Quanto devo investire in Azioni? Una nuova Formula (e file da scaricare)
Quanto capitale devo investire in asset rischiosi è la domanda delle domande della finanza personale. Un elegante tentativo per rispondervi è una brillante, ma poco conosciuta formula nota come "Merton Share".

184. Quanto devo investire in Azioni? Una nuova Formula (e file da scaricare)
Risorse
Punti Chiave
La Merton Share è una formula per l'allocazione ottimale (Azioni/Risk-Free) che bilancia premio al rischio atteso, volatilità e avversione al rischio.
L'avversione al rischio (gamma) è fondamentale e dovrebbe essere stimata considerando tolleranza, capacità e necessità di rischio personale.
L'asset allocation dinamica della Merton Share (Mu / (Gamma x Sigma^2)) si adatta ai cambiamenti di mercato e riduce il rischio non necessario.
Trascrizione Episodio
Bentornati a The Bull – il tuo podcast di finanza personale.
Ci sono tante domande importanti da porsi quando si tratta di gestire i propri soldi.
Ma questa, l’avrete capito ora che iniziamo ad approssimarci ai 200 episodi, è la domanda delle domande.
Quanto del mio capitale è giusto “rischiare”?
È una domanda che facilmente scollina oltre l’ambito finanziario e straborda facilmente in quello più esistenziale.
Quanto investire in azioni è una domanda la cui risposta dice molto di come siamo fatti, di come pensiamo, di come ragioniamo, dei nostri valori, delle nostre ambizioni e delle nostre emozioni.
Non è una questione di sola matematica.
Lo fosse, ci sarebbe già una risposta buona per tutti.
Invece il fatto che non ci sia una risposta universalmente valida è ciò che attribuisce a questa domanda il suo inesauribile fascino, facendone qualcosa di simile alla ricerca del Sacro Graal: l’oggetto del desiderio definitivo, che per secoli si è cercato ma della cui esistenza non c’è alcuna prova.
Senza voler scivolare nel blasfemo ma solo come licenza letteraria, diciamo che anche qui c’è una qualche componente di fede in gioco.
La fede nel fatto che il nostro rischio sarà alla fine remunerato.
C’è infatti un punto in cui la matematica e la finanza divergono in maniera inconciliabile.
Matematicamente è perfettamente sensato assumersi il massimo rischio possibile per conseguire il maggior rendimento atteso possibile.
Nella vita reale, invece, che è quella che la finanza cerca di rappresentare, noi non ragioniamo così.
Siamo disposti a prenderci certi rischi SOLO a determinate condizioni e QUASI MAI con l’obiettivo di massimizzare il rendimento assoluto.
Ok quest’episodio mi è partito un po’ con un delirio mistico e non si capisce bene dove voglia andare a parare.
Facciamo così, vi metto il menu del giorno, prima che cambiate podcast e andate ad ascoltarvi qualche racconto di cronaca nera che poi la notte avete gli incubi e dormite male, e vi dico di cosa parlerò oggi.
Oggi vi presenterò un modello non particolarmente noto – e tra l’altro che non sia molto noto è davvero sorprendente per motivi che spiegherò tra poco – che in maniera molto semplice ed elegante fornisce una valida linea guida per provare a rispondere alla domanda delle domande, ossia: quanto del mio portafoglio è giusto mettere in azioni.
O meglio: quanto del mio portafoglio è giusto PER ME mettere in azioni.
Confronteremo questo modello con la formula di The Bull e vedremo che le due impostazioni hanno un grande punto in comune e meno grande punto di divergenza.
Infine vi proporrò un modo semplice per provare ad implementarlo con i vostri portafogli, con tanto di file excel scaricabile al link in descrizione, così non diventate matti a immaginarvi le cose di cui parlerò e potete giocarci a casa fino a consumarvi i polpastrelli, per la gioia dei vostri famigliari.
Capito?
Sembra che sto sproloquiando, ma in realtà questo sarà uno degli episodi più concreti di sempre, uno di quelli che in 30 minuti cerca di mettere insieme tutti i componenti fondamentali dei ragionamenti che dovete fare con i vostri portafogli e che in qualche modo dovrebbe dare una risposta non esaustiva, ma abbastanza soddisfacente alla più grande domanda della finanza personale.
Prima di addentrarci in questo breve e intenso viaggio alla scoperta di questa formula gustosa che non vedo l’ora di raccontarvi e che meriterebbe molta più fama, un nuovo compagno di viaggio si è unito alla stravagante crociata di The Bull alla ricerca del Sacro Graal dell’illuminazione finanziaria.
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Che belli sti disclaimer
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Bene, veniamo alla ciccia dell’episodio e partiamo dal famoso Paradosso di San Pietroburgo inventato dal grande matematico del ‘700 Daniel Bernoulli.
Immagina un gioco a testa o croce – oh in finanza testa o croce è come il soffritto in cucina, non c’è pietanza in cui non ce lo puoi infilare – dicevo testa o croce e funziona così:
Tu paghi una certa cifra X per partecipare al gioco;
Si parte con 2€, se esce testa vinci 2€, se esce croce si va avanti è la posta raddoppia;
Se al secondo lancio esce testa vinci 4 €, se esce croce raddoppia ancora;
Se al terzo esce testa vinci 8 €, se esce ancora croce si raddoppia di nuovo.
Insomma, si capisce facilmente che questo gioco ha un rendimento atteso potenzialmente infinito.
Pur partendo con 2 €, se per caso la prima testa esce dopo 10 lanci porteresti a casa circa 1.000 €.
Se la prima testa uscisse dopo 20 lanci vinceresti un milione.
Dopo 30 lanci 1 miliardo e rotti.
Dopo 40 lanci? Saresti tre volte più ricco di Elon Musk.
Dopo 50 lanci? Avresti 25 volte il PIL degli Stati Uniti.
Ora il paradosso qual è?
Il paradosso è che, dal punto di vista matematico, se vi chiedessi quanto sareste disposti a pagare per partecipare ad un gioco che potenzialmente vi può dare una vincita infinita la risposta dovrebbe essere: tutti i vostri soldi e anche di più.
No?
Cioè se il rendimento atteso è infinito, dovreste scommettere tutti i soldi che riuscite a farvi prestare da chiunque per parteciparvi.
Perché però state aggrottando le sopracciglia e la cosa non vi torna?
Perché noi non ragioniamo così.
Intuitivamente sappiamo che è sicuramente possibile che esca qualche croce consecutiva, mentre già che esca venti volte di fila croce parliamo di una probabilità su un milione.
30 volte di fila? Una su un miliardo e così via.
Avrete notato che la probabilità è l’inverso della vincita.
Cioè la probabilità di vincere una certa cifra X è 1 su X.
La probabilità di vincere 2 è 1 su 2.
La probabilità di vincere 1000 è circa 1 su 1000.
E così via.
Bernoulli fu quindi il primo a introdurre un concetto fondamentale per l’economia tutta, ossia quello di utilità marginale decrescente.
Ne avevamo già parlato in altri termini.
Per esempio io sono un grande appassionato di Gardaland.
Il giorno che vado a Gardaland sono contento.
Se ci vado però due giorni di fila, il secondo giorno sono un po’ meno contento.
Il terzo di fila ancora meno, anzi forse inizio anche a rompermi un po’.
Al quarto mi sparo in testa.
La soddisfazione supplementare che deriva dal consumo di un certo bene o servizio, che in economia si chiama generalmente UTILITA’, è inversamente proporzionale al consumo.
Più consumo un bene, meno soddisfazione, meno utilità mi porta.
Più vado a Gardaland, meno felicità mi dà l’ennesima volta che vedo il pupazzone verde all’ingresso.
Ora che c’entra tutto questo con la domanda delle domande: quanto devo investire in azioni?
C’entra, perché il paradosso di San Pietroburgo cosa ci dice? ci dice che la quota della nostra ricchezza che noi siamo disposti rischiare è una funzione di tre variabili, che sono:
UNO: il rendimento atteso (e questo è ovvio, più posso guadagnare, più voglio rischiare), poi
DUE: il rischio implicito collegato a quel rendimento e infine
TRE: il mio livello di avversione al rischio (e su quest’ultimo punto per ora parlo di avversione, poi vi proporrò una simpatica soluzione a punti un po’ più dettagliata, ma molto pratica).
Capito?
Quindi, la risposta alla domanda delle domande, quanto investire in azioni, cioè quanto investire nella parte rischiosa del portafoglio, deve trovare una qualche risposta legata a questi tre punti.
Ora, prima di svelare la formula magica – magica si fa per dire perché è ben lontana dall’essere perfetta, anche se la trovo molto elegante – dobbiamo fare alcune premesse.
PRIMA PREMESSA: in tutti i ragionamenti che facciamo oggi, così pure come era la premessa alla base della nota formula di The Bull 125 – età bla bla bla, è che semplifichiamo la struttura del portafoglio a soli due asset.
Fatto 100 il nostro capitale, una certa quota X andrà in un asset rischioso (in azioni), mentre una quota 100-X andrà in un asset che consideriamo senza rischio, risk-free, ossia una qualche forma di obbligazioni.
È una semplificazione un po’ astratta, mi rendo conto
Però non complichiamoci troppo la vita e ragioniamo solo su questi due blocchi.
Poi alla fine dell’episodio se mi resta tempo parliamo di come articolare ulteriormente il portafoglio, ma ora ci interessa solo trovare un modo per capire la “size”, la dimensione in qualche modo “giusta per noi” della nostra quota azionaria.
Tanto per essere originali, diciamo che il nostro asset rischioso è un ETF su un qualche indice azionario internazionale o globale.
Qui viene la
SECONDA PREMESSA: qual è l’asset risk-free, l’asset senza rischio?
Ora, non c’è una risposta giusta neanche qui, tanto per cambiare.
In linea teorica, l’asset più risk-free del pianeta per definizione è il 1-month Treasury Bill, ossia il buono del tesoro americano con scadenza a un mese.
In Europa potremmo dire che qualcosa di equivalente è lo Short-Term-Rate che viene replicato da un fondo monetario.
Qui stiamo parlando del livello zero dell’investimento finanziario.
In finanza, come sapete, non esiste la situazione in cui ho i soldi sul conto a fare la muffa.
Siccome la finanza presuppone che siamo agenti razionali e che non ci piace sprecare i soldi – e su questo avrei qualcosa da ridire – se ho dei soldi, come minimo questi maturano il risk-free-rate, il tasso di interesse senza rischio che è molto spesso prossimo a quello dei prestiti interbancari.
Se non ho soldi – e anche qui la finanza a volte fa delle astrazioni che non sempre combaciano con la realtà – il tasso risk free dovrebbe essere quello a cui posso prendere in prestito soldi.
Tutto il capitalismo però si basa sull’idea che io, molto teoria, posso, prendere in prestito del capitale al tasso senza rischio e investirlo in una qualche attività rischiosa che mi genererà un excess return, un rendimento supplementare.
Comunque al di là di questo, il tasso risk free più o meno ufficiale è questa roba qua.
Però se mi metto dalla prospettiva dell’investitore che deve scegliere come allocare il suo capitale, in realtà la sua alternativa all’azionario non sono i T-bills a un mese o un fondo monetario.
Tecnicamente questi non sono investimenti, sono cash che maturano un interesse al tasso più basso disponibile, almeno in circostanze normali, quando la curva dei rendimenti non è invertita.
E qui veniamo alla
TERZA PREMESSA: cioè quando l’investitore si chiede in quale asset può investire i suoi soldi, oltre all’asset rischioso, l’asset privo di rischio deve comunque avere una DURATION paragonabile.
Chiaramente nel caso delle obbligazioni, come sapete tutti molto bene, la duration è un concetto ben preciso, ossia il tempo che impiega l’obbligazione a ripagare il capitale investito attraverso i suoi flussi di cassa e questa esprime la sensibilità alle variazioni dei tassi di mercato.
Le azioni invece non hanno una duration vera e propria perché non rimborsano il capitale, però in senso lato potremmo approssimare il concetto considerando il tempo che un’azione impiega a ripagare il capitale investito attraverso i suoi flussi di cassa, assumendo che tutti gli utili vengano distribuiti come dividendi o sottoforma di buyback.
Se per esempio il prezzo di un’azione è 15 volte gli utili che la società genera in un anno, facciamo l’inverso, 1 diviso 15, e otteniamo un po’ meno di 7, ossia un earning yield, un rendimento degli utili del 7% all’anno.
Se facciamo finta che questo resta lo stesso in perpetuo, al ritmo del 7% all’anno composto l’azione impiega 10 anni a ripagare il capitale.
Ovviamene questo è un ragionamento ipermegasemplificato, perché le aziende non distribuiscono tutti gli utili, perché le aspettative sugli utili futuri variano, perché in mezzo succedono mille cose e così via.
Per astrattamente il ragionamento è questo.
Tra l’altro seguendo questa logica, se oggi in media le azioni americane hanno un forward price/earning ratio, cioè un rapporto tra prezzo attuale e utili attesi dei prossimi mesi, di 23, la duration così come un po’ impropriamente l’abbiamo definita, si alza nettamente, perché in teoria servono in media 17 anni per rientrare del capitale.
Se poi hai un’azienda come Tesla che ha un forward PE di 121 ti servono 85 anni, quindi gli investitori in Tesla, tutti noi compresi visto che Tesla pesa parecchio dentro tutti gli indici azionari principali, devono avere molta fiducia che Musk farà esplodere i profitti della sua società nel futuro.
Torniamo a noi che sto divagando.
Siccome diciamo sempre che uno investe in azioni se ha almeno un orizzonte temporale di almeno 10-15 anni, ecco che abbiamo anche una spiegazione matematica del motivo.
L’MSCI World ha un forward PE di circa 19, quindi teoricamente entro 14 anni il nostro investimento si è ripagato del tutto.
Molto in teoria.
Se quindi il mio orizzonte di investimento è almeno di 10 anni, l’alternativa di investimento alle azioni, che sono l’asset rischioso, deve essere l’asset meno rischioso possibile con una duration più o meno nello stesso ordine di grandezza.
Tradizionalmente quest’alternativa risk-free sono i titoli di stato decennali.
Negli Stati Uniti il Treasury a 10 anni, in Europa il Bund decennale e lo stesso con il Gilt inglese o con il decennale giapponese.
Ora, che un titolo di stato decennale sia risk-free è altamente discutibile.
Viviamo però tutti quanti nella convinzione – e dire anche nella fede – che un titolo di stato investment grade NON possa fare default.
Se oggi qualcuno mettesse seriamente in discussione il fatto che un Treasury o un Bund non restituiscano il capitale agli investitori tra 10 anni ci sarebbe l’apocalisse finanziaria definitiva.
Buona parte dell’impalcatura finanziaria globale si regge sul fatto che soprattutto i Treasury, che sono l’asset più liquido della Terra, siano un investimento risk-free quasi assoluto, perlomeno finché tenuti fino a scadenza.
Tralasciando però questo genere di considerazioni che sono una divinazione nel futuro con poco fondamento, eccoci al nostro punto di partenza.
Ho un capitale.
Ho un asset rischioso e un asset risk free in cui investirlo.
Come faccio a sapere quanto mettere in uno e quanto nell’altro?
Il mio obiettivo ultimo è trovare un giorno una formula definitiva che risponda alle domande delle domande includendo tutti i possibili parametri.
La formula di The Bull che mi sono inventato qualche anno fa è una parziale risposta a questa domanda.
Ve la ricordo: la quota di azioni è uguale a 125 – i propri anni – il valore del risk-free-rate moltiplicato per 5.
All’inizio parlavo di tassi di interesse, ma trovo che parlare di risk-free-rate sia più efficace, anche perché poi ciascuno può prendere il risk-free rate più coerente con il proprio portafoglio, mentre il valore dei tassi di interesse resta un criterio un po’ più rigido.
Inoltre i tassi di interesse per definizione sono tassi a breve termine.
Se devo considerare il mio portafoglio a lungo termine, può aver senso considerare come risk-free il tasso di un titolo di Stato a 10 anni per i motivi di cui sopra.
Con questa formula cosa otteniamo:
Abbiamo un criterio finanziario che dice: più è alto il tasso senza rischio, meno saranno attrattive le azioni e diverranno invece più attrattive le obbligazioni, che in teoria hanno un risk-adjusted return, un rendimento rapportato al rischio che comportano, superiore. Allo stesso tempo dice: quando il tasso risk-free è molto basso, le azioni saranno invece più attrattive perché le obbligazioni non renderanno abbastanza, oltre al fatto che con tassi molto bassi le obbligazioni diventano rischiose per i motivi che abbiamo tutti appreso molto bene nel 2022.
Dall’altro lato abbiamo un criterio, diciamo così, goal based, più pragmatico, che dice: man mano che mi avvicino al retirement, non necessariamente alla pensione dello stato, ma ad un livello di ricchezza che più o meno realizza i miei obiettivi, minore sarà il rischio che voglio avere nel portafoglio.
Se ho 25 anni vorrò avere tendenzialmente più azionario, se ho 50 anni meno.
Poi uno adatta questa cosa alla sua specifica situazione e magari per lei o lui a 50 anni va bene avere 100% azionario.
Ma in media questa è una buona approssimazione di tante situazioni standard.
Cosa manca alla formula di The Bull?
Manca intanto un criterio che dica, nello specifico momento x, quanto sia conveniente investire in azioni rispetto al loro prezzo.
In parte questo compito è assolto indirettamente dall’utilizzo del risk-free rate per 5.
Spesso nella storia, infatti, quando il mercato aveva corso molto e le azioni erano diventate molto care la Fed alzava i tassi per raffreddare l’economia, molte volte questa andava in recessione e i prezzi delle azioni scendevano di conseguenza, quindi poi la Fed tagliava i tassi e le azioni riprendevano a correre.
Non è che sia un meccanismo perfetto, però c’è una discreta logica in tutto questo che implicitamente porta a dire: mano mano che il risk-free rate si alza, minore sarà l’attrattività delle azioni anche perché probabilmente saranno diventate carucce.
Non ho però messo nessun criterio che consideri direttamente il rendimento atteso delle azioni, cosa che tipicamente si fa guardando l’Earnings Yield o lo Shiller CAPE ratio.
E non l’ho fatto per due motivi:
UNO è perché non hanno un valore predittivo così forte. Nel lungo termine hanno mostrato delle significative correlazioni, ma non sono uno strumento di market timing;
DUE perché non volevo fare la formula troppo complicata, soprattutto all’inizio quando ancora stavamo cercando di capire insieme cosa fosse un ETF.
Però, secondo me la formula resta migliorabile da questo punto di vista.
Inoltre alla formula di The Bull manca un criterio legato al nostro livello di avversione al rischio.
È vero che io dico: dopo aver applicato la formula, fatti un piano, capisci quanto vuoi essere conservativo da qui ai prossimi anni in base ai tuoi obiettivi, capisci se ti va bene avere tot obbligazioni tra 2 5 8 10 anni e poi adatta l’allocation di conseguenza.
Però sento che manca un pezzettino che consideri direttamente il mio rapporto con il rischio, che come abbiamo detto tante volte è fatto di tre componenti:
Il rischio che VOGLIO prendermi, quindi la mia propensione;
Il rischio che POSSO prendermi, quindi quello più adatto al mio orizzonte temporale e infine
Il rischio che DEVO prendermi, rispetto agli obiettivi che voglio realizzare.
Tra poco vi propongo un framework, un criterio che metta assieme tutti questi pezzi.
E come dicevo vi metto a disposizione un file excel per fare qualche esperimento.
Per provare a mettere insieme tutti i pezzi ho riesumato una formula che trovo straordinariamente elegante, anche se sorprendentemente non è diventata così famosa nel mondo finanziario, nonostante il suo inventore sia un peso massimo.
E per peso massimo intendo un peso massimo a livello Eugene Fama.
Stiamo parlando di Robert Merton, premio Nobel per l’economia nel 1997 insieme a Myron Scholes.
Non so bene quale sia il motivo per cui questa formula non sia diventata altrettanto usata come ad esempio il modello della frontiera efficiente di Markowitz; forse perché il nome di Merton è indelebilmente legato a quella che è la più famosa equazione di tutta la finanza, nota come modello Black-Scholes-Merton, che è una complicata equazione differenziale alle derivate parziali utilizzata per calcolare il prezzo di un’opzione put o call.
Come spesso accade in finanza, l’equazione in sé un capolavoro.
Il fatto che funzioni, invece, beh si sa, la matematica e la finanza non vanno sempre troppo d’accordo.
Cioè vanno d’accordo finché non succede qualcosa di inaspettato che fa saltare tutto per aria.
E Robert Merton e Myron Scholes impararono questa lezione, come si dice, the hard way, pagando un prezzo estremamente salato di tasca propria.
Come abbiamo raccontato anche in passato assieme a Nick Protasoni, Merton e Scholes furono tra i partner di Long Term Capital Management, lo spettacolare hedge fund fondato dall’ex genio dell’arbitraggio sui titoli di Stato di Solomon Brothers John Meriwether che riuscì nell’impresa di mettere assieme un team di avengers della finanza, con premi nobel, plurilaureati, geni della matematica e il meglio del meglio di Wall Street.
Long Term faceva un massiccio ricorso a modelli matematici come quello di Black-Scholes-Merton per sfruttare piccole inefficienze nei mercati e portare a casa guadagni faraonici grazie ad un enorme utilizzo di leva finanziaria.
Dal 1994 al 1998 andò tutto a meraviglia.
Poi il default sui titoli di Stato Russi del 1998 fu per loro il classico cigno nero che innescò una brusca reazione a catena che fece collassare le loro posizioni e il fondo fallì in pochi mesi, costringendo la Fed a intervenire d’urgenza a tappare i buchi e facendo evaporare centinaia di milioni di dollari degli stessi fondatori che avevano messo in LTCM gran parte dei propri soldi.
L’amara ironia della vicenda fu che in realtà quello che stavano facendo non si rivelò sbagliato.
Fu la reazione dei mercati ad essere imprevedibile e irrazionale.
Ma, come si dice, the markets can stay irrational longer than they can stay solvent.
E infatti loro fallirono principalmente perché finirono i soldi prima che il mercato desse loro nuovamente ragione.
Merton è noto soprattutto per queste due cose, la straordinaria equazione più bella della finanza e il fallimento spettacolare di LTCM.
Oltre ad una nota disputa piuttosto accesa con Nassim Taleb in cui non se le mandarono a dire e nel Cigno Nero Taleb non risparmia parole piuttosto aspre contro Merton.
Nel 1969 però Merton aveva scritto un grande paper dal titolo Lifetime Portfolio Selection under Uncertainty: The Continuous-Time Case” in cui aveva sviluppato un modello di allocazione ottimale della ricchezza in un contesto di tempo continuo.
In pratica l’idea è quella di individuare una formula che permetta all’investitore di allocare il proprio capitale in maniera continua nel tempo, invece che in maniera statica.
Cosa significa continua?
Significa che l’allocazione si adatta man mano che variano i tre parametri di cui è composta.
E quali sono questi parametri? Sono quelli di cui parlavamo all’inizio:
Il primo è il premio al rischio atteso – e adesso capiamo come stimare la differenza tra rendimento atteso dell’asset rischioso meno il tasso risk-free;
Il secondo parametro è, diciamo così, il rischio oggettivo dell’asset rischioso e sappiamo che in finanza si usa la deviazione standard dell’asset, cioè quanto è volatile;
Il terzo fondamentale parametro è il livello di avversione al rischio dell’investitore che si basa sull’idea che appunto un investitore non si prenderà mai un rischio illimitato al crescere del rendimento atteso, ma appunto terrà in considerazione il discorso dell’utilità marginale decrescente.
In parole povere:
Si prenderà certi rischi solo se se la sente;
Si prenderà dei rischi solo se sono coerenti con il suo orizzonte temporale; e infine
Si prenderà dei rischi solo se sono necessari ai propri obiettivi.
In realtà Merton non la mette proprio in questi termini e fa una roba più complicata, ma per quello che interessa noi oggi questo è il modo in cui secondo me funziona meglio agli effetti pratici.
La formula, che è diventata nota come Merton Share, è molto semplice.
È una divisione.
Il numeratore è il premio al rischio atteso, quindi rendimento atteso meno tasso senza rischio.
Il denominatore invece è fatto da: quadrato della deviazione standard, che si chiama varianza, moltiplicata per quello che Merton chiama gamma, che è la lettera greca che, in questo caso, corrisponde al livello di avversione al rischio.
In realtà tutta la formuletta è fatta di lettere greche così sembra più intelligente.
Di solito in finanza si usa la lettera greca mu per i rendimenti, sigma per la deviazione standard, in questo sigma al quadrato per la varianza, e appunto gamma, per l’avversione al rischio.
MU diviso SIGMA al quadrato per GAMMA.
Lo so detta così non si capisce una fava.
Ma è più semplice di quel che sembra.
Datemi un secondo che ci arrivo.
Ora, come in tutte le formule matematiche che si usano in finanza anche questa è bellissima e fighissiga e tra l’altro la sua derivazione matematica è piuttosto complessa, utilizza equazioni differenziali stocastiche, il moto browniano e un sacco di altra roba.
Il problema però è che ste lettere greche vanno riempite di numeri e i numeri bisogna un po’ tirarli a indovinare.
Perché dico questo?
Eh perché dobbiamo fare tre mosse.
Seguitemi.
PRIMA MOSSA: dobbiamo stimare il rendimento atteso.
Facile no? Che ci vuole…
Allora immaginiamo che il nostro asset rischioso sia l’MSCI world e che come proxy per quello non rischioso facciamo una media ponderata 70/30 tra Treasury a 10 anni e Bund a 10 anni, che dà come rendimento nominale circa 4%.
Come faccio a stimare il premio al rischio atteso, cioè il MU che sta al numeratore nella formula?
Il premio al rischio è rendimento atteso dell’MSCI World meno il tasso risk free.
Dove lo trovo il rendimento atteso?
Ovviamente non esiste una formula che prevede il futuro, dove usare qualcosa che mi dia un orientamento sapendo che sarà tutt’altro che perfetta.
Un modo potrebbe essere utilizzare il solito Earning Yield, cioè l’inverso del rapporto tra prezzo e utili attesi.
Oggi il forward price to earning ratio dell’MSCI World è di circa 19,5, fortemente spinto al rialzo dalla quota di azioni americane.
Se faccio l’inverso ottengo una stima del rendimento REALE, quindi 1 diviso 19,5 fa circa 5,1%.
Quali altri criteri si potevano usare?
Per esempio si poteva usare l’inverso dello Shiller CAPE Ratio.
Però intanto questo è un valore che si trova comodamente per le azioni americane, meno per le azioni globali.
Inoltre ha tutta una serie di problemi perché tende a sottostimare gli utili e parte dal presupposto che tutti i profitti siano distribuiti, mentre non considera il potenziale di crescita che deriva dal fatto che parte degli utili sono reinvestiti nelle stesse società.
Victor Haghani, un altro dei fondatori di Long Term Capital Management e molto legato a Merton, l’anno scorso aveva scritto un paper in cui proponeva una correzione del CAPE Ratio.
Per farla breve lui ha fatto vedere che storicamente il CAPE Ratio tende ad essere, diciamo, così, un 20% troppo pessimista.
Un’ulteriore alternativa potrebbe essere usare l’inverso del Trailing Price Earning Ratio, cioè usare il rapporto che c’è oggi tra prezzi e utili passati, non quelli attesi.
Questo dà un risultato un po’ più basso perché naturalmente l’attesa è che nel futuro gli utili crescano.
Impossibile dire quale sia meglio, nel file allegato ve li metto entrambi e vedete come variano.
A noi però non interessa solo il rendimento dell’asset rischioso, ma il premio al rischio, quindi l’aspettativa di rendimento reale MENO il rendimento reale di un investimento senza rischio.
Dato che parliamo di rendimenti reali, non prenderemo il rendimento atteso dei titoli di stato tout cour perché quello è nominale, ma useremo un’approssimazione.
Si potrebbe usare anche qui una media ponderata usando i TIPS decennali e i bund indicizzati all’inflazione, ma per farla semplice diciamo il rendimento reale risk-free sarà quello nominale meno 2,5%, che è una mia arbitraria stima dell’inflazione per prossimi anni.
Più lata di quella che vorrebbero Fed e BCE, ma non altissima.
4% meno 2,5%, 1,5% come tasso reale risk free.
Il premio al rischio dovrebbe essere quindi più o meno il rendimento reale atteso, a seconda del metodo che usate per calcolarlo tra quelli esposti sopra, meno questo 1,5%.
Cmq il file fa tutti i conti da solo
Io vi ho messo già dei dati di partenza, se non vi piacciono modificateli come vi pare.
SECONDA MOSSA: il rischio.
Perché per il rischio si prende la deviazione standard al quadrato?
Il motivo è che nelle equazioni usate da Merton per derivare la formula si usa la varianza, che appunto è la deviazione standard al quadrato.
Non è così importante comunque.
La deviazione standard dell’MSCI World degli ultimi 10 anni, dati di MSCI, è stata di circa il 15%.
Probabilmente quella storica è più elevata, ma per un motivo o per l’altro da almeno un decennio la volatilità sui mercati è più attenuata che in passato, però oggi non entriamo in questo discorso.
TERZA MOSSA: è forse quella più importante, cioè dobbiamo scegliere il coefficiente di avversione al rischio, che appunto è ciò che ci permette di identificare l’allocazione ottimale PER NOI nell’asset rischioso rispetto a ciò che massimizza la nostra utilità, la nostra soddisfazione, in maniera tale che non andiamo a prenderci del rischio ulteriore che non ci serve.
In altri termini: non andremo a mangiarci il quarto hambuger se già eravamo sazi al terzo.
Il quarto non ci darà soddisfazione e rischiamo di passare la notte in bianco con la citrosodina.
Come faccio a sapere che valore scegliere?
Allora ho cercato un po’ in giro e la maggior parte delle applicazioni che ho trovato della Merton Share usano valori compresi tra 2 e 5.
L’1 non si usa perché vorrebbe dire che siamo Neutrali rispetto al rischio, cioè siamo indifferenti rispetto al fatto di prenderci rischi o meno.
Invece la maggior parte delle persone con un accettabile equilibrio psicofisico ha una qualche forma di avversione al rischio.
Oltre a 5, invece, praticamente hai paura anche di alzarti dal letto al mattino.
Nel file troverete quindi una tabellina in cui ci sono tre righe, corrispondenti a:
Risk tolerance, cioè quanto rischio voglio prendermi senza star male la notte;
Risk capacity, quanto rischio posso prendermi rispetto al mio orizzonte temporale e infine
Risk need, quanto rischio devo prendermi per realizzare i miei obiettivi.
Bisogna inserire per ciascuno un valore compreso tra 2 e 5, dove:
2 significa: massima propensione al rischio e
5 ovviamente: minima propensione al rischio.
Occhio che sono al contrario.
Cioè numero basso vuol dire bassa avversione, ossia che voglio/posso/devo rischiare di più.
Automaticamente uscirà la media e di conseguenza l’asset allocation risultante.
Bello no?
Ammetto che non la conoscevo ancora quando ho pensato alla formula di The Bull per la prima volta.
E in effetti non è molto nota.
Penso che non si usi spesso per questi motivi:
intanto non è immediatamente intuitiva. Quella di The Bull si può spiegare in 5 minuti. Per quella di oggi ci ho messo più di mezz’ora e ho saltato una montagna di cose su cui dovrò tornare.
poi richiede tante assunzioni.
Quella di The Bull usa dati noti: l’età e il risk-free rate.
Quella di Merton richiede delle stime sui rendimenti attesi nonché sulla volatilità futura. Io qua ho preso quella degli ultimi 10 anni, ma nulla dice che sarà quella che avrò anche nei prossimi.
infine il suo più grande pro è anche il suo più grande contro. È dinamica. In ogni momento x la vostra allocation dovrebbe cambiare in base a come cambiano i parametri in gioco. Anche quella di The Bull è moderatamente dinamica.
Altri modelli di portafoglio, invece, tipo 60/40 o Golden o All Weather e così via sono fatti per essere set it and forget, una volta impostati ribilanci periodicamente ma tiene sempre quell’asset allocation.
Qui invece l’asset allocation cambia man mano che cambiano rendimenti attesi, volatilità e il nostro rapporto con il rischio rispetto alla nostra funzione di utilità.
Ora, a questo punto abbiamo un problema di sovrabbondanza di modelli.
Dopo 185 episodi ci ritroviamo con:
Una sbadilata di portafogli Lazy;
La formula di The Bull;
Il file per costruire un portafoglio Goal Based e infine
Il file di oggi che utilizza la formula di Merton.
E voi direte?
E mo’? come faccio a sapere cosa usare?
Eh… figuratevi al millesimo episodio di The Bull cos’avremo!
Comunque tutti i modelli sono perfettamente validi.
Vi propongo quello che io stesso faccio con il mio portafoglio.
O meglio, non è che ogni mattina mi alzo e rifaccio sta roba, per me è ormai un processo piuttosto continuo, però diciamo che se dovessi fare oggi una review del mio portafoglio proverei a impostarlo utilizzando i tre modelli e poi li confronterei l’uno con l’altro per fare dei doublecheck.
Quando aprirete il file troverete inseriti dei dati che sono quelli che riflettono la mia situazione.
Più o meno.
Poi come è fatto davvero il mio portafoglio ve lo racconto una delle prossime puntate.
Vi ho inoltre aggiunto anche il file dell’episodio 175 nella seconda pagina, così avete tutto assieme.
Se prendo la mia situazione personale, devo dire che i tre metodi portano più o meno al medesimo risultato.
O meglio: se per il rendimento atteso della regola di Merton uso il forward PE sono tutti allineati, se uso il trailing PE, invece, dice che ho un po’ troppe azioni.
Però non c’è una distanza abissale.
Se invece usando un metodo vi esce una certa asset allocation e usandone un altro vi esce qualcosa di completamente diverso, beh allora è un esercizio utile per capire se c’è qualcosa che non state considerando.
Magari pensate di voler investire spingendo a 200 all’ora sugli asset rischiosi e poi si scopre che avete certi obiettivi entro certi orizzonti temporali che non si accordano bene.
O magari pensate di avere una propensione al rischio molto bassa, ma poi scoprite che in realtà avete una capacità e una necessità di assumervi rischi alta, cosa che vi porta a rivedere il vostro punto di partenza.
Ah una cosa.
Nel file io ho dato per scontato che l’asset rischioso sia l’MSCI World.
Ovviamente metteteci quello che volete.
Secondo questo modello, se per esempio mettete l’S&P 500 invece dell’MSCI si abbasserà la quota azionaria perché l’earning yield sarà inferiore.
Non sono certo invece sia corretto inserire singoli mercati locali.
Per esempio, se mettete solo l’MSCI Europe, il modello vi suggerirebbe di alzare tantissimo l’esposizione azionaria, dato che i prezzi sono bassi e quindi l’earning yield è più alto.
Ma noi sappiamo che i prezzi bassi delle azioni europee vogliono dire due cose:
Che i rendimenti attesi potrebbero essere superiori;
Ma anche che il rischio è superiore.
Suppongo invece che il modello funzioni bene se ho una rappresentazione generale del mercato, non di una sua specifica parte.
Bene, a questo punto non vi resta che andare nella descrizione dell’episodio, cliccare sul link, fare una copia del file in Google Sheet e modificarlo in base alle vostre preferenze.
Sono rimasti alcuni temi in sospesi, tra cui come utilizzare questo modello se invece abbiamo più asset, ma di questo parleremo in uno dei prossimi episodi.
Per il momento ci salutiamo qui, spero che quest’episodio vi sia piaciuto e che anche questo nuovo strumento vi aiuti a diventare investitori migliori.
Come sempre vi invito a mettere segui e attivare le notifiche su spotify apple podcast o dove ci ascoltate e a lasciare una recensione a 5 stelle per supportarci e permetterci di continuare a produrre contenuti che sfornano formule e file per aiutarvi a pianificare le vostre finanze con buon senso e un sacco di colori sempre nuovi.
Per questo episodio invece è davvero tutto e noi ci risentiamo mercoledì prossimo con un episodio che non potete perdervi – o forse sì, dipende da quanto vi interessa quello che faccio io con il mio portafoglio – sempre qui naturalmente con The Bull il tuo podcast di finanza personale.
Bentornati a The Bull – il tuo podcast di finanza personale.
Ci sono tante domande importanti da porsi quando si tratta di gestire i propri soldi.
Ma questa, l’avrete capito ora che iniziamo ad approssimarci ai 200 episodi, è la domanda delle domande.
Quanto del mio capitale è giusto “rischiare”?
È una domanda che facilmente scollina oltre l’ambito finanziario e straborda facilmente in quello più esistenziale.
Quanto investire in azioni è una domanda la cui risposta dice molto di come siamo fatti, di come pensiamo, di come ragioniamo, dei nostri valori, delle nostre ambizioni e delle nostre emozioni.
Non è una questione di sola matematica.
Lo fosse, ci sarebbe già una risposta buona per tutti.
Invece il fatto che non ci sia una risposta universalmente valida è ciò che attribuisce a questa domanda il suo inesauribile fascino, facendone qualcosa di simile alla ricerca del Sacro Graal: l’oggetto del desiderio definitivo, che per secoli si è cercato ma della cui esistenza non c’è alcuna prova.
Senza voler scivolare nel blasfemo ma solo come licenza letteraria, diciamo che anche qui c’è una qualche componente di fede in gioco.
La fede nel fatto che il nostro rischio sarà alla fine remunerato.
C’è infatti un punto in cui la matematica e la finanza divergono in maniera inconciliabile.
Matematicamente è perfettamente sensato assumersi il massimo rischio possibile per conseguire il maggior rendimento atteso possibile.
Nella vita reale, invece, che è quella che la finanza cerca di rappresentare, noi non ragioniamo così.
Siamo disposti a prenderci certi rischi SOLO a determinate condizioni e QUASI MAI con l’obiettivo di massimizzare il rendimento assoluto.
Ok quest’episodio mi è partito un po’ con un delirio mistico e non si capisce bene dove voglia andare a parare.
Facciamo così, vi metto il menu del giorno, prima che cambiate podcast e andate ad ascoltarvi qualche racconto di cronaca nera che poi la notte avete gli incubi e dormite male, e vi dico di cosa parlerò oggi.
Oggi vi presenterò un modello non particolarmente noto – e tra l’altro che non sia molto noto è davvero sorprendente per motivi che spiegherò tra poco – che in maniera molto semplice ed elegante fornisce una valida linea guida per provare a rispondere alla domanda delle domande, ossia: quanto del mio portafoglio è giusto mettere in azioni.
O meglio: quanto del mio portafoglio è giusto PER ME mettere in azioni.
Confronteremo questo modello con la formula di The Bull e vedremo che le due impostazioni hanno un grande punto in comune e meno grande punto di divergenza.
Infine vi proporrò un modo semplice per provare ad implementarlo con i vostri portafogli, con tanto di file excel scaricabile al link in descrizione, così non diventate matti a immaginarvi le cose di cui parlerò e potete giocarci a casa fino a consumarvi i polpastrelli, per la gioia dei vostri famigliari.
Capito?
Sembra che sto sproloquiando, ma in realtà questo sarà uno degli episodi più concreti di sempre, uno di quelli che in 30 minuti cerca di mettere insieme tutti i componenti fondamentali dei ragionamenti che dovete fare con i vostri portafogli e che in qualche modo dovrebbe dare una risposta non esaustiva, ma abbastanza soddisfacente alla più grande domanda della finanza personale.
Prima di addentrarci in questo breve e intenso viaggio alla scoperta di questa formula gustosa che non vedo l’ora di raccontarvi e che meriterebbe molta più fama, un nuovo compagno di viaggio si è unito alla stravagante crociata di The Bull alla ricerca del Sacro Graal dell’illuminazione finanziaria.
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Che belli sti disclaimer
Io sto sempre sognando di fare la pubblicità a qualche farmaco da banco, solo per poter dire a 100 all’ora tutto l’elenco delle possibili morti atroci di cui potresti morire mentre cerchi di curarti una gastrite.
Bene, veniamo alla ciccia dell’episodio e partiamo dal famoso Paradosso di San Pietroburgo inventato dal grande matematico del ‘700 Daniel Bernoulli.
Immagina un gioco a testa o croce – oh in finanza testa o croce è come il soffritto in cucina, non c’è pietanza in cui non ce lo puoi infilare – dicevo testa o croce e funziona così:
Tu paghi una certa cifra X per partecipare al gioco;
Si parte con 2€, se esce testa vinci 2€, se esce croce si va avanti è la posta raddoppia;
Se al secondo lancio esce testa vinci 4 €, se esce croce raddoppia ancora;
Se al terzo esce testa vinci 8 €, se esce ancora croce si raddoppia di nuovo.
Insomma, si capisce facilmente che questo gioco ha un rendimento atteso potenzialmente infinito.
Pur partendo con 2 €, se per caso la prima testa esce dopo 10 lanci porteresti a casa circa 1.000 €.
Se la prima testa uscisse dopo 20 lanci vinceresti un milione.
Dopo 30 lanci 1 miliardo e rotti.
Dopo 40 lanci? Saresti tre volte più ricco di Elon Musk.
Dopo 50 lanci? Avresti 25 volte il PIL degli Stati Uniti.
Ora il paradosso qual è?
Il paradosso è che, dal punto di vista matematico, se vi chiedessi quanto sareste disposti a pagare per partecipare ad un gioco che potenzialmente vi può dare una vincita infinita la risposta dovrebbe essere: tutti i vostri soldi e anche di più.
No?
Cioè se il rendimento atteso è infinito, dovreste scommettere tutti i soldi che riuscite a farvi prestare da chiunque per parteciparvi.
Perché però state aggrottando le sopracciglia e la cosa non vi torna?
Perché noi non ragioniamo così.
Intuitivamente sappiamo che è sicuramente possibile che esca qualche croce consecutiva, mentre già che esca venti volte di fila croce parliamo di una probabilità su un milione.
30 volte di fila? Una su un miliardo e così via.
Avrete notato che la probabilità è l’inverso della vincita.
Cioè la probabilità di vincere una certa cifra X è 1 su X.
La probabilità di vincere 2 è 1 su 2.
La probabilità di vincere 1000 è circa 1 su 1000.
E così via.
Bernoulli fu quindi il primo a introdurre un concetto fondamentale per l’economia tutta, ossia quello di utilità marginale decrescente.
Ne avevamo già parlato in altri termini.
Per esempio io sono un grande appassionato di Gardaland.
Il giorno che vado a Gardaland sono contento.
Se ci vado però due giorni di fila, il secondo giorno sono un po’ meno contento.
Il terzo di fila ancora meno, anzi forse inizio anche a rompermi un po’.
Al quarto mi sparo in testa.
La soddisfazione supplementare che deriva dal consumo di un certo bene o servizio, che in economia si chiama generalmente UTILITA’, è inversamente proporzionale al consumo.
Più consumo un bene, meno soddisfazione, meno utilità mi porta.
Più vado a Gardaland, meno felicità mi dà l’ennesima volta che vedo il pupazzone verde all’ingresso.
Ora che c’entra tutto questo con la domanda delle domande: quanto devo investire in azioni?
C’entra, perché il paradosso di San Pietroburgo cosa ci dice? ci dice che la quota della nostra ricchezza che noi siamo disposti rischiare è una funzione di tre variabili, che sono:
UNO: il rendimento atteso (e questo è ovvio, più posso guadagnare, più voglio rischiare), poi
DUE: il rischio implicito collegato a quel rendimento e infine
TRE: il mio livello di avversione al rischio (e su quest’ultimo punto per ora parlo di avversione, poi vi proporrò una simpatica soluzione a punti un po’ più dettagliata, ma molto pratica).
Capito?
Quindi, la risposta alla domanda delle domande, quanto investire in azioni, cioè quanto investire nella parte rischiosa del portafoglio, deve trovare una qualche risposta legata a questi tre punti.
Ora, prima di svelare la formula magica – magica si fa per dire perché è ben lontana dall’essere perfetta, anche se la trovo molto elegante – dobbiamo fare alcune premesse.
PRIMA PREMESSA: in tutti i ragionamenti che facciamo oggi, così pure come era la premessa alla base della nota formula di The Bull 125 – età bla bla bla, è che semplifichiamo la struttura del portafoglio a soli due asset.
Fatto 100 il nostro capitale, una certa quota X andrà in un asset rischioso (in azioni), mentre una quota 100-X andrà in un asset che consideriamo senza rischio, risk-free, ossia una qualche forma di obbligazioni.
È una semplificazione un po’ astratta, mi rendo conto
Però non complichiamoci troppo la vita e ragioniamo solo su questi due blocchi.
Poi alla fine dell’episodio se mi resta tempo parliamo di come articolare ulteriormente il portafoglio, ma ora ci interessa solo trovare un modo per capire la “size”, la dimensione in qualche modo “giusta per noi” della nostra quota azionaria.
Tanto per essere originali, diciamo che il nostro asset rischioso è un ETF su un qualche indice azionario internazionale o globale.
Qui viene la
SECONDA PREMESSA: qual è l’asset risk-free, l’asset senza rischio?
Ora, non c’è una risposta giusta neanche qui, tanto per cambiare.
In linea teorica, l’asset più risk-free del pianeta per definizione è il 1-month Treasury Bill, ossia il buono del tesoro americano con scadenza a un mese.
In Europa potremmo dire che qualcosa di equivalente è lo Short-Term-Rate che viene replicato da un fondo monetario.
Qui stiamo parlando del livello zero dell’investimento finanziario.
In finanza, come sapete, non esiste la situazione in cui ho i soldi sul conto a fare la muffa.
Siccome la finanza presuppone che siamo agenti razionali e che non ci piace sprecare i soldi – e su questo avrei qualcosa da ridire – se ho dei soldi, come minimo questi maturano il risk-free-rate, il tasso di interesse senza rischio che è molto spesso prossimo a quello dei prestiti interbancari.
Se non ho soldi – e anche qui la finanza a volte fa delle astrazioni che non sempre combaciano con la realtà – il tasso risk free dovrebbe essere quello a cui posso prendere in prestito soldi.
Tutto il capitalismo però si basa sull’idea che io, molto teoria, posso, prendere in prestito del capitale al tasso senza rischio e investirlo in una qualche attività rischiosa che mi genererà un excess return, un rendimento supplementare.
Comunque al di là di questo, il tasso risk free più o meno ufficiale è questa roba qua.
Però se mi metto dalla prospettiva dell’investitore che deve scegliere come allocare il suo capitale, in realtà la sua alternativa all’azionario non sono i T-bills a un mese o un fondo monetario.
Tecnicamente questi non sono investimenti, sono cash che maturano un interesse al tasso più basso disponibile, almeno in circostanze normali, quando la curva dei rendimenti non è invertita.
E qui veniamo alla
TERZA PREMESSA: cioè quando l’investitore si chiede in quale asset può investire i suoi soldi, oltre all’asset rischioso, l’asset privo di rischio deve comunque avere una DURATION paragonabile.
Chiaramente nel caso delle obbligazioni, come sapete tutti molto bene, la duration è un concetto ben preciso, ossia il tempo che impiega l’obbligazione a ripagare il capitale investito attraverso i suoi flussi di cassa e questa esprime la sensibilità alle variazioni dei tassi di mercato.
Le azioni invece non hanno una duration vera e propria perché non rimborsano il capitale, però in senso lato potremmo approssimare il concetto considerando il tempo che un’azione impiega a ripagare il capitale investito attraverso i suoi flussi di cassa, assumendo che tutti gli utili vengano distribuiti come dividendi o sottoforma di buyback.
Se per esempio il prezzo di un’azione è 15 volte gli utili che la società genera in un anno, facciamo l’inverso, 1 diviso 15, e otteniamo un po’ meno di 7, ossia un earning yield, un rendimento degli utili del 7% all’anno.
Se facciamo finta che questo resta lo stesso in perpetuo, al ritmo del 7% all’anno composto l’azione impiega 10 anni a ripagare il capitale.
Ovviamene questo è un ragionamento ipermegasemplificato, perché le aziende non distribuiscono tutti gli utili, perché le aspettative sugli utili futuri variano, perché in mezzo succedono mille cose e così via.
Per astrattamente il ragionamento è questo.
Tra l’altro seguendo questa logica, se oggi in media le azioni americane hanno un forward price/earning ratio, cioè un rapporto tra prezzo attuale e utili attesi dei prossimi mesi, di 23, la duration così come un po’ impropriamente l’abbiamo definita, si alza nettamente, perché in teoria servono in media 17 anni per rientrare del capitale.
Se poi hai un’azienda come Tesla che ha un forward PE di 121 ti servono 85 anni, quindi gli investitori in Tesla, tutti noi compresi visto che Tesla pesa parecchio dentro tutti gli indici azionari principali, devono avere molta fiducia che Musk farà esplodere i profitti della sua società nel futuro.
Torniamo a noi che sto divagando.
Siccome diciamo sempre che uno investe in azioni se ha almeno un orizzonte temporale di almeno 10-15 anni, ecco che abbiamo anche una spiegazione matematica del motivo.
L’MSCI World ha un forward PE di circa 19, quindi teoricamente entro 14 anni il nostro investimento si è ripagato del tutto.
Molto in teoria.
Se quindi il mio orizzonte di investimento è almeno di 10 anni, l’alternativa di investimento alle azioni, che sono l’asset rischioso, deve essere l’asset meno rischioso possibile con una duration più o meno nello stesso ordine di grandezza.
Tradizionalmente quest’alternativa risk-free sono i titoli di stato decennali.
Negli Stati Uniti il Treasury a 10 anni, in Europa il Bund decennale e lo stesso con il Gilt inglese o con il decennale giapponese.
Ora, che un titolo di stato decennale sia risk-free è altamente discutibile.
Viviamo però tutti quanti nella convinzione – e dire anche nella fede – che un titolo di stato investment grade NON possa fare default.
Se oggi qualcuno mettesse seriamente in discussione il fatto che un Treasury o un Bund non restituiscano il capitale agli investitori tra 10 anni ci sarebbe l’apocalisse finanziaria definitiva.
Buona parte dell’impalcatura finanziaria globale si regge sul fatto che soprattutto i Treasury, che sono l’asset più liquido della Terra, siano un investimento risk-free quasi assoluto, perlomeno finché tenuti fino a scadenza.
Tralasciando però questo genere di considerazioni che sono una divinazione nel futuro con poco fondamento, eccoci al nostro punto di partenza.
Ho un capitale.
Ho un asset rischioso e un asset risk free in cui investirlo.
Come faccio a sapere quanto mettere in uno e quanto nell’altro?
Il mio obiettivo ultimo è trovare un giorno una formula definitiva che risponda alle domande delle domande includendo tutti i possibili parametri.
La formula di The Bull che mi sono inventato qualche anno fa è una parziale risposta a questa domanda.
Ve la ricordo: la quota di azioni è uguale a 125 – i propri anni – il valore del risk-free-rate moltiplicato per 5.
All’inizio parlavo di tassi di interesse, ma trovo che parlare di risk-free-rate sia più efficace, anche perché poi ciascuno può prendere il risk-free rate più coerente con il proprio portafoglio, mentre il valore dei tassi di interesse resta un criterio un po’ più rigido.
Inoltre i tassi di interesse per definizione sono tassi a breve termine.
Se devo considerare il mio portafoglio a lungo termine, può aver senso considerare come risk-free il tasso di un titolo di Stato a 10 anni per i motivi di cui sopra.
Con questa formula cosa otteniamo:
Abbiamo un criterio finanziario che dice: più è alto il tasso senza rischio, meno saranno attrattive le azioni e diverranno invece più attrattive le obbligazioni, che in teoria hanno un risk-adjusted return, un rendimento rapportato al rischio che comportano, superiore. Allo stesso tempo dice: quando il tasso risk-free è molto basso, le azioni saranno invece più attrattive perché le obbligazioni non renderanno abbastanza, oltre al fatto che con tassi molto bassi le obbligazioni diventano rischiose per i motivi che abbiamo tutti appreso molto bene nel 2022.
Dall’altro lato abbiamo un criterio, diciamo così, goal based, più pragmatico, che dice: man mano che mi avvicino al retirement, non necessariamente alla pensione dello stato, ma ad un livello di ricchezza che più o meno realizza i miei obiettivi, minore sarà il rischio che voglio avere nel portafoglio.
Se ho 25 anni vorrò avere tendenzialmente più azionario, se ho 50 anni meno.
Poi uno adatta questa cosa alla sua specifica situazione e magari per lei o lui a 50 anni va bene avere 100% azionario.
Ma in media questa è una buona approssimazione di tante situazioni standard.
Cosa manca alla formula di The Bull?
Manca intanto un criterio che dica, nello specifico momento x, quanto sia conveniente investire in azioni rispetto al loro prezzo.
In parte questo compito è assolto indirettamente dall’utilizzo del risk-free rate per 5.
Spesso nella storia, infatti, quando il mercato aveva corso molto e le azioni erano diventate molto care la Fed alzava i tassi per raffreddare l’economia, molte volte questa andava in recessione e i prezzi delle azioni scendevano di conseguenza, quindi poi la Fed tagliava i tassi e le azioni riprendevano a correre.
Non è che sia un meccanismo perfetto, però c’è una discreta logica in tutto questo che implicitamente porta a dire: mano mano che il risk-free rate si alza, minore sarà l’attrattività delle azioni anche perché probabilmente saranno diventate carucce.
Non ho però messo nessun criterio che consideri direttamente il rendimento atteso delle azioni, cosa che tipicamente si fa guardando l’Earnings Yield o lo Shiller CAPE ratio.
E non l’ho fatto per due motivi:
UNO è perché non hanno un valore predittivo così forte. Nel lungo termine hanno mostrato delle significative correlazioni, ma non sono uno strumento di market timing;
DUE perché non volevo fare la formula troppo complicata, soprattutto all’inizio quando ancora stavamo cercando di capire insieme cosa fosse un ETF.
Però, secondo me la formula resta migliorabile da questo punto di vista.
Inoltre alla formula di The Bull manca un criterio legato al nostro livello di avversione al rischio.
È vero che io dico: dopo aver applicato la formula, fatti un piano, capisci quanto vuoi essere conservativo da qui ai prossimi anni in base ai tuoi obiettivi, capisci se ti va bene avere tot obbligazioni tra 2 5 8 10 anni e poi adatta l’allocation di conseguenza.
Però sento che manca un pezzettino che consideri direttamente il mio rapporto con il rischio, che come abbiamo detto tante volte è fatto di tre componenti:
Il rischio che VOGLIO prendermi, quindi la mia propensione;
Il rischio che POSSO prendermi, quindi quello più adatto al mio orizzonte temporale e infine
Il rischio che DEVO prendermi, rispetto agli obiettivi che voglio realizzare.
Tra poco vi propongo un framework, un criterio che metta assieme tutti questi pezzi.
E come dicevo vi metto a disposizione un file excel per fare qualche esperimento.
Per provare a mettere insieme tutti i pezzi ho riesumato una formula che trovo straordinariamente elegante, anche se sorprendentemente non è diventata così famosa nel mondo finanziario, nonostante il suo inventore sia un peso massimo.
E per peso massimo intendo un peso massimo a livello Eugene Fama.
Stiamo parlando di Robert Merton, premio Nobel per l’economia nel 1997 insieme a Myron Scholes.
Non so bene quale sia il motivo per cui questa formula non sia diventata altrettanto usata come ad esempio il modello della frontiera efficiente di Markowitz; forse perché il nome di Merton è indelebilmente legato a quella che è la più famosa equazione di tutta la finanza, nota come modello Black-Scholes-Merton, che è una complicata equazione differenziale alle derivate parziali utilizzata per calcolare il prezzo di un’opzione put o call.
Come spesso accade in finanza, l’equazione in sé un capolavoro.
Il fatto che funzioni, invece, beh si sa, la matematica e la finanza non vanno sempre troppo d’accordo.
Cioè vanno d’accordo finché non succede qualcosa di inaspettato che fa saltare tutto per aria.
E Robert Merton e Myron Scholes impararono questa lezione, come si dice, the hard way, pagando un prezzo estremamente salato di tasca propria.
Come abbiamo raccontato anche in passato assieme a Nick Protasoni, Merton e Scholes furono tra i partner di Long Term Capital Management, lo spettacolare hedge fund fondato dall’ex genio dell’arbitraggio sui titoli di Stato di Solomon Brothers John Meriwether che riuscì nell’impresa di mettere assieme un team di avengers della finanza, con premi nobel, plurilaureati, geni della matematica e il meglio del meglio di Wall Street.
Long Term faceva un massiccio ricorso a modelli matematici come quello di Black-Scholes-Merton per sfruttare piccole inefficienze nei mercati e portare a casa guadagni faraonici grazie ad un enorme utilizzo di leva finanziaria.
Dal 1994 al 1998 andò tutto a meraviglia.
Poi il default sui titoli di Stato Russi del 1998 fu per loro il classico cigno nero che innescò una brusca reazione a catena che fece collassare le loro posizioni e il fondo fallì in pochi mesi, costringendo la Fed a intervenire d’urgenza a tappare i buchi e facendo evaporare centinaia di milioni di dollari degli stessi fondatori che avevano messo in LTCM gran parte dei propri soldi.
L’amara ironia della vicenda fu che in realtà quello che stavano facendo non si rivelò sbagliato.
Fu la reazione dei mercati ad essere imprevedibile e irrazionale.
Ma, come si dice, the markets can stay irrational longer than they can stay solvent.
E infatti loro fallirono principalmente perché finirono i soldi prima che il mercato desse loro nuovamente ragione.
Merton è noto soprattutto per queste due cose, la straordinaria equazione più bella della finanza e il fallimento spettacolare di LTCM.
Oltre ad una nota disputa piuttosto accesa con Nassim Taleb in cui non se le mandarono a dire e nel Cigno Nero Taleb non risparmia parole piuttosto aspre contro Merton.
Nel 1969 però Merton aveva scritto un grande paper dal titolo Lifetime Portfolio Selection under Uncertainty: The Continuous-Time Case” in cui aveva sviluppato un modello di allocazione ottimale della ricchezza in un contesto di tempo continuo.
In pratica l’idea è quella di individuare una formula che permetta all’investitore di allocare il proprio capitale in maniera continua nel tempo, invece che in maniera statica.
Cosa significa continua?
Significa che l’allocazione si adatta man mano che variano i tre parametri di cui è composta.
E quali sono questi parametri? Sono quelli di cui parlavamo all’inizio:
Il primo è il premio al rischio atteso – e adesso capiamo come stimare la differenza tra rendimento atteso dell’asset rischioso meno il tasso risk-free;
Il secondo parametro è, diciamo così, il rischio oggettivo dell’asset rischioso e sappiamo che in finanza si usa la deviazione standard dell’asset, cioè quanto è volatile;
Il terzo fondamentale parametro è il livello di avversione al rischio dell’investitore che si basa sull’idea che appunto un investitore non si prenderà mai un rischio illimitato al crescere del rendimento atteso, ma appunto terrà in considerazione il discorso dell’utilità marginale decrescente.
In parole povere:
Si prenderà certi rischi solo se se la sente;
Si prenderà dei rischi solo se sono coerenti con il suo orizzonte temporale; e infine
Si prenderà dei rischi solo se sono necessari ai propri obiettivi.
In realtà Merton non la mette proprio in questi termini e fa una roba più complicata, ma per quello che interessa noi oggi questo è il modo in cui secondo me funziona meglio agli effetti pratici.
La formula, che è diventata nota come Merton Share, è molto semplice.
È una divisione.
Il numeratore è il premio al rischio atteso, quindi rendimento atteso meno tasso senza rischio.
Il denominatore invece è fatto da: quadrato della deviazione standard, che si chiama varianza, moltiplicata per quello che Merton chiama gamma, che è la lettera greca che, in questo caso, corrisponde al livello di avversione al rischio.
In realtà tutta la formuletta è fatta di lettere greche così sembra più intelligente.
Di solito in finanza si usa la lettera greca mu per i rendimenti, sigma per la deviazione standard, in questo sigma al quadrato per la varianza, e appunto gamma, per l’avversione al rischio.
MU diviso SIGMA al quadrato per GAMMA.
Lo so detta così non si capisce una fava.
Ma è più semplice di quel che sembra.
Datemi un secondo che ci arrivo.
Ora, come in tutte le formule matematiche che si usano in finanza anche questa è bellissima e fighissiga e tra l’altro la sua derivazione matematica è piuttosto complessa, utilizza equazioni differenziali stocastiche, il moto browniano e un sacco di altra roba.
Il problema però è che ste lettere greche vanno riempite di numeri e i numeri bisogna un po’ tirarli a indovinare.
Perché dico questo?
Eh perché dobbiamo fare tre mosse.
Seguitemi.
PRIMA MOSSA: dobbiamo stimare il rendimento atteso.
Facile no? Che ci vuole…
Allora immaginiamo che il nostro asset rischioso sia l’MSCI world e che come proxy per quello non rischioso facciamo una media ponderata 70/30 tra Treasury a 10 anni e Bund a 10 anni, che dà come rendimento nominale circa 4%.
Come faccio a stimare il premio al rischio atteso, cioè il MU che sta al numeratore nella formula?
Il premio al rischio è rendimento atteso dell’MSCI World meno il tasso risk free.
Dove lo trovo il rendimento atteso?
Ovviamente non esiste una formula che prevede il futuro, dove usare qualcosa che mi dia un orientamento sapendo che sarà tutt’altro che perfetta.
Un modo potrebbe essere utilizzare il solito Earning Yield, cioè l’inverso del rapporto tra prezzo e utili attesi.
Oggi il forward price to earning ratio dell’MSCI World è di circa 19,5, fortemente spinto al rialzo dalla quota di azioni americane.
Se faccio l’inverso ottengo una stima del rendimento REALE, quindi 1 diviso 19,5 fa circa 5,1%.
Quali altri criteri si potevano usare?
Per esempio si poteva usare l’inverso dello Shiller CAPE Ratio.
Però intanto questo è un valore che si trova comodamente per le azioni americane, meno per le azioni globali.
Inoltre ha tutta una serie di problemi perché tende a sottostimare gli utili e parte dal presupposto che tutti i profitti siano distribuiti, mentre non considera il potenziale di crescita che deriva dal fatto che parte degli utili sono reinvestiti nelle stesse società.
Victor Haghani, un altro dei fondatori di Long Term Capital Management e molto legato a Merton, l’anno scorso aveva scritto un paper in cui proponeva una correzione del CAPE Ratio.
Per farla breve lui ha fatto vedere che storicamente il CAPE Ratio tende ad essere, diciamo, così, un 20% troppo pessimista.
Un’ulteriore alternativa potrebbe essere usare l’inverso del Trailing Price Earning Ratio, cioè usare il rapporto che c’è oggi tra prezzi e utili passati, non quelli attesi.
Questo dà un risultato un po’ più basso perché naturalmente l’attesa è che nel futuro gli utili crescano.
Impossibile dire quale sia meglio, nel file allegato ve li metto entrambi e vedete come variano.
A noi però non interessa solo il rendimento dell’asset rischioso, ma il premio al rischio, quindi l’aspettativa di rendimento reale MENO il rendimento reale di un investimento senza rischio.
Dato che parliamo di rendimenti reali, non prenderemo il rendimento atteso dei titoli di stato tout cour perché quello è nominale, ma useremo un’approssimazione.
Si potrebbe usare anche qui una media ponderata usando i TIPS decennali e i bund indicizzati all’inflazione, ma per farla semplice diciamo il rendimento reale risk-free sarà quello nominale meno 2,5%, che è una mia arbitraria stima dell’inflazione per prossimi anni.
Più lata di quella che vorrebbero Fed e BCE, ma non altissima.
4% meno 2,5%, 1,5% come tasso reale risk free.
Il premio al rischio dovrebbe essere quindi più o meno il rendimento reale atteso, a seconda del metodo che usate per calcolarlo tra quelli esposti sopra, meno questo 1,5%.
Cmq il file fa tutti i conti da solo
Io vi ho messo già dei dati di partenza, se non vi piacciono modificateli come vi pare.
SECONDA MOSSA: il rischio.
Perché per il rischio si prende la deviazione standard al quadrato?
Il motivo è che nelle equazioni usate da Merton per derivare la formula si usa la varianza, che appunto è la deviazione standard al quadrato.
Non è così importante comunque.
La deviazione standard dell’MSCI World degli ultimi 10 anni, dati di MSCI, è stata di circa il 15%.
Probabilmente quella storica è più elevata, ma per un motivo o per l’altro da almeno un decennio la volatilità sui mercati è più attenuata che in passato, però oggi non entriamo in questo discorso.
TERZA MOSSA: è forse quella più importante, cioè dobbiamo scegliere il coefficiente di avversione al rischio, che appunto è ciò che ci permette di identificare l’allocazione ottimale PER NOI nell’asset rischioso rispetto a ciò che massimizza la nostra utilità, la nostra soddisfazione, in maniera tale che non andiamo a prenderci del rischio ulteriore che non ci serve.
In altri termini: non andremo a mangiarci il quarto hambuger se già eravamo sazi al terzo.
Il quarto non ci darà soddisfazione e rischiamo di passare la notte in bianco con la citrosodina.
Come faccio a sapere che valore scegliere?
Allora ho cercato un po’ in giro e la maggior parte delle applicazioni che ho trovato della Merton Share usano valori compresi tra 2 e 5.
L’1 non si usa perché vorrebbe dire che siamo Neutrali rispetto al rischio, cioè siamo indifferenti rispetto al fatto di prenderci rischi o meno.
Invece la maggior parte delle persone con un accettabile equilibrio psicofisico ha una qualche forma di avversione al rischio.
Oltre a 5, invece, praticamente hai paura anche di alzarti dal letto al mattino.
Nel file troverete quindi una tabellina in cui ci sono tre righe, corrispondenti a:
Risk tolerance, cioè quanto rischio voglio prendermi senza star male la notte;
Risk capacity, quanto rischio posso prendermi rispetto al mio orizzonte temporale e infine
Risk need, quanto rischio devo prendermi per realizzare i miei obiettivi.
Bisogna inserire per ciascuno un valore compreso tra 2 e 5, dove:
2 significa: massima propensione al rischio e
5 ovviamente: minima propensione al rischio.
Occhio che sono al contrario.
Cioè numero basso vuol dire bassa avversione, ossia che voglio/posso/devo rischiare di più.
Automaticamente uscirà la media e di conseguenza l’asset allocation risultante.
Bello no?
Ammetto che non la conoscevo ancora quando ho pensato alla formula di The Bull per la prima volta.
E in effetti non è molto nota.
Penso che non si usi spesso per questi motivi:
intanto non è immediatamente intuitiva. Quella di The Bull si può spiegare in 5 minuti. Per quella di oggi ci ho messo più di mezz’ora e ho saltato una montagna di cose su cui dovrò tornare.
poi richiede tante assunzioni.
Quella di The Bull usa dati noti: l’età e il risk-free rate.
Quella di Merton richiede delle stime sui rendimenti attesi nonché sulla volatilità futura. Io qua ho preso quella degli ultimi 10 anni, ma nulla dice che sarà quella che avrò anche nei prossimi.
infine il suo più grande pro è anche il suo più grande contro. È dinamica. In ogni momento x la vostra allocation dovrebbe cambiare in base a come cambiano i parametri in gioco. Anche quella di The Bull è moderatamente dinamica.
Altri modelli di portafoglio, invece, tipo 60/40 o Golden o All Weather e così via sono fatti per essere set it and forget, una volta impostati ribilanci periodicamente ma tiene sempre quell’asset allocation.
Qui invece l’asset allocation cambia man mano che cambiano rendimenti attesi, volatilità e il nostro rapporto con il rischio rispetto alla nostra funzione di utilità.
Ora, a questo punto abbiamo un problema di sovrabbondanza di modelli.
Dopo 185 episodi ci ritroviamo con:
Una sbadilata di portafogli Lazy;
La formula di The Bull;
Il file per costruire un portafoglio Goal Based e infine
Il file di oggi che utilizza la formula di Merton.
E voi direte?
E mo’? come faccio a sapere cosa usare?
Eh… figuratevi al millesimo episodio di The Bull cos’avremo!
Comunque tutti i modelli sono perfettamente validi.
Vi propongo quello che io stesso faccio con il mio portafoglio.
O meglio, non è che ogni mattina mi alzo e rifaccio sta roba, per me è ormai un processo piuttosto continuo, però diciamo che se dovessi fare oggi una review del mio portafoglio proverei a impostarlo utilizzando i tre modelli e poi li confronterei l’uno con l’altro per fare dei doublecheck.
Quando aprirete il file troverete inseriti dei dati che sono quelli che riflettono la mia situazione.
Più o meno.
Poi come è fatto davvero il mio portafoglio ve lo racconto una delle prossime puntate.
Vi ho inoltre aggiunto anche il file dell’episodio 175 nella seconda pagina, così avete tutto assieme.
Se prendo la mia situazione personale, devo dire che i tre metodi portano più o meno al medesimo risultato.
O meglio: se per il rendimento atteso della regola di Merton uso il forward PE sono tutti allineati, se uso il trailing PE, invece, dice che ho un po’ troppe azioni.
Però non c’è una distanza abissale.
Se invece usando un metodo vi esce una certa asset allocation e usandone un altro vi esce qualcosa di completamente diverso, beh allora è un esercizio utile per capire se c’è qualcosa che non state considerando.
Magari pensate di voler investire spingendo a 200 all’ora sugli asset rischiosi e poi si scopre che avete certi obiettivi entro certi orizzonti temporali che non si accordano bene.
O magari pensate di avere una propensione al rischio molto bassa, ma poi scoprite che in realtà avete una capacità e una necessità di assumervi rischi alta, cosa che vi porta a rivedere il vostro punto di partenza.
Ah una cosa.
Nel file io ho dato per scontato che l’asset rischioso sia l’MSCI World.
Ovviamente metteteci quello che volete.
Secondo questo modello, se per esempio mettete l’S&P 500 invece dell’MSCI si abbasserà la quota azionaria perché l’earning yield sarà inferiore.
Non sono certo invece sia corretto inserire singoli mercati locali.
Per esempio, se mettete solo l’MSCI Europe, il modello vi suggerirebbe di alzare tantissimo l’esposizione azionaria, dato che i prezzi sono bassi e quindi l’earning yield è più alto.
Ma noi sappiamo che i prezzi bassi delle azioni europee vogliono dire due cose:
Che i rendimenti attesi potrebbero essere superiori;
Ma anche che il rischio è superiore.
Suppongo invece che il modello funzioni bene se ho una rappresentazione generale del mercato, non di una sua specifica parte.
Bene, a questo punto non vi resta che andare nella descrizione dell’episodio, cliccare sul link, fare una copia del file in Google Sheet e modificarlo in base alle vostre preferenze.
Sono rimasti alcuni temi in sospesi, tra cui come utilizzare questo modello se invece abbiamo più asset, ma di questo parleremo in uno dei prossimi episodi.
Per il momento ci salutiamo qui, spero che quest’episodio vi sia piaciuto e che anche questo nuovo strumento vi aiuti a diventare investitori migliori.
Come sempre vi invito a mettere segui e attivare le notifiche su spotify apple podcast o dove ci ascoltate e a lasciare una recensione a 5 stelle per supportarci e permetterci di continuare a produrre contenuti che sfornano formule e file per aiutarvi a pianificare le vostre finanze con buon senso e un sacco di colori sempre nuovi.
Per questo episodio invece è davvero tutto e noi ci risentiamo mercoledì prossimo con un episodio che non potete perdervi – o forse sì, dipende da quanto vi interessa quello che faccio io con il mio portafoglio – sempre qui naturalmente con The Bull il tuo podcast di finanza personale.
Recensioni
Quando capisci come funziona la finanza… ti viene voglia di raccontarla!
Veramente veramente raccomandato! la finanza personale riassunta alla perfezione! e spiegata partendo dall'ABC! Ottimo anche da ascoltare a velocita 1,5x!
Giorgia R., 23 Gen 2025Podcast che dà sempre spunti interessanti che personalmente mi ha fatto appassionare alla finanza personale spingendomi ad approfondire in prima persona.
Lorenzo, 13 Mar 2025Ho seguito tutte le puntate! Grazie veramente
Amalia A., 17 Set 2025Da quando l'ho scoperto in 15 gg mi sono ascoltato 150 puntate senza fermarmi, ho annullato gli altri podcast per portarmi alla pari ed ascoltare tutte le precedenti puntate, ben fatto, esattamente il livello di informazione che mi serviva
Gianluca G., 11 Set 2025Veramente interessante, chiaro e conciso. Cambia la vita finanziaria di chiunque.. da ascoltare assolutamente anche per chi di finanza non vuole occuparsi mai
Francesca B., 6 Apr 2024Riccardo mi ha letteralmente cambiato la vita e fatto scoprire che amo la finanza, ho ascoltato il podcast già due volte e non mi stufo mai di ascoltarlo, parla in modo semplice e chiaro
Massimo D., 23 Set 2025La mia ignoranza in materia mi ha sempre creato dei dubbi, ma grazie a un amico ho iniziato ad ascoltare il podcast. Per fortuna che ho 24 anni e un po' di tempo e soldi da dedicarmi a imparare le varie nozioni per me stesso. Grazie mille!
Luca G. 10 Ott 2025Podcast piacevole, scorre veloce ma in modo estremamente chiaro, spiega i concetti chiave per gestire le proprie finanze, fornendo la classica cassetta degli attrezzi. Complimenti, davvero ben fatto!
Massimiliano, 29 Mag 2024Ho acquistato e letto il suo libro e l' ho trovato. Esprime i concetti economici in modo semplice e chiaro. Sentirlo parlare conferma che è un professionista del settore.
Giulia N., 11 Ago 2025