Le Azioni sono un terribile Investimento
Investire in singole azioni vuole dire sperimentare crolli superiori all'80% quasi con certezza. Gli sconvolgenti numeri dell'investimento azionario, perché è un'esperienza terribile e perché proprio per questo fa la differenza nel lungo termine.

Risorse
Punti Chiave
Il drawdown mediano di un'azione singola è 85%; oltre la metà non recupera mai.
Un calo del 95% richiede un aumento del 1900% per pareggiare la perdita.
Le dinamiche del mercato supportano l'investimento indicizzato e passivo.
Trascrizione Episodio
Bentornati a The Bull, il tuo podcast di finanza personale
Mi fa piacer che nell’ultimo episodio dedicato alle tre leggi della finanza per evitare errori stupidi uno dei punti che più ha colpito sia stata la battuta sull’ineluttabilità di quella legge fisica che vuole che la Juve perda ogni finale di Champions.
Certo, il timing dell’uscita dell’episodio in concomitanza con la finale di Champions di quest’anno con il senno di poi non era il massimo, ma trattandosi di legge universale, va bene in qualunque momento.
A scanso di equivoci e prima di urtare la sensibilità di qualcuno, dal 1997 al 2017 il mio prima giovane e poi sempre meno giovane cuore ha dovuto sopportare la bellezza di cinque finali perse di fila, una ogni 4,2 anni. Io, come un’altra buona decina di milioni di persone, ho sofferto abbastanza da essermi meritato il diritto di scherzarci sopra.
Skin in the game.
L’idea dell’ineluttabilità di quella legge si è purtroppo formata sulla mia pelle.
Lo scorso sabato sera tifosi di altri colori avranno certamente sofferto duramente.
Ma su con la vita.
C’è di peggio.
Avessi potuto scambiare quelle 5 finali perse con un’unica sconfitta 5 a zero avrei firmato con il sangue.
Però il calcio è così, poche episodiche gioie per compensare anni interi di sofferenze e qualche drammatico capitombolo (certo, a meno che non abiti dalle parti di Madrid e non hai avuto la sfiga di crescere in una famiglia che tifa Atletico; in quel caso vincere una Champions è diventata praticamente una formalità).
E così pure è il mercato azionario.
Come nel calcio, nessuno di promette niente.
Ci devi credere.
Ci devi credere per tutta la vita.
E in mezzo attraverserai un sacco di sofferenza.
Con una significativa differenza però.
Purtroppo, il calcio ti permette di tifare per una squadra sola. Non si può tifare per tutte le squadre d’Europa assegnando a ciascuna di esse una quantità di tifo proporzionale alla loro forza ogni anno. Il tifo indicizzato market cap weighted non l’ha ancora inventato nessuno.
Quando investi in azioni, invece, sappiamo bene che un po’ di sofferenza te la puoi risparmiare e soprattutto che le tue prospettive di rendimento a lungo termine migliorano investendo in tutto il mercato, piuttosto che in singole azioni — anche se alcune ti queste potrebbero renderti ricco come un calciatore in pochi anni, mentre un ETF sull’MSCI World ci metterà decenni prima di farti diventare milionario — ammesso e non concesso che ce la faccia mai.
Non so come sia stato possibile, ma lo scorso weekend, mentre mi trovavo in Sicilia per un matrimonio e sperimentavo una diversa forma di sofferenza che ha più a che fare con la combinazione giacca, cravatta e sole a picco, il mio cervello ha in qualche modo collegato l’esperienza della sofferenza calcistica con i contenuti dell’ultimo paper del sempre straordinario Michael Mauboussin, uscito il 21 maggio con il titolo Drawdowns and Recoveries.
Questo paper è già stato ripreso da mezzo mondo, perché quando Mauboussin scrive, esce sempre fuori qualcosa che merita di essere letto e commentato.
Però sticazzi, il paper è interessante, spiega in maniera perfetta l’essenza della sofferenza nell’investimento azionario, a me interessa molto di più raccontarvi cose utili per la vostra vita da investitori che essere originali e quindi eccoci qua: oggi parliamo del perché investire in azioni sia una terribile idea.
Questo è quello che più o meno ho scritto nel titolo dell’episodio.
Forse avrei dovuto aggiungere anche “e perché il fatto che sia terribile è il motivo per cui rende così tanto”.
Ma sappiamo che acchiappa più ascolti un titolo negativo di uno positivo.
Andiamo con ordine.
Prendo spunto da questo paper perché Mauboussin si è messo a fare il pelo e contropelo a 6.500 azioni quotate negli Stati Uniti dal 1985 al 2024 e ha tirato fuori una serie di statistiche pazzesche su quello che succede in media alle singole azioni nel corso della propria vita, guardando soprattutto a drawdown e recovery, cioè: quanto può andare giù il prezzo di un’azione, in che casi torna su e che conseguenze ha tutto ciò per l’investitore.
Questo episodio ha dunque i seguenti obiettivi:
– Spiegare da una nuova prospettiva cosa significa DAVVERO investire in singole azioni, che so che è una tentazione da cui nessuno di voi riesce a liberarsi;
– Spiegare come tutto ciò supporta la tesi dell’investimento indicizzato, passivo, o come vi piace chiamarlo e perché ha un senso rispetto a ciò di cui abbiamo parlato domenica a proposito della regressione verso la media, degli approcci contrarian, del factor investing o comunque vogliate chiamare l’idea di deviare in maniera sistematica da un indice per sfruttare alcune tendenze di fondo del mercato;
– Infine fare il recap di come sono andati i mercati a maggio, perché venerdì sono partito per il di cui sopra matrimonio e quindi dovevo chiudere l’episodio prima della chiusura dei mercati.
Partiamo dall’informazione più importante di tutto questo semplicissimo — e allo stesso tempo interessantissimo — paper che, ovviamente, trovate nella descrizione di questo episodio.
Aprite bene le orecchie e stampatevi questo dato in testa perché niente meglio di questo racconta quanto sia fottutamente difficile e potenzialmente doloroso investire in azioni: **il massimo drawdown mediano è dell’85%**.
Riformulo per i meno avvezzi a numeri e concetti di statistica base.
Se tu, caro il mio aspirante erede al trono di Warren Buffett o Peter Lynch, investi in un’azione a caso quotata negli Stati Uniti aspettati ad un certo punto di beccarti un crollo dell’85% del prezzo dell’azione.
L’azione è arrivata a 100 .
Brutto eh?
E questa discesa rovinosa non è che ci mette poi così tanto ma il valore mediano è di 2,5 anni, cioè la tua azione a caso che è capicollata giù dell’85% ci ha messo 2 anni e mezzo a sgretolarsi di valore
Ora, le azioni però tornano anche su giusto?
Beh, sì e no.
Purtroppo il recupero mediano della sfortunata azione in cui hai investito è di poco meno del 90%.
Quindi ricapitoliamo: se tu investi in una singola azione lo scenario mediano che puoi aspettarti è il seguente:
– Un calo del suo prezzo dell’85% della durata di circa 2 anni e mezzo
– E un parziale recupero fino al 90% del valore al picco precedente.
Questo però è lo scenario “mediano”.
E come sappiamo, medie e mediane sono sempre dei concetti un po’ birichini, perché celano le singole tragedie dentro il mucchio del campione più generale.
E la tragedia principale è infatti che più di metà delle azioni, il 54% per essere precisi, non torna più ai livelli del suo massimo precedente.
Per capire meglio però come tutto ciò si concilia con l’idea su cui vi ho fatto una testa tanta per due anni che il mercato nel suo insieme ha un rendimento atteso positivo nel lungo termine, facciamo un breve ripasso della differenza tra media e mediana.
Ammettiamo che prenda 99 di voi a caso e vi chieda il valore del vostro portafoglio.
Se sommo il valore di tutti i portafogli e divido per 99 ottengo il valore MEDIO dei vostri investimenti.
Se invece vi metto in fila da quello con il portafoglio più piccolo al più paperone tra voi, quello che si trova esattamente nel mezzo, in 49esima posizione, mi dà il valore MEDIANO.
Che differenza c’è?
La differenza è che se avete tutti dei portafogli simili, il dato medio mi darà una rappresentazione accurata della situazione media di ciascuno di voi.
Ma se tra voi c’è un portafoglio da 100 milioni di euro, mentre tutti gli altri viaggiano, che ne so, tra i 50 e i 200.000 euro, chiaramente la media sarà tutta sballata, perché con ogni probabilità il valore medio che viene fuori sarà di gran lunga superiore al patrimonio reale di tutti gli altri 98 partecipanti al test.
La mediana invece permette di annullare gli effetti dei valori estremi.
Cosa succede con le singole azioni?
Abbiamo detto che il recupero mediano è del 90%, cioè non recupera mai fino a tornare al picco precedente.
Il recupero medio, invece, quello che si ottiene considerando anche alcune performance estreme, è super mega positivo: quasi 340%
Cioè IN MEDIA, una volta che ha toccato il fondo, l’azione cresce del 340%.
Qual è il problema di questa statistica?
Ricordiamoci che solo il 2,4% delle azioni porta il 100% del rendimento in eccesso al tasso risk-free, mentre metà delle azioni fa grosso modo tanto quanto un Treasury bill con scadenza a un mese e l’altra metà perde soldi, come aveva calcolato l’eccellente paper di Bessembinder del 2024 Long Term Shareholder Returns che citiamo sempre.
C’è un’enorme skewnees, un’enorme asimmetria nel mercato azionario.
Pochissime hanno risultati spettacolari.
La stragrande maggioranza fa mediamente schifo.
Quindi possiamo intuire facilmente che quel recupero medio del 340% dal bottom, dalla fine del drawdown, è la media del tacchino, che a parte il giorno del ringraziamento, tutti gli altri giorni se l’era passata bene. Pochissime azioni hanno avuto dei rimbalzi esorbitanti, mentre tantissime azioni non hanno mai recuperato i prezzi di un tempo.
A questo Mauboussin spara un’altra bomba.
Cosa fa? Prende tutte ste 6.500 azioni e guarda quante hanno perso al massimo meno del 50% e quanto hanno perso più del 50%.
Se avete qualche amico convinto che investire in azioni sia tutto sommato facile, ecco, potete dire loro che circa 500 azioni hanno perso meno del 50% mentre 6.000 azioni hanno perso più del 50%, almeno una volta nella vita.
Non solo.
Ma quasi 2.000 tra queste è arrivata a perdere più del 95%.
Mettiamola così.
Se siete in 4 e ciascuno investe in un’azione a caso, è probabile che uno tra voi si troverà a subire un crollo superiore al 95% dal prezzo massimo della sua azione, questa cosa ci metterà dai 6 ai 7 anni per concretizzarsi negli 8 anni successivi potrà sperare di recuperare circa il 16% del prezzo massimo precedente.
Esempio: compra oggi l’azione X ad un prezzo Y.
Questa sale, sale, sale e ad un certo punto arriva a 100 .
A quel punto forse si convincerà che investire in singole azioni non è così semplice come sembra.
Dai dati del paper, in generale, si scopre che la profondità del drawdown conta eccome.
Se l’azione perde più dell’80%, allora in più delle metà dei casi non recupera mai.
Se invece perde meno del 50%, allora 4 volte su 5 recupera completamente e supera il picco precedente.
Però come abbiamo visto solo 500 azioni su 6.500 negli ultimi 40 anni hanno avuto drawdown inferiori al 50%.
Vedere un’azione più che dimezzare il proprio prezzo è quindi un’esperienza praticamente garantita quanto si investe in singole stocks.
Ma attenzione a questo punto.
Perché bisogna considerare anche l’altro lato della medaglia — e si sa che quando si parla di percentuali il nostro cervello fa sempre molta fatica a comprendere il senso pratico delle cose.
Abbiamo detto che più un’azione va giù di prezzo, meno è probabile che torni su e meno riesce a recuperare del suo valore massimo precedente.
Allo stesso tempo però — e questa una chicca non da poco che ci servirà più avanti nell’episodio — le azioni che crollano di più sono quelle che IN PERCENTUALE poi crescono di più.
Capito?
No?
La ridico così.
Quelle azioni super virtuose che al massimo hanno perso il 50%, poi dal loro valore minimo hanno avuto una crescita mediana nei 10 anni successivi del 19% annualizzato, cioè di oltre il 550%.
Quelle invece più disastrose, che hanno perso quasi tutto il loro valore, dal punto minimo hanno poi riportato una crescita mediana nei 10 anni successivi di oltre il 32%, che in totale fa +1.600%!
Chiaro?
Più un’azione ha drawdown pesante, maggiore è il suo recupero mediano IN PERCENTUALE.
Però occhio alla trappola delle percentuali.
Facciamo un esempio facile, azione A e azione B, tutte e due al picco hanno un prezzo di 100 dollari.
L’azione A perde al massimo il 40%, quindi il suo prezzo scende fino a 60 dollari.
L’azione B invece arriva a perdere il 96%, quindi il suo prezzo scende fino a 4 dollari.
L’azione A però poi nei dieci anni successivi cresce del 19% all’anno, arrivando quindi a ben 227 dollari!
L’azione B invece, cresce addirittura del 32% all’anno, spettacolare. Peccato, che il prezzo a cui arriva dopo 10 anni di questa crescita che Nvidia spostati sarà di appena 64 dollari.
Che lezioni traiamo da questo dato?
– PRIMA LEZIONE: le perdite hanno un peso specifico immensamente superiore ai guadagni. Basta una crescita del 100% per compensare un calo del 50%. Ma serve una crescita del 1.900% per compensare un calo del 95%.
E questa cosa non è interessante solo per chi investe in azioni. Lo dico anche agli amici che si divertono con gli strumenti a leva e mi chiedono perché mai non dovrebbe essere una buona idea investire nel Nasdaq 3x. Non è una buona idea perché se perde il 30% tu perdi il 90% e tornare in pari poi ti serve poi il 900%. Sì ok la matematica non è correttissima perché la leva è giornaliera e non funziona così, ma era per rendere l’idea.
– SECONDA LEZIONE: investire in società che hanno avuti forti drawdown può essere estremamente redditizio. È vero che molte non tornano mai in pari. Ma se io ho comprato vicino al bottom, posso fare una palata di soldi anche se questa non recupera più i prezzi di un tempo. Qual è il problema? Il problema è duplice:
– Da una parte indovinare il bottom di un’azione è praticamente impossibile;
– Dall’altra, i rendimenti non sono distribuiti in maniera uniforme, quindi il timing deve essere chirurgico o non funziona;
– Dall’altra ancora, molte azioni che perdono il 95% e passa del loro valore non solo non risalgono, ma falliscono proprio. Quindi comunque tutto questo discorso è fighissimo, ma metterlo in pratica facendo stock picking resta una chimera.
Vedremo invece che tutto ciò ci tornerà utile tra qualche minuto.
– TERZA LEZIONE: se Dio fosse un investitore attivo, pure lui verrebbe licenziato.
Questa frase, citata anche nel paper, si riferisce ad un altro paper questa volta di Wes Grey il fondatore di una società che emette ETF e altri strumenti quantitativi di nome Alpha Architect, che produce ogni settimana degli articoli veramente straordinari.
Nel 2017 scrisse questo paper dal titolo Even God Would Get Fired as an Active Investor, in cui praticamente faceva vedere come anche un Dio onnisciente e preveggente non avrebbe comunque potuto risparmiarsi lunghi periodi di sofferenza. Sapendo com’è il cliente medio di un hedge fund o comunque di un fondo che promette degli alfa belli ciccioni, raramente avrebbe avuto la pazienza di aspettare che questo vero e proprio Dio degli investimenti avesse avuto successo.
Gray simula dei portafogli che vengono ribilanciati ogni 5 anni sapendo ogni volta quali sarebbero state 5 anni dopo le società più performanti, dal 1927 al 2016.
La cosa pazzesca è che il miglior portafoglio possibile avrebbe comunque sofferto un drawdown massimo del 76% e avrebbe vissuto almeno altri 5 drawdown superiori al 30%.
Se persino Dio avrebbe avuto una vitaccia come gestore, figuriamoci quali possibilità ha l’investitore medio di battere il mercato e soprattutto di sopportare questi inevitabili tracollo a cui di tanto in tanto ma con certezza deve sottoporsi.
Oh, chiariamo una cosa, mica che non sia passato male il messaggio.
Non è che sta cosa dei mega drawdown riguarda solo le azioni sfigate e risparmia quelle di più alta qualità o quelle che si sono rivelate negli anni le più performanti.
No no.
Chi più chi meno, non risparmia nessuno.
Mauboussin fa un’altra cosa simpatica e cioè prende le 20 azioni che hanno prodotto il miglior total return dal 1985 al 2024 e le 20 azioni con il peggior total return nello stesso periodo.
Nemmeno quelle 20 eccellenze supreme si sono risparmiate anni si sofferenza, visto che il massimo drawdown mediano è stato di oltre il 70% e ha richiesto oltre 4 anni per recuperare.
Neanche vi sto a dire invece le peggiori 20: 96% di crollo e quasi 9 anni di agonia per passare dal massimo al minimo, from peak to trough come si dice.
Per la cronaca l’azione con il massimo total shareholder return è stata Amgen, ma forse è più interessante prendere come esempio la seconda azione più performante degli ultimi 40 anni: Apple.
Apple ha reso quasi il 22% all’anno per 40 anni. Il che vuol dire che 10.000 dollari investiti nel 1985 oggi sarebbero 25 milioni di dollari.
Così giusto per dire.
Ciononostante, ricorderete tutti Apple era quasi fallita prima del trionfale ritorno in pompa magna di Steve Jobs nel 1997, che avrebbe da lì in poi sfoderato tutti i capolavori che avrebbero reso Apple la più grande società del mondo (iPod, iPad, MacBook e soprattutto, ovviamente l’iPhone).
Dal 1992 al 1997 l’azione di Apple perse l’81% del suo valore e ancora peggio fece dal 2000 al 2003, 83% di calo sotto i colpi della dot-com bubble. Da questo picco, però, poi partì una risalita devastante, 52% di crescita media annua per 10 anni, fino a consacrare Apple la più grande società dell’S&P 500 nel 2012. E anche da lì in poi non è andata malissimo.
È invece interessante vedere anche un caso tragico, come quello della società di penumatici Goodyear.
Il suo rendimento medio annuo degli ultimi 40 anni è stato inferiore all’1%.
Il suo massimo drawdown 96%.
Il suo rimbalzo un anno dopo il picco minimo è stato uno spaventoso +292% mentre nei 10 anni successivi fu un 19% all’anno.
Nel paper, se volete, Mauboussin fa due approfondimenti sui case study di Nvidia e di Foot Locker, come esempio rispettivamente di società ultra performante e ultra disastrosa.
Nvidia ha reso il 36% medio composto all’anno dalla sua quotazione nel 1999.
Questo risultato praticamente senza eguali nella storia, tuttavia, non ha risparmiato ai suoi primi investitori un crollo di oltre il 90% del suo valore a inizio 2000.
L’ultima parte del paper Mauboussin la dedica a due cose.
La prima riguarda i mutual funds, i fondi a gestione attiva.
E come è lecito aspettarsi, anche qui le dinamiche sono più o meno le stesse, solo leggermente esasperate dal fatto che i fondi sono diversificati.
Che i fondi gestiti in media non battano l’S&P 500 lo sappiamo tutti molto bene.
Secondo le statistiche SPIVA, quasi il 90% dei fondi sottoperforma l’S&P su orizzonti di 10 anni al netto delle fee.
Ma non è che se prendiamo i fondi più performanti sia tutto rose e fiori.
Il vero costo di un fondo che batte l’S&P 500 non è solo quello esorbitante delle sue commissioni.
No No.
Il costo vero è che persino i 20 fondi attivi più performanti degli ultimi 25 anni — parliamo di fondi che hanno reso magari il 12% con l’S&P che ha reso il 7,7, quindi tantissima roba — hanno subito un drawdown mediano del 60%.
Quindi anche le eccellenze della gestione attiva si prendono a volte dei pali in faccia spettacolari.
E questo ha delle implicazioni molto rilevanti per l’investitore.
Eh sì, perché ci dice ancora una volta che anche se un fondo riesce a battere il benchmark, non è detto che anche l’investitore in quel fondo ci riesca, perché dipenderà tantissimo dal momento di ingresso e dal timing dei suoi versamenti nel fondo.
I fondi più performanti hanno chiaramente un’ampia dispersione dei risultati, mentre invece è rarissimo che ottengano buone performance con continuità.
È invece molto più probabile che la loro overperformance complessiva sia il risultato di alcuni anni di risultati estremamente spettacolari e di altri mediocri.
Quindi centrare quei risultati in anticipo è molto difficile.
E l’esperienza ci insegna che la maggior parte delle volte gli investitori scelgono un fondo che HA GIA’ performato molto bene e che probabilmente sarà mediocre in futuro, invece che il contrario.
In effetti mi metto nei panni di un consulente di una banca che deve spiegare ad un suo cliente l’idea di mettere tutti i suoi soldi in un fondo che negli ultimi 10 anni ha fatto cagare oltre modo.
Il cliente non vorrà mai.
Se invece gli fai vedere un fondo che ha spaccato nel ultimi 10 anni ci si butterà a pesce.
Peccato che per i soliti motivi di regressione verso la media, asimmetria dei rendimenti, profittabilità decrescente con l’aumento dei fondi in gestione e così via, il fondo che ha fatto schifo avrebbe probabilmente più chance di fare meglio rispetto a quello che ha dominato sinora.
Un’altra cosa interessante, comunque, è che se i fondi migliori hanno avuto drawdown mediani del 60%, i 20 peggiori hanno avuto drawdown mediani del 65%, quindi solo leggermente peggio.
Questo cosa ci dice?
Ci dice che il fatto di avere pesanti drawdown è una caratteristica ineliminabile dell’investimento azionario e che non è particolarmente discriminante rispetto alle performance future.
Invece l’ultima cosa di cui parla Mauboussin è molto utile per ricollegarsi ad alcuni discorsi fatti negli ultimi due episodi.
In pratica dopo aver presentato i dati, cerca di dare una spiegazione a questi fenomeni.
In particolare la tendenza principale che emerge da tutto lo studio è chiara: le azioni che hanno sofferto i drawdown peggiori sono quelle che tendono poi ad avere le performance relative più significative — e viceversa.
Noi tutti sappiamo bene come si chiama questa roba: è il principio della regressione verso la media che supporto, tra gli altri, il value effect.
Le azioni che vanno bene, quelle Growth, tendono a diventare sopravvalutate nel tempo, mentre quelle che vanno vale, le Value, tendono a diventare sottovalutate nel tempo. La preferenza sistematica degli investitori per Growth invece che Value spiegherebbe perché storicamente le società Value hanno riportato una performance di lungo termine superiore a quelle Growth.
Mauboussin dà però solo la spiegazione comportamentale di questo fenomeno, quella di Richard Thaler, ossia che il value premium deriverebbe dal fatto che il mercato “overreact”, sovrareagisce alle buone ma soprattutto alle cattive notizie, causando quindi: *inflazione* delle società più performanti (e quindi rendimenti futuri mediocri) e *sottovalutazione* di quelle meno performanti, che in futuro avranno rendimenti sopra la media perché basteranno poche buone notizie (o notizie meno brutte del previsto) per fare salire di prezzo.
Detta alla buona.
Manca invece l’alternativa risk-based, quella del modello di Fama e French.
La aggiungo io: le società che hanno subito drawdown elevati tendono ad avere una sovraperformance di breve-medio periodo perché sono più rischiose. Se il mercato le percepisce come più rischiose, applicherà un maggiore tasso di sconto e quindi il loro prezzo si deprime e il rendimento atteso aumenta.
Qualunque sia la spiegazione che vogliamo dare al fenomeno, il punto è che c’è senza dubbio una sistematica tendenza autocorrettiva nel mercato azionario, che porta a riequilibrare certe situazioni estreme in cui i prezzi sono cresciuti troppo e in cui poi sono scesi troppo.
E questo è alla base, come dicevamo all’inizio, dell’idea di inserire delle deviazioni sistematiche nel portafoglio per intercettare le tendenze regressive del mercato.
– Ribilanciare sistematicamente il portafoglio;
– Dare un tilt geografico sottopesando mercati con valutazioni elevate e sovrappesando quelli con valutazioni economiche;
– Inserire tilt fattoriali, in particolare su Value e Momentum,
sono tutte strategie che cercano di ottenere una serie di risultati:
– PRIMO RISULTATO: mantenere il core del portafoglio vicino all’indice di riferimento e portarsi a casa una parte significativa del suo “beta”, del rendimento del mercato in generale;
– SECONDO RISULTATO: evitare di imbattersi in situazioni drammatiche da cui non ci si può più risollevare, come nel caso di tutte quelle azioni che perdono oltre l’80% del proprio valore e nella maggior parte dei casi non tornano più su.
– TERZO RISULTATO: usare delle regole sistematiche per *esporsi* alle dinamiche di regressione verso la media, accettare il maggior rischio che ciò comporta e provare a cogliere l’extra rendimento che ne può derivare.
E questa ultima cosa si basa su un’idea che solo in parte è finanziaria e in parte ha delle componenti quasi psicologiche e filosofiche.
Cos’è il prezzo di un’azione? È il valore presente dei flussi di cassa futuri attualizzati da un tasso di sconto corrispondete al risk-free rate più il premio al rischio che pretendo per investire in quella specifica azione.
Al di là del metodo matematico con cui si fa sta roba, il concetto è che nei prezzi sono già incorporate le stime di tutto il mercato rispetto a rischi e opportunità futuri. In un mercato più efficiente che no i prezzi hanno già dentro una certa aspettativa rispetto a ciò che di noto potrebbe andare male e bene.
Ma la verità, come sappiamo, è che l’andamento del mercato azionario dipende soprattutto dalle SORPRESE, ossia dai rischi e dalle opportunità NON noti che il mercato non può incorporare nei prezzi e che scopre invece solo strada facendo.
Come avevamo già detto nell’episodio 160, sono delusioni e sorprese i veri motori del mercato, i veri driver che muovono i prezzi.
– Investire 100% in un indice market cap weighted, che resta comunque l’opzione di default per la componente core del portafoglio, significa investire nei rischi e nelle opportunità *scontati* nei prezzi attuali.
– Dare una deviazione sistematica il portafoglio significa investire nei rischi e nelle opportunità *non ancora scontati* nei prezzi.
Ovviamente la scommessa è che per sua natura un indice di mercato, che sovrappesa le realtà cresciute di più, tenderà a esporsi più a rischi futuri che a future opportunità.
Viceversa, un portafoglio che ha logiche fattoriali e contrarian, cercherà di esporsi più alla opportunità derivanti dalle sorprese che non ai rischi di potenziali delusioni.
Nessuno garantisce che ciò funzioni.
Storicamente sappiamo che su lunghi periodi di tempo ciò ha pagato, ma al prezzo di un maggior rischio, di una maggiore volatilità e di una maggiore incertezza che non tutti gli investitori sono disposti ad accollarsi.
E oggi abbiamo aggiunto un altro tassello nella comprensione di cosa contribuisce a creare tutta questa frenetica volatilità a cui l’investimento azionario espone.
Detto questo, lasciamo i ragionamenti astratti e torniamo al mondo reale con i risultati delle principali asset class a maggio, finalmente un mese più verde che rosso dopo i terribili tre che lo avevano preceduto.
Ma prima permettetemi di ricordarvi che oggi 4 giugno è l’ultimo giorno per aprire un conto con il nostro partner Scalable capital e ricevere 25 € di bonus. Se invece vi svegliate tardi, comunque sarà possibile avere ricevere fino a fine anno un interesse del 3,5% lordo sulla liquidità non investita, che al momento è uno dei tassi più elevati su conti e depositi disponibili in Italia.
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Per avere tutto questo potete fregarvene del sottoscritto e andare sul sito di Scalable, oppure utilizzare il link nella descrizione dell’episodio. A voi non viene in tasca nulla, a me invece pantagrueliche commissioni che dopo sto matrimonio in Sicilia, tra aereo, macchina, albergo, regalo, cibo, annessi e connessi mi è costato un rene e mezzo.
Si applicano termini e condizioni, investire comporta dei rischi e bla bla bla le solite cose.
Bene, risultati del mese di maggio.
Come sempre, i dati fanno riferimento al total return per un investitore europeo.
Partiamo come di consueto da sua maestà l’S&P 500, + 5,16% a maggio e -7,5% dall’inizio dell’anno, che sembra una passeggiata in confronto al -19% toccato l’8 di aprile. Negli ultimi giorni è un po’ sceso, causa soprattutto delle nuove pressioni sul dollaro innescate dall’ennesimo dietrofront di Trump, che adesso ha messo i dazi su acciaio e alluminio al 50% e ha già litigato con la Cina perché dice che non gli vendono le terre rare.
Però dall’8 aprile al 18 maggio è senz’altro degna di nota la corsa del 17% che ha cancellato buona parte delle perdite subite in quei giorni di follia post liberation-day.
Risultato simile per l’MSCI World, + 5,2% a maggio e -4% da inizio anno, chiaramente grazie al contributo dei Paesi ex US che in questo 2025 si stanno difendendo molto bene.
A maggio +5% anche per lo Stoxx 600, che riporta in doppia cifra la performance da inizio anno, +10,4%.
Ancora meglio l’indice delle blue chip della zona Euro, con l’Euro Stoxx 50 che ha guadagnato il 5,3% a maggio e il 12% circa da inizio anno.
Bene anche il Giappone, l’MSCI Japan in Euro ha guadagnato quasi il 5% ed è praticamente flat da inizio 2025.
+5% anche per l’MSCI Emerging Markets — e a questo punto possiamo dire che i mercati più a braccetto di così non si potevano muovere a maggio. Da inizio anno però l’indice è ancora sotto di circa il 2%.
Fronte obbligazionario, invece, che tanto amate.
Bloomberg Euro Aggregate Treasury, quindi governativi europei a media scadenza: piatti a maggio e praticamente piatti da inizio anno, +0,8%.
Per i titoli dai 15 ai 30 anni, invece, siamo sotto del 2 e mezzo percento nel 2025, complice prima la mossa della Germania sul proprio debito a marzo e poi le tensioni su tutte le obbligazioni a lunga scadenza delle ultime settimane, a partire da quelle Giapponesi e dagli stessi Treasury trentennali, che hanno sfondato la soglia psicologica di rendimento del 5%, soprattutto in concomitanza dell’approvazione al congresso dello sciagurato “big, beatiful bill” di Trump che minaccia di tagliare tasse e aumentare in maniera esorbitante il deficit americano del prossimo decennio.
I treasury decennali, invece, il vero termometro dei mercati finanziari, continua a danzare intorno al 4,5%.
Infine l’oro, che nel 2025 continua a confermarsi l’asset meno correlato ad azioni, treasury e dollaro. Dopo essersi sgonfiato durante il rally azionario tra metà aprile e metà maggio, le rinnovate tensioni tra Trump e il resto del mondo — ma anche l’offensiva ucraina in Siberia che pare avrebbe inflitto gravi danni all’apparato militare russo — hanno fatto risalire il prezzo fino a toccare nuovamente i 3.400 dollari l’oncia il 2 giugno.
Comunque, +1,48% a maggio e + 15% da inizio anno.
È un anno un po’ particolare, lo sappiamo.
Mettiamo in conto che la quasi tranquilla scala mobile del 2023 e 24, pur con i suoi due momenti di panico rispettivamente a ottobre e ad agosto, non sarà di casa in questo 2025.
Sul tavolo ci sono ancora tutte le carte ed è francamente un’impresa titanica immaginarsi cosa possa succedere da qui in poi.
Come sempre, ci sono motivi sia di ottimismo che di pessimismo.
Partiamo dal pessimismo, così almeno poi chiudiamo con una nota positiva:
– L’S&P 500 viaggia ancora intorno ad un rapporto prezzo utili attesi di 21. In pratica non sta scontando alcune possibilità che ci possa essere una recessione a breve e che i dazi possano in qualche modo minare gli utili delle società. Perché l’S&P chiuda in verde la fine dell’anno serve che le società centrino il target di utili stimati a 264 dollari (che è la media ponderata di tutto l’S&P) e che le valutazioni salgano a 24. Oppure che vengano sonoramente battute le stime sugli utili. Invece qualunque virgola che riduca la fiducia (e quindi le valutazioni) o gli utili porterà in negativo l’indice.
Quindi, come dire, siamo su campo minato e quest’ultimo rally azionario si regge su un filo sottile. Deve andare tutto benissimo, altrimenti alla prima cosa storta vien giù tutto. Ma del resto, quale rally non è stato percepito come precario? Forse quello di fine anni ’90 e abbiamo visto com’è finita.
– Ovviamente il grande ago della bilancia è il Flavio Briatore Newyorkese seduto alla Casa Bianca. Adesso è imbestialito con la storia del TACO e c’è chi teme che adesso voglia impuntarsi su tutto per riguadagnare la fama di duro negoziatore. E questo non porterebbe niente di buono.
– E poi sullo sfondo c’è la super mega minaccia apocalittica. Avete presente nel Trono di Spade che si scannano i vari regni tutto il tempo, ma tutti sanno che il vero pericolo viene dal nord? Ecco, lontano dai 7 regni e nel ben meno fantasioso mondo della finanza e dell’economia, la minaccia che incombe dal nord si chiama Debito Pubblico. Finché è Ray Dalio a parlarne, va beh, sono 15 anni che non parla d’altro. Non ci si fa più caso. Quando però Jamie Dimon, il capo di JP Morgan, nonché il banchiere più potente della Via Lattea, dice che teme una crisi nel mercato obbligazionario, che potrebbe arrivare, così ha detto, tra 6 mesi o 6 anni, mmmmhhhh ecco già qui ci credo un po’ di più. Il problema principale è sicuramente il debito americano che Trump non sta facendo nulla per gestire. Scott Bessent si è affrettato a dire che gli Stati Uniti non faranno mai default sul debito. Ma non serve andare in bancarotta perché comunque il mercato obbligazionario venga sottoposto a pesanti crisi di liquidità con impatti sistemici.
– Ma c’è anche un altro problema potenzialmente esplosivo che è il debito giapponese, il più grande del mondo in rapporto al PIL. Con i rendimenti dei trentennali saliti oltre il 3%, un rientro in patria di capitali giapponesi potrebbe innescare un terremoto su tutto il mercato, dato che il Giappone è il primo detentore estero di titoli americani. Il Giappone sembra una terra lontana da noi. Ma ricordiamoci sempre che è il secondo mercato azionario più grande del mondo e la quarta più grande economia. Quando là succede qualcosa, gli effetti si propagano globalmente. Vedremo.
Motivi di ottimismo invece!
– Beh, intanto gli utili americani tengono di brutto, +14% nel primo trimestre contro un’attesa di 8%. Sappiamo bene che, più di qualunque altra cosa, sono gli utili che guidano la crescita a lungo termine del mercato.
– E poi, mettiamola così, se Trump non se la prende troppo per sta storia del TACO magari alla fine tutta la vicenda dei dazi si rivelerà più fumo che arrosto, con effetti meno catastrofici del previsto.
– Infine mentre i dati soft sono stati tutti drammatici sinora, con i vari indicatori di fiducia sotto i piedi, i dati hard sono stati tutti abbastanza positivi. Il mercato del lavoro tiene, l’inflazione è addirittura stata sotto le attese a maggio. Gli altri indicatori sulla produzione industriale e sui consumi non sono euforici ma nemmeno un disastro. E il Nowcast della Fed Atlanta, che il forecast in tempo reale del PIL, al 5 giugno stima una crescita del PIL del secondo trimestre addirittura del 4,6%, confermando la tesi che il dato leggermente negativo del primo trimestre fosse viziato da una corsa all’import per fare approvvigionamento prima che i dazi entrino in vigore.
– E poi ci sono i mercati di casa nostra, che diversamente dagli Stati Uniti sembra potrebbero beneficiare di tassi di interesse ancora in discesa, di un’inflazione sotto controllo e di buoni propositi di investimenti comuni — parlamento tedesco permettendo — e di rinnovata collaborazione con il figliol prodigo Regno Unito che nel 2016 decise di andarsene di casa, salvo poi ricordarsi che a casa tutto sommato non si stava così male.
Ci aggiorniamo presto amiche e amici miei e vivremo insieme ogni svolta, ogni colpo di scena, ogni dramma e ogni vittoria che il mercato.
Per il momento ci fermiamo qui, spero che l’episodio vi sia piaciuto e grazie di cuore ancora una volta per essere stati qui con me a sentire cosa avessi da dire.
Come sempre vi invito a mettere segui e attivare le notifiche su spotify, apple podcast o dove ci ascoltate e lasciare una recensione a 5 stelle per supportarci e permetterci di continuare a produrre contenuti che vi spiegano che tra finali perse e drawdown del 95% siamo fatti per soffrire, ma mentre sui campi saremo in balia di 11 signori in calzoncini sui mercati possiamo trovare da soli la strada per costruire il nostro successo, sempre nuovi.
Per questo episodio è davvero tutto e noi ci risentiamo domenica prossima quando, oltre all’argomento del giorno che non vi anticipo, vi dirò il nome del super ospite che verrà a trovarmi l’11 giugno per festeggiare tutti assieme il secondo anniversario del nostro podcast! Sempre qui naturalmente, con The Bull — il tuo podcast di finanza personale
Bentornati a The Bull, il tuo podcast di finanza personale
Mi fa piacer che nell’ultimo episodio dedicato alle tre leggi della finanza per evitare errori stupidi uno dei punti che più ha colpito sia stata la battuta sull’ineluttabilità di quella legge fisica che vuole che la Juve perda ogni finale di Champions.
Certo, il timing dell’uscita dell’episodio in concomitanza con la finale di Champions di quest’anno con il senno di poi non era il massimo, ma trattandosi di legge universale, va bene in qualunque momento.
A scanso di equivoci e prima di urtare la sensibilità di qualcuno, dal 1997 al 2017 il mio prima giovane e poi sempre meno giovane cuore ha dovuto sopportare la bellezza di cinque finali perse di fila, una ogni 4,2 anni. Io, come un’altra buona decina di milioni di persone, ho sofferto abbastanza da essermi meritato il diritto di scherzarci sopra.
Skin in the game.
L’idea dell’ineluttabilità di quella legge si è purtroppo formata sulla mia pelle.
Lo scorso sabato sera tifosi di altri colori avranno certamente sofferto duramente.
Ma su con la vita.
C’è di peggio.
Avessi potuto scambiare quelle 5 finali perse con un’unica sconfitta 5 a zero avrei firmato con il sangue.
Però il calcio è così, poche episodiche gioie per compensare anni interi di sofferenze e qualche drammatico capitombolo (certo, a meno che non abiti dalle parti di Madrid e non hai avuto la sfiga di crescere in una famiglia che tifa Atletico; in quel caso vincere una Champions è diventata praticamente una formalità).
E così pure è il mercato azionario.
Come nel calcio, nessuno di promette niente.
Ci devi credere.
Ci devi credere per tutta la vita.
E in mezzo attraverserai un sacco di sofferenza.
Con una significativa differenza però.
Purtroppo, il calcio ti permette di tifare per una squadra sola. Non si può tifare per tutte le squadre d’Europa assegnando a ciascuna di esse una quantità di tifo proporzionale alla loro forza ogni anno. Il tifo indicizzato market cap weighted non l’ha ancora inventato nessuno.
Quando investi in azioni, invece, sappiamo bene che un po’ di sofferenza te la puoi risparmiare e soprattutto che le tue prospettive di rendimento a lungo termine migliorano investendo in tutto il mercato, piuttosto che in singole azioni — anche se alcune ti queste potrebbero renderti ricco come un calciatore in pochi anni, mentre un ETF sull’MSCI World ci metterà decenni prima di farti diventare milionario — ammesso e non concesso che ce la faccia mai.
Non so come sia stato possibile, ma lo scorso weekend, mentre mi trovavo in Sicilia per un matrimonio e sperimentavo una diversa forma di sofferenza che ha più a che fare con la combinazione giacca, cravatta e sole a picco, il mio cervello ha in qualche modo collegato l’esperienza della sofferenza calcistica con i contenuti dell’ultimo paper del sempre straordinario Michael Mauboussin, uscito il 21 maggio con il titolo Drawdowns and Recoveries.
Questo paper è già stato ripreso da mezzo mondo, perché quando Mauboussin scrive, esce sempre fuori qualcosa che merita di essere letto e commentato.
Però sticazzi, il paper è interessante, spiega in maniera perfetta l’essenza della sofferenza nell’investimento azionario, a me interessa molto di più raccontarvi cose utili per la vostra vita da investitori che essere originali e quindi eccoci qua: oggi parliamo del perché investire in azioni sia una terribile idea.
Questo è quello che più o meno ho scritto nel titolo dell’episodio.
Forse avrei dovuto aggiungere anche “e perché il fatto che sia terribile è il motivo per cui rende così tanto”.
Ma sappiamo che acchiappa più ascolti un titolo negativo di uno positivo.
Andiamo con ordine.
Prendo spunto da questo paper perché Mauboussin si è messo a fare il pelo e contropelo a 6.500 azioni quotate negli Stati Uniti dal 1985 al 2024 e ha tirato fuori una serie di statistiche pazzesche su quello che succede in media alle singole azioni nel corso della propria vita, guardando soprattutto a drawdown e recovery, cioè: quanto può andare giù il prezzo di un’azione, in che casi torna su e che conseguenze ha tutto ciò per l’investitore.
Questo episodio ha dunque i seguenti obiettivi:
– Spiegare da una nuova prospettiva cosa significa DAVVERO investire in singole azioni, che so che è una tentazione da cui nessuno di voi riesce a liberarsi;
– Spiegare come tutto ciò supporta la tesi dell’investimento indicizzato, passivo, o come vi piace chiamarlo e perché ha un senso rispetto a ciò di cui abbiamo parlato domenica a proposito della regressione verso la media, degli approcci contrarian, del factor investing o comunque vogliate chiamare l’idea di deviare in maniera sistematica da un indice per sfruttare alcune tendenze di fondo del mercato;
– Infine fare il recap di come sono andati i mercati a maggio, perché venerdì sono partito per il di cui sopra matrimonio e quindi dovevo chiudere l’episodio prima della chiusura dei mercati.
Partiamo dall’informazione più importante di tutto questo semplicissimo — e allo stesso tempo interessantissimo — paper che, ovviamente, trovate nella descrizione di questo episodio.
Aprite bene le orecchie e stampatevi questo dato in testa perché niente meglio di questo racconta quanto sia fottutamente difficile e potenzialmente doloroso investire in azioni: **il massimo drawdown mediano è dell’85%**.
Riformulo per i meno avvezzi a numeri e concetti di statistica base.
Se tu, caro il mio aspirante erede al trono di Warren Buffett o Peter Lynch, investi in un’azione a caso quotata negli Stati Uniti aspettati ad un certo punto di beccarti un crollo dell’85% del prezzo dell’azione.
L’azione è arrivata a 100 .
Brutto eh?
E questa discesa rovinosa non è che ci mette poi così tanto ma il valore mediano è di 2,5 anni, cioè la tua azione a caso che è capicollata giù dell’85% ci ha messo 2 anni e mezzo a sgretolarsi di valore
Ora, le azioni però tornano anche su giusto?
Beh, sì e no.
Purtroppo il recupero mediano della sfortunata azione in cui hai investito è di poco meno del 90%.
Quindi ricapitoliamo: se tu investi in una singola azione lo scenario mediano che puoi aspettarti è il seguente:
– Un calo del suo prezzo dell’85% della durata di circa 2 anni e mezzo
– E un parziale recupero fino al 90% del valore al picco precedente.
Questo però è lo scenario “mediano”.
E come sappiamo, medie e mediane sono sempre dei concetti un po’ birichini, perché celano le singole tragedie dentro il mucchio del campione più generale.
E la tragedia principale è infatti che più di metà delle azioni, il 54% per essere precisi, non torna più ai livelli del suo massimo precedente.
Per capire meglio però come tutto ciò si concilia con l’idea su cui vi ho fatto una testa tanta per due anni che il mercato nel suo insieme ha un rendimento atteso positivo nel lungo termine, facciamo un breve ripasso della differenza tra media e mediana.
Ammettiamo che prenda 99 di voi a caso e vi chieda il valore del vostro portafoglio.
Se sommo il valore di tutti i portafogli e divido per 99 ottengo il valore MEDIO dei vostri investimenti.
Se invece vi metto in fila da quello con il portafoglio più piccolo al più paperone tra voi, quello che si trova esattamente nel mezzo, in 49esima posizione, mi dà il valore MEDIANO.
Che differenza c’è?
La differenza è che se avete tutti dei portafogli simili, il dato medio mi darà una rappresentazione accurata della situazione media di ciascuno di voi.
Ma se tra voi c’è un portafoglio da 100 milioni di euro, mentre tutti gli altri viaggiano, che ne so, tra i 50 e i 200.000 euro, chiaramente la media sarà tutta sballata, perché con ogni probabilità il valore medio che viene fuori sarà di gran lunga superiore al patrimonio reale di tutti gli altri 98 partecipanti al test.
La mediana invece permette di annullare gli effetti dei valori estremi.
Cosa succede con le singole azioni?
Abbiamo detto che il recupero mediano è del 90%, cioè non recupera mai fino a tornare al picco precedente.
Il recupero medio, invece, quello che si ottiene considerando anche alcune performance estreme, è super mega positivo: quasi 340%
Cioè IN MEDIA, una volta che ha toccato il fondo, l’azione cresce del 340%.
Qual è il problema di questa statistica?
Ricordiamoci che solo il 2,4% delle azioni porta il 100% del rendimento in eccesso al tasso risk-free, mentre metà delle azioni fa grosso modo tanto quanto un Treasury bill con scadenza a un mese e l’altra metà perde soldi, come aveva calcolato l’eccellente paper di Bessembinder del 2024 Long Term Shareholder Returns che citiamo sempre.
C’è un’enorme skewnees, un’enorme asimmetria nel mercato azionario.
Pochissime hanno risultati spettacolari.
La stragrande maggioranza fa mediamente schifo.
Quindi possiamo intuire facilmente che quel recupero medio del 340% dal bottom, dalla fine del drawdown, è la media del tacchino, che a parte il giorno del ringraziamento, tutti gli altri giorni se l’era passata bene. Pochissime azioni hanno avuto dei rimbalzi esorbitanti, mentre tantissime azioni non hanno mai recuperato i prezzi di un tempo.
A questo Mauboussin spara un’altra bomba.
Cosa fa? Prende tutte ste 6.500 azioni e guarda quante hanno perso al massimo meno del 50% e quanto hanno perso più del 50%.
Se avete qualche amico convinto che investire in azioni sia tutto sommato facile, ecco, potete dire loro che circa 500 azioni hanno perso meno del 50% mentre 6.000 azioni hanno perso più del 50%, almeno una volta nella vita.
Non solo.
Ma quasi 2.000 tra queste è arrivata a perdere più del 95%.
Mettiamola così.
Se siete in 4 e ciascuno investe in un’azione a caso, è probabile che uno tra voi si troverà a subire un crollo superiore al 95% dal prezzo massimo della sua azione, questa cosa ci metterà dai 6 ai 7 anni per concretizzarsi negli 8 anni successivi potrà sperare di recuperare circa il 16% del prezzo massimo precedente.
Esempio: compra oggi l’azione X ad un prezzo Y.
Questa sale, sale, sale e ad un certo punto arriva a 100 .
A quel punto forse si convincerà che investire in singole azioni non è così semplice come sembra.
Dai dati del paper, in generale, si scopre che la profondità del drawdown conta eccome.
Se l’azione perde più dell’80%, allora in più delle metà dei casi non recupera mai.
Se invece perde meno del 50%, allora 4 volte su 5 recupera completamente e supera il picco precedente.
Però come abbiamo visto solo 500 azioni su 6.500 negli ultimi 40 anni hanno avuto drawdown inferiori al 50%.
Vedere un’azione più che dimezzare il proprio prezzo è quindi un’esperienza praticamente garantita quanto si investe in singole stocks.
Ma attenzione a questo punto.
Perché bisogna considerare anche l’altro lato della medaglia — e si sa che quando si parla di percentuali il nostro cervello fa sempre molta fatica a comprendere il senso pratico delle cose.
Abbiamo detto che più un’azione va giù di prezzo, meno è probabile che torni su e meno riesce a recuperare del suo valore massimo precedente.
Allo stesso tempo però — e questa una chicca non da poco che ci servirà più avanti nell’episodio — le azioni che crollano di più sono quelle che IN PERCENTUALE poi crescono di più.
Capito?
No?
La ridico così.
Quelle azioni super virtuose che al massimo hanno perso il 50%, poi dal loro valore minimo hanno avuto una crescita mediana nei 10 anni successivi del 19% annualizzato, cioè di oltre il 550%.
Quelle invece più disastrose, che hanno perso quasi tutto il loro valore, dal punto minimo hanno poi riportato una crescita mediana nei 10 anni successivi di oltre il 32%, che in totale fa +1.600%!
Chiaro?
Più un’azione ha drawdown pesante, maggiore è il suo recupero mediano IN PERCENTUALE.
Però occhio alla trappola delle percentuali.
Facciamo un esempio facile, azione A e azione B, tutte e due al picco hanno un prezzo di 100 dollari.
L’azione A perde al massimo il 40%, quindi il suo prezzo scende fino a 60 dollari.
L’azione B invece arriva a perdere il 96%, quindi il suo prezzo scende fino a 4 dollari.
L’azione A però poi nei dieci anni successivi cresce del 19% all’anno, arrivando quindi a ben 227 dollari!
L’azione B invece, cresce addirittura del 32% all’anno, spettacolare. Peccato, che il prezzo a cui arriva dopo 10 anni di questa crescita che Nvidia spostati sarà di appena 64 dollari.
Che lezioni traiamo da questo dato?
– PRIMA LEZIONE: le perdite hanno un peso specifico immensamente superiore ai guadagni. Basta una crescita del 100% per compensare un calo del 50%. Ma serve una crescita del 1.900% per compensare un calo del 95%.
E questa cosa non è interessante solo per chi investe in azioni. Lo dico anche agli amici che si divertono con gli strumenti a leva e mi chiedono perché mai non dovrebbe essere una buona idea investire nel Nasdaq 3x. Non è una buona idea perché se perde il 30% tu perdi il 90% e tornare in pari poi ti serve poi il 900%. Sì ok la matematica non è correttissima perché la leva è giornaliera e non funziona così, ma era per rendere l’idea.
– SECONDA LEZIONE: investire in società che hanno avuti forti drawdown può essere estremamente redditizio. È vero che molte non tornano mai in pari. Ma se io ho comprato vicino al bottom, posso fare una palata di soldi anche se questa non recupera più i prezzi di un tempo. Qual è il problema? Il problema è duplice:
– Da una parte indovinare il bottom di un’azione è praticamente impossibile;
– Dall’altra, i rendimenti non sono distribuiti in maniera uniforme, quindi il timing deve essere chirurgico o non funziona;
– Dall’altra ancora, molte azioni che perdono il 95% e passa del loro valore non solo non risalgono, ma falliscono proprio. Quindi comunque tutto questo discorso è fighissimo, ma metterlo in pratica facendo stock picking resta una chimera.
Vedremo invece che tutto ciò ci tornerà utile tra qualche minuto.
– TERZA LEZIONE: se Dio fosse un investitore attivo, pure lui verrebbe licenziato.
Questa frase, citata anche nel paper, si riferisce ad un altro paper questa volta di Wes Grey il fondatore di una società che emette ETF e altri strumenti quantitativi di nome Alpha Architect, che produce ogni settimana degli articoli veramente straordinari.
Nel 2017 scrisse questo paper dal titolo Even God Would Get Fired as an Active Investor, in cui praticamente faceva vedere come anche un Dio onnisciente e preveggente non avrebbe comunque potuto risparmiarsi lunghi periodi di sofferenza. Sapendo com’è il cliente medio di un hedge fund o comunque di un fondo che promette degli alfa belli ciccioni, raramente avrebbe avuto la pazienza di aspettare che questo vero e proprio Dio degli investimenti avesse avuto successo.
Gray simula dei portafogli che vengono ribilanciati ogni 5 anni sapendo ogni volta quali sarebbero state 5 anni dopo le società più performanti, dal 1927 al 2016.
La cosa pazzesca è che il miglior portafoglio possibile avrebbe comunque sofferto un drawdown massimo del 76% e avrebbe vissuto almeno altri 5 drawdown superiori al 30%.
Se persino Dio avrebbe avuto una vitaccia come gestore, figuriamoci quali possibilità ha l’investitore medio di battere il mercato e soprattutto di sopportare questi inevitabili tracollo a cui di tanto in tanto ma con certezza deve sottoporsi.
Oh, chiariamo una cosa, mica che non sia passato male il messaggio.
Non è che sta cosa dei mega drawdown riguarda solo le azioni sfigate e risparmia quelle di più alta qualità o quelle che si sono rivelate negli anni le più performanti.
No no.
Chi più chi meno, non risparmia nessuno.
Mauboussin fa un’altra cosa simpatica e cioè prende le 20 azioni che hanno prodotto il miglior total return dal 1985 al 2024 e le 20 azioni con il peggior total return nello stesso periodo.
Nemmeno quelle 20 eccellenze supreme si sono risparmiate anni si sofferenza, visto che il massimo drawdown mediano è stato di oltre il 70% e ha richiesto oltre 4 anni per recuperare.
Neanche vi sto a dire invece le peggiori 20: 96% di crollo e quasi 9 anni di agonia per passare dal massimo al minimo, from peak to trough come si dice.
Per la cronaca l’azione con il massimo total shareholder return è stata Amgen, ma forse è più interessante prendere come esempio la seconda azione più performante degli ultimi 40 anni: Apple.
Apple ha reso quasi il 22% all’anno per 40 anni. Il che vuol dire che 10.000 dollari investiti nel 1985 oggi sarebbero 25 milioni di dollari.
Così giusto per dire.
Ciononostante, ricorderete tutti Apple era quasi fallita prima del trionfale ritorno in pompa magna di Steve Jobs nel 1997, che avrebbe da lì in poi sfoderato tutti i capolavori che avrebbero reso Apple la più grande società del mondo (iPod, iPad, MacBook e soprattutto, ovviamente l’iPhone).
Dal 1992 al 1997 l’azione di Apple perse l’81% del suo valore e ancora peggio fece dal 2000 al 2003, 83% di calo sotto i colpi della dot-com bubble. Da questo picco, però, poi partì una risalita devastante, 52% di crescita media annua per 10 anni, fino a consacrare Apple la più grande società dell’S&P 500 nel 2012. E anche da lì in poi non è andata malissimo.
È invece interessante vedere anche un caso tragico, come quello della società di penumatici Goodyear.
Il suo rendimento medio annuo degli ultimi 40 anni è stato inferiore all’1%.
Il suo massimo drawdown 96%.
Il suo rimbalzo un anno dopo il picco minimo è stato uno spaventoso +292% mentre nei 10 anni successivi fu un 19% all’anno.
Nel paper, se volete, Mauboussin fa due approfondimenti sui case study di Nvidia e di Foot Locker, come esempio rispettivamente di società ultra performante e ultra disastrosa.
Nvidia ha reso il 36% medio composto all’anno dalla sua quotazione nel 1999.
Questo risultato praticamente senza eguali nella storia, tuttavia, non ha risparmiato ai suoi primi investitori un crollo di oltre il 90% del suo valore a inizio 2000.
L’ultima parte del paper Mauboussin la dedica a due cose.
La prima riguarda i mutual funds, i fondi a gestione attiva.
E come è lecito aspettarsi, anche qui le dinamiche sono più o meno le stesse, solo leggermente esasperate dal fatto che i fondi sono diversificati.
Che i fondi gestiti in media non battano l’S&P 500 lo sappiamo tutti molto bene.
Secondo le statistiche SPIVA, quasi il 90% dei fondi sottoperforma l’S&P su orizzonti di 10 anni al netto delle fee.
Ma non è che se prendiamo i fondi più performanti sia tutto rose e fiori.
Il vero costo di un fondo che batte l’S&P 500 non è solo quello esorbitante delle sue commissioni.
No No.
Il costo vero è che persino i 20 fondi attivi più performanti degli ultimi 25 anni — parliamo di fondi che hanno reso magari il 12% con l’S&P che ha reso il 7,7, quindi tantissima roba — hanno subito un drawdown mediano del 60%.
Quindi anche le eccellenze della gestione attiva si prendono a volte dei pali in faccia spettacolari.
E questo ha delle implicazioni molto rilevanti per l’investitore.
Eh sì, perché ci dice ancora una volta che anche se un fondo riesce a battere il benchmark, non è detto che anche l’investitore in quel fondo ci riesca, perché dipenderà tantissimo dal momento di ingresso e dal timing dei suoi versamenti nel fondo.
I fondi più performanti hanno chiaramente un’ampia dispersione dei risultati, mentre invece è rarissimo che ottengano buone performance con continuità.
È invece molto più probabile che la loro overperformance complessiva sia il risultato di alcuni anni di risultati estremamente spettacolari e di altri mediocri.
Quindi centrare quei risultati in anticipo è molto difficile.
E l’esperienza ci insegna che la maggior parte delle volte gli investitori scelgono un fondo che HA GIA’ performato molto bene e che probabilmente sarà mediocre in futuro, invece che il contrario.
In effetti mi metto nei panni di un consulente di una banca che deve spiegare ad un suo cliente l’idea di mettere tutti i suoi soldi in un fondo che negli ultimi 10 anni ha fatto cagare oltre modo.
Il cliente non vorrà mai.
Se invece gli fai vedere un fondo che ha spaccato nel ultimi 10 anni ci si butterà a pesce.
Peccato che per i soliti motivi di regressione verso la media, asimmetria dei rendimenti, profittabilità decrescente con l’aumento dei fondi in gestione e così via, il fondo che ha fatto schifo avrebbe probabilmente più chance di fare meglio rispetto a quello che ha dominato sinora.
Un’altra cosa interessante, comunque, è che se i fondi migliori hanno avuto drawdown mediani del 60%, i 20 peggiori hanno avuto drawdown mediani del 65%, quindi solo leggermente peggio.
Questo cosa ci dice?
Ci dice che il fatto di avere pesanti drawdown è una caratteristica ineliminabile dell’investimento azionario e che non è particolarmente discriminante rispetto alle performance future.
Invece l’ultima cosa di cui parla Mauboussin è molto utile per ricollegarsi ad alcuni discorsi fatti negli ultimi due episodi.
In pratica dopo aver presentato i dati, cerca di dare una spiegazione a questi fenomeni.
In particolare la tendenza principale che emerge da tutto lo studio è chiara: le azioni che hanno sofferto i drawdown peggiori sono quelle che tendono poi ad avere le performance relative più significative — e viceversa.
Noi tutti sappiamo bene come si chiama questa roba: è il principio della regressione verso la media che supporto, tra gli altri, il value effect.
Le azioni che vanno bene, quelle Growth, tendono a diventare sopravvalutate nel tempo, mentre quelle che vanno vale, le Value, tendono a diventare sottovalutate nel tempo. La preferenza sistematica degli investitori per Growth invece che Value spiegherebbe perché storicamente le società Value hanno riportato una performance di lungo termine superiore a quelle Growth.
Mauboussin dà però solo la spiegazione comportamentale di questo fenomeno, quella di Richard Thaler, ossia che il value premium deriverebbe dal fatto che il mercato “overreact”, sovrareagisce alle buone ma soprattutto alle cattive notizie, causando quindi: *inflazione* delle società più performanti (e quindi rendimenti futuri mediocri) e *sottovalutazione* di quelle meno performanti, che in futuro avranno rendimenti sopra la media perché basteranno poche buone notizie (o notizie meno brutte del previsto) per fare salire di prezzo.
Detta alla buona.
Manca invece l’alternativa risk-based, quella del modello di Fama e French.
La aggiungo io: le società che hanno subito drawdown elevati tendono ad avere una sovraperformance di breve-medio periodo perché sono più rischiose. Se il mercato le percepisce come più rischiose, applicherà un maggiore tasso di sconto e quindi il loro prezzo si deprime e il rendimento atteso aumenta.
Qualunque sia la spiegazione che vogliamo dare al fenomeno, il punto è che c’è senza dubbio una sistematica tendenza autocorrettiva nel mercato azionario, che porta a riequilibrare certe situazioni estreme in cui i prezzi sono cresciuti troppo e in cui poi sono scesi troppo.
E questo è alla base, come dicevamo all’inizio, dell’idea di inserire delle deviazioni sistematiche nel portafoglio per intercettare le tendenze regressive del mercato.
– Ribilanciare sistematicamente il portafoglio;
– Dare un tilt geografico sottopesando mercati con valutazioni elevate e sovrappesando quelli con valutazioni economiche;
– Inserire tilt fattoriali, in particolare su Value e Momentum,
sono tutte strategie che cercano di ottenere una serie di risultati:
– PRIMO RISULTATO: mantenere il core del portafoglio vicino all’indice di riferimento e portarsi a casa una parte significativa del suo “beta”, del rendimento del mercato in generale;
– SECONDO RISULTATO: evitare di imbattersi in situazioni drammatiche da cui non ci si può più risollevare, come nel caso di tutte quelle azioni che perdono oltre l’80% del proprio valore e nella maggior parte dei casi non tornano più su.
– TERZO RISULTATO: usare delle regole sistematiche per *esporsi* alle dinamiche di regressione verso la media, accettare il maggior rischio che ciò comporta e provare a cogliere l’extra rendimento che ne può derivare.
E questa ultima cosa si basa su un’idea che solo in parte è finanziaria e in parte ha delle componenti quasi psicologiche e filosofiche.
Cos’è il prezzo di un’azione? È il valore presente dei flussi di cassa futuri attualizzati da un tasso di sconto corrispondete al risk-free rate più il premio al rischio che pretendo per investire in quella specifica azione.
Al di là del metodo matematico con cui si fa sta roba, il concetto è che nei prezzi sono già incorporate le stime di tutto il mercato rispetto a rischi e opportunità futuri. In un mercato più efficiente che no i prezzi hanno già dentro una certa aspettativa rispetto a ciò che di noto potrebbe andare male e bene.
Ma la verità, come sappiamo, è che l’andamento del mercato azionario dipende soprattutto dalle SORPRESE, ossia dai rischi e dalle opportunità NON noti che il mercato non può incorporare nei prezzi e che scopre invece solo strada facendo.
Come avevamo già detto nell’episodio 160, sono delusioni e sorprese i veri motori del mercato, i veri driver che muovono i prezzi.
– Investire 100% in un indice market cap weighted, che resta comunque l’opzione di default per la componente core del portafoglio, significa investire nei rischi e nelle opportunità *scontati* nei prezzi attuali.
– Dare una deviazione sistematica il portafoglio significa investire nei rischi e nelle opportunità *non ancora scontati* nei prezzi.
Ovviamente la scommessa è che per sua natura un indice di mercato, che sovrappesa le realtà cresciute di più, tenderà a esporsi più a rischi futuri che a future opportunità.
Viceversa, un portafoglio che ha logiche fattoriali e contrarian, cercherà di esporsi più alla opportunità derivanti dalle sorprese che non ai rischi di potenziali delusioni.
Nessuno garantisce che ciò funzioni.
Storicamente sappiamo che su lunghi periodi di tempo ciò ha pagato, ma al prezzo di un maggior rischio, di una maggiore volatilità e di una maggiore incertezza che non tutti gli investitori sono disposti ad accollarsi.
E oggi abbiamo aggiunto un altro tassello nella comprensione di cosa contribuisce a creare tutta questa frenetica volatilità a cui l’investimento azionario espone.
Detto questo, lasciamo i ragionamenti astratti e torniamo al mondo reale con i risultati delle principali asset class a maggio, finalmente un mese più verde che rosso dopo i terribili tre che lo avevano preceduto.
Ma prima permettetemi di ricordarvi che oggi 4 giugno è l’ultimo giorno per aprire un conto con il nostro partner Scalable capital e ricevere 25 € di bonus. Se invece vi svegliate tardi, comunque sarà possibile avere ricevere fino a fine anno un interesse del 3,5% lordo sulla liquidità non investita, che al momento è uno dei tassi più elevati su conti e depositi disponibili in Italia.
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Per avere tutto questo potete fregarvene del sottoscritto e andare sul sito di Scalable, oppure utilizzare il link nella descrizione dell’episodio. A voi non viene in tasca nulla, a me invece pantagrueliche commissioni che dopo sto matrimonio in Sicilia, tra aereo, macchina, albergo, regalo, cibo, annessi e connessi mi è costato un rene e mezzo.
Si applicano termini e condizioni, investire comporta dei rischi e bla bla bla le solite cose.
Bene, risultati del mese di maggio.
Come sempre, i dati fanno riferimento al total return per un investitore europeo.
Partiamo come di consueto da sua maestà l’S&P 500, + 5,16% a maggio e -7,5% dall’inizio dell’anno, che sembra una passeggiata in confronto al -19% toccato l’8 di aprile. Negli ultimi giorni è un po’ sceso, causa soprattutto delle nuove pressioni sul dollaro innescate dall’ennesimo dietrofront di Trump, che adesso ha messo i dazi su acciaio e alluminio al 50% e ha già litigato con la Cina perché dice che non gli vendono le terre rare.
Però dall’8 aprile al 18 maggio è senz’altro degna di nota la corsa del 17% che ha cancellato buona parte delle perdite subite in quei giorni di follia post liberation-day.
Risultato simile per l’MSCI World, + 5,2% a maggio e -4% da inizio anno, chiaramente grazie al contributo dei Paesi ex US che in questo 2025 si stanno difendendo molto bene.
A maggio +5% anche per lo Stoxx 600, che riporta in doppia cifra la performance da inizio anno, +10,4%.
Ancora meglio l’indice delle blue chip della zona Euro, con l’Euro Stoxx 50 che ha guadagnato il 5,3% a maggio e il 12% circa da inizio anno.
Bene anche il Giappone, l’MSCI Japan in Euro ha guadagnato quasi il 5% ed è praticamente flat da inizio 2025.
+5% anche per l’MSCI Emerging Markets — e a questo punto possiamo dire che i mercati più a braccetto di così non si potevano muovere a maggio. Da inizio anno però l’indice è ancora sotto di circa il 2%.
Fronte obbligazionario, invece, che tanto amate.
Bloomberg Euro Aggregate Treasury, quindi governativi europei a media scadenza: piatti a maggio e praticamente piatti da inizio anno, +0,8%.
Per i titoli dai 15 ai 30 anni, invece, siamo sotto del 2 e mezzo percento nel 2025, complice prima la mossa della Germania sul proprio debito a marzo e poi le tensioni su tutte le obbligazioni a lunga scadenza delle ultime settimane, a partire da quelle Giapponesi e dagli stessi Treasury trentennali, che hanno sfondato la soglia psicologica di rendimento del 5%, soprattutto in concomitanza dell’approvazione al congresso dello sciagurato “big, beatiful bill” di Trump che minaccia di tagliare tasse e aumentare in maniera esorbitante il deficit americano del prossimo decennio.
I treasury decennali, invece, il vero termometro dei mercati finanziari, continua a danzare intorno al 4,5%.
Infine l’oro, che nel 2025 continua a confermarsi l’asset meno correlato ad azioni, treasury e dollaro. Dopo essersi sgonfiato durante il rally azionario tra metà aprile e metà maggio, le rinnovate tensioni tra Trump e il resto del mondo — ma anche l’offensiva ucraina in Siberia che pare avrebbe inflitto gravi danni all’apparato militare russo — hanno fatto risalire il prezzo fino a toccare nuovamente i 3.400 dollari l’oncia il 2 giugno.
Comunque, +1,48% a maggio e + 15% da inizio anno.
È un anno un po’ particolare, lo sappiamo.
Mettiamo in conto che la quasi tranquilla scala mobile del 2023 e 24, pur con i suoi due momenti di panico rispettivamente a ottobre e ad agosto, non sarà di casa in questo 2025.
Sul tavolo ci sono ancora tutte le carte ed è francamente un’impresa titanica immaginarsi cosa possa succedere da qui in poi.
Come sempre, ci sono motivi sia di ottimismo che di pessimismo.
Partiamo dal pessimismo, così almeno poi chiudiamo con una nota positiva:
– L’S&P 500 viaggia ancora intorno ad un rapporto prezzo utili attesi di 21. In pratica non sta scontando alcune possibilità che ci possa essere una recessione a breve e che i dazi possano in qualche modo minare gli utili delle società. Perché l’S&P chiuda in verde la fine dell’anno serve che le società centrino il target di utili stimati a 264 dollari (che è la media ponderata di tutto l’S&P) e che le valutazioni salgano a 24. Oppure che vengano sonoramente battute le stime sugli utili. Invece qualunque virgola che riduca la fiducia (e quindi le valutazioni) o gli utili porterà in negativo l’indice.
Quindi, come dire, siamo su campo minato e quest’ultimo rally azionario si regge su un filo sottile. Deve andare tutto benissimo, altrimenti alla prima cosa storta vien giù tutto. Ma del resto, quale rally non è stato percepito come precario? Forse quello di fine anni ’90 e abbiamo visto com’è finita.
– Ovviamente il grande ago della bilancia è il Flavio Briatore Newyorkese seduto alla Casa Bianca. Adesso è imbestialito con la storia del TACO e c’è chi teme che adesso voglia impuntarsi su tutto per riguadagnare la fama di duro negoziatore. E questo non porterebbe niente di buono.
– E poi sullo sfondo c’è la super mega minaccia apocalittica. Avete presente nel Trono di Spade che si scannano i vari regni tutto il tempo, ma tutti sanno che il vero pericolo viene dal nord? Ecco, lontano dai 7 regni e nel ben meno fantasioso mondo della finanza e dell’economia, la minaccia che incombe dal nord si chiama Debito Pubblico. Finché è Ray Dalio a parlarne, va beh, sono 15 anni che non parla d’altro. Non ci si fa più caso. Quando però Jamie Dimon, il capo di JP Morgan, nonché il banchiere più potente della Via Lattea, dice che teme una crisi nel mercato obbligazionario, che potrebbe arrivare, così ha detto, tra 6 mesi o 6 anni, mmmmhhhh ecco già qui ci credo un po’ di più. Il problema principale è sicuramente il debito americano che Trump non sta facendo nulla per gestire. Scott Bessent si è affrettato a dire che gli Stati Uniti non faranno mai default sul debito. Ma non serve andare in bancarotta perché comunque il mercato obbligazionario venga sottoposto a pesanti crisi di liquidità con impatti sistemici.
– Ma c’è anche un altro problema potenzialmente esplosivo che è il debito giapponese, il più grande del mondo in rapporto al PIL. Con i rendimenti dei trentennali saliti oltre il 3%, un rientro in patria di capitali giapponesi potrebbe innescare un terremoto su tutto il mercato, dato che il Giappone è il primo detentore estero di titoli americani. Il Giappone sembra una terra lontana da noi. Ma ricordiamoci sempre che è il secondo mercato azionario più grande del mondo e la quarta più grande economia. Quando là succede qualcosa, gli effetti si propagano globalmente. Vedremo.
Motivi di ottimismo invece!
– Beh, intanto gli utili americani tengono di brutto, +14% nel primo trimestre contro un’attesa di 8%. Sappiamo bene che, più di qualunque altra cosa, sono gli utili che guidano la crescita a lungo termine del mercato.
– E poi, mettiamola così, se Trump non se la prende troppo per sta storia del TACO magari alla fine tutta la vicenda dei dazi si rivelerà più fumo che arrosto, con effetti meno catastrofici del previsto.
– Infine mentre i dati soft sono stati tutti drammatici sinora, con i vari indicatori di fiducia sotto i piedi, i dati hard sono stati tutti abbastanza positivi. Il mercato del lavoro tiene, l’inflazione è addirittura stata sotto le attese a maggio. Gli altri indicatori sulla produzione industriale e sui consumi non sono euforici ma nemmeno un disastro. E il Nowcast della Fed Atlanta, che il forecast in tempo reale del PIL, al 5 giugno stima una crescita del PIL del secondo trimestre addirittura del 4,6%, confermando la tesi che il dato leggermente negativo del primo trimestre fosse viziato da una corsa all’import per fare approvvigionamento prima che i dazi entrino in vigore.
– E poi ci sono i mercati di casa nostra, che diversamente dagli Stati Uniti sembra potrebbero beneficiare di tassi di interesse ancora in discesa, di un’inflazione sotto controllo e di buoni propositi di investimenti comuni — parlamento tedesco permettendo — e di rinnovata collaborazione con il figliol prodigo Regno Unito che nel 2016 decise di andarsene di casa, salvo poi ricordarsi che a casa tutto sommato non si stava così male.
Ci aggiorniamo presto amiche e amici miei e vivremo insieme ogni svolta, ogni colpo di scena, ogni dramma e ogni vittoria che il mercato.
Per il momento ci fermiamo qui, spero che l’episodio vi sia piaciuto e grazie di cuore ancora una volta per essere stati qui con me a sentire cosa avessi da dire.
Come sempre vi invito a mettere segui e attivare le notifiche su spotify, apple podcast o dove ci ascoltate e lasciare una recensione a 5 stelle per supportarci e permetterci di continuare a produrre contenuti che vi spiegano che tra finali perse e drawdown del 95% siamo fatti per soffrire, ma mentre sui campi saremo in balia di 11 signori in calzoncini sui mercati possiamo trovare da soli la strada per costruire il nostro successo, sempre nuovi.
Per questo episodio è davvero tutto e noi ci risentiamo domenica prossima quando, oltre all’argomento del giorno che non vi anticipo, vi dirò il nome del super ospite che verrà a trovarmi l’11 giugno per festeggiare tutti assieme il secondo anniversario del nostro podcast! Sempre qui naturalmente, con The Bull — il tuo podcast di finanza personale
Recensioni
Quando capisci come funziona la finanza… ti viene voglia di raccontarla!
Dovrebbero ascoltarlo buona parte degli italiani e io avrei dovuto scoprirlo con qualche anno in anticipo ma meglio tardi che mai
Matteo C., 3 Set 2025Non sono solito a mettere recensioni e specialmente non ascolto podcast, ma da quando ho iniziato questo, faccio fatica a staccarmi, e quasi non posso più fare a meno di ascoltare e arricchirmi culturalmente.
Andrea V., 22 Set 2025Veramente veramente raccomandato! la finanza personale riassunta alla perfezione! e spiegata partendo dall'ABC! Ottimo anche da ascoltare a velocita 1,5x!
Giorgia R., 23 Gen 2025Ho acquistato e letto il suo libro e l' ho trovato. Esprime i concetti economici in modo semplice e chiaro. Sentirlo parlare conferma che è un professionista del settore.
Giulia N., 11 Ago 2025Podcast piacevole, scorre veloce ma in modo estremamente chiaro, spiega i concetti chiave per gestire le proprie finanze, fornendo la classica cassetta degli attrezzi. Complimenti, davvero ben fatto!
Massimiliano, 29 Mag 2024Veramente interessante, chiaro e conciso. Cambia la vita finanziaria di chiunque.. da ascoltare assolutamente anche per chi di finanza non vuole occuparsi mai
Francesca B., 6 Apr 2024Podcast che dà sempre spunti interessanti che personalmente mi ha fatto appassionare alla finanza personale spingendomi ad approfondire in prima persona.
Lorenzo, 13 Mar 2025Da quando l'ho scoperto in 15 gg mi sono ascoltato 150 puntate senza fermarmi, ho annullato gli altri podcast per portarmi alla pari ed ascoltare tutte le precedenti puntate, ben fatto, esattamente il livello di informazione che mi serviva
Gianluca G., 11 Set 2025Riccardo mi ha letteralmente cambiato la vita e fatto scoprire che amo la finanza, ho ascoltato il podcast già due volte e non mi stufo mai di ascoltarlo, parla in modo semplice e chiaro
Massimo D., 23 Set 2025