla di sbagliato nel voler imprimere un certo sbilanciamento al portafoglio verso fattori tra loro poco correlati, come ad esempio Value e Momentum.
Ma la logica dovrebbe essere quella di scegliere un’impostazione del portafoglio che assecondi al meglio il mio profilo di rischio — o comunque che sua funzionale a ciò che voglio per il mio portafoglio per mie specifiche ragioni.
Non è invece corretto aspettarsi che automaticamente la sovraesposizione ad un fattore mi dia un vantaggio certo e garantito.
Se il vostro portafoglio è una zuppa di ETF fattoriali tenetene conto.
Anche sul momentum gli feci una domanda.
A Fama momentum non piace più di tanto.
Momentum è quel fattore che sovrappesa nel portafoglio le società che sono cresciute di più negli ultimi 3-6-12 mesi, secondo l’idea che nel breve ci sia autocorrelazione e quindi che le società che sono cresciute di più di recente continueranno a farlo ancora per un po’, proprio come se avessero uno slancio (momentum appunto).
Secondo Fama, però, momentum ha anch’esso due problemi.
– Il primo è dopo i primi promettenti risultati negli anni ’90 quando uscirono i primi paper, non gli risulta che esistano prove empiriche della sua efficacia.
Lui dice: il fenomeno c’è, ma non risulta che ci sia qualcuno che sia davvero riuscito a fare soldi in maniera replicabile sfruttando il momentum.
– Il secondo problema sono i costi. Per definizione, un portafoglio che sfrutta il momentum deve modificare molto spesso la sua composizione. Deve comprare le società che sono cresciute di più e shortare quelle cresciute di meno con una certa frequenza. Questo ha naturalmente un impatto sui costi. Secondo lui, se il fattore momentum è davvero in grado di portare un beneficio sistematico, i costi di transazione finiscono per mangiarseli via.
A guardare le performance dell’MSCI World momentum sembra che la sovraperformance, anche al netto dei costi, sia stata notevole negli ultimi 30 anni.
Ma appunto come dicevamo prima, questa non è assolutamente una buona ragione per essere certi che lo stesso accadrà anche nei prossimi 30.
LEZIONE NUMERO TRE: le bolle e le interpretazioni comportamentali della finanza.
La teoria considerata “antagonista” a quella di Fama deriva dal lavoro di Daniel Kahneman e Amos Tversky e ha forse il suo più eminente rappresentate in Richard Thaler, anche lui professore a Chicago e anche lui recente premio Nobel per l’economia.
Entrambi in realtà sono abbastanza concordi sulla bottom line, sulle implicazioni pratiche dei due modelli, ossia che sia molto difficile battere il mercato.
Quello che cambia sono le interpretazioni di partenza.
Secondo Fama i mercati sono efficienti e c’è una certa razionalità di base nel processo di asset pricing, mentre per Thaler i mercati non sono efficienti proprio perché le decisioni degli investitori sono irrazionali e tendono a sovrareagire alle notizie.
Per esempio: per Fama un portafoglio Value avrebbe un rendimento atteso maggiore di uno Growth perché investire in società con basso prezzo rispetto al book significa prendersi il maggior rischio di investire in una società con una bassa aspettativa di crescita.
Per Thaler invece l’extrarendimento deriverebbe dal fatto che il mercato avrebbe reagito in maniera eccessivamente negativa a qualche brutta notizia penalizzando eccessivamente certe società che invece avrebbero un valore intrinseco elevato da esprimere.
Gli citai un recente lavoro di Robert Bordalo e altri accademici di spicco che in effetti avrebbero provato a spiegare l’excess return dovuto ai fattori attraverso spiegazioni di natura comportamentale.
In pratica sarebbero gli errori nelle aspettative degli investitori a prezzare malamente le azioni e a far sì che small caps, value e così via generassero in media un rendimento superiore, non una consapevole maggiore assunzione di rischio.
Su questo argomento lui è sempre piuttosto tranchant.
In un’intervista di qualche anno fa con Barry Ritholtz da Bloomberg lui disse senza mezzi termini che “la finanza comportamentale non esiste”.
Dal suo punto di vista sono solo “claim”, sono solo affermazioni che non sono supportate dai dati.
Con me è stato meno secco e in realtà ha detto che potrebbe anche essere corretto ciò che i comportamentalisti dicono.
Il punto, secondo lui, è che non c’è evidenza nei dati e quindi non puoi dire se si tratti di una correlazione spuria, oppure se ci sia effettivamente un modo sistematico per sfruttare questa cosa per costruire un portafoglio più performante.
Per Fama, ad oggi, non ci sarebbe evidenza di questa cosa.
Ma il punto più significativo riguarda la tipica critica che riceve l’ipotesi dei mercati efficienti, cioè la sua coesistenza con le bolle.
I critici dicono: ok, ma se i mercati sono efficienti, come mai ci sono le bolle?
La sua risposta è che tu chiami bolla una cosa solo ex post.
Per parlare a rigore di una bolla dovresti parlare di qualcosa che scoppia in maniera prevedibile.
Se non è prevedibile non è una bolla, ma solo — come mi ha detto lui — variation in the price.
Nel 2013 oltre a lui prese il Nobel un altro gigante, Robert Shiller.
Shiller è forse uno dei più famosi scettici nei confronti dell’efficienza del mercato, oltre che essere uno di quelli che potremmo annoverare decisamente più tra i permabear che non permabull.
La consacrazione globale di Shiller arrivò all’inizio degli anni 2000, quando intravide la bolla di internet arrivare e chiamò con largo anticipo anche quella immobiliare del 2007-2008.
Durante l’intervista Fama cita proprio Shiller che nel 1996 suggerì all’allora capo della Fed Alan Greenspan che il mercato potesse essere affetto da un’euforia irrazionale, Irrational Exuberance, come poi Shiller avrebbe chiamato il suo libro più famoso uscito appunto nei primi anni 2000 e che vi straconsiglio assolutamente di leggere.
Cosa successe però?
Successe che nel ’96 Shiller persuase Greenspan sul surriscaldamento dei mercati.
A dicembre Greenspan tenne un celebre discorso in TV in cui parlò appunto di Euforia Irrazionale, nei giorni successivi i mercati andarono giù come reazione alle sue parole e temendo un inasprimento della politica monetaria della Fed e poi ritornarono su, continuando a correre addirittura sino al marzo del 2000.
La domanda di Fama, quindi, è: ma la bolla qual è?
È il fatto che il mercato prima è andato su e poi giù, che è andato giù e poi su o cosa?
Nei dati non sembra esserci mai l’evidenza empirica di una bolla.
Solo a posteriori puoi definirla tale.
Ma se non c’è modo di identificare una bolla prima del fatto, questa è più una conferma a favore dell’efficienza dei mercati, che non il contrario.
Come altre volte ha precisato, forse la parola “efficienza” è ciò che confonde del suo modello, perché le persone sentono che i mercati sono “efficienti” e quindi suppongono che tutto debba sempre filare liscio.
In realtà l'”efficienza” di cui parla lui è il fatto che i mercati sono efficienti nell’incorporare le informazioni nei prezzi.
Che poi queste informazioni portino ad un mercato che si gonfia troppo e poi attraversa un lungo bear market è un altro discorso, ma non va ad inficiare la fondamentale efficienza del mercato, almeno per quel tanto che interessa a me investitore, ossia che dai prezzi e dalle informazioni attuali non posso trarre conclusioni sul futuro.
Questa cosa è particolarmente rilevante oggi.
Si parla in continuazione di “bolla”, “siamo come nel ’99”, “quella dell’AI sarà la madre di tutte le bolle”, si salvi chi può.
Il punto vero è che NESSUNO sa se siamo in una bolla.
Nessuno sa se siamo al picco di un ciclo di mercato o in una fase intermedia.
Se fosse così scontato che nei prezzi del mercato uno trova direttamente i segnali per quando vendere e quando comprare saremmo tutti miliardari.
Ma ovviamente questo è un paradosso, così non può funzionare.
Alla fine del 2023, le previsioni sull’S&P 500 andavano dai 4.200 punti di JPMorgan, che quindi prevedeva un anno in contrazione, ai 5.400 di Yardeni Research, che invece correttamente aveva previsto un anno in espansione.
JPM, Goldman, Morgan Stanley, Bank of America, Yardeni e via dicendo hanno tutti fior di analisti e risorse per formulare le stime.
Ciononostante, pur basandosi sugli stessi identici dati e conoscendo tutti quanti come il mercato si è comportato nell’ultimo secolo a seconda dei vari indicatori, ciascuna previsione è stata diversa dalle altre.
Se nei prezzi fosse possibile scorgere qualche indizio sul futuro, JP Morgan sarebbe la prima a saperlo.
Eppure, la più grande e potente banca del mondo ha finito per formulare la peggiore previsione possibile.
Dicevo, non si sa se siamo in una bolla.
Forse sì.
Forse no.
Ma non c’è evidenza empirica che sia così.
E chi sostiene il contrario si basa su una sensazione, non su dati.
LEZIONE NUMERO 4: l’investimento passivo e il ruolo degli investitori attivi.
Una delle questioni a cui tengo di più è: “ma l’investimento passivo non finirà per distorcere il mercato come molti professano”, a partire da leggendari investitori come Michael Green e David Einhorn?
Come avevamo detto in passato, la tesi classica è che con la crescita dell’investimento passivo c’è una minore attività di analisi dei prezzi che riduce l’efficienza del mercato, causando dall’altra parte l’investimento cieco in tutte le società incluse in un indice e gonfiando così le valutazioni.
Fama ha dato a questo punto una risposta ancora una volta tanto semplice quanto ineccepibile.
Lui dice: “io non ho idea di quale sia il punto di ritorno. Teoricamente c’è un limite, perché il mercato non può essere fatto al 100% di investitori passivi”. “Ma questo limite non è noto. Non si sa se oggi siamo oltre quel limite o ci siamo ancora lontani”.
Qual è il punto vero?
Il punto vero è che chiaramente gli investitori attivi svolgono una funzione essenziale sul mercato.
Se non ci fossero, verrebbe meno la principale fonte di analisi che porta a determinare i prezzi delle singole security che poi gli indici e gli investitori attivi replicano.
Però la teoria secondo la quale “se aumenta l’investimento passivo allora si riduce l’efficienza dovuta all’attività di price discovery degli investitori attivi” non è necessariamente vera.
È vero anche l’esatto opposto se ci pensiamo.
Gli investitori attivi informati, come dice Fama, si mangiano quelli non informati.
Il punto, quindi, non è quanto cresce la quota di investimento passivo, ma quanti investitori attivi servono per mantenere il mercato efficiente.
Paradossalmente, se la crescita dell’investimento passivo porta tutti gli investitori non informati, cioè quelli come me e la maggior parte di voi che non fanno alcuna attività di analisi fondamentale delle singole azioni, dicevo se porta tutti gli investitori non informati a investire seguendo gli indici market cap weighted, il risultato finale è che si riduce la quota di gente che investe in modo stupido.
Se per assurdo sul mercato restassero solo pochi investitori attivi ma tutti perfettamente informati e tutti gli altri si mettessero a investire tramite index fund e ETF, magari la quota di passivo potrebbe raggiungere anche il 99,9% del mercato e comunque questo rimarrebbe efficiente, anzi forse lo sarebbe ancora di più perché verrebbero eliminate le distorsioni residue nei prezzi causate da tutti coloro che investono senza avere le competenze per farlo.
Il tema è aperto, chiaramente non c’è una risposta univoca.
Non voglio essere ingenuo da pensare che questa gigantesca trasformazione portata dagli Index fund e dagli ETF non abbia alcuna conseguenza.
Ma d’altra parte, mi tranquillizza relativamente il fatto che le argomentazioni secondo le quali gli strumenti passivi renderebbero il mercato meno efficiente sono in realtà le stesse che potrebbero far sì che il mercato diventi più efficiente.
Per riassumere, le 4 cose che vorrei che ciascuno si fosse portato a casa dalla chiacchierata con Fama sono:
– UNO: i mercati sono fondamentalmente efficienti, o almeno l’investitore retail dovrebbe partire dal presupposto che lo sono e comportarsi di conseguenza;
– DUE: alcuni fattori sono responsabili di un extrarendimento rispetto al mercato, ma potrebbero richiedere un tempo superiore all’orizzonte di investimento per manifestare i propri effetti, quindi non sovrastimare i benefici dell’investimento fattoriale;
– TRE: le bolle sono un fenomeno identificabile ex post, non in anticipo, quindi non provare a chiamare una bolla a partire da qualsivoglia considerazione sui prezzi attuali; per via del punto uno, i prezzi attuali in linea di principio sono giusti, almeno fino a prova contraria;
– QUATTRO: l’investimento passivo in sé e per sé non distorce il mercato né lo rende meno efficiente. Quello che conta davvero è l’equilibrio tra gli investitori attivi informati che si occupano di price discovery e quelli che agiscono in maniera non informata.
Dopo 172 episodi, mi piaceva l’idea di chiudere l’anno ripercorrendo alcuni principi di base dell’investimento di buon senso attraverso — diciamo così — il sigillo di garanzia impresso dal grande padre nobile della finanza moderna.
Tante volte nel podcast e in maniera esplicita nel mio libro ho detto che la ricchezza che riusciamo a costruire è una funzione di sole tre variabili: il Tempo, il Risparmio e il rapporto tra Rischio e Rendimento.
Ancora una volta riconfermo tutto quanto.
Strategie per battere il mercato, per fare performance eccezionali, per trovare scorciatoie dorate verso una facile ricchezza continuano a non fare parte del mio modo di vedere la finanza personale.
Investire il prima possibile, il maggior risparmio possibile, assumendoci il massimo rischio sistematico possibile che la nostra pianificazione e la nostra tolleranza ci consentono contribuiranno in maniera estremamente più significativa alla nostra prosperità finanziaria di qualunque complessa strategia dal dubbio esito finalizzata a sovraperformare il mercato.
Care amiche e cari amici di The Bull, grazie di cuore per questo straordinario anno assieme.
Dopo oltre un anno e mezzo, contro ogni mia più rosea aspettativa questo podcast continua a crescere e a raccogliere attorno a sé un numero sempre più grandi di persone che hanno deciso di voler prendere in mano la propria vita, almeno la propria vita finanziaria, e trasformarla fin dalle sue radici per costruirsi un futuro migliore.
Se nel mio piccolo avrò fatto qualcosa di utile per rendere ciascuno di voi un po’ più soddisfatto delle proprie finanze e un po’ più vicino alla propria libertà finanziaria, difficilmente potrei immaginarmi una soddisfazione più grande.
Per l’ultima volta nel 2024 vi invito a mettere segui e attivare le notifiche su Spotify, Apple Podcast o dove ci ascoltate e a lasciare una recensione a 5 stelle per supportarci e permetterci di continuare a produrre contenuti che, come durante l’ora di letteratura alle superiori, fanno l’analisi del testo ai capolavori dei grandi del passato sempre nuovi.
Per questo episodio invece è davvero tutto buon anno a tutti voi e ai vostri cari e non vedo l’ora di ritrovarci nel 2025 di nuovo tutti assieme per continuare il nostro viaggio alla conquista dei nostri obiettivi finanziari, sempre qui, naturalmente, con The Bull il tuo podcast di finanza personale.
Bentornati a The Bull — il tuo podcast di finanza personale
Ultimo episodio del 2024 del nostro podcast, care amiche e cari amici di The Bull.
Siamo in quel momento dell’anno in cui si tirano i bilanci e si fanno i buoni propositi per il futuro.
Il bilancio, almeno dal punto di vista finanziario, credo sia stato piuttosto buono per tutti quanti, con l’S&P 500 che in euro è su di un assurdo +35% da gennaio ad oggi e l’MSCI world del 27%.
Poi, non è che sia domenica tutti i giorni, non abituiamoci troppo bene perché la performance dei mercati di questi due anni è stata più l’eccezione che la regola. Ok che nel lungo termine il rendimento azionario è storicamente piuttosto generoso, ma due anni back-to-back oltre il 25% era francamente difficile da prevedere.
So far so good comunque.
Chi più chi meno siamo tutti contenti, abbiamo aggiustato il tiro con le nostre finanze, facciamo i budget su file Excel che manco la Nasa, stiamo attenti alle spese quotidiane, risparmiamo il più possibile e investiamo nel nostro bel portafoglio fatto come più piace a noi e che meglio risponde ai nostri obiettivi.
I buoni propositi invece riguardano tutto quel che ci sarà da fare a partire dal prossimo anno per continuare il percorso che porterà ciascuno di noi a raggiungere i traguardi finanziari che si è prefisso.
Per l’ultimo episodio dell’anno mi sarei immaginato in effetti di dire qualcosa sulle buone pratiche da implementare per gestire al meglio le proprie finanze nel 2025, così da consolidare alcuni concetti fondamentali che è bene richiamare di tanto in tanto alla memoria.
In fondo tutti i buoni propositi di inizio anno sono così.
Non è che uno scopre il 31 gennaio che se smette di mangiare schifezze e va in palestra dimagrisce, oppure che il fumo fa male o che odia il suo lavoro e che se vuole può cambiarlo.
Sono cose che si sanno già.
Ma a fine anno spesso ci si ferma, si fa il punto con i propri pensieri e si cerca di mettere giù un piano d’azione.
Mi immaginavo di parlare di questo, di come costruire un piano d’azione vincente nel 2025 per tutti, per chi è ormai un supersayan di finanza personale e per chi invece per qualche motivo ha conosciuto The Bull solo oggi e ha pensato bene di cominciare dal 172° episodio.
Ma poi mi sono fermato un attimo anch’io e ho pensato che per quello ci sarà tempo.
E nel momento in cui ho fatto il mio bilancio del 2024 è stato abbastanza facile richiamare alla memoria il momento più alto di questo podcast.
In effetti c’è stato un momento inequivocabile in cui tanta della saggezza sugli investimenti che cerco di condividere con voi due volte a settimana da oltre un anno e mezzo ha trovato la sua massima espressione, in un punto preciso, 30 minuti in cui, come dire, sono state dette nel modo più penetrante possibile alcune delle cose più importanti da sapere su come funziona davvero la finanza.
Quel momento non poteva che essere il mio incontro con Eugene Fama, premio Nobel per l’economia nel 2013 e padre della finanza così come la conosciamo oggi, fissato per sempre nella storia di questo podcast alla fermata n° 164 del nostro viaggio.
Devo dire la verità.
Da quell’incontro non è emerso quasi nulla che non sapessi già prima dalla chiacchierata con lui.
In fondo prima di incontrarlo due o tre cose di Fama le avevo lette, per usare un eufemismo.
Ma ciononostante, sentire dalla sua bocca certi concetti li ha impressi con una forza indescrivibile nella mia testa, al punto che posso dire che la mia comprensione della finanza, dopo quell’intervista, si è ulteriormente cementata nelle sue fondamenta.
In questo ultimo episodio dell’anno, quindi, come buon auspicio per diventare tutti investitori migliori nel 2025, voglio ripercorrere 4 Lezioni fondamentali che ci ha impartito Eugene Fama in quei densissimi, straordinari, 30 minuti.
Non esistono verità assolute in finanza — e Fama stesso sarebbe il primo a confermare questa cosa.
Ma per il 99% degli investitori, quindi esclusi tutti quegli investitori di un’altra categoria che stanno alla finanza come Messi e Ronaldo stanno al calcio e che non fanno testo per noi comuni mortali, queste 4 lezioni andrebbero incorporate nella propria pratica da investitori COME SE fossero verità assolute.
Del resto la finanza non è una scienza esatta.
Anzi non è una scienza per niente, nel senso rigoroso del termine.
Quindi a fronte di quest’incertezza strutturale, il meglio che possiamo fare per i nostri soldi è probabilmente comportarci COME SE il modello creato da Eugene Fama e le sue conseguenze fossero l’equivalente finanziario delle Leggi di Newton.
Tra l’altro, anche le Leggi di Newton a voler essere rigorosi non sono del tutto corrette.
La teoria della relatività generale ha completamente stravolto cose che sembravano delle verità fisiche universali, come il fatto che un corpo nel vuoto si muova in linea retta o che la gravità sia una forza (e i fisici all’ascolto mi perdoneranno se dico cose in maniera poco rigorosa).
Ciononostante, ancora oggi per il 99% delle cose che riguardano la nostra vita quotidiana, le leggi di Newton funzionano abbastanza bene per tutti i nostri scopi e non ci servono le trasformazioni di Lorenz per rendere conto del fatto che a certe velocità lo spazio si contrae e il tempo rallenta.
In finanza è un po’ lo stesso.
Per il 99% di noi, che per restare nella metafora non ci muoviamo a velocità prossime a quelle della luce, il modello Newtoniano di Fama funziona più che bene.
Per l’1% (che forse è più lo 0,0001%) dei più brillanti e geniali investitori del mondo, allora valgono regole diverse, ma non sono completamente al di là della nostra portata.
Ringrazio il mio amico Mr. Rip per questa similitudine tra il modello di Fama e il rapporto tra Newton e Einstein, che credo sia uno dei modi più calzanti per inquadrare la questione e capire perché anche un modello che per definizione ha delle lacune continua a rappresentare una delle mappe più accurate che abbiamo per orientarci nel mondo della finanza.
Per chi vuole tra l’altro c’è un video di Rip molto bello e dettagliato sul concetto di mercati efficienti sul suo canale.
Veniamo a noi e alle 5 lezioni di Eugene Fama.
PRIMA LEZIONE: non poteva che essere che I MERCATI SONO EFFICIENTI.
Cosa significa questa cosa, che è un po’ il cuore di tutto il suo modello e il motivo per cui gli hanno dato il Nobel?
La sua spiegazione più essenziale è che i prezzi, in particolare i prezzi delle azioni, riflettono tutte le informazioni disponibili; in pratica, tutto ciò che si può sapere di una particolare security è già nel suo prezzo.
Di conseguenza non sarebbe possibile formulare delle previsioni migliori di quelle che fa il mercato basandoci su queste stesse informazioni.
E questo, in fin dei conti, non significa altro se non che l’investitore medio non potrà sistematicamente battere il mercato sfruttando informazioni che sono già assorbite dal mercato stesso nei prezzi espressi da tutti gli asset quotati.
L’idea di Fama, quindi, è che tu investitore non puoi affermare cose del tipo:
– Le valutazioni azionarie sono TROPPO elevate; oppure
– Le società tech americane sono SOPRAVVALUTATE mentre le società industriali europee sono SOTTOVALUTATE; oppure ancora
– Esprimere considerazioni di altra natura sul livello del debito, del pil, dell’inflazione, del mercato del lavoro, dei rendimenti dei titoli di stato o di qualunque altro proxy che dovrebbe in qualche modo essere rivelativo del comportamento futuro delle azioni.
E questo perché il concorso dell’attività di tutti gli agenti che operano sui mercati fa sì che i prezzi si adattino praticamente in tempo reale a tutte queste informazioni e a quelle nuove che arriveranno in seguito senza che ci sia quasi mai la possibilità di trarre un vantaggio competitivo.
Alcuni hedge fund ci riescono? Sì
Alcuni investitori leggendari hanno battuto il mercato per vent’anni di fila? Sì
Tuo cugino l’hanno scorso ha doppiato la performance dell’S&P 500 perché ha comprato solo le Magnifiche 7? Benissimo.
Ma tolti un manipolo di investitori dotati di straordinarie capacità e straordinarie risorse che in alcuni casi riescono a battere il mercato e tolto chi in maniera del tutto casuale ogni tanto batte il mercato senza nemmeno sapere come fa, ecco, nel 99% dei casi l’investitore non è in grado di ottenere un rendimento supplementare sistematico rispetto al mercato.
Questo concetto è di capitale importanza soprattutto per il singolo investitore.
La tentazione di prendere specifiche decisioni, pensando che sia meglio fare così o cosà in base a quel dato, quella metrica o quel dolore al nervo sciatico che ti viene solo in prossimità di un bear market, ecco questa tentazione sarà una costante nella lunga vita di ciascun investitore.
Spesso penseremo:
– Mmmmhhh, forse il mercato è cresciuto troppo, meglio vendere, oppure
– Beh ormai la Cina è scesa troppo ed è super economica, può solo salire
O qualsiasi altra considerazione del genere, ecco ricordatevi che a Eugene Fama hanno dato il premio Nobel per aver elaborato un modello che, sulla base di dati empirici, mostra come sia statisticamente impossibile prendere decisioni d’investimento che generano alfa, che generano un extra rendimento in maniera ripetibile sfruttando informazioni già disponibili sui mercati.
Ora attenzione ad una cosa.
Fama non dice che i prezzi sono sempre giusti e che tutto quello che vedete sul mercato è perfetto così.
Anzi.
Quello che lui dice è che i prezzi in un certo senso sono sempre sbagliati.
Il problema è che sono sbagliati “after the fact”, cioè risultano sbagliati a posteriori una volta che nuove informazioni vengono incorporate dal mercato e cambiano i valori in gioco.
Per Fama è assolutamente possibile che, esempio, le valutazioni elevate del mercato americano siano sbagliate, sbagliate nel senso che stanno prezzando degli utili futuri eccessivi che potrebbero non arrivare mai.
Ma il punto non è questo.
Il punto è che OGGI non possiamo prendere decisioni migliori basandoci su queste informazioni.
Mentre parlo l’S&P in media ha un prezzo di 22 volte superiore agli utili attesi l’anno prossimo.
Rispetto alla media storica è una valutazione sicuramente molto elevata.
Storicamente, quando le valutazioni di partenza sono sopra la media i rendimenti futuri sono sotto la media.
Ma anche sapere questa cosa è perfettamente inutile ai fini delle decisioni di investimento.
Se fosse assolutamente ovvio che questi prezzi sono elevati e che c’è qualche precisa azione da intraprendere, allora il mercato si comporterebbe diversamente, tutti si metterebbero a vendere e i prezzi non sarebbero più così elevati.
Sono 10 anni che si dice che il mercato ha valutazioni elevate, eppure sono 10 anni che continua ad andare su.
Questo non vuol dire che andrà su per sempre, anzi sicuramente non sarà così.
Significa solo che il concetto di valutazione elevata, così come qualunque altro criterio vogliamo utilizzare, non è un’informazione che offre vantaggi competitivi rispetto a investire passivamente nel mercato di riferimento.
In fondo il mercato sconta le informazioni che ha sulla base delle stime che riesce a formulare.
Se in futuro nuovi fatti modificheranno il nostro paradigma interpretativo, allora i prezzi si riallineeranno.
Ma appunto, after the fact.
Lui stesso fece una volta un esempio preso dalla dot-com bubble.
Disse: “è vero, i prezzi si sono gonfiati troppo e poi il mercato è andato giù. Ma il mercato non aveva torto. Internet era davvero la grande rivoluzione di quell’era. Ci sono però voluti 10 anni in più per vederne i dirompenti frutti. Bislacche società come pet.com sono scomparse, mentre Amazon, che negli anni ’90 sembrava uno dei simboli dell’allucinazione senza senso della internet economy, oggi è una delle 10 società più grandi del mondo”.
Adesso qualcuno potrebbe dire:
– Eh ma allora Tesla con un prezzo 100 volte gli utili?
– Eh ma allora Gamestop e le altre meme stock?
– Eh ma allora bla bla bla scegliete voi l’azione più pazza del mondo che vi ha fatto mettere in discussione l’idea che i mercati siano efficienti.
Lui dice: “le singole azioni possono essere prezzate anche in maniera molto stupida. Ma nel lungo termine lo sforzo cumulativo di milioni di persone che cercano di battere il mercato è la prova che in media i prezzi sono più spesso corretti che no”.
I prezzi sono sempre sbagliati “dopo i fatti”.
Ma a te, caro investitore medio, conviene investire COME SE I PREZZI FOSSERO GIUSTI.
E a chi gli contesta questa cosa, la sua risposta solitamente mette a tacere chiunque: if prices were obviously wrong, then you should be rich.
Se i prezzi fossero oggettivamente sbagliati, tu dovresti essere ricco.
Se invece non sei ricco è semplicemente perché non puoi sapere SE sono sbagliati, QUANDO sono sbagliati e IN CHE MISURA sono sbagliati.
Non è casuale che sia proprio l’ipotesi dei mercati efficienti il più forte fondamento teorico alla base dell’idea di investire in maniera passiva, replicando il mercato.
E questo è il suggerimento che Fama stesso dà, senza mezzi termini.
L’investitore retail deve investire in tutto il mercato, ossia investire COME SE I PREZZI FOSSERO GIUSTI.
Questo è probabilmente l’approccio che massimizza il rendimento atteso della stragrande maggioranza degli investitori comuni mortali. Uno sceglie il livello di rischio che si vuole assumere e in qualche modo il rendimento atteso sarà proporzionale a questo, entro certi limiti. Ma pretendere di ottenere un migliore risk-adjusted return, cioè un rendimento maggiore del mercato a parità di rischio assunto è qualcosa al di fuori della portata del 99% di noi.
Ricordatelo la prossima volta che penserai di avere avuto una geniale intuizione, la prossima volta che ti chiederai se quel sistema di trading da 3.000 € effettivamente può farti avere una rendita passiva con 10 minuti al mese o semplicemente quando sarai lì lì per vendere tutto perché ti sarà venuto il timore che il mercato stia per crollare da un momento all’altro.
A proposito di correlazione tra rischio e rendimento veniamo alla
LEZIONE NUMERO DUE: ossia il fatto che certi fattori abbiano determinato una sovraperformance nel passato non significa che lo faranno nel futuro.
Quando parliamo di fattori parliamo di portafogli che si espongono in maniera sistematica a società con certe caratteristiche con l’obiettivo di assumersi maggiore rischio per conseguire un maggiore rendimento rispetto al mercato di riferimento.
Da dove arriva quest’idea?
William Sharpe aveva formulato l’idea del Capital Asset Pricing Model, detto CAPM, ossia che il rendimento di un portafoglio è una funzione del rischio del mercato, chiamato beta.
Il rendimento del portafoglio è infatti espresso come prodotto tra premio al rischio (cioè rendimento del portafoglio meno rendimento senza rischio dei titoli di stato a breve) e appunto beta. Premio al rischio per beta.
Se investo tramite un ETF nell’S&P 500 il mio beta è uguale ad 1, quindi mi assumo il rischio del mercato e mi prendo il rendimento del mercato. Premio al rischio per 1 fa premio al rischio punto.
Un rendimento superiore, invece, presuppone un rischio superiore, ossia un beta maggiore di 1, cioè un livello di volatilità maggiore per il mio portafoglio rispetto al mercato.
Però noi sappiamo che il CAPM non è in grado di spiegare tutte le situazioni in cui un portafoglio è in grado di esprimere un rendimento maggiore rispetto al mercato.
Rimane fuori circa almeno un 30% di casi in cui il solo rischio di mercato non rendeva conto di certe performance.
E sappiamo che fu proprio Fama, assieme a Kenneth French a colmare buona parte di questo gap.
Negli anni ’90 Fama e French elaborarono il cosiddetto modello a 3 fattori, poi esteso a 5 fattori, di cui abbiamo già parlato negli episodi 113, 124 e 127.
Quali sono questi 5 fattori, cioè appunto questi 5 motivi, diciamola così un po’ alla buona, per cui un certo portafoglio dovrebbe avere un rendimento sistematico maggiore rispetto al mercato?
Attenzione che non si sta parlando di extra rendimento derivante dal fatto che l’investitore o il gestore di un fondo seleziona solo titoli vincenti.
Stiamo parlando di extra rendimento che deriva dal fatto di sovrappesare nel portafoglio certi fattori di rischio.
Questi 5 fattori sono:
– Beta naturalmente, cioè il rischio proprio del mercato previsto dal modello del CAPM;
– Size, ossia il fatto che le società piccole (le small caps) hanno storicamente sovraperformato le large caps;
– Value, ossia il fatto che le società con un prezzo basso rispetto book value, al valore patrimoniale, hanno storicamente sovraperformato le società growth, quelle cioè con elevati prezzi rispetto ai valori di bilancio;
e questi sono i tre fattori originari.
Gli altri due, introdotti successivamente, sono stati chiamati:
– Profitability, ossia il fatto che le società con un elevato livello di profittabilità rispetto ai propri asset hanno storicamente sovraperformato quelle a bassa profittabilità e infine
– Investment, ossia il fatto che le società che spendono meno in investimenti strutturali sulla propria crescita hanno sovraperformato quelle che spendono di più.
Il filo conduttore di questi 5 fattori è che sbilanciare il portafoglio verso ciascuno di questi fattori comporterebbe l’assunzione di un maggior rischio che non si riduce al solo rischio di mercato, portandosi così dietro un maggior rendimento.
La domanda che gli feci durante l’intervista fu: “prendiamo i fattori più famosi, size e value. Storicamente le small caps e le value stocks hanno sempre sovraperformato, ma negli ultimi due decenni sono stati surclassati da large caps e growth stocks. Stiamo assistendo forse ad un cambio di paradigma oppure l’investimento fattoriale continua a mantenere la sua validità?”.
Anche qui, dalle sue poche parole si potrebbero tirare fuori articoli interi.
Da una parte, disse, non lo puoi sapere perché serve una vita intera e forse anche di più per decretare che un fattore abbia smesso di funzionare al di là di fluttuazioni casuali in certi momenti storici.
Lo spunto universale che ho tratto da questa sua considerazione è che a volte dimentichiamo che i tempi della finanza non sono quelli dell’esperienza del singolo individuo.
Il nostro lungo termine pensiamo siano 10 anni.
Per la finanza sono magari 50 anni o più.
Quindi tirare conclusioni perché “in un certo decennio si è riscontrato questo o quel fenomeno” risulterà sempre del tutto infondato.
Dall’altra parte Fama ha spiegato che dopo aver pubblicato i lavori con Kenneth French, tutti cominciarono a “pile in”, ad incrementare i propri investimenti su size e value.
In qualche modo, questa cosa ha arbitraggiato il fenomeno che avevano descritto, cioè il sovrainvestimento con logiche fattoriali ha in qualche modo fatto evaporare il vantaggio che avrebbero dovuto portare.
Se ci pensiamo, investire massicciamo in size e value vuol dire in qualche modo aumentare la capitalizzazione della prima e il price-to-book-value della seconda. Di fatto, quelle società small e value che avevano sovraperformato in un certo periodo e che mi hanno portato a dire “investo in small caps e value stock” non ci sono più nel portafoglio perché nel frattempo sono diventate Large e Growth (o comunque non più così small e value).
È ampiamente documentato il fatto che i fattori hanno due problemi:
– Il primo è che una volta che viene pubblicato un paper che dimostra l’esistenza di un fattore, il suo extrarendimento si deteriora;
– Il secondo problema è che i fattori sono time-varying, cioè variano nel tempo a seconda di diversi scenari macro.
Se guardiamo a cosa sia successo negli ultimi 50 anni, abbiamo assistito ad un graduale deterioramento della capacità di società small e value di produrre extrarendimento, mentre è sicuramente aumentato nel tempo il contributo di un fattore che non rientra nel modello di Fama, ossia il momentum.
Il punto però è che non bisogna essere ingenui quando si pensa a dare un tilt fattoriale al portafoglio.
Il fatto che in passato l’MSCI Value abbia battuto l’MSCI World non significa che lo farà sicuramente in futuro.
Il fatto che in passato l’MSCI Momentum abbia battuto l’MSCI World non significa che lo farà sicuramente in futuro.
E così per tutti.
Anzi, è possibile che lo faranno in futuro, ma potrebbe volerci un tempo superiore al tempo utile per il nostro orizzonte di investimento.
Il suo consiglio, ancora una volta, è di non sovrappesare specifici fattori di battere il mercato.
Il suo consiglio, per l’investitore privato, è limitarsi all’esposizione verso il mercato e lasciare che l’alternanza dei fattori in esso contribuiscano al rendimento complessivo.
Detto questo, probabilmente non c’è nulla di sbagliato nel voler imprimere un certo sbilanciamento al portafoglio verso fattori tra loro poco correlati, come ad esempio Value e Momentum.
Ma la logica dovrebbe essere quella di scegliere un’impostazione del portafoglio che assecondi al meglio il mio profilo di rischio — o comunque che sua funzionale a ciò che voglio per il mio portafoglio per mie specifiche ragioni.
Non è invece corretto aspettarsi che automaticamente la sovraesposizione ad un fattore mi dia un vantaggio certo e garantito.
Se il vostro portafoglio è una zuppa di ETF fattoriali tenetene conto.
Anche sul momentum gli feci una domanda.
A Fama momentum non piace più di tanto.
Momentum è quel fattore che sovrappesa nel portafoglio le società che sono cresciute di più negli ultimi 3-6-12 mesi, secondo l’idea che nel breve ci sia autocorrelazione e quindi che le società che sono cresciute di più di recente continueranno a farlo ancora per un po’, proprio come se avessero uno slancio (momentum appunto).
Secondo Fama, però, momentum ha anch’esso due problemi.
– Il primo è dopo i primi promettenti risultati negli anni ’90 quando uscirono i primi paper, non gli risulta che esistano prove empiriche della sua efficacia.
Lui dice: il fenomeno c’è, ma non risulta che ci sia qualcuno che sia davvero riuscito a fare soldi in maniera replicabile sfruttando il momentum.
– Il secondo problema sono i costi. Per definizione, un portafoglio che sfrutta il momentum deve modificare molto spesso la sua composizione. Deve comprare le società che sono cresciute di più e shortare quelle cresciute di meno con una certa frequenza. Questo ha naturalmente un impatto sui costi. Secondo lui, se il fattore momentum è davvero in grado di portare un beneficio sistematico, i costi di transazione finiscono per mangiarseli via.
A guardare le performance dell’MSCI World momentum sembra che la sovraperformance, anche al netto dei costi, sia stata notevole negli ultimi 30 anni.
Ma appunto come dicevamo prima, questa non è assolutamente una buona ragione per essere certi che lo stesso accadrà anche nei prossimi 30.
LEZIONE NUMERO TRE: le bolle e le interpretazioni comportamentali della finanza.
La teoria considerata “antagonista” a quella di Fama deriva dal lavoro di Daniel Kahneman e Amos Tversky e ha forse il suo più eminente rappresentate in Richard Thaler, anche lui professore a Chicago e anche lui recente premio Nobel per l’economia.
Entrambi in realtà sono abbastanza concordi sulla bottom line, sulle implicazioni pratiche dei due modelli, ossia che sia molto difficile battere il mercato.
Quello che cambia sono le interpretazioni di partenza.
Secondo Fama i mercati sono efficienti e c’è una certa razionalità di base nel processo di asset pricing, mentre per Thaler i mercati non sono efficienti proprio perché le decisioni degli investitori sono irrazionali e tendono a sovrareagire alle notizie.
Per esempio: per Fama un portafoglio Value avrebbe un rendimento atteso maggiore di uno Growth perché investire in società con basso prezzo rispetto al book significa prendersi il maggior rischio di investire in una società con una bassa aspettativa di crescita.
Per Thaler invece l’extrarendimento deriverebbe dal fatto che il mercato avrebbe reagito in maniera eccessivamente negativa a qualche brutta notizia penalizzando eccessivamente certe società che invece avrebbero un valore intrinseco elevato da esprimere.
Gli citai un recente lavoro di Robert Bordalo e altri accademici di spicco che in effetti avrebbero provato a spiegare l’excess return dovuto ai fattori attraverso spiegazioni di natura comportamentale.
In pratica sarebbero gli errori nelle aspettative degli investitori a prezzare malamente le azioni e a far sì che small caps, value e così via generassero in media un rendimento superiore, non una consapevole maggiore assunzione di rischio.
Su questo argomento lui è sempre piuttosto tranchant.
In un’intervista di qualche anno fa con Barry Ritholtz da Bloomberg lui disse senza mezzi termini che “la finanza comportamentale non esiste”.
Dal suo punto di vista sono solo “claim”, sono solo affermazioni che non sono supportate dai dati.
Con me è stato meno secco e in realtà ha detto che potrebbe anche essere corretto ciò che i comportamentalisti dicono.
Il punto, secondo lui, è che non c’è evidenza nei dati e quindi non puoi dire se si tratti di una correlazione spuria, oppure se ci sia effettivamente un modo sistematico per sfruttare questa cosa per costruire un portafoglio più performante.
Per Fama, ad oggi, non ci sarebbe evidenza di questa cosa.
Ma il punto più significativo riguarda la tipica critica che riceve l’ipotesi dei mercati efficienti, cioè la sua coesistenza con le bolle.
I critici dicono: ok, ma se i mercati sono efficienti, come mai ci sono le bolle?
La sua risposta è che tu chiami bolla una cosa solo ex post.
Per parlare a rigore di una bolla dovresti parlare di qualcosa che scoppia in maniera prevedibile.
Se non è prevedibile non è una bolla, ma solo — come mi ha detto lui — variation in the price.
Nel 2013 oltre a lui prese il Nobel un altro gigante, Robert Shiller.
Shiller è forse uno dei più famosi scettici nei confronti dell’efficienza del mercato, oltre che essere uno di quelli che potremmo annoverare decisamente più tra i permabear che non permabull.
La consacrazione globale di Shiller arrivò all’inizio degli anni 2000, quando intravide la bolla di internet arrivare e chiamò con largo anticipo anche quella immobiliare del 2007-2008.
Durante l’intervista Fama cita proprio Shiller che nel 1996 suggerì all’allora capo della Fed Alan Greenspan che il mercato potesse essere affetto da un’euforia irrazionale, Irrational Exuberance, come poi Shiller avrebbe chiamato il suo libro più famoso uscito appunto nei primi anni 2000 e che vi straconsiglio assolutamente di leggere.
Cosa successe però?
Successe che nel ’96 Shiller persuase Greenspan sul surriscaldamento dei mercati.
A dicembre Greenspan tenne un celebre discorso in TV in cui parlò appunto di Euforia Irrazionale, nei giorni successivi i mercati andarono giù come reazione alle sue parole e temendo un inasprimento della politica monetaria della Fed e poi ritornarono su, continuando a correre addirittura sino al marzo del 2000.
La domanda di Fama, quindi, è: ma la bolla qual è?
È il fatto che il mercato prima è andato su e poi giù, che è andato giù e poi su o cosa?
Nei dati non sembra esserci mai l’evidenza empirica di una bolla.
Solo a posteriori puoi definirla tale.
Ma se non c’è modo di identificare una bolla prima del fatto, questa è più una conferma a favore dell’efficienza dei mercati, che non il contrario.
Come altre volte ha precisato, forse la parola “efficienza” è ciò che confonde del suo modello, perché le persone sentono che i mercati sono “efficienti” e quindi suppongono che tutto debba sempre filare liscio.
In realtà l'”efficienza” di cui parla lui è il fatto che i mercati sono efficienti nell’incorporare le informazioni nei prezzi.
Che poi queste informazioni portino ad un mercato che si gonfia troppo e poi attraversa un lungo bear market è un altro discorso, ma non va ad inficiare la fondamentale efficienza del mercato, almeno per quel tanto che interessa a me investitore, ossia che dai prezzi e dalle informazioni attuali non posso trarre conclusioni sul futuro.
Questa cosa è particolarmente rilevante oggi.
Si parla in continuazione di “bolla”, “siamo come nel ’99”, “quella dell’AI sarà la madre di tutte le bolle”, si salvi chi può.
Il punto vero è che NESSUNO sa se siamo in una bolla.
Nessuno sa se siamo al picco di un ciclo di mercato o in una fase intermedia.
Se fosse così scontato che nei prezzi del mercato uno trova direttamente i segnali per quando vendere e quando comprare saremmo tutti miliardari.
Ma ovviamente questo è un paradosso, così non può funzionare.
Alla fine del 2023, le previsioni sull’S&P 500 andavano dai 4.200 punti di JPMorgan, che quindi prevedeva un anno in contrazione, ai 5.400 di Yardeni Research, che invece correttamente aveva previsto un anno in espansione.
JPM, Goldman, Morgan Stanley, Bank of America, Yardeni e via dicendo hanno tutti fior di analisti e risorse per formulare le stime.
Ciononostante, pur basandosi sugli stessi identici dati e conoscendo tutti quanti come il mercato si è comportato nell’ultimo secolo a seconda dei vari indicatori, ciascuna previsione è stata diversa dalle altre.
Se nei prezzi fosse possibile scorgere qualche indizio sul futuro, JP Morgan sarebbe la prima a saperlo.
Eppure, la più grande e potente banca del mondo ha finito per formulare la peggiore previsione possibile.
Dicevo, non si sa se siamo in una bolla.
Forse sì.
Forse no.
Ma non c’è evidenza empirica che sia così.
E chi sostiene il contrario si basa su una sensazione, non su dati.
LEZIONE NUMERO 4: l’investimento passivo e il ruolo degli investitori attivi.
Una delle questioni a cui tengo di più è: “ma l’investimento passivo non finirà per distorcere il mercato come molti professano”, a partire da leggendari investitori come Michael Green e David Einhorn?
Come avevamo detto in passato, la tesi classica è che con la crescita dell’investimento passivo c’è una minore attività di analisi dei prezzi che riduce l’efficienza del mercato, causando dall’altra parte l’investimento cieco in tutte le società incluse in un indice e gonfiando così le valutazioni.
Fama ha dato a questo punto una risposta ancora una volta tanto semplice quanto ineccepibile.
Lui dice: “io non ho idea di quale sia il punto di ritorno. Teoricamente c’è un limite, perché il mercato non può essere fatto al 100% di investitori passivi”. “Ma questo limite non è noto. Non si sa se oggi siamo oltre quel limite o ci siamo ancora lontani”.
Qual è il punto vero?
Il punto vero è che chiaramente gli investitori attivi svolgono una funzione essenziale sul mercato.
Se non ci fossero, verrebbe meno la principale fonte di analisi che porta a determinare i prezzi delle singole security che poi gli indici e gli investitori attivi replicano.
Però la teoria secondo la quale “se aumenta l’investimento passivo allora si riduce l’efficienza dovuta all’attività di price discovery degli investitori attivi” non è necessariamente vera.
È vero anche l’esatto opposto se ci pensiamo.
Gli investitori attivi informati, come dice Fama, si mangiano quelli non informati.
Il punto, quindi, non è quanto cresce la quota di investimento passivo, ma quanti investitori attivi servono per mantenere il mercato efficiente.
Paradossalmente, se la crescita dell’investimento passivo porta tutti gli investitori non informati, cioè quelli come me e la maggior parte di voi che non fanno alcuna attività di analisi fondamentale delle singole azioni, dicevo se porta tutti gli investitori non informati a investire seguendo gli indici market cap weighted, il risultato finale è che si riduce la quota di gente che investe in modo stupido.
Se per assurdo sul mercato restassero solo pochi investitori attivi ma tutti perfettamente informati e tutti gli altri si mettessero a investire tramite index fund e ETF, magari la quota di passivo potrebbe raggiungere anche il 99,9% del mercato e comunque questo rimarrebbe efficiente, anzi forse lo sarebbe ancora di più perché verrebbero eliminate le distorsioni residue nei prezzi causate da tutti coloro che investono senza avere le competenze per farlo.
Il tema è aperto, chiaramente non c’è una risposta univoca.
Non voglio essere ingenuo da pensare che questa gigantesca trasformazione portata dagli Index fund e dagli ETF non abbia alcuna conseguenza.
Ma d’altra parte, mi tranquillizza relativamente il fatto che le argomentazioni secondo le quali gli strumenti passivi renderebbero il mercato meno efficiente sono in realtà le stesse che potrebbero far sì che il mercato diventi più efficiente.
Per riassumere, le 4 cose che vorrei che ciascuno si fosse portato a casa dalla chiacchierata con Fama sono:
– UNO: i mercati sono fondamentalmente efficienti, o almeno l’investitore retail dovrebbe partire dal presupposto che lo sono e comportarsi di conseguenza;
– DUE: alcuni fattori sono responsabili di un extrarendimento rispetto al mercato, ma potrebbero richiedere un tempo superiore all’orizzonte di investimento per manifestare i propri effetti, quindi non sovrastimare i benefici dell’investimento fattoriale;
– TRE: le bolle sono un fenomeno identificabile ex post, non in anticipo, quindi non provare a chiamare una bolla a partire da qualsivoglia considerazione sui prezzi attuali; per via del punto uno, i prezzi attuali in linea di principio sono giusti, almeno fino a prova contraria;
– QUATTRO: l’investimento passivo in sé e per sé non distorce il mercato né lo rende meno efficiente. Quello che conta davvero è l’equilibrio tra gli investitori attivi informati che si occupano di price discovery e quelli che agiscono in maniera non informata.
Dopo 172 episodi, mi piaceva l’idea di chiudere l’anno ripercorrendo alcuni principi di base dell’investimento di buon senso attraverso — diciamo così — il sigillo di garanzia impresso dal grande padre nobile della finanza moderna.
Tante volte nel podcast e in maniera esplicita nel mio libro ho detto che la ricchezza che riusciamo a costruire è una funzione di sole tre variabili: il Tempo, il Risparmio e il rapporto tra Rischio e Rendimento.
Ancora una volta riconfermo tutto quanto.
Strategie per battere il mercato, per fare performance eccezionali, per trovare scorciatoie dorate verso una facile ricchezza continuano a non fare parte del mio modo di vedere la finanza personale.
Investire il prima possibile, il maggior risparmio possibile, assumendoci il massimo rischio sistematico possibile che la nostra pianificazione e la nostra tolleranza ci consentono contribuiranno in maniera estremamente più significativa alla nostra prosperità finanziaria di qualunque complessa strategia dal dubbio esito finalizzata a sovraperformare il mercato.
Care amiche e cari amici di The Bull, grazie di cuore per questo straordinario anno assieme.
Dopo oltre un anno e mezzo, contro ogni mia più rosea aspettativa questo podcast continua a crescere e a raccogliere attorno a sé un numero sempre più grandi di persone che hanno deciso di voler prendere in mano la propria vita, almeno la propria vita finanziaria, e trasformarla fin dalle sue radici per costruirsi un futuro migliore.
Se nel mio piccolo avrò fatto qualcosa di utile per rendere ciascuno di voi un po’ più soddisfatto delle proprie finanze e un po’ più vicino alla propria libertà finanziaria, difficilmente potrei immaginarmi una soddisfazione più grande.
Per l’ultima volta nel 2024 vi invito a mettere segui e attivare le notifiche su Spotify, Apple Podcast o dove ci ascoltate e a lasciare una recensione a 5 stelle per supportarci e permetterci di continuare a produrre contenuti che, come durante l’ora di letteratura alle superiori, fanno l’analisi del testo ai capolavori dei grandi del passato sempre nuovi.
Per questo episodio invece è davvero tutto buon anno a tutti voi e ai vostri cari e non vedo l’ora di ritrovarci nel 2025 di nuovo tutti assieme per continuare il nostro viaggio alla conquista dei nostri obiettivi finanziari, sempre qui, naturalmente, con The Bull il tuo podcast di finanza personale.
Recensioni
Quando capisci come funziona la finanza… ti viene voglia di raccontarla!
Veramente veramente raccomandato! la finanza personale riassunta alla perfezione! e spiegata partendo dall'ABC! Ottimo anche da ascoltare a velocita 1,5x!
Giorgia R., 23 Gen 2025Non sono solito a mettere recensioni e specialmente non ascolto podcast, ma da quando ho iniziato questo, faccio fatica a staccarmi, e quasi non posso più fare a meno di ascoltare e arricchirmi culturalmente.
Andrea V., 22 Set 2025Dovrebbero ascoltarlo buona parte degli italiani e io avrei dovuto scoprirlo con qualche anno in anticipo ma meglio tardi che mai
Matteo C., 3 Set 2025Ho seguito tutte le puntate! Grazie veramente
Amalia A., 17 Set 2025Riccardo mi ha letteralmente cambiato la vita e fatto scoprire che amo la finanza, ho ascoltato il podcast già due volte e non mi stufo mai di ascoltarlo, parla in modo semplice e chiaro
Massimo D., 23 Set 2025Ho acquistato e letto il suo libro e l' ho trovato. Esprime i concetti economici in modo semplice e chiaro. Sentirlo parlare conferma che è un professionista del settore.
Giulia N., 11 Ago 2025Podcast che dà sempre spunti interessanti che personalmente mi ha fatto appassionare alla finanza personale spingendomi ad approfondire in prima persona.
Lorenzo, 13 Mar 2025Veramente interessante, chiaro e conciso. Cambia la vita finanziaria di chiunque.. da ascoltare assolutamente anche per chi di finanza non vuole occuparsi mai
Francesca B., 6 Apr 2024La mia ignoranza in materia mi ha sempre creato dei dubbi, ma grazie a un amico ho iniziato ad ascoltare il podcast. Per fortuna che ho 24 anni e un po' di tempo e soldi da dedicarmi a imparare le varie nozioni per me stesso. Grazie mille!
Luca G. 10 Ott 2025