Cosa ci aspetta nel 2025: Scoppio di una Bolla o un nuovo Boom?

Per un 2024 straordinario che si chiude, un 2025 colmo di incognite comincia. I rischi sono tutti nelle elevatissime valutazioni del mercato americano, nella possibile risalita dell'inflazione o in qualche shock geopolitico. Le opportunità giacciono nascoste in un'economia globale più resiliente delle attese e nelle sorprese delle prossime dirompenti innovazioni tecnologiche.

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173. Cosa ci aspetta nel 2025: Scoppio di una Bolla o un nuovo Boom?

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Punti Chiave

Mercati azionari, oro e Bitcoin hanno avuto un 2024 eccezionale, mentre i tassi elevati hanno frenato le obbligazioni.

Alte valutazioni S&P 500 e concentrazione suggeriscono rendimenti futuri più bassi e cautela.

Molti raccomandano portafogli conservativi.

Trascrizione Episodio

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Buon 2025 a tutti quanti care amiche e cari amici di questo podcast!

Ben ritrovati nell’anno del giubileo per vivere tutti assieme una nuova corsa sui mercati e chissà cosa questi ci riserveranno in questo che sarà il 100° anno dal 1926, ossia da quando il Center of Research in Security Prices dell’università di Chicago raccoglie dati coerenti sul mercato azionario americano.

Abbiamo dati in realtà che risalgono fino al diciannovesimo secolo, ma dati organici e attendibili sul mercato li abbiamo in effetti dal 1926 in poi, che in effetti è la data a partire dalla quale formuliamo sempre tutte quelle belle statistiche che ci piacciono tanto e che tanta fiducia ci danno per il futuro.

Annus domini 2025 e anno del Giubileo dicevamo.

Come è andata le ultime due volte?

Dunque, nel 1975 il mercato americano ebbe un rimbalzo pazzesco dopo il tonfo dell’anno prima in cui in pratica aveva lasciato per strada un quarto del suo valore per le conseguenze dell’embargo petrolifero, l’esplosione dell’inflazione e tutte quelle belle cose che hanno accompagnato i primi anni ’70.

Nel 1975, +37% per l’S&P 500, uno dei migliori risultati di sempre.

Pur tra qualche alto e basso, i 25 anni che andarono dal 1975 al 1999 furono una cavalcata letteralmente trionfale.

L’S&P 500 riportò un total return medio composto, cioè un rendimento complessivo dividendi inclusi, di oltre il 17% all’anno.

250 dollari al mese sarebbero stati sufficienti per diventare milionari in un quarto di secolo.

Poi arrivò il nuovo giubileo, quello del 2000.

E questa volta, invece, non andò benissimo.

Come avrete ormai capito molto bene, quando le cose vanno troppo bene sui mercati per un lungo lasso di tempo, presto o tardi quell’ineluttabile legge universale dell’Universo chiamata regressione verso la media torna a bussare e chiedere il conto.

Il 2000 fu l’anno dell’ingresso nel nuovo millennio, in quella che sarebbe dovuta diventare l’era della consacrazione definitiva dell’illimitato benessere e dell’inesauribile prosperità che gli sviluppi tecnologici di internet avevano promesso nei ruggenti anni ’90, e invece le cose andarono diversamente.

Per una serie di fattori, tra cui la, tanto per cambiare, il rialzo dei tassi di interesse da parte della Fed per arginare l’inflazione che stava pericolosamente risalendo in un’economia così euforica come era stata quella degli ultimi anni, il 10 marzo del 2000 il mercato americano toccò il suo picco e poi da lì in poi si scatenò l’inferno, con il Nasdaq che arrivò a perdere oltre l’80% del proprio valore nel 2002 e l’S&P 500 che dimezzò la propria capitalizzazione.

Il giubileo del 2000 fu l’anno che diede il via al celeberrimo decennio perduto, così chiamato perché quando nel 2007 il mercato con tanta fatica era ritornato sui massimi arrivò una crisi se vogliamo ancora più devastante a cambiare per sempre la finanza e l’economia del Globo.

Il 15 settembre 2008 fallì Lehman Brothers e fino al marzo dell’anno successivo fu un’ecatombe, con l’S&P che perse un’altra volta oltre il 50% del proprio valore.

Bisogna tornare ai primi anni ’30 per trovare un crollo più grave per l’indice degli indici.

Il 25ennio dal giubileo del 1975 al giubileo del 2000 aveva reso, per l’investitore in S&P 500, oltre il 17% all’anno,

I primi 10 anni dal giubileo del 2000 alla fine del 2009 avevano invece reso, si fa per dire, il -1% all’anno.

Un lunghissimo e straziante stillicidio durato un decennio.

Sappiamo però anche che dal marzo del 2009 al momento in cui sto registrando, il mercato avrebbe intrapreso una corsa nuovamente straordinaria.

Non così straordinaria come quella dell’ultimo quarto dello scorso millennio, ma decisamente impetuosa.

Più del 15% di ritorno medio annuo composto dal fondo del marzo 2009 ai giorni nostri.

Complessivamente, il 25ennio dal giubileo del 2000 alla fine del 2024 avrebbe reso poco meno dell’8% medio all’anno, meno di metà del quarto di secolo precedente.

E se vogliamo fare la media delle media, il mezzo secolo dal 1975 al 2024 resta comunque un periodo da favola con un rendimento annuo composto di oltre il 12% all’anno.

Se 12% non è un numero che vi impressiona ancora nonostante i 172 episodi alle nostre spalle, sappiate che un investimento di una certa cifra X nel 1975 oggi varrebbe più di 300 volte tanto.

E per non parlare sempre e solo di America, bisogna dire che quei 50 anni sarebbero andati molto bene anche a livello internazionale.

L’MSCI World avrebbe reso oltre il 10% all’anno.

L’MSCI Europe circa il 9,5%.

50 anni però è più di una vita di investimento.

Al termine di 50 anni di investimento serio, quindi escludendo quando ho cominciato ad investire non esattamente in maniera corretta, sarò ottantenne.

Saranno felicissimi i miei eredi, ma per me non sarà così rilevante il risultato di mezzo secolo di investimenti.

Per me sarà molto più importante sapere come i miei investimenti andranno innanzitutto nei prossimi 10-15-20 anni.

E come potete bene immaginare, una grande differenza la farà se questo anno di giubileo in cui ci siamo addentrati sarà più simile a quello del 1975 o a quello del 2000.

A guardare i numeri, la previsione è fin troppo facile da fare.

Sarà più simile al Giubileo del 2000.

Mi spiace, so che ci siete rimasti male, ma non posso farci niente.

Fare questa previsione sembra davvero un goal a porta vuota.

I motivi?

Fondamentalmente uno.

Le valutazioni delle azioni americane sono praticamente al 99° percentile rispetto alla media storica.

L’unica volta in cui i prezzi delle azioni sono stati in media più cari rispetto agli utili attesi è stato appunto all’inizio del 2000.

Se tanto mi dà tanto.

Però…

Beh, dei però ci sono.

Benché sembri davvero troppo facile scommettere che una pesantissima correzione sia ormai imminente, mmmhhh, ci sarebbe qualche considerazione da fare.

Andiamo con ordine però.

Facciamo prima il punto su come è andato questo favoloso 2024 — oddio favoloso fino più o meno a metà dicembre, poi sonore sberle.

Tra l’altro chi mi segue su Instagram sa che avevo fatto un reel per parlare del Santa Claus rally nel quale avevo detto: “ragazzi consiglio di shortare l’S&P 500 perché quando faccio i video sul Santa rally o cose del genere di solito porto sfiga e il mercato va giù”.

Eccalà…

Poi non dite che non vi avevo avvisato.

C’era un breve articoletto sul Wall Street Journal ieri dal titolo “Is Santa Claus bypassing Wall Street thi year?”, cioè Babbo Natale ha saltato Wall Street quest’anno?

Perché in effetti, ad oggi almeno, il Santa Rally non si è visto, anche se tecnicamente il periodo del Santa Rally finisce venerdì 3 gennaio.

Lo so io cos’è successo però.

Come ogni 24 dicembre che si rispetti pure Babbo Natale alle nove di sera mette su Italia 1 per vedere una Poltrona per due, il celebre film con Eddy Murphy e Dan Ackroyd che meglio di un corso di “Derivatives trading” al MIT spiega come funzionano i futures sulle materie prime.

Ironia della sorte, proprio mentre stava passando sopra Manhattan c’era la scena del salmone mangiato a mani nude e si è scordato di passare da Wall Street lasciando tutti noi che aspettavamo il santa rally a bocca asciutta.

E voi direte: sì ma come faceva Babbo Natale, mentre sorvolava l’Atlantico, a guardare una poltrona per due su Italia 1.

Beh è una domanda che dopo 173 episodi non mi aspettavo.

Ovviamente anche Babbo Natale usa NordVPN, così può connettersi in tutto il mondo come se si trovasse a Sesto San Giovanni e guardare i suoi programmi preferiti in tutta sicurezza, al riparo da virus e malware, con tutte le sue password salvate al sicuro nel password manager senza che debba ricordarsele visto che avrà diverse centinaia di anni e sarà un po’ rimbabito.

Per non parlare del fatto che ormai nemmeno lui fa fare tutti i regali dagli Elfi in Lapponia, perché i costi di produzione sono elevati, gli Elfi costano, nei paesi nordici le tasse sono alte, quindi ha scoperto che i regali gli conviene comprarli online e con NordVPN può ottenere prezzi più convenienti scegliendo di collegarsi da server diversi da Rovaniemi, dove abita, perché altrimenti Amazon e Alibaba capiscono subito che è lui e gli alzano i prezzi.

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Torniamo a noi.

Anche senza Santa Rally, comunque, il 2024 è stato semplicemente pazzesco per tutti gli asset speculativi: azioni, oro e bitcoin su tutti.

Un po’ meno per le obbligazioni.

Vediamo come di consueto le performance finali del 2024 delle principali asset class e poi ci proiettiamo al 2025 e al futuro meno prossimo.

Sua maestà l’S&P 500 ha chiuso il 2024 con una crescita del 24%, che per un investitore europeo, dividendi inclusi e al netto del cambio euro dollaro, porta il risultato ad un fantasmagorico +32%.

L’MSCI World, nel quale ormai l’S&P 500 pesa per oltre il 70% della capitalizzazione, chiude il 2024 con un rendimento, sempre per noi europei dividendi inclusi, di oltre il 25%.

L’Europa invece è rimasta sicuramente più sottotono quest’anno.

Lo Stoxx 600 si è portato a casa poco più del 7% da gennaio ad oggi.

Mentre l’indice delle blue chip dell’eurozona, l’Eurostoxx 50 ha fatto un po’ meglio chiudendo con un guadagno complessivo di circa l’11%.

Il nostro FTSE MIB, miglior indice in Europa anche nel 2024, si porta a casa un lodevolissimo +17% da inizio anno, grazie soprattutto alle ottime performance delle banche e di alcune realtà strategiche come, per esempio, il nostro colosso della difesa Leonardo.

Il folle Giappone, che ci ha fatto prendere un colpo apoplettico lo scorso agosto con un -13% in un giorno solo, tutto sommato si porta a casa un +14% da inizio anno, figlio anche di un rafforzamento dello Yen nei confronti dell’euro.

Sui mercati emergenti, tra la buona performance dell’India e gli stimoli fiscali in China, l’MSCI Emerging Markets chiude l’anno in guadagno del 13%.

Generalmente tutti i mercati azionari hanno chiuso piuttosto bene, con alcune eccezioni locali come, ad esempio, il CAC 40 francese che chiude l’anno addirittura leggermente in negativo.

Ovviamente il mercato americano, ancora una volta, ha giocato in un altro campionato, tracciando un solco ancora più profondo tra la sua straordinaria performance e quella di ogni altro indice internazionale.

Lato obbligazionario invece il 2024 è stato meno euforico.

A inizio anno ci si aspettava un grande ritorno dei bond, sostenuto da un’inflazione sedata e da una politica molto accomodante delle banche centrali.

Così invece non è stato, soprattutto in America, dove l’impressionante crescita economica degli Stati Uniti sta tenendo l’inflazione inchiodata intorno al 2,5%, che non ne vuole sapere di scendere.

Per contro, la Fed ha atteso settembre per fare il primo taglio dei tassi, benché corposo, di 50 punti base, a cui si sono aggiunti gli altri due tagli di novembre e dicembre di altri 25 punti base, per una riduzione totale dei fed funds rate di un punto percentuale.

Il mercato però a inizio anno si aspettava almeno un taglio complessivo da 150 punti base, quindi 1,5%, e una politica accomodante anche negli anni a venire.

In realtà per l’anno prossimo i futures scontano praticamente un solo taglio verso la fine dell’anno, forse 2 ma con poca convinzione.

Con l’economia americana che continua a crescere come non si vedeva da due decenni, è tornato il mantra “higher for longer”, ossia di tassi di interesse che resteranno più alti e più lungo per tenere in equilibrio inflazione e mercato del lavoro.

Per chi non se lo ricordasse, la Federal Reserve ha due mandati: tenere l’inflazione sotto al 2% e sostenere l’occupazione.

Il suo complesso lavoro consiste quindi nell’indovinare di volta in volta quale sia il tasso neutrale, chiamato r star, che dovrebbe rappresentare l’ideale punto di equilibrio al quale l’inflazione sta buona e la disoccupazione non degenera.

Dicevamo però, le obbligazioni.

Come sappiamo tutti bene le banche centrali possono condizionare direttamente i tassi di interesse a breve termine.

Quelli a lungo termine invece li fa il mercato.

Se il mercato non è tanto convinto che un abbassamento dei tassi sia sostenibile a lungo termine, allora farà sì che i rendimenti delle obbligazioni con scadenze più lontane aumentino, invece che scendere.

E come ci piace recitare a mo’ di filastrocca, quando i rendimenti vanno su i prezzi delle nostre obbligazioni vanno giù.

Infatti da quando la Fed ha fatto il primo maxi taglio da 50 basis points, il rendimento dei Treasury decennali non solo non è sceso, ma è salito praticamente di un punto percentuale, toccando il 4,6%.

Oggi la curva dei rendimenti obbligazionari non è più invertita.

Le obbligazioni a 2 anni, che sono il benchmark di riferimento un po’ per tutto l’orizzonte considerato prevedibile, rendono leggermente meno di quelle a 10 anni.

Ma questo soprattutto perché il mercato teme una recrudescenza dell’inflazione nei prossimi anni e quindi la necessità che le banche centrali, Fed in primis, debbano andarci piano con ulteriori tagli dei tassi, per non parlare poi del rischio, remoto ma non remotissimo, addirittura di un rialzo.

Quando il 18 dicembre l’S&P ha perso il 3% in un giorno solo è stato perché il capo della Fed Jerome Powell non ha escluso proprio questa possibilità.

Per quel che riguarda soprattutto le obbligazioni governative Europee cos’è successo nel 2024?

Il Bloomberg Euro Aggregate Treasury è cresciuto di appena un punto e mezzo percentuale.

Sulle scadenze oltre i 15 anni invece, i governativi europei sono praticamente lì dove erano a gennaio.

Tutto l’obbligazionario governativo europeo ha fondamentalmente oscillato sopra o sotto la parità per tutto il 2024.

Decisamente meglio l’obbligazionario corporate investment grade, che invece è cresciuto del 4,5%, mentre gli high yield europei sono cresciuti di oltre il 6%.

Come sappiamo, più ci si sposta dal governativo verso ciò che comunemente viene chiamato Credit (ossia le obbligazioni societarie investment grade) fino agli high yield, minore è l’impatto delle variazioni nei tassi di interesse e maggiore è invece l’impatto del credit spread, ossia del rischio percepito dal mercato sulla rischiosità dell’obbligazione.

I bond corporate e a maggior ragione gli high yield hanno visto il loro credit spread ridursi rispetto ai governativi e questa cosa si traduce in rendimenti minori e prezzi maggiori.

Tipicamente se l’economia tiene e il mercato azionario va, i bond corporate ne hanno un beneficio.

Un ultimo accenno invece alle due asset class regine del 2024: oro e bitcoin.

Nonostante un rallentamento dei mesi finali, l’oro chiude l’anno con una crescita di ben il 27%, superando addirittura l’S&P 500.

È significativo notare che, come negli anni 80 e 90 l’oro sia stato praticamente un investimento a perdere senza mezzi termini, dal 2000 ad oggi ha reso più dell’azionario americano.

7,7% quest’ultimo, quasi 9% all’anno per il biondo metallo.

Se allarghiamo però al mezzo secolo iniziato nel giubileo del 1975 non c’è partita.

L’S&P 500 ha reso, come abbiamo detto prima, oltre il 12% all’anno in media.

L’oro appena il 5%.

L’oro è così.

Alcuni anni è devastante.

Durante alcuni cicli, soprattutto se caratterizzati da minacce inflazionistiche o geopolitiche, va da dio.

Per altri decenni, invece, è un cadavere.

Oggi c’è un consensus abbastanza vasto sul fatto che l’oro potrebbe continuare a salire nel 2025 e diverse banche hanno messo un target price a 3.000 $ l’oncia per la fine dell’anno prossimo.

Stimare il prezzo futuro dell’oro è facile come indovinare i numeri del superenalotto, però boh, chi può dirlo, intanto questo è il punto di vista generale.

Se l’oro è l’asset rifugio più vecchio del mondo, il forse asset rifugio del futuro — Bitcoin — ha avuto un altro anno leggendario, sospinto verso l’empireo degli oltre 108.000 dollari da due eventi chiave:

– L’approvazione degli ETF su Bitcoin negli Stati Uniti a inizio anno e soprattutto

– L’elezione del presidente più cripto friendly di tutti i tempi Donald Trump a novembre.

Da inizio anno la criptovaluta più famosa del mondo è cresciuta di oltre il 120%, portando il suo market cap complessivo vicino ai 2 trilioni di dollari.

Come abbiamo avuto già modo di dire, Bitcoin non ha esattamente un comportamento da “safe haven”, da bene rifugio, perché sono ormai 5 anni buoni che si muove più o meno come un’azione growth tech e anche questi ultimi giorni di dicembre, piuttosto negativi, hanno visto il suo prezzo scendere dal picco di 108.000 alle soglie dei 90.000.

Staremo a vedere come evolverà Bitcoin, soprattutto al prossimo bear market.

Ad oggi, qualunque cosa Bitcoin sia, ha certamente dimostrato di essere investimento potenzialmente molto lucrativo.

So far, so good.

I due anni che hanno accompagnato la vita di questo podcast sono stati, senza rischio di esagerare, spettacolari.

Ora, quello che si tratta di capire è cosa aspettarsi da qui in poi.

Attenzione: non ho detto per 172 episodi che fare previsioni è impossibile per poi cambiare idea il primo dell’anno nuovo.

Fare previsioni continua ad essere difficilissimo e basarsi sui dati e sulle informazioni odierne per prendere decisioni vantaggiose per il futuro viola l’idea di fondo che i mercati siano efficienti.

Però un conto è prevedere, un conto è settare le aspettative.

E in questo le previsioni possono avere la loro utilità.

Possono guidarci non tanto per imbroccare la strategia giusta che ci farà battere il mercato, quanto piuttosto per decidere se siamo disposti ad assumerci determinati livelli di rischio o se in generali i rendimenti attesi sono allineati alla pianificazione che abbiamo in mente.

In linea generale, quali sono le previsioni per l’anno prossimo e per il medio termine successivo?

Partiamo dall’anno prossimo.

Quasi tutte le società che contano a Wall Street vedono un 2025 in crescita per l’S&P 500, che come sappiamo è il termometro per eccellenza dello stato dei mercati.

Le banche sono tendono ad avere atteggiamenti piuttosto paraculi e da bravi paraculi se ne escono tutte con stime di crescita intorno al 10-11%.

La crescita aritmetica media dell’S&P 500 è dell’11%, quindi dire in un dato anno x che l’S&P crescerà più o meno dell’11% è l’equivalente finanziario di quel che da noi qualche decennio fa era la Democrazia Cristiana. Puro centro, senza prendere particolari posizioni scomode.

Mi rendo conto che anche la mia previsione, sia quest’anno che l’anno scorso, è stata affetta da paraculite.

In realtà tutti noi conosciamo bene la storia del mercato americano.

Solo un numero di volte che si conta su una mano abbiamo avuto anni che hanno visto l’S&P 500 crescere esattamente del 10-11%.

In termini di frequenza dei rendimenti medi annui, è più facile che il prossimo anno l’S&P cresca ancora di almeno il 20% o che abbia un tonfo a doppia cifra.

Goldman e JPMorgan vedono circa un +10-11% nel prossimo anno.

Qualcun altro, tipo Deutsche Bank, Ed Yardeni e Data Trek sono invece decisamente più bullish e credono che gli eccellenti fondamentali dell’economia americana e gli utili decisamente sopra la media che sembra legittimo attendersi farebbero pensare ad un S&P 500 che chiuderà il 2025 più nell’ordine dei 7.000 punti, che praticamene vuol dire fare grossomodo un +20% rispetto alla chiusura di quest’anno.

C’è quindi un moderato ottimismo sul mercato americano, nonostante le valutazioni elevatissime e lo scenario incerto sui tassi.

Mentre le valutazioni (cioè il rapporto tra i prezzi e gli utili attesi) sono un indicatore importante per i rendimenti di lungo periodo ma non hanno una particolare correlazione tra un anno e l’altro, cioè quando l’S&P 500 inizia un anno con valutazioni elevate può tranquillamente andare molto bene o molto male l’anno successivo, il vero game changer per l’anno prossimo potrebbe appunto essere rappresentato dal quel meccanismo che vede legati tra loro l’inflazione, i tassi d’interesse e i fondamentali economici.

Nel suo outlook per il 2025 JP Morgan ha fatto una stima interessante su alcuni scenari che potrebbero verificarsi l’anno prossimo, proprio a partire da queste variabili.

Allora intanto ci sono 2 scenari principali:

– Quello chiamato “high-for-long”, ossia tassi più alti a lungo, che per JP Morgan è leggermente più probabile, 55% di probabilità;

– E poi c’è quello chiamato “Rates drop”, ossia i tassi scendono, 45% di probabilità.

A sua volta lo scenario più probabile, high-for-long può concretizzarsi in tre sottoscenari.

– Il più probabile è chiamato Resilience, cioè una situazione in cui i fondamentali dell’economia soprattutto americana continuano a migliorare, non ci sono shock lato “supply”, cioè nessuno shock che può innescare fenomeni inflazionistici come una crescita smodata dei salari o del prezzo delle materie prime e quindi il tasso neutrale si posiziona più in alto; avremo tassi di interesse più alti, ma l’economia cresce e si mantiene l’equilibrio tra lavoro e inflazione, senza quindi una recessione in vista.
Questo bello scenario, ha per JP Morgan una probabilità del 30% di verificarsi

– Poi sempre nella categoria “high-for-long” abbiamo il sotto scenario “Wait for it”, ossia l’inflazione resta “sticky”, appiccicosa, i tassi restano elevati, non c’è una crescita economica sostenuta da un’elevata produttività che controbilancia la situazione e si va ad un certo punto in recessione.
Questo scenario ha un 15% di probabilità di verificarsi.

– Ancora meno probabile, 10%, è lo scenario in cui l’inflazione si impenna nuovamente oltre il 3%, a quel punto la Fed deve alzare i tassi e spedisce probabilmente l’economia in recessione. Forse. Nel 2022 doveva andare così, ma neanche un rialzo di 500 basis point ha avuto quest’effetto, contro ogni aspettativa.

E questi sono i tre sottoscenari nella situazione macro “high-for-long”, quindi tassi che restano più elevati per più tempo.

Nell’altro quadro, quello “Rates drop”, JP Morgan vede anche qui due possibili situazioni, una più negativa e una più positiva.

– Quella negativa, con un 20% di probabilità di verificarsi, è un cosiddetto “Crash landing”, dettata per esempio da decisioni politiche nocive per l’economia, come ad esempio una mano troppo forte sui dazi, e quindi questa va in recessione e a quel punto la Fed potrebbe intervenire successivamente abbassando i tassi per ridare stimolo.

– L’alternativa più ottimistica, invece, viene simpaticamente chiamata da JP Morgan “Immaculata”, che è lo scenario di Soft landing: l’inflazione continua la discesa sotto il 2%, i tassi scendono a loro volta e si torna più o meno alla situazione del 2019. Questa possibilità è stimata al 25%.

Per riassumere JP Morgan vede quindi come più probabili due scenari senza recessione imminente, ossia quello con boom economico e tassi alti, oppure con un soft landing e tassi bassi, mentre considera meno probabili ma non impossibili degli scenari con una recessione che arriva tra la metà del 2025 e l’inizio del 2026 causata da alta inflazione o da un rapido deterioramento dell’economia.

In effetti quella di JP Morgan non è una voce isolata.

Il pil del terzo trimestre degli Stati Uniti è cresciuto oltre il 3% e oltre il 3% si stima anche quello del 4° trimestre.

La produttività, cioè pil creato per unità di lavoro, è in aumento e punta ai livelli degli anni ’90.

Gli stati uniti sono autosufficienti dal punto di vista energetico.

Trump ha promesso tagli delle tasse sui profitti delle imprese e deregolamentazioni business friendly.

E non dimentichiamo il primato tecnologico inarrivabile degli Stati Uniti rispetto a tutto il resto del mondo — cosa non da poco se si pensa che ormai quasi metà della capitalizzazione dell’S&P 500 è fatto da aziende tech o praticamente tech.

Se l’inflazione non fa scherzi, in effetti sembra più probabile che questo 2024 sia stato l’equivalente di un 1997, non di un 1999, ossia di un momento intermedio all’interno di un ciclo positivo che abbia ancora qualche pallottola da sparare prima di esaurirsi.

Discorso diverso, invece, come abbiamo detto spesso, per il resto del mondo.

Sinceramente, non ho trovato nessuno che abbia una visione particolarmente ottimistica sui mercati extra US.

L’unico mercato sviluppato che gode di un certo favore da parte di molti analisti è il Giappone.

Dopo anni di stagnazione, il Giappone sembra aver trovato delle ricette corrette per stimolare la propria economia, il suo mercato azionario ha delle valutazioni tutto sommato basse, con un price/earning ratio intorno a 14-15, contro il 22 e passa dell’S&P 500, e uno Yen molto debole che però potrebbe rafforzarsi, cosa che darebbe beneficio all’investitore straniero.

Qual è un aspetto attraente del Giappone?

Se guardiamo il rendimento dei vari mercati di quest’anno ci accorgiamo di una cosa.

Ricordiamo che il rendimento di un’azione o quello complessivo di un indice azionario è fatto di tre componenti: i dividendi distribuiti, la variazione negli utili per azione e la variazione del rapporto tra prezzo e utili.

Se dico che in un certo anno, che ne so, l’MSCI World ha generato un ritorno del 20%, questo 20% è composto dalla somma tra:

– Quanti dividendi sono stati distribuiti;

– Quanto è aumentato l’utile medio per azione e

– Quanto è aumentato il prezzo medio rispetto agli utili per azione.

Nel mercato americano, una buona metà del rendimento è dato dalla crescita delle valutazioni.

In altri termini, una bella fetta della crescita del S&P 500 deriva dalle aspettative riposte dagli investitori negli utili futuri.

Parliamo quindi di una componente speculativa del rendimento, così come la chiamava John Bogle.

Se invece prendiamo il Topix, che è il più rappresentativo indice del mercato giapponese — perché in realtà il più famoso Nikkei è come il Dow Jones, non è pesato per capitalizzazione e ha solo un numero limitato di società — dicevo se prendiamo il Topix, la stragrande maggioranza del rendimento deriva dalla crescita degli utili per azione e dai dividenti, mentre la componente speculativa è molto contenuta.

Quindi cosa dicono molti analisti?

Dicono: le valutazioni dell’S&P 500 sono tirate all’inverosimile perché stanno già scontando degli utili futuri pazzeschi, di conseguenza c’è poco spazio per un’ulteriore crescita delle valutazioni.

In Giappone invece le valutazioni sono ancora relativamente economiche e c’è quindi ampio margine perché i prezzi possano salire.

In teoria.

Come sempre…

Goldman Sachs, per esempio, ha dichiarato di essere “overweight”, di avere sovrapesato il Giappone nei propri portafogli.

Chiaramente non sto suggerendo di sovrappesare il Giappone.

Ma parlando di come la vedono gli analisti di Wall Street, il Giappone è sicuramente visto meglio che l’Eurozona o la Cina.

L’unico paese — diciamo così — Europeo che suscita interesse, anche se non come il Giappone, è il Regno Unito.

Altro tema ricorrente è la diversificazione su settori e fattori.

Sui settori c’è chi pensa per esempio che i titoli finanziari possano essere interessanti per il prossimo anno, dato che le valutazioni non sono così alte come nel tech e il contesto di tassi ancora alti potrebbe favorire le realtà bancarie.

In termini di fattori, invece, tanto per cambiare si parla spesso del ritorno delle realtà value, dato che la valutazione delle realtà growth è elevatissima e nel lungo termine storicamente le value stocks hanno reso di più delle growth stocks.

Vero.

D’altra parte, le società value hanno un basso prezzo rispetto al loro valore patrimoniale per un motivo: ossia che il mercato ha aspettative basse nei confronti dei loro utili futuri.

Il mercato si sbaglia?

Chi può dirlo.

Nello scorso episodio abbiamo ricordato le lezioni di Eugene Fama, che pure era stato quello che con Kenneth French aveva creato il modello alla basa dell’investimento nei fattori value e small caps, che chiaramente ha ribadito: se sei un investitore retail parti dal presupposto che il mercato non si sbaglia, che i prezzi sono giusti e non sovrappesare questo o quel fattore perché fai più danni che altro.

E sono certo che farebbe lo stesso discorso pure sui settori.

Quindi boh.

Delle alternative ci sono, d’altra parte è sempre complicato trovare delle buone motivazioni per investire distaccandosi da un indice globale market cap weighted.

Se però oggi uno va avanti ad investire in un indice globale, che so facciamo che sia il FTSE All World, sa che il 60% finirà negli Stati Uniti e che di questo 60% un terzo sarà composto dalle solite 7 società: Apple, Nvidia, Microsoft, Google, Meta, Amazon e Tesla.

La situazione mette sicuramente un filo di disagio per due motivi.

– Il PRIMO motivo è che prezzi 22 volte gli utili attesi e uno Shiller CAPE Ratio, cioè prezzi diviso utili degli ultimi 10 anni aggiustato per inflazione, a 38 significa che siamo a livelli record e nel lungo termine quando le valutazioni di partenza sono così alte, il rendimento atteso è nettamente sotto la media;

– Il SECONDO motivo è quest’elevata concentrazione, anch’essa a livelli quasi record, che rende l’investimento nell’S&P 500 poco diversificato e fortemente dipendente dalle sorti di quelle 7.

Queste due motivazioni, valutazioni alte e concentrazione, erano alla base del famoso outlook di Goldman Sachs che ha previsto un rendimento dell’S&P 500 nell’ordine di un misero 3% per i prossimi 10 anni.

D’altra parte, di nuovo lo Eugene Fama che è in me dice: tutto giusto, ma i prezzi riflettono le informazioni disponibili e fino a prova contraria l’enorme capitalizzazione di quelle 7 società non è che sia proprio campata per aria, tranne forse quella Tesla. Gli utili e il ritorno sull’equity di Apple and company sono abnormi.

Si può forse dire che i prezzi siano alti.

Ma non che siano gonfiati.

Se il mercato le prezza così, devo fingere di essere Iva Zanicchi e partire dal presupposto che ok, il prezzo è giusto.

Come si sana questa contraddizione?

Non si sana, se si potesse farlo tutti sapremmo come investire e non ci sarebbe premio al rischio.

Vanguard però, nel suo outlook sul 2025, vede tre strade per i rendimenti dell’S&P 500, 2 positive e una negativa.

La buona notizia è che ci sono 2 strade positive su 3, che potrebbero sostenere le performance dell’S&P 500 nei prossimi anni.

La cattiva notizia è che secondo Vanguard la 3° strada, quella negativa, è la più probabile.

– La prima strada passa attraverso un boom di produttività come negli anni ’90. Allora era stato alimentato dalla rivoluzione dell’informatica prima e di internet dopo. Oggi sarebbe l’intelligenza artificiale a realizzare quello che il Wall Street journal ha definitivo un “productivity miracle”, una crescita di produttività dell’intera economia americana paragonabile appunto a quella degli anni ’90 o dei primi anni ’50.

– La seconda strada è simile allo scenario “Rates drop” di JP Morgan, cioè i tassi vanno giù e questo darebbe stimolo a realtà che oggi sono rimaste indietro, come Small Caps o società value, riducendo la concentrazione del mercato e allargando la base di aziende su cui si basa la crescita del mercato.

– La terza strada è invece quella di una dot-com bubble 2.0, in cui un deterioramento dello scenario macro (o anche solo magari un trimestre deludente di Nvidia) potrebbe far conflagrare tutto.

Vanguard sembra piuttosto pessimista sul futuro e crede che le elevate valutazioni americane saranno una zavorra a lungo termine per le performance dell’S&P.

Per quanto riguarda l’ingresso nel 2025, Vanguard suggerisce anche un portafoglio significativamente più conservativo rispetto al classico benchmark 60/40, tenendo conto di questi fattori:

– Le elevate valutazioni americane appunto;

– Le non entusiasmanti prospettive negli altri mercati;

– La relativa opportunità rappresentata dal mercato obbligazionario.

Su questo ultimo punto, che trova ovviamente concordi praticamente tutti i gestori del mondo perché è una scommessa abbastanza facile, nel breve termine l’obbligazionario è visto in genere con molto favore perché dopo anni di tassi a zero oggi ci sono rendimenti di partenza interessanti con il possibile bonus di una riduzione dei tassi.

Mi spiego.

Vanguard parla di Coupon Wall, cioè del muro delle cedole.

Qual è l’idea?

Loro dicono: se ogni investo in obbligazioni che hanno uno yield to maturity, cioè un rendimento a scadenza del 4-5%, io ho questo rendimento (rendimento inteso come yield ovviamente) certo, che alla peggio va a compensare eventuali rialzi dei tassi se l’inflazione dovesse risalire.

Per esempio se io ho un bond con duration di 5 anni che rende il 4% all’anno, alla fine dell’anno avrò un rendimento positivo se i tassi d’interesse non salgono più di 0,8 punti percentuali.

Perché 0,8?

Perché naturalmente sappiamo bene che la variazione del prezzo di un bond è più o meno uguale alla variazione dei tassi mercato moltiplicata per la duration.

0,8 \* 5 fa 4, quindi in quel caso si avrebbe il 4% di rendimento dato dalle cedole del bond MENO il 4% di riduzione del prezzo del bond che fa 0.

Al contrario, se l’inflazione scende e con essa scendono i tassi di — che ne so — 0,5%, allora bingo.

Quel bond finisce per rendere 6,5?

4% per le cedole PIU’ 0,5% per 5 che fa 2,5%.

Ovviamente 4-5% sui bond si trova sulle obbligazioni in dollari.

Su quelle in euro ci muoviamo tra il 2,5% dei governativi al 3-3,qualcosa% delle obbligazioni corporate.

Per questo Vanguard spinge molto sulla componente obbligazionaria, anche se considera le valutazioni dei Treasury più fair rispetto alle obbligazioni corporate, sia investement grade che high-yield, che sono ritenute piuttosto care.

Come si fa a dire che le obbligazioni sono care?

Si guarda lo spread con i titoli di stato, che per definizione sono l’asset risk-free.

Se io investo in un’obbligazione societaria mi aspetto un maggior rendimento per compensare il rischio di prestare soldi appunto ad una società invece che al governo, che molto più difficilmente può andare in default.

Se però lo spread è molto basso, vuole dire che il mio “premio al rischio” è molto risicato.

Oggi i bond corporate, soprattutto in america, hanno spread molto bassi.

In particolare, un spread molto contenuto soprattutto sulle obbligazioni high-yield viene spesso interpretato come un segnale di un mercato molto orientato al rischio e vicino ad un possibile picco prima di una correzione.

L’ultima volta che i bond high-yield hanno avuto uno spread così basso era stato nel 2007.

Questo vuol dire che il 2025 sarà un nuovo 2008?

Ovviamente no, ma diverse volte si vede questa correlazione tra mercato che si assume tanti rischi e spread degli high-yield che si riduce.

In Europa, comunque, lo spread sugli high-yield è più elevato che negli Stati Uniti, forse a testimonianza di una minor fiducia sulla tenuta dell’economia europea rispetto a quella americana.

Come è fatto allora il portafoglio di Vanguard?

Fondamentalmente 40% azioni e 60% obbligazioni (anzi sarebbe 38/62 per la precisione).

Sulla parte azionaria vengono sovrapesate value stocks americane e le azioni dei paesi sviluppati ex Stati Uniti.

Sulla parte obbligazionaria invece un mix più o meno equipesato tra Treasury, governativi internazionali e corporate.

Secondo Vanguard questo portafoglio avrebbe un rendimento atteso a 10 anni superiore ad un 60/40 classico, 5,9% contro 5,7%, a fronte di una minore volatilità.

Va seguito questo approccio?

Non lo so.

Sicuramente ha senso per l’investitore con un orizzonte intermedio che vuole adattare il suo portafoglio in base al livello di partenza delle valutazioni azionarie e dei tassi di mercato.

Per l’investitore di lungo termine non è detto che sia una buona idea, anche perché i rendimenti obbligazionari europei sono nettamente inferiori, a meno di investire in obbligazioni americane che però a quel punto hanno l’incognita del dollaro.

Il dollaro si è rafforzato molto quest’anno.

Prevedere l’andamento delle valute è sempre molto difficile.

Ma se da un lato le politiche inflazionistiche di Trump potrebbero rafforzarlo ulteriormente, lui in realtà vuole un dollaro più debole per favorire l’export americano.

Se ad un certo punto il ciclo si inverte, un indebolimento del dollaro potrebbe non essere un particolare problema per l’equity, mentre sicuramente avrebbe un impatto negativo sulle obbligazioni.

Tornando alle prospettive di medio-lungo termine e in particolare al mercato che conta più di tutti, l’S&P 500, cosa possiamo aspettarci se oggi ci troviamo con valutazioni così stretchate e una concentrazione tanto elevata?

Mentre i rendimenti su orizzonti di trent’anni sono un po’ più omogenei, perché vanno da circa 7,5% a 15% di rendimento medio annuo composto, su vent’anni il range è molto più alto.

Senza andare troppo indietro nella storia, i vent’anni terminati nel 2018 hanno prodotto un rendimento medio annuo per l’S&P 500 di circa il 5,5%.

I vent’anni terminati nel 1999 invece avevano prodotto uno spaventoso quasi 18% all’anno in media.

I vent’anni che si stanno per concludere, invece, sono perfettamente in linea con la media storica, 10,4%.

Quindi capite che se io ho iniziato oggi ad investire, per i prossimi anni potrei benissimo attendermi dall’S&P 500 un rendimento nominale che va grossomodo da 5 a 18%, il che è una differenza abissale.

È più probabile 5 o 18?

Sicuramente è più probabile che si starà nella parte bassa, quindi più 5 che 18.

Che poi siamo, tra virgolette, condannati a rendimenti intorno al 5% all’anno, come la stessa Vanguard ha stimato per i prossimi 30 anni, tra il 4,5 e il 7%, oppure che in realtà le cose andranno meglio dipende dalla prospettiva che assumiamo rispetto a queste due.

PRIMA PROSPETTIVA: se crediamo che i pattern del passato si ripetano più o meno allo stesso modo nel futuro, allora dobbiamo per forza assumere che partendo da valutazioni molto elevate, i rendimenti futuri saranno limitati.

Partendo da prezzi 22 volte gli utili attesi e da uno Shiller CAPE ratio di 38, 5-6% di media per i prossimi 20 anni è una stima più che realistica per l’S&P 500.

SECONDA PROSPETTIVA: non prendiamo le medie storiche come scritte nella pietra ma consideriamo come si è arrivate a quelle medie.

Le prime 10 società dell’S&P nel 1980 erano IBM, AT&T, General Electric e le altre 7 erano realtà petrolifere.

Nel 1990 avevamo un mix di realtà petrolifere, farmaceutiche, tecnologiche e beni di consumo. Tra queste figuravano Exxon Mobil, Merck, IBM, Walmart, Philip Morris e Coca Cola.

Nel 2000 sono entrate le prime realtà tecnologiche come le intendiamo oggi, Microsoft, Cisco e Intel, ma il grosso era ancora fatto da società in settori tradizionali come, oil and gas, pharma, banche e assicurazioni e beni di consumo.

Ancora nel 2010, nonostante l’ingresso nelle prime 10 di Apple e il ritorno di Microsoft, ancora tutti i settori erano ben rappresentati: General Electric, Exxon e Chevron, Procter and Gamble, Johnson and Johnson, JP Morgan.

Oggi abbiamo Apple, Microsoft, Nvidia, Google, Meta, Amazon, Tesla, Broadcom, Eli Lilly e Berkshire Hathaway.

8 su 10 sono realtà fortemente legate al tech.

Una è una società farmaceutica che ha creato una disruption nell’ambito delle cure per l’obesità e che per altro ha un’azione più cara di quasi tutte le Magnificient 7.

E poi c’è la società di Buffet, che teoricamente sarebbe una realtà finanziaria dato che in primis Berkshire è un colosso assicurativo, ma sappiamo bene che è uno scatolone con dentro di tutto e che ha pur sempre la sua partecipazione più grande in Apple, anche se nettamente ridotta di recente.

Cosa voglio dire?

Fino a pochi anni fa il mercato americano era costituito da società in settori più o meno tradizionali.

Da una società petrolifera come Exxon o da un retailer come Walmart o da una compagnia farmaceutica come Pfizer non ti aspetti un prezzo per azione di 30-40 volte gli utili attesi, perché in quei settori la crescita è strutturalmente più contenuta ed è più difficile che si verifichi un’innovazione tecnologica dirompente.

Se la media di lungo termine dello Shiller CAPE ratio è la metà del valore di oggi è anche perché per decenni il mercato americano è stato composto da società con valutazioni necessariamente più basse, esattamente quello che si può riscontrare oggi in Europa.

Le famose Granolas, diciamo l’equivalente povero europeo delle magnifiche 7, sono tutte realtà farmaceutiche o di beni di consumo, con l’unica eccezione di ASML che realizza macchinari per realizzare semiconduttori.

Le valutazioni delle società europee sono più basse un po’ perché l’economia è meno florida, ma anche perché da questi settori il mercato non si aspetta quello che può aspettarsi da realtà tech.

Negli Stati Uniti il 40 e passa% del mercato è fatto da società che vivono di innovazione — e l’innovazione è molto complicata da scontare nei prezzi, perché per definizione non sappiamo quale sarà la prossima.

Nel 2022 si parlava solo di Metaverso e Web 3.0.

Ad un certo punto, out of the blue, è arrivato Chat GPT.

Da lì è cambiato tutto e buona parte della crescita pazzesca degli ultimi due anni si può spiegare a partire da lì.

Se sei un asset manager è giusto basarsi sulla statistica e sulle valutazioni.

E quindi è giusto dire che con i prezzi 22 volte gli utili è lecito attendersi un 5-6% all’anno per i prossimi due decenni.

Ma il rendimento azionario è dato spesso e volentieri da una cosa che nelle valutazioni non trovi — e questa è la sorpresa, come dicevamo nell’episodio 160.

Quindi se crediamo che le medie del passato vadano un po’ aggiustate per riflettere la diversa composizione dei settori che compongono il mercato e che le disruption tecnologiche possano portare innovazioni che nemmeno ci immaginiamo, allora è possibile che il “bull case” per l’azionario americano persista anche nei prossimi anni.

State con me anche per i prossimi vent’anni e scopriremo tutti assieme come saranno andate le cose.

E con questo ci avviamo a chiudere il primo dei 104 episodi che sforneremo in questo nuovo anno che trascorreremo insieme 2 volte ogni settimana festivi inclusi.

Non posso che inaugurare questo 2025 ringraziandovi di cuore per essere ancora qui con me e per la straordinaria partecipazione con cui mi seguite.

Anche nel 2025 vi invito a mettere segui e attivare le notifiche su spotify, apple podcast o dove ci ascoltate e a lasciare una recensione a 5 stelle per supportarci e permetterci di continuare a produrre contenuti che fanno saltare i Santa Rally ma che se per ogni Santa Rally che salta il mercato fa +30% in anno va bene lo stesso sempre nuovi.

Per questo episodio invece è davvero tutto, auguro a ciascuno di voi un felice 2025 e noi ci risentiamo domenica prossima con un tema molto molto pratico di pianificazione finanziaria sempre qui, naturalmente, con The Bull, il tuo podcast di Finanza Personale.

Recensioni

Quando capisci come funziona la finanza… ti viene voglia di raccontarla!

Da quando l'ho scoperto in 15 gg mi sono ascoltato 150 puntate senza fermarmi, ho annullato gli altri podcast per portarmi alla pari ed ascoltare tutte le precedenti puntate, ben fatto, esattamente il livello di informazione che mi serviva

Gianluca G., 11 Set 2025

Veramente veramente raccomandato! la finanza personale riassunta alla perfezione! e spiegata partendo dall'ABC! Ottimo anche da ascoltare a velocita 1,5x!

Giorgia R., 23 Gen 2025

La mia ignoranza in materia mi ha sempre creato dei dubbi, ma grazie a un amico ho iniziato ad ascoltare il podcast. Per fortuna che ho 24 anni e un po' di tempo e soldi da dedicarmi a imparare le varie nozioni per me stesso. Grazie mille!

Luca G. 10 Ott 2025

Ho seguito tutte le puntate! Grazie veramente

Amalia A., 17 Set 2025

Non sono solito a mettere recensioni e specialmente non ascolto podcast, ma da quando ho iniziato questo, faccio fatica a staccarmi, e quasi non posso più fare a meno di ascoltare e arricchirmi culturalmente.

Andrea V., 22 Set 2025

Riccardo mi ha letteralmente cambiato la vita e fatto scoprire che amo la finanza, ho ascoltato il podcast già due volte e non mi stufo mai di ascoltarlo, parla in modo semplice e chiaro

Massimo D., 23 Set 2025

Veramente interessante, chiaro e conciso. Cambia la vita finanziaria di chiunque.. da ascoltare assolutamente anche per chi di finanza non vuole occuparsi mai

Francesca B., 6 Apr 2024

Podcast che dà sempre spunti interessanti che personalmente mi ha fatto appassionare alla finanza personale spingendomi ad approfondire in prima persona.

Lorenzo, 13 Mar 2025

Podcast piacevole, scorre veloce ma in modo estremamente chiaro, spiega i concetti chiave per gestire le proprie finanze, fornendo la classica cassetta degli attrezzi. Complimenti, davvero ben fatto!

Massimiliano, 29 Mag 2024
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