Come funziona e come gestire il Rischio Valutario nei nostri Portafogli

Il Rischio Valutario è una minaccia silenziosa nel portafoglio, che può incidere in maniera significativa sulla performance dei nostri investimenti non denominati in euro. Capiamo come funziona e quali sono le migliori strategie per sfruttare a nostro vantaggio questo rischio.

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39 minuti
Come funziona e come gestire il Rischio Valutario nei nostri Portafogli

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Punti Chiave

Il rischio valutario (es.Euro/Dollaro) impatta i rendimenti degli investimenti globali; gli ETF hedged lo coprono, ma con costi (carry).

Per l'azionario meglio cambio aperto; per le obbligazioni globali, la copertura è spesso più utile.

Trascrizione Episodio

Bentornati a The Bull — il tuo podcast di finanza personale.

Ci sono argomenti che sono sempre rimasti un po’ sullo sfondo in questo podcast, un po’ come il personaggio da colpo di scena che per tutto il film si intravede ma quasi non ci si fa caso e poi alla fine salta fuori che il colpevole era sempre stato lui!

Non so se qualcuno di voi ha mai visto i primi film della saga di Saw, che qua in Italia è noto come l’Enigmista, forse ne avevo già parlato, boh, non ricordo comincio ad avere un’età…

Dal 4° in poi diventa noioso e sfiora il ridicolo.

Ma i primi 3 non erano male.

Il primo in particolare mi è sempre piaciuto e il suo colpo di scena finale è tra i miei preferiti di sempre.

Forse però lo sto un po’ spoilerando per chi non l’ha visto.

Va beh, come se non avessi detto nulla.

Guardatevi il film, prendetevi la giusta dose di strizza che vi susciterà e poi vedete se il finale anche a voi fa quest’effetto “no, non ci sarei mai arrivato!”.

Anche se può essere che sia io che non sono particolarmente perspicace.

Comunque tutto sto pippone sulla saga di Saw per dire cosa.

Per dire che, mettiamola così, in tutta la nostra saga alla ricerca del portafoglio perfetto, è come se ci fosse un’ombra cattiva che aleggia su tutti noi, una minaccia latente tanto più pericolosa quanto più ignorata, che per ora abbiamo lasciato un po’ nel dimenticatoio.

Questa minaccia silenziosa è il rischio valutario, ossia il fatto che noi investiamo in Euro in asset denominati in altre valute e, naturalmente, il gigantesco elefante nella minuscola stanza che ho pressoché finto di non vedere sinora è il discorso del cambio con il Dollaro.

Ora, come sapete bene, e se non lo sapete colpa mia che spiego male le cose, in finanza il rischio è sempre a due facce.

Rischio significa innanzitutto variabilità.

E la variabile in questo caso è che il cambio tra l’euro e le altre valute in cui investiamo può essere per noi positivo o negativo, cioè può portare extra rendimento oppure mangiarci via del rendimento.

E non è banale.

Nel senso che le oscillazioni tra le valute, pur tra valute forti come Euro e Dollaro, ci sembrano sempre piuttosto contenute.

Ma in realtà l’impatto nel lungo termine potrebbe essere massivo.

Perché mi sono svegliato adesso a parlare di questa cosa mi chiederete.

Se era importante, forse era il caso che ce la dicessi tipo 150 episodi fa.

Sì è vero.

Però è anche vero che, come spero si capirà alla fine dell’episodio, probabilmente ciò non vi avrebbe fatto prendere altre decisioni.

Oggi però due cose sono cambiate.

La prima è che possiamo parlare liberamente di concetti un filo più tecnici, mentre nei primi episodi c’era il rischio di over complicare le cose per niente.

In secondo luogo, come dire, il mondo sta cambiando.

Fondamentalmente negli utlimi 10 anni abbiamo avuto un unico trend rilevante: il dollaro che si è gradualmente rafforzato nei confronti dell’euro in maniera praticamente a senso unico.

Nel maggio del 2008 con un euro compravi 1,58 dollari.

Oggi 1,05.

E in realtà nell’autunno del 2022, quando la Fed alzo per prima, e in misura maggiore, i tassi di interesse rispetto alla Bce, si arrivò addirittura ad un euro che valeva poco meno di un dollaro.

Dicevo però che il mondo sta cambiando.

E una cosa che sta sicuramente cambiando e il coordinamento globale tra le politiche monetarie delle principali banche centrali.

Cosa vuol dire sta roba?

Vuol dire che dopo la Great Financial Crisis tutte le banche centrali dei paesi sviluppati, quindi Fed, Bce, Bank of England e Bank of Japan, per citare le più importanti, erano andate ad azzerrare i tassi di interesse, con casi clamorosi come i tassi negativi della Banca del Giappone che tali sono rimasti fino all’anno scorso.

Poi quando c’è stato tutto il macello che sapete bene post covid e post guerra in Ucraina, con l’inflazione alle stelle in tutto il mondo occidentale, più o meno all’unisono tutte le banche centrali, chi più chi meno, hanno alzato i tassi di interesse.

E una volta che l’inflazione si è raffreddata nel 2023, a partire dallo scorso anno Fed, Bce e Bank of England hanno cominciato a tagliare i tassi.

Non il Giappone però, che invece non li aveva proprio mai alzati e invece a partire da agosto ha ricominciato ad avere tassi positivi. Bassissimi, 0 virgola, ma positivi.

E ricorderete bene che il 5 agosto è venuto giù il finimondo perché quando la Bank of Japan ha alzato i tassi e lo Yen si è rafforzato nei confronti del dollaro, tutti quegli investitori che si erano indebitati in Yen per investire in asset denominati in dollari hanno dovuto svendere buona parte dei loro investimenti per ripianare i debiti.

Se non avete capito una cippa di quel che sto dicendo andate a riascoltarvi l’episodio del 7 di agosto, fatto in fretta e furia mentre mi trovavo al mare per spiegare perché questo oscuro fenomeno chiamato Carry Trade avesse fatto collassare le borse, con Tokyo che quel girono fece -13%, seconda peggior seduta della sua storia.

Oggi però anche tra le Banche più tipicamente coordinate, cioè Fed e quelle Europee, inizia ad esserci un po’ di scollamento.

Per non parlare poi del fatto che alla Casa Bianca c’è un tizio che un giorno vuole una cosa e il giorno dopo firma un provvedimento che va nella direzione opposta.

Il tizio è facilmente riconoscibile perché da un mese a questa parte praticamente conosce una parola sola: Tariff. Che in italiano suonerebbe Dazi.

Canada dazi!

Messico dazi!

Cina un po’ di dazi!

Europa, dazi dazi dazi!

Acciaio? Dazi!

Automobili? Dazi!

Questo tizio, che da un mesetto abita al 1600 di Pennsylvanya Avenue, Washington, District of Columbia, sappiamo che vuole due cose.

Da un lato vuole favorire, a suo dire, le aziende americane imponendo dazi alle importazioni e tagliando le tasse — e già che c’è far fuori un po’ di immigrati.

Dall’altro vuole che la Fed tagli i tassi di interesse e in generale vuole indebolire il dollaro per favorire le esportazioni americane e riequilibrare la bilancia commerciale con gli altre parnter esteri, perché sempre a suo dire gli altri esportano troppo in America e l’America esporta troppo poco per esempio in Europa.

Il problema, come abbiamo detto anche in passato, è che tutte queste cose che intende fare, sembrano il manuale di istruzioni per far salire l’inflazione e rafforzare il dollaro.

Se per esempio metti i dazi e rafforzi l’economia interna, il dollaro si rafforza perché attrae capitali.

Se mandi via gli immigrati sottopagati aumenti il costo del lavoro, che ha un impatto sull’inflazione e sulla forza della valuta.

Se tagli i tassi di interesse in un momento in cui l’economia americana corre forte e l’inflazione è tutt’altro che sedata, che succede? Che aumenterà l’inflazione e si rafforzerà il dollaro.

Quindi non mi è chiaro.

Anche se sappiamo che i dazi vengono minacciato ogni giorno, ma non è ancora chiaro quali verranno applicati e quali invece serviranno per ottenere concessioni su altre cose, come ad esempio l’impegno di comprarsi montagne di Treasury per continuare a finanziare il mostruoso deficit del bilancio federale.

Il punto qual è però?

Il punto è che il suo obiettivo ad un certo punto sarà avere un dollaro più debole.

Dall’altra parte, tuttavia, come dicevo prima le banche centrali stanno cominciando ad avere comportamenti poco coordinati tra di loro, perché riflettono tre economie in diverse condizioni di salute.

Gli Stati Uniti, lo sappiamo, hanno un’economia ancora molto forte e quindi la Fed ha fatto capire a chiare lettere di non aver fretta di tagliare i tassi di interesse.

L’Europa al contrario non è che proprio scoppi di salute, con la Germania nel suo secondo anno di recessione e gli altri grandi paesi che stentano. La scommessa più accreditata è quindi che da qui a fine anno i tassi della BCE potrebbero scendere ancora di 50-75 basis point, allargando così la forbice con quelli americani.

Dall’altra parte del mondo invece abbiamo un’altra storia ancora.

Ossia il Giappone sembrerebbe orientato ad un lento rialzo dei tassi di interesse.

I tassi di interesse tendono ad avere un impatto sulla forza di una valuta.

Se in Europa i tassi scendono e in America no è possibile che l’euro si svaluti ulteriormente nei confronti del dollaro (oltre che dello Yen).

Non è una cosa meccanica, ma possibile.

D’altro canto Trump farà tutto quel che è in suo potere, anche forse con modalità non convenzionali, per ridurre la forza del dollaro.

In generale si potrebbe chiedere perché i tassi di interesse incidono sulla forza relativa di una valuta.

La risposta ha diverse sfaccettature, ma in linea di principio il concetto è che i tassi di interesse sono la leva che una banca centrale usa per determinare la quantità di moneta in circolazione.

Se i tassi scendono, come per esempio durante il covid, aumenta la liquidità nel sistema economico perché prendere soldi in prestito diventa meno costoso.

Viceversa quando i tassi salgono, la quantità di moneta in circolazione si riduce per il motivo inverso.

Per la legge della domanda e dell’offerta, se riduci la quantità di un bene, il tuo prezzo tenderà a salire.

Allo stesso tempo, un rialzo dei tassi significa che è possibile ottenere rendimenti più elevati in quella valuta.

Questa cosa di per sé attrae capitali e aumenta la domanda di quella valuta.

Inoltre io potrei indebitarmi in una valuta con bassi tassi di interesse e investire in asset denominati nella valuta con rendimenti più alti.

Solito classico esempio di carry trade: mi indebito in yen e investo in Treasury.

Insomma i rapporti tra le principali coppie di valute, legati a doppio filo all’andamento dei tassi d’interesse e dei mercati obbligazionari di Stati Uniti, Europa e Giappone (oltre che di Regno Unito, Svizzera e altre importanti banche centrali) saranno una variabile significativa sui mercati per tutto il futuro prevedibile.

Ora come impattano le valute sui nostri investimenti?

Eh impattano.

Impattano parecchio.

Partiamo dalla regola generale: se si rafforza la valuta del sottostante, il mio investimento aumenta di valore. Viceversa se si rafforza la valuta in cui investo, il mio investimento diminuisce di valore.

Chiaro?

Se investo, giusto per dirne uno a caso, sull’S&P 500, il mio ETF aumenta di valore se il dollaro si rafforza, mentre il suo prezzo scende se è l’Euro a rafforzarsi (o il dollaro a indebolirsi, a seconda di come volete vedere la cosa).

Di quanto però?

Veniamo alla matematica.

Allora, sto per dire una cosa sbagliata, quindi matematici e affini all’ascolto non cazziatemi, voglio solo dare una regoletta di massima per capire come si muovono i prezzi dei nostri etf esposti appunto al dollaro, come nell’esempio di cui sopra.

Finché le variazioni sono contenute fare la somma algebrica tra la variazione del prezzo del sottostante e la variazione del cambio euro dollaro è una discreta approssimazione.

Non so, se quel giorno l’S&P 500 fa +0,7% e il cambio Euro Dollaro +0,3%, il che vuol dire che l’Euro si sarà rafforzato, probabilmente il prezzo del mio ETF si muoverà di circa 0,7-0,3 uguale circa 0,4%.

Ok?

Oppure al contrario se l’S&P perde 0,5% e il cambio Euro Dollaro fa -0,8%, allora -0,5+0,8 uguale circa 0,3%.

Ripeto, matematicamente è sbagliato, ma su piccole variazioni, che sono quelle più tipiche in ciascun singolo giorno di borsa, ci va molto vicino.

Il conto giusto per calcolare la variazione del prezzo dell’ETF sarebbe

(1 + variazione dell’S&P 500) DIVISO (1 + variazione del cambio Euro /Dollaro) MENO 1

Se riprendo il primo esempio viene.

– L’S&P quel giorno fa +0,7%

– Il cambio euro/dollaro fa +0,3%

Quindi la formula sarebbe: (1 + 0,07) DIVISO (1 — 0,03) — 1 UGUALE 0,398%.

Facendo banalmente la sottrazione veniva 0,4%, per questo dicevo che su importi molto piccoli cambia poco e si fa prima.

La cosa importante da ricordare, come sempre quando si tratta di variazioni percentuali, è che la sequenza dei rendimenti conta.

Facciamo un esempio e prendiamo quel che ha fatto l’S&P 500 total return, quindi dividendi inclusi, dal 22 febbraio 2020 al 26 ottobre 2024 e confrontiamolo con un ETF europeo sull’S&P 500.

Tra poco capirete perché proprio queste date.

In quel periodo l’S&P 500 è cresciuto del 111%. L’ETF europeo che lo traccia del 116%.

E la motivazione va ovviamente individuata nella variazione del cambio.

La cosa apparentemente sorprendente, però, è che il 22 febbraio 2020 1 euro valeva 1,08 dollari. Nel febbraio 2024 1 euro valeva … 1,08 dollari.

Quindi nonostante il cambio in quei 4 anni e passa non sembra essersi praticamente mosso, il percorso che hanno fatto S&P 500 da un lato e cambio dall’altro hanno causato una divergenza di performance tra l’indice quotato in dollari e l’ETF quotato in Euro, a parità di sottostante.

Il motivo è che c’è un effetto cumulativo nelle fluttuazioni del cambio tra le due valute.

Pertanto, non è detto che la differenza di performance tra il mio ETF e il suo sottostante sia uguale alla variazione del tasso di cambio in un certo periodo di tempo.

Tra l’altro già che stiamo parlando delle fluttuazioni dei cambi tra valute, la cosa mi tocca particolarmente da vicino, e non solo per i miei investimenti, perché per esempio alcuni partner con cui collaboro mi pagano in dollari. E sapete con quale banca puoi creare dei conti in più di 30 valute all’interno dello stesso account per cambiare valute quando vuoi, con commissioni basse o inesistenti, oppure per ricevere pagamenti senza dover fare ulteriori cambi valuta? Con Revolut, la banca scelta da oltre 3 milioni di Italiani.

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Torniamo a noi.

Negli ultimi 15 anni noi Europei abbiamo sicuramente beneficiato del generale trend di rafforzamento del dollaro, tanto che dal maggio 2010 ad oggi un ETF Europeo sull’S&P 500 avrebbe reso quasi [80 punti percentuali in più che per uno americano.

80 punti percentuali in 15 anni è tanto.

Vuol dire che 10.000 $ investiti all’inizio sarebbero diventati circa 64.000; 10.000 € invece sarebbero diventati circa 72.000.

Quindi bene per noi.

Queste cose però sono cicliche.

Se il tizio di cui sopra riesce nell’intento di far indebolire il dollaro e lo scenario si invertisse, potremmo trovarci a lasciare per strada un punto e mezzo percentuale di rendimento composto all’anno.

Un’enormità!

La soluzione ovvia a questo potenziale rischio sembrerebbe facile, ossia: usare un ETF Hedged, con cambio coperto, ossia un ETF che annulla l’impatto del cambio tra le due valute.

Easy no?

Problema risolto.

Ovviamente non è così semplice, perché il piccolo problema di questa soluzione apparentemente semplice sono i costi.

Costi che non si vedono nel TER perché sono costi accumulati man mano, come capiremo tra poco.

L’impatto però dei costi di una copertura valutaria può essere estremamente elevato, quindi obiettivo di oggi è capire quando conviene e quando meno.

Intanto, come fa un ETF a “hedgiare” il cambio?

Senza entrare nel dettaglio tecnico che ci annoiamo tutti a morte, il concetto è che l’emittente dell’ETF ogni mese acquista un contratto derivato sulle valute chiamato forward. Non è l’unico modo ma credo sia il più diffuso.

Un forward non è altro che un contratto tra due parti per scambiare due valute a un tasso di cambio prefissato in una data futura.

Cosa succede quindi:

– Per esempio se parliamo di S&P 500, l’ETF scambia euro in dollari per comprare le azioni dell’S&P 500, che chiaramente sono in dollari;

– Poi per coprire il rischio di cambio, l’ETF fa un contratto forward che fissa il tasso di cambio tra euro e dollaro in una data futura, un mese dopo solitamente.

A questo punto cosa accade:

– Se il dollaro si deprezza rispetto all’euro, la perdita sul valore delle azioni in dollari viene compensata dal guadagno sul contratto forward, perché a quel punto il cambio che è stato fissato a inizio mese si fa più conveniente.

– Se invece il dollaro si apprezza, il guadagno sul valore delle azioni in dollari viene compensato dalla perdita sul contratto forward, dato che invece in questo caso il mio tasso di cambio diventa più sfavorevole.

Ok? In questo modo la performance dell’ETF in euro coincide sempre con quella del sottostante in dollari perché viene annullato l’effetto cambio.

C’è un però.

Come si fa a fissare il tasso di cambio da qui a un mese?

Cioè l’emittente dell’ETF e la banca o chi per essa che gli fa da controparte in questo contratto forward, come fanno a stabilire a che tasso verrà fissato il cambio euro/dollaro alla fine del mese?

C’è una formula.

Adesso ve la dico per completezza, ma non è importante capirla.

È importante solo capire che tutto ciò ha a che fare, ancora una volta, con sti benedetti tassi di interesse.

Il tasso forward si ottiene il tasso di cambio di oggi, chiamato tasso spot, e moltiplicandolo per Uno + il tasso di interesse a breve termine della mia valuta diviso Uno + il tasso di interesse a breve termine della valuta del sottostante, il tutto elevato a un dodicesimo, visto che sono contratti mensili e non annuali.

Ripeto, chissenefrega della formula.

L’unica cosa da capire è che la copertura valutaria ha un costo che dipende da cose.

La PRIMA è appunto la differenza tra i tassi di interesse.

Se il tasso sui depositi della BCE è 2,75% e quello della Fed è 4,25%, c’è un punto e mezzo percentuale di differenza.

Cosa comporta questa cosa?

Si dice che c’è un Cost of Carry.

Quando un investitore vuole coprirsi dall’esposizione verso una valuta estera è come se implicitamente “pagasse” il tasso estero e “ricevesse” in cambio il tasso domestico.

Il nostro ETF europeo, infatti, innanzitutto deve cambiare gli euro in dollari per comprare le azioni dell’S&P 500, quindi vende euro e compra dollari.

Se però per coprirsi utilizza un forward che fissa il tasso di cambio a un mese, se i tassi d’interesse europei sono più bassi di quelli americani, in pratica per coprirci dobbiamo vendere Euro a sconto.

Insomma, per farla breve, il differenziale di tassi di interesse è un costo implicito che dobbiamo sostenere per coprirci dal cambio.

In questo momento, appunto, tra Euro e Dollaro c’è circa un 1,5% di differenziale di tassi di interesse.

E questo è un costo che va ed erodere la performance del nostro ETF hedged.

C’è però anche un ALTRO elemento da considerare nel cost of carry, che si chiama cross-currency basis, che in pratica non è altro se non il costo che l’investitore paga per il contratto forward e questo si va ad aggiungere al differenziale tra i tassi di interesse.

Questo costo dipende dall’equilibrio tra domanda e offerta delle due valute.

Se c’è una maggiore richiesta netta di dollari invece che di euro, il costo per la copertura aumenta.

Breve recap essenziale per assicurarci che ci siamo capiti.

Un ETF Hedged annulla gli effetti del cambio, quindi ottiene la stessa identica performance del sottostante.

MA! Da questa bisogna togliere il cost of carry, dato che per coprirsi il nostro ETF vende Euro e compra dollari ad un tasso di cambio predeterminato che tiene conto del differenziale dei tassi di interesse e della quantità di domanda di dollari che c’è in generale nel mercato.

Di qui dovremmo giungere ad una conclusione abbastanza ovvia.

In linea di principio, se noi europei abbiamo una valuta con tassi di interesse più bassi della valuta da coprire, dollaro in questo caso, solitamente non conviene coprirsi.

Tra Europa a Stati Uniti c’è da parecchio tempo questo differenziale tra i tassi di interesse, che è il riflesso del fatto che l’economia americana è più dinamica e forte e quindi servono tassi di interesse più alti per tenere l’inflazione a bada.

Infatti il treasury decennale, nonostante sia l’asset più sicuro del mondo e abbia un rating tripla A (almeno per Moody’s), rende più di un Bund che ha rating sempre tripla A ma pure più di un BTP che ha un rating tripla B.

Giusto per fare un esempio, negli ultimi 5 anni un ETF hedged sull’S&P 500 avrebbe reso circa 23 punti percentuali in meno dell’S&P 500 Total Return, addirittura il 4% all’anno.

Nel confronto tra un ETF hedged e uno a cambio aperto, invece, negli ultimi 5 anni avrebbe lasciato per strada il 6% all’anno.

Abbiamo detto spesso che quando investiamo in azionario, soprattutto se l’esposizione principale è verso il dollaro, tendenzialmente la copertura ha poco senso perché:

– Di default abbiamo un costo di circa 1,5-2 punti percentuali all’anno da pagare come cost of carry, almeno finché c’è questa differenza di tassi di interesse tra BCE e Fed che, come dicevo all’inizio, sembra più destinata ad allargarsi che a chiudersi;

– Poi perché mi prendo un costo certo per un beneficio incerto e con il rischio di perdermi del rendimento supplementare. Io infatti dal cambio posso tanto guadagnarci quanto perderci. Ma con la copertura in pratica pago un costo certo per precludermi a priori la possibilità di avere un beneficio nelle fasi in cui il dollaro si rafforza;

– Inoltre c’è anche da dire che l’esposizione al dollaro è anche una sorta di hedge naturale, perché tipicamente in fasi ad alta tensione diventa una sorta di safe haven; certo magari oggi un po’ meno, infatti la Cina per esempio sta comprando montagne d’oro, che ricordiamo è denominato in dollari, per avere di fatto dollari che non sono sotto il controllo degli Stati Uniti. Però comunque in generale nelle fasi critiche il dollaro tende a rafforzarsi più dell’Euro, quindi, boh, fino a prova a contraria potrebbe fare da cuscinetto se i mercati americani venissero giù per qualche grave recessione globale.

Discorso diverso invece con altre valute.

La più interessante è forse lo Yen.

Qui abbiamo la situazione inversa, ossia tassi di interesse più bassi rispetto a quelli Europei.

In questo caso il carry, sulla carta, è vantaggioso perché al contrario del dollaro qui vendo euro ad un premium per comprare yen.

Negli ultimi 3 anni, cioè da quando nel 2022 è cominciata la grande divergenza tra la BCE e la Bank of Japan, perché noi abbiamo iniziato ad alzare i tassi a manetta per contrastare l’inflazione, mentre loro sono rimasti con tassi addirittura negativi, avere un ETF sul MSCI Japan con cambio coperto sarebbe stata la scelta vincente: +25% con cambio aperto, +58% con cambio coperto, in soli tre anni!

E questo la combinazione tra carry favorevole all’euro e yen che si è svalutato fino a poco tempo fa.

Quando le cose sono cambiate?

Ovviamente circa 6 mesi fa, nel caldo agosto in cui la Bank of Japan cominciò ad alzare i tassi di interesse contribuendo al rafforzamento dello Yen.

In questo periodo infatti mantenere il cambio aperto sarebbe stata la scelta vincente perché lo yen si è significativamente rafforzato rispetto all’euro.

Quindi abbiamo capito che ci sono due cose da tenere in considerazione nella valutazione complessiva sul rischio valutario.

– Una è il costo del carry determinato principalmente dal differenziale tra i tassi di interesse, con la regola generale per cui se la valuta da cui vogliamo coprirci ha tassi di interesse superiori ai nostri è tendenzialmente svantaggioso;

– L’altra è la direzione intrapresa dalle banche centrali che è un proxy della possibile evoluzione delle rispettive valute.

Poi chiaramente la cosa non è così netta, perché sappiamo che il mercato è una discounting machine, cioè una macchina che anticipa nei prezzi le aspettative future — e le valute non fanno eccezione.

Quando Trump ha vinto le elezioni con il suo programma Make America Great Again 2.0, il dollaro si è rafforzato in maniera drastica in un paio di mesi, da 1,10 dollari per un euro e 1,025, praticamente 7% da inizio novembre a fine dicembre.

Non è che fosse successo qualcosa alle Banche Centrali, anche se subito qualcuno ha giustamente pensato che la politica di Trump avrebbe rallentato il percorso di tagli della Fed, nonostante lui apertamente dica che la Fed deve abbassare i tassi.

Semplicemente il mercato ha iniziato a scontare che un’economia molto forte pompata da dazi e tagli delle tasse avrebbe rafforzato il dollaro.

Oggi in realtà la cosa si è un po’ smussata, da inizio anno il dollaro si è un po’ indebolito rispetto all’euro perché, boh e chi lo sa.

Da un lato forse perché il mercato sconta che Trump in qualche modo otterrà un indebolimento del dollaro, con le buone o con le cattive, anche al costo di imporre agli altri principali Paesi una svalutazione concordata, cosa già accaduta in passato, dato che un dollaro troppo forte non fa comodo a nessuno.

Dall’altro, l’ipotesi che l’unione europa potrebbe dover aumentare il suo debito comune per finanziarie spese di difesa militare ha fatto salire notevolmente i rendimenti obbligazionari a medio lungo termine e questo ha portato anche l’Euro a risalire un po’.

Ora, detto tutto questo e capito sia che la valuta ha un impatto rilevante sulla performance dei nostri investimenti, sia quali sono i meccanismi principali sottesi, cosa conviene fare per i nostri investimenti azionari?

Distinguiamo la risposta in due parti, nel breve e nel medio termine.

Nel BREVE TERMINE, fondamentalmente niente.

Noi siamo tipicamente esposti a quattro valute principali: Dollaro, Yen, Sterlina e Franco svizzero, a meno qualcuno di voi non abbia curiose allocation che sovrappesano mercati strani.

Ovviamente la partita più importante è quella sul dollaro, che da solo peserà circa 2/3 del nostro portafoglio, mentre Yen, Sterlina e Franco rappresenteranno si e no il 15%.

Dicevo nel breve probabilmente non è particolarmente conveniente hedgiare nulla perché il differenziale dei tassi di interesse tra Euro e Dollaro è molto e destinato ad allargarsi, almeno nel 2025, così come è elevato anche tra Euro e Sterlina, che ha tassi di interesse simili a quelli americani.

Giappone e Svizzera hanno tassi più bassi.

Però sono entrambe valute considerate safe haven, quindi valute che in momenti di crisi tendono ad apprezzarsi, e inoltre il Giappone, come detto, in questo momento è più in una fase di politica monetaria restrittiva che non espansiva, pertanto è più probabile che lo Yen si rafforzi sull’Euro che non il contrario — anche qui, almeno nel breve.

Quindi in questo momento non sembra ci siano particolare motivazioni perché i costi di una copertura valutaria siano chiaramente compensati da un qualche beneficio superiore.

Nel MEDIO TERMINE, invece, il discorso potrebbe essere un po’ diverso.

Per chi vuole una versione pro sulle strategie di copertura valutaria che si possono implementare per il proprio portafoglio consiglio l’articolo del mio illuminato amico Nicola Protasoni dal titolo The Best Strategies for FX Hedging, che vi linko in descrizione.

Nicola riprende un paper del Man Institute e spiega tre strategie che lui definisce “semplici” per ottimizzare la copertura valutaria.

Caro Nicola, il tuo concetto di “semplice” non è esattamente nazional-popolare, però sicuramente le idee sono molto valide.

Delle tre, in effetti la prima è estremamente semplice e chiunque può implementarla nel proprio portafoglio in una sola mossa.

Lo studio di Man mette in evidenza il fatto che il differenziale tra i tassi di interesse, quindi il Carry, è la variabile principale in questo discorso che stiamo facendo.

Quindi massimizzare il carry significa, in media, ottenere il miglior rendimento al netto delle fluttuazioni valutarie.

E massimizzare il carry, per farla semplice, cosa significa?

Significa coprirsi verso valute che in media hanno tassi di interesse più bassi dell’Euro e al contrario lasciare il cambio aperto verso valute con tassi di interesse più elevati.

Fa giustamente notare Nicola che per un europeo che investe nell’azionario globale, avrebbe quasi sempre avuto senso investire con cambio aperto, mentre un inglese avrebbe quasi sempre fatto meglio a coprirsi, visto la forza relativa della sterlina nella storia.

La soluzione che lui propone, come regola generale, è molto intuitiva.

Ammettiamo di investire nell’MSCI World — Nicola considera solo il mondo sviluppato, non gli emergenti — sarebbe sufficiente calcolare la percentuale di Paesi con i tassi di interesse maggiori o uguali a quelli dell’Euro (quindi va inclusa la quota di Paesi dell’Eurozona) e di conseguenza calcolare la percentuale di esposizione verso Yen, Franco Svizzero e così via che hanno tassi di interesse inferiori a quelli dell’eurozona.

Non mi sono messo a fare i conti precisi, però diciamo che a spanne il 90% è il peso del primo blocco, tassi di interesse maggiori, mentre 10% è il secondo blocco.

Se io voglio investire, che ne so, 100.000 € nell’MSCI World potrei fare:

– 90.000 € in un ETF classico su MSCI World; e

– 10.000 € in un ETF su MSCI World Hedged.

Finché però il peso degli Stati Uniti resta così esorbitante — o finché i tassi Europa restano mediamente più bassi rispetto alle altre principali valute tranne Yen e Franco — la copertura valutaria non sembra una necessità fondamentale nel portafoglio.

Se però un domani, che ne so, il peso degli Stati Uniti scende al 40% e il Giappone va al 20%, oppure i tassi in Europa vanno al 4% e quelli della Fed al 2%, ecco forse lì conviene tenere a mente questo discorso.

Mi rendo conto che sia una cosa un po’ evoluta, non tanto nell’implementazione, quanto nel fatto di dover seguire l’andamento delle varie politiche monetarie, ma dato che ormai siete tutti investitori quasi professionali è giusto sapere anche queste cose.

Nell’articolo Nicola commenta anche altre due strategie, che però appunto sono “semplici” in senso molto lato.

La prima è una sorta di trend following e dice che se per esempio il dollaro si è rafforzato sull’euro negli ultimi 12 mesi, conviene mantenere cambio aperto perché il trend tende a perdurare.

Quindi, in teoria facile, però bisogna stare a calcolarsi i rolling return degli ultimi 12 mesi di tutte le valute nel nostro portafoglio.

La seconda segue un approccio Value, che consiste nel lasciare il cambio aperto se il tasso di cambio spot con la valuta in cui è denominato l’asset in cui investiamo è inferiore al tasso di cambio calcolato dall’OCSE in base al principio di Purchase Power Parity. E viceversa.

L’idea è che se il tasso di cambio corrente per esempio tra euro e dollaro è diverso da quello calcolato dall’OCSE che cerca di equalizzare il potere d’acquisto delle differenti valute eliminando le differenze nei livelli di prezzo dei singoli Paesi, allora i due tenderanno a convergere nel futuro.

Quindi se per caso il dollaro appare più forte rispetto a quel che dice l’OCSE teoricamente dovrebbe indebolirsi e viceversa.

Sì lo so.

Non è esattamente una cosa che fai con la mano sinistra mentre fai colazione.

Di queste tre, però, ricordarsi il discorso del carry sarebbe già tanta roba, perché storicamente, almeno stando ai dati del Man institute, sembra funzionare bene.

Fatto tutto questo discorso, però, sono importanti due precisazioni.

Che sono anche due buone notizie, per lo meno per quanto riguarda la semplificazione delle nostre attività come investitore.

PRIMA PRECISAZIONE.

Se noi investiamo nell’S&P 500 siamo esposti al dollaro, pacifico.

Così come siamo esposti alla sterlina se investiamo nel FTSE 100.

E via dicendo.

Ma conta anche tanto da dove arriva il fatturato di quelle società.

Ricordiamoci che il prezzo di un’azione esprime il valore presente dei flussi di cassa futuri, che sono una funzione degli utili che la società genera.

Ma se una società esporta in maniera significativa la sua azione è sì denominata nella valuta locale, ma i suoi utili sono il risultato netto dell’esposizione di quella società ai mercati in cui esporta.

Nicola fa sempre l’esempio che se un Europeo investe con cambio coperto sul FTSE 100, quindi sul mercato inglese, sarà sì coperto verso la sterlina, ma dato che il FTSE 100 è pieno di aziende che esportano negli Stati Uniti, di fatto quell’investimento sarà indirettamente esposto al dollaro.

Cosa vuol dire questa cosa?

Vuol dire che in un mercato caratterizzato soprattutto da grandi aziende globali che esportano in tutto il mondo noi comunque abbiamo un’inevitabile esposizione generale a diverse valute e quello che vediamo quotidianamente per esempio nel cambio euro dollaro che condiziona il prezzo del mio ETF sull’S&P 500 è solo la punta dell’iceberg.

Gli utili di Apple infatti sono in dollari, ma Apple vendo gazilioni di iPhone in mercati che non usano il dollaro. Di conseguenza nel prezzo di Apple c’è già dentro una buona dose di esposizione valutaria.

Quindi diventare matti ossessionandosi per sta cosa del cambio, beh, diciamo che oltre un certo limite non ne vale la pena.

La SECONDA PRECISAZIONE è che tutti gli studi e i backtest sul discorso del rischio valutario hanno un problema. Considerano il time weighted rate of return, ossia i rendimenti che si sarebbero ottenuti tramite un investimento fatto in un momento x e poi lasciati correre per n anni.

Noi però non investiamo così.

Nella fase di accumulo investiamo tipicamente un po’ per volta ogni mese o comunque ogni qualvolta abbiamo soldi da investire.

Ogni tanto qualche investimento lo disinvestiamo perché ci servono i soldi.

Infine nella fase di retirement andiamo a decumulare o comunque a spendere i nostri investimenti.

Di conseguenza, così come un PAC media il prezzo di acquisto di un titolo, allo stesso modo media anche la volatilità che deriva dalle variazioni dei cambi.

Se ho un PAC su asset esposti al dollaro e questo si indebolisce, il mio ETF perde valore ma allo stesso tempo io vado avanti a comprare a prezzi più convenienti via via.

Al contrario se il dollaro si rafforza, il mio ETF acquista valore ma io compro a prezzi più elevati.

Il fatto che investiamo o disinvestiamo un po’ per volta finisce per mediare, almeno entro certi limiti, gli effetti del rischio valutario.

Anche per questa ragione, ok ricordarsi che c’è l’effetto cambio, ma anche che per via del modo in cui investiamo, forse non incide così tanto come può sembrare.

Un’ultima cosa prima di chiudere.

Abbiamo parlato solo di azioni finora.

Long story short la tesi è: meglio il cambio aperto, eventualmente aggiustato per il discorso del Carry.

Sulle obbligazioni invece il discorso è un po’ diverso.

Molti di voi ogni tanto mi fanno vedere portafogli in cui hanno X ETF azionari e poi magari un ETF sui Treasury.

Ora, investire in Treasury non è né giusto né sbagliato.

Ma i Treasury sono denominati in dollari.

Quindi se io investo in Treasury con l’idea di avere un asset relativamente sicuro e poco volatile come uno si aspetterebbe da un titolo di Stato, ecco ricordiamoci che però la volatilità del cambio euro dollaro farà sì che il mio investimento obbligazionario alla fine avrà la volatilità dell’azionario.

Inoltre c’è un’importante differenza tra azioni e obbligazioni.

Teoricamente il rendimento atteso dalle azioni è più elevato e quindi il rischio valutabile, nel grande schema delle cose, è accettabile se investo in un asset che di per sé è già volatile.

A volte questa volatilità si aggiungerà ai rendimenti, a volte mi giocherà contro.

Però ci sta.

Con le obbligazioni mica tanto, perlomeno nella misura in cui mi aspetto magari un rendimento del 3% con una volatilità del 6% e poi finisco per ritrovarmi con una volatilità del 15%.

Sulle obbligazioni, quindi, è molto più frequente investire a cambio coperto, perlomeno se uno vuole un’esposizione globale.

Allo stesso modo, questo è anche uno dei motivi per cui, diversamente dall’azionario, avere una concentrazione obbligazionaria su mercati denominati in Euro è un’idea piuttosto di buon senso.

È vero che un ETF sui titoli di stato europei a media scadenza rende circa 2,5-2,8% oggi, mentre un ETF sui treasury 4,5%.

Però quel 4,5% è puramente teorico.

In mezzo devo metterci la variabile imprevedibile del cambio euro dollaro.

Se come successo a novembre e dicembre il dollaro è cresciuto del 7% sull’euro e oggi accadesse il contrario, il solo effetto del cambio andrebbe a mangiarsi via molto più dell’intero rendimento atteso.

Quindi sulle obbligazioni occhio alle esposizioni valutarie, non sempre il gioco vale la candela.

Bene cari miei, fine anche dell’episodio di oggi, spero vi sia piaciuto e che vi abbia chiarito qualche dubbio residuo che si era insinuato nella vostra testa e che turbava i vostri animi.

Prima di lasciarci, vi invito come sempre a mettere segui e attivare le notifiche su Spotify, Apple Podcast o dove ci ascoltate e a lasciare una recensione a 5 stelle per supportarci e permetterci di continuare a produrre contenuti in cui sembra che Carry sia una cosa brutta come nell’omonimo horror di Stephen King, mentre in realtà è una cosa bella come nell’omonima canzone degli Europe, sempre nuovi

Sì lo so in questi due casi Carrie si scrive con ie finale, non con la y, ma tanto questo è un audio, non si vede come sono scritte le parole.

Per questo episodio invece è davvero tutto e noi ci vediamo mercoledì prossimo per un nuovo appuntamento insieme in cui scalderò i vostri animi più focosi parlando del mondo obbligazionario e rispondendo ai tre più grandi dubbi che mi avete manifestato in tantissimi in questi mesi, sempre qui, naturalmente con The Bull — il tuo podcast di finanza personale.

Recensioni

Quando capisci come funziona la finanza… ti viene voglia di raccontarla!

Da quando l'ho scoperto in 15 gg mi sono ascoltato 150 puntate senza fermarmi, ho annullato gli altri podcast per portarmi alla pari ed ascoltare tutte le precedenti puntate, ben fatto, esattamente il livello di informazione che mi serviva

Gianluca G., 11 Set 2025

La mia ignoranza in materia mi ha sempre creato dei dubbi, ma grazie a un amico ho iniziato ad ascoltare il podcast. Per fortuna che ho 24 anni e un po' di tempo e soldi da dedicarmi a imparare le varie nozioni per me stesso. Grazie mille!

Luca G. 10 Ott 2025

Podcast che dà sempre spunti interessanti che personalmente mi ha fatto appassionare alla finanza personale spingendomi ad approfondire in prima persona.

Lorenzo, 13 Mar 2025

Riccardo mi ha letteralmente cambiato la vita e fatto scoprire che amo la finanza, ho ascoltato il podcast già due volte e non mi stufo mai di ascoltarlo, parla in modo semplice e chiaro

Massimo D., 23 Set 2025

Non sono solito a mettere recensioni e specialmente non ascolto podcast, ma da quando ho iniziato questo, faccio fatica a staccarmi, e quasi non posso più fare a meno di ascoltare e arricchirmi culturalmente.

Andrea V., 22 Set 2025

Veramente interessante, chiaro e conciso. Cambia la vita finanziaria di chiunque.. da ascoltare assolutamente anche per chi di finanza non vuole occuparsi mai

Francesca B., 6 Apr 2024

Dovrebbero ascoltarlo buona parte degli italiani e io avrei dovuto scoprirlo con qualche anno in anticipo ma meglio tardi che mai

Matteo C., 3 Set 2025

Ho seguito tutte le puntate! Grazie veramente

Amalia A., 17 Set 2025

Veramente veramente raccomandato! la finanza personale riassunta alla perfezione! e spiegata partendo dall'ABC! Ottimo anche da ascoltare a velocita 1,5x!

Giorgia R., 23 Gen 2025
Facile.it
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