5 Trend che hanno già cambiato il Futuro (e conseguenze per i portafogli)

Il 2025 sarà un anno di svolta nella storia recente che avrà cambiato il quadro geopolitico, economico e finanziario degli ultimi decenni. Parliamo dei 5 trend che hanno cambiato il futuro e le conseguenze per dollaro, obbligazioni, azioni e oro.

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5 Trend che hanno già cambiato il Futuro (e conseguenze per i portafogli)
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225. 5 Trend che hanno già cambiato il Futuro (e conseguenze per i portafogli)

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Il 2025 introduce 5 macro-trend (es.protezionismo USA, ascesa Cina) che ridefiniranno gli equilibri geopolitici ed economici globali.

Impatti su dollaro, bond e azioni richiedono un portafoglio diversificato per navigare l'incertezza.

Trascrizione Episodio

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Comunque andranno i prossimi 6 mesi, ci sono già oggi pochi dubbi sul fatto che il 2025 sarà uno di quegli anni che segna delle profonde cesure nella storia dell’uomo.

Con buona probabilità, ci sarà un “prima del 2025” e un “dopo 2025” per diversi motivi, dato che quest’anno tante cose sono cambiate mutando forse per sempre il quadro economico, geopolitico e finanziario in cui sono cresciuti tutti coloro che appartengono alla mia generazione.

Uno dei primissimi eventi di cui ho un vago ricordo è stata la caduta del muro di Berlino nel 1989. Di lì a poco divenne di moda usare le parole di Francis Fukuyama per dichiarare la fine della storia. L’occidente aveva vinto. La configurazione definitiva del mondo sarebbe stata quella voluto dall’unica superpotenza globale: gli Stati Uniti d’America, basata sull’idea di una globalizzazione imperniata sul libero commercio e su un ordine finanziario fondato sul dollaro e sui Treasury.

Fondamentalmente, per chi come me ha circa 40 anni, quello status quo è sempre sembrato qualcosa di scritto nella pietra, immutabile e destinato a durare per sempre.

E bisogna dire che di fronte alla formidabile ed evidente supremazia politica, economica, militare e culturale degli USA; poco sembrava poterlo mettere in discussione.

Cinque eventi, invece, via via sempre più ravvicinati, avrebbero messo in crisi questo modello fino al punto in cui ci troviamo oggi.

– Il primo è stato l’11 settembre, l’evento che sconvolse il mondo e ci fece scoprire bruscamente che le guerre che un tempo si combattevano in campo aperto oggi potevano assumere forme meno macroscopiche, ma non per questo meno letali. Con il senno di poi, quei due aerei sulle torri gemelle avrebbero innescato una serie di conseguenze geopolitiche, economiche e militari così profonde che hanno permeato significativamente tutti questi 24 anni.

– Il secondo è stato la grande crisi finanziaria del 2008, che mise in discussione il mito dell’invincibilità economica degli Stati Uniti, sollevando più di un dubbio sulla sostenibilità a lungo termine del loro modello iperconsumistico e fortemente orientato al debito.

– Poi arrivò il Covid nel 2020, che da una parte avrebbe cambiato per sempre i modelli di lavoro e impresso un’impressionante accelerazione digitale al mondo; dall’altra, però, spinse praticamente tutti i governi occidentali ad incrementare massicciamente il proprio stock di debito pubblico per far fronte alla crisi e fu lì che soprattutto il Debito Americano cominciò ad andare fuori controllo.

– Il quarto evento disruptive fu l’invasione dell’Ucraina da parte della Russia nel 2022, che ebbe due conseguenze senza ritorno:

– La prima è stata riportare la guerra in Europa dopo quasi 80 anni, cancellando per sempre gli ultimi dubbi sul fatto che Fukuyama avesse avuto torto. No, la storia non è finita nel 1989. Si era solo presa una pausa.

– La seconda conseguenza è invece legata alla decisione americana di confiscare gli asset russi detenuti all’estero, minando di fatto lo status del dollaro come valuta universale. Non è un caso che proprio da quella serie di eventi tutte le principali banche centrali, a partire da quella cinese, hanno accelerato il processo di de-dollarizzazione delle proprie riserve, fondamentalmente scaricando i treasury e comprando oro, che non a caso in tre anni è raddoppiato di valore.

– Il quinto evento è quello forse più dirompente di tutti: la decisione dell’amministrazione Trump di implementare una politica protezionistica e isolazionistica come non si vedeva dagli anni ’30 del 900 e decretare così la fine de facto del World Trade Organization, che con l’ingresso della Cina nel 2001 aveva segnato la data di nascita ufficiale di quella che sui libri di scuola veniva chiamata globalizzazione.

Ok, lo sappiamo, Trump always chickens out.

Bisogna sempre fare un po’ la tara tra le cose che Trump dichiara e quelle che fa davvero.

Ma sia che si prendano alla lettera le sue dichiarazioni, sia che alla fine si riduca tutto alla famosa montagna che avrà partorito un topolino, comunque la frattura storica che si è creata in questi primi mesi del 2025 potrà magari rimarginarsi un giorno, ma la cicatrice resterà molto più a lungo.

Il libero commercio, ciò che ha garantito la prosperità degli USA e di buona parte del mondo occidentale nel dopoguerra, non sarà più il quadro economico di riferimento del mondo, gli Stati Uniti non saranno più il supervisore universale dell’ordine globale, mentre dollaro e Treasury, benché imprescindibili per il funzionamento della finanza mondiale, forse d’ora in poi diventeranno via via un po’ meno imprescindibili.

Certo, i grandi proclami di isolazionismo di Trump in campagna elettorale quando diceva che avrebbe concluso tutte le guerre del mondo in 24 ore si scontrano un po’ con il fallimento totale, almeno sino ad oggi, di forzare una conclusione della guerra in Ucraina e soprattutto con la decisione dello scorso sabato di bombardare l’Iran.

Praticamente ogni commentatore del mondo ha considerato questa iniziativa come un tentativo di arrogarsi una vittoria contro l’Iran, una volta intuito che forse questa volta il massiccio attacco di Israele avrebbe potuto davvero far cadere il regime dell’Ayatollah.

Fino a pochi giorni fa Trump stava portando avanti un tentativo di accordo diplomatico con l’Iran, ma poi il premier Israeliano Netanyahu ha ordinato l’attacco, prima gli Stati Uniti hanno dichiarato che l’iniziativa fosse unilaterale e che loro non c’entrassero niente, e solo pochi giorni dopo tre siti per l’arricchimento dell’uranio sono stati bombardati dall’aeronautica a stelle e strisce.

Trump ha dichiarato che non intende protrarre lo sforzo bellico e che l’Iran deve piegarsi ad una risoluzione di pace, ma la storia delle guerre lampo purtroppo non è particolarmente rassicurante. È molto facile iniziare una guerra, soprattutto se possiedi il più potente e micidiale apparato militare del mondo, mentre è estremamente complicato finirla. Vedi Corea, Vietnam, Afghanistan, Iraq, giusto per citare esempi americani, ma qualcosa ne sa anche Putin, che pensava di sbrogliare la questione Ucraina in due settimane e nel frattempo sono passati tre anni.

A dire il vero c’è un precedente che va in un’altra direzione, che è stata la guerra del golfo a inizio anni ’90, in cui davvero molto velocemente l’intervento americano riuscì ad annientare le forze irachene che avevano invaso il Kuwait.

La speranza è che anche questa volta succeda qualcosa del genere.

Inoltre, sappiamo che la Cina acquista massicce quantità di petrolio iraniano, sotto sanzioni, a basso costo.

Quindi le vere ritorsioni che l’Iran potrebbe mettere in atto, come chiudere lo stretto di Hormuz, da cui passa un quinto del petrolio mondiale, avrebbero ripercussioni economiche devastanti per l’Iran stesso e la Cina, fondamentalmente il suo cliente principale, non sarebbe troppo d’accordo.

Il sempre brillante John Authers di Bloomberg ha sollevato lunedì quattro motivi per cui un’escalation militare appare poco probabile, che sono i seguenti:

– UNO: se vengono confermate le prime informazioni rilasciate dagli US, il programma nucleare iraniano sarebbe stato già fortemente compromesso;

– DUE: l’Iran avrebbe perso completamente il controllo del proprio spazio aereo;

– TRE: i suoi alleati storici che contribuivano a mantenere instabilità in Medio Oriente sono stati quasi tutti annientati: Hezbollah, Hamas, il regime di Assad in Siria e gli Houthi yemeniti. Non entriamo qui nel merito della reazione di Israele agli attentati del 7 ottobre 2023, ma è un fatto che il calcolo iraniano si è rivelato profondamente sbagliato e la ritorsione israeliana, sempre supportata dagli Stati Uniti, ha quasi azzerato tutta la rete di supporto del regime degli Ayatollah.

– La motivazione numero QUATTRO, infine, è che i due più potenti alleati iraniani, Russia e Cina, non sembrano avere particolari motivazioni per intervenire: la Russia è impelagata in Ucraina, mentre la Cina, come detto, ha bisogno del petrolio iraniano.

La migliore opzione per l’Iran sarebbe quindi la stessa di Saddam Hussein nel 1991. Rinunciare a qualunque pretesa offensiva nell’area, rafforzarsi a casa propria, trovare un accordo diplomatico sul nucleare e tutto ciò rappresenterebbe una vittoria per gli Stati Uniti e per il prezzo del petrolio in generale. James Stavidris però, sempre di Bloomberg, considera molto improbabile che Khamenei si arrenda tanto facilmente e nonostante il solito post di Trump di lunedì sera che ha dichiarato la guerra già finita e tutti amici per la pelle, c’è da aspettarsi che dopo il cessate il fuoco ci possa essere qualche forma di retaliation, di ripicca da parte dell’Iran, mentre probabilmente continuerà in segreto lo sviluppo del programma nucleare in segreto da qualche parte nell’immenso territorio iraniano.

La guerra tra Israele/Stati Uniti e Iran non è l’argomento di oggi, ma non si poteva evitare anche solo un accenno, né omettere i fatti straordinari di questi giorni in un episodio che cerca di fare il punto sui grand trend trasformativi che hanno già cambiato il futuro.

Sì perché non sappiamo chiaramente nulla su quel che il futuro ci riserverà.

Ma sappiamo che ci sono delle inarrestabili forze che si sono attivate e che in qualche modo contribuiranno a ridefinire l’assetto geopolitico, economico e finanziario del mondo negli anni venire.

E per noi investitori, sono soprattutto le conseguenze finanziarie quelle in questo contesto più ci interessano.

Quali conseguenze di preciso, non lo possiamo sapere, anche se possiamo formulare delle robuste ipotesi.

Che però delle conseguenze trasformative sui mercati ci saranno, beh è francamente difficile contestarlo.

L’episodio di oggi sarà quindi diviso in due parti.

Nella prima parte elencheremo i 5 fattori che hanno già cambiato il futuro dei mercati.

Nella seconda, invece, vedremo quali possibili implicazioni possano esserci per le principali asset class.

Devo dare credito, per molti dei concetti che verranno condivisi da qui in poi, ad un recente articolo di Louis-Vincent Gave, di Evergreen Gavekal, storica società americana di financial advisory, che ha saputo focalizzare in maniera impeccabile le principali forze centrifughe che stanno muovendo i principali attori finanziari in direzioni diverse dal loro consolidato centro di gravità degli ultimi 15 anni, ossia la santa trinità fatta da dollaro, treasury e big tech americane.

F: Eeehm Riccardo scusa non per interrompere il discorso, sai che ti ascolto sempre soprattutto alla sera quando non riesco a prendere sonno.

Però dovresti parlare di NordVPN.

R: ah giusto, a volte mi dimentico che parlare è bello ma anche non morire di fame è altrettanto bello. Dunque, cosa diciamo, arrivano le vacanze, viaggi all’estero, proteggi la tua connessione con NordVPN soprattutto se ti colleghi a wifi pubblici e continua a guardare le tue serie preferite anche se sei a Bali?

F: certo che per essere uno che di lavoro fa il creator, la creatività non è che sia proprio di casa.

R: va beh allora… password manager? con NordVPN tutte le tue password sono criptate e al sicuro così la smetti di segnartele sul telefono che ti fai fregare tutto in un colpo solo? E ci aggiungiamo anche Thread Protection Pro, che blocca malware, tracker web, pubblicità e altre minacce online?

F: oddio mi ricordi uno che vendeva vendeva pentole in TV negli anni ’90, lascia perdere, alla fine nordvpn lo usi perché ti protegge davvero e funziona da te, se dovessi convincermi tu stiamo a posto. Dì almeno dello sconto.

R: Basta andare sul link in descrizione oppure su www.nordvpn.com/thebull due anni di abbonamento scontato fino al 76% più 4 mesi extra e garanzia soddisfatti o rimborsati per 30 giorni. Sì ma che carattere però.

Dunque

PRIMO TREND: ovviamente non poteva che essere il protezionismo americano, i dazi e tutte le belle cose emanazione del liberation day del 2 aprile. Qualunque sia la motivazione che vogliamo prendere per buona tra le mille che ha avanzato Trump per giustificare i dazi, ci sono pochi sul fatto che gli Stati Uniti non saranno più il consumatore di ultima istanza del mondo.

Cosa significa questa cosa?

Significa che il funzionamento dell’economia globale degli ultimi decenni lo si può riassumere così:

– I Paesi emergenti sono stati la fabbrica del mondo, soprattutto Cina e Paesi del sud-est asiatico, grazie alla loro manodopera a bassissimo costo;

– I Paesi sviluppati hanno gradualmente ridotto la propria capacità industriale e sviluppato un’economia più orientata ai servizi e ad attività intellettuali ad alto valore aggiunto;

– Gli Stati Uniti sono diventati il più grande importatore di beni del mondo e hanno finanziato la propria capacità di consumo esportando servizi, asset finanziari e capacità tecnologica e naturalmente grazie al credito illimitato che il resto del mondo gli ha attribuito reinvestendo all’infinito ogni dollaro guadagnato dell’export in asset americani.

– Questa cosa ha permesso agli Stati Uniti di consolidare il primato come potenza economica globale, facendo crescere la propria ricchezza interna dopo il 2008al doppio della velocità rispetto, per esempio, all’unione europea, oltre a far aumentare il valore del proprio mercato azionario fino a diventare 2/3 dell’intero MSCI ACWI.
Tutto però non è stato un pasto gratis, ma ha comportato una serie di side-effects:

– Dollaro estremamente forte, che pesa come un macigno sulla capacità di esportazione di prodotti made in USA e in generale sulla competitività delle suo settore manufatturiero;

– Deficit in continua crescita anno dopo anno che ha portato il debito pubblico alle stelle;

– Dipendenza strategica dai propri avversari, come si è visto durante il covid quando ci si è accorti che la dipendenza delle supply chain dalla Cina poteva rappresentare una seria minaccia alla sicurezza nazionale.

Ora, Trump con i dazi vuole: rianimare la produzione industriale americana, scoraggiare le importazioni, favorire le esportazioni di prodotti made in USA, ridurre il deficit commerciale, riportare parte delle supply chain negli Stati Uniti, rinegoziare con la forza alcune pratiche commerciali che ritiene inique (come il Digital Act in Europa che tassa le big tech), costringere altri Paesi ad aumentare le spese militare, incassare extra fatturato per sostenere il debito e in tutto ciò avere le risorse per finanziare il Big Beautiful Bill, una mastodontico taglio delle tasse che ad oggi si calcola dovrebbe aggiungere 2.500 miliardi di dollari di deficit nei prossimi 5 anni, poco più del PIL Italiano.

Howard Marks aveva già fatto notare in uno dei suoi recenti memo che ciascuna delle ambizioni di Trump è sicuramente desiderabile presa in sé, ma è altamente improbabile che i dazi siano in grado di realizzarle tutte e soprattutto senza conseguenza negative, come ad esempio un aumento dell’inflazione, prodotti peggiori e una generale riduzione di benessere degli americani.

Nel memo uscito la scorsa settimana, invece, riprende il tema per fare un discorso più generale sul fatto che gli interventi e le forzature della politica nell’economia tendono sempre a fare più danni rispetto al libero mercato, che al contrario si autoregolamenta e incoraggia l’innovazione, la produttività e l’efficienza, creando prosperità e ottimizzando il benessere generale.

Naturalmente, dice giustamente Marks, ottimizzare il benessere complessivo è diverso dal garantire il benessere di tutti gli individui. Per esempio, i lavoratori impiegati nel settore automotive americano potrebbero essere penalizzati se all’estero vengono fatte auto migliori e a costi inferiori. Ma la cosa migliore non è far intervenire i governi perché fanno più danni che altro, bensì limitarsi a gestire gli effetti collaterali indesiderati, per esempio garantire una rete di sicurezza sociale per chi perde il lavoro tramite indennità di disoccupazione e riqualificazione professionale, così come impedire che aziende e paesi adottino pratiche anticoncorrenziali.

Poi è chiaro che modelli di puro liberismo economico alla Milton Friedman non producono certamente soluzioni perfette, ma gli sforzi per controllarle di solito peggiorano la situazione. Non può esistere una soluzione che dia a tutti ciò che desiderano ma tutto sommato le leggi dell’economia e del libero mercato conducono alle migliori soluzioni possibili. Semicitando Winston Churchill: il libero mercato è il peggior modello possibile, tranne tutti gli altri.

Marks, con i suoi modi sempre super polite, è fermamente scettico sulla bontà delle iniziative di Trump — e non senza ragione.

Dall’altra parte, prima che qualcuno mi dica che sono sempre antiTrump a priori, cosa tra l’altro non vera: per esempio avevo apprezzato tantissimo i suoi camei in Mamma ho perso l’aereo 2 e in Will il principe di Belair, dicevo è interessante anche l’ipotesi di un altro brillante osservatore economico che è Torsten Slok, Chief Economist di Apollo, una delle più grandi società di private equity americane.

Il 21 giugno ha scritto un breve commento dal titolo “e se Trump fosse stato più furbo di tutti sui dazi” (Has Trump outsmarted everyone on Tariffs?).

In pratica lui dice: a inizio luglio scade la tregua di 90 giorni sui dazi. E se la sua strategia fosse proprio di mantenere 30% di dazi sulla Cina e 10% su tutti gli altri e dare 12 mesi di tempo per fare accordi favorevoli agli Stati Uniti su tematiche non legate ai dazi, come ad esempio ridurre altre barriere (tipo appunto la digital act in Europa) o far aprire altre economie verso l’esterno (come in Cina)?

Estendere la deadline per 12 mesi darebbe a Paesi e aziende tempo per adattarsi a dazi più alti, ridurrebbe l’incertezza generale e avrebbe effetti positivi per la pianificazione industriale, le assunzioni e i mercati.

Sarebbe comunque una vittoria per Trump e dazi a questi livelli produrrebbero 400 miliardi di dollari extra per il bilancio americano. E gli altri Paesi alla fine sarebbero contenti con appena, si fa per dire, dazi del 10%, cosa che invece non avrebbero mai accettato senza minacce di dazi più alti.

Forse che la folle strategia di sparare altissimo e poi “chicken out”, alla fine gli darà ragione?

Who knows?

Interessantissima e seducente interpretazione.

Sono andato un po’ lungo sul primo trend, però chiaramente è quello che sta radicalmente trasformando, più di ogni altro e più velocemente di tutti, la configurazione economica del globo.

Il SECONDO TREND è invece più o meno una diretta conseguenza del primo: l’Isolazionismo militare degli Stati Uniti.

Trump ha fatto capire chiaramente che gli Stati Uniti non forniranno più in maniera illimitata il proprio global security umbrella, tanto che non è più così improbabile un significativo disimpegno americano dalla Nato. Come noto la richiesta ai membri Nato, tra cui ovviamente anche noi italiani, è di portare la spesa militare al 3,5% del Pil, più un altro 1,5% per investimenti correlati. Considerato che oggi l’Italia spende circa l’1,5% del Pil in difesa e non è che gli altri Paesi europei siano messi molto meglio, stiamo parlando di un esorbitante travaso di risorse che deve confluire in spesa militare.

Non entro qui nel merito politico della cosa perché meriterebbe un episodio a parte.

Per chi è interessato consiglio la newsletter del 23 giugno di Whatever it takes del nostro Federico Fubini, vicedirettore del corriere della sera, che ha spiegato molto bene perché in qualche modo dovremo farcene una ragione di questa richiesta e agire di conseguenza in maniera strategica, evidenziandone costi e benefici.

Il primo trend, comunque, è che con gli Stati Uniti che smetteranno di fare il poliziotto di quartiere per tutto il mondo, ciascuno, Europa in primis, dovrà provvedere da sé alla propria sicurezza militare — o comunque contribuire in maniera molto più massiccia che in passato.

Il TERZO TREND invece riguarda la Cina e la sua strabiliante avanzata tecnologica in praticamente qualunque settore industriale, che di fatto l’ha trasformata negli ultimi decenni da un gigantesco sweatshop a cui tutti le imprese dei paesi sviluppati appaltavano le produzioni a basso valore aggiunto all’unico leader tecnologico globale alternativo agli Stati Uniti.
La Cina ha ormai poco da invidiare a qualunque altra nazione avanzata: auto, robotica, energie rinnovabili, prendete un settore e ormai ci sono dei colossi cinesi che realizzano prodotti ultracompetitivi. Ma soprattutto è nel settore che conta davvero che la Cina ha fatto passi da gigante: l’intelligenza artificiale.

L’abbiamo messo un po’ da parte perché Trump e i dazi hanno preso la scena, ma se vi ricordate DeepSeek è stato uno shock per il mondo intero. La Cina avrà sì scopiazzato in lungo e in largo ChatGPT, però è stata in grado di dimostrare al mondo che l’intelligenza artificiale non è una questione esclusiva delle ricchissime Mag 7 che possono spendere cazziliardi di dollari, ma possono esistere soluzioni a basso costo altrettanto competitive.

Messo tutto insieme, questo cambia un po’ la narrativa generale.

Dal 2009 al 2024 le Big Tech americane hanno dominato il mondo perché hanno creato dei vantaggi competitivi incolmabili nei confronti dei loro competitor, quei Wide Moat che tanto piacciono a Warren Buffett.

Oggi però è improbabile che qualcuno riesca a costruire dei monopoli sull’intelligenza artificiale così come Apple, Microsoft, Google e Meta erano riuscite a costruirli nei rispettivi ambiti in cui hanno imperato negli ultimi decenni.

C’è un noto modo di dire che riassume bene le conseguenze finanziarie di quest’avanzata tecnologica della Cina, in particolare nel settore più dirompente dei prossimi decenni: When China enters a room, profit walks out, cioè quando la Cina entra in un settore, i profitti si riducono.

Per l’intelligenza artificiale staremo a vedere.

Per l’auto elettrica, invece, ci sono già dei casi clamorosi se confrontiamo i costi di Tesla con quelli dei modelli di Byd.

Quindi il terzo trend è l’avanza tecnologica della Cina e la possibile riduzione dei vantaggi competitivi tecnologici che per tanti anni hanno favorite le big tech americane.

QUARTO TREND: come conseguenza più o meno diretta dei precedenti trend, la Cina per un motivo e l’Europa per un altro hanno intrapreso un ambizioso percorso di stimoli monetario e fiscale.

La Cina lo fa chiaramente per controbilanciare gli effetti dei dazi che avranno certamente delle ripercussioni sull’export.

Spesa pubblica e tassi di interesse bassi sono delle iniziative da manuale per sostenere i consumi e stimolare l’economia interna potenzialmente danneggiata dai dazi americani.

In Europa invece il tema è più legato alla sicurezza militare e abbiamo parlato già più volte del piano supersized della Germania che potrebbe arrivare a investire fino a 1.000 miliardi di euro in infrastrutture strategiche e difesa — e in generale l’Europa tutta sembra ora meno rigida che in passato rispetto all’idea di investire internamente tramite debito comune.

Per il momento però lasciamo da parte l’altro lato della medaglia, ossia che senza la creazione di un mercato dei capitali comune e una maggiore integrazione fiscale tutto ciò resta fortemente depotenziato, ma va beh… sarà argomento per un altro episodio.

QUINTO e ultimo TREND: i dollari in eccesso derivanti dal disavanzo commerciale americano, ossia dal fatto che gli altri paesi vendono agli USA più di quel che comprano, negli ultimi 15 anni sono stati massicciamente reinvestiti in Treasury e in azioni dell’S&P 500, soprattutto nelle magnifiche 7. Oggi non è più così, tanto che sta prendendo piede l’acronimo ABUSA, che sta per Anywhere But USA, cioè ovunque tranne che negli Stati Uniti, per dire che tanti investitori istituzionali internazionali stanno alleggerendo il peso dei propri portafogli sugli Stati uniti, per timore di un dollaro in ulteriore declino, dell’instabilità derivante dalle iniziative di Trump, da possibili tassazioni sui rendimenti come quella prevista dalla famigerata sezione 899 del Big Beautiful Act e così via.

Insomma, miliardi di dollari in cerca di una nuova casa.

Questi sono i 5 trend che hanno già cambiato, volenti o nolenti, il quadro generale in cui si muovono i mercati finanziari, segnando dele svolte più o meno epocali rispetto al recente passato. Gli efetti li osserveremo solo nel tempo.

Ma se tutto ciò è vero, allora quali potrebbero essere le possibili conseguenze per le principali asset class?

Vediamo le principali.

NUMERO UNO: Il dollaro.

Chiaramente tutti i trend che abbiamo discusso sino ad ora fanno pressione sul bigliettone verde, che era entrato nel 2025 con un valore estremamente elevato.

Perché è lecito aspettarsi un dollaro in discesa nel futuro prevedibile?

Perché ci si può attendere una minore domanda di asset americani e per via della pericolosa traiettoria del debito americano che richiederà una massiccia emissione di titoli di stato anche nel futuro. Come prescrive la più basilare legge dell’economia, riduzione della domanda e aumento dell’offerta sono esattamente le due forze che riducono il valore di un bene.

Ora anche qui però bisogna specificare qualche caveat.

– È vero che nella prima parte dell’anno sono successe cose che non si erano viste da tempo e che sono più tipiche da Paese Emergente che da superpotenza finanziaria. Azioni americane giù, treasury giù e dollaro giù, tutti assieme appassionatamente nelle prime settimane di aprile dopo il liberation day. Non è questo il playbook classico. Quando il mercato azionario andava in crisi, solitamente gli investitori si rifugiavano nei titoli di stato americani e nel dollaro, rafforzandoli. Abbiamo però già spiegato perché è successo questo e quanto pesi anche il ruolo della fiducia verso un paese sulla stabilità di una valuta e dei suoi titoli di stato.

– Dall’altra parte però non si può nemmeno affermare che il dollaro sia in caduta libera e che questa cosa debba necessariamente durare. Da inizio anno ha è arrivato a perdere fino al 12% rispetto all’euro, ma bisogna anche ricordare che da ottobre a gennaio aveva guadagnato quasi il 9%, per la prematura euforia associata alla vittoria di Trump. Come dire: fermo restatando tutto il resto, i dazi, il debito, Trump, ecc. c’è probabilmente anche una componente di riallineamento. Il dollaro era stato over-comprato a fine 2024 ed è stato adesso over-venduto nel 2025.

– Inoltre bisogna dire che a seguito della guerra tra Israele e Iran, il dollaro ha invece reagito come ti aspetteresti e si è rafforzato nella prima settimana di conflitto, segno che oltre un certo livello di stress, i mercati tornano a rifugiarsi dove sono abituati, almeno in parte. E poi è di nuovo sceso alla prima conferma del cessate il fuoco.

Ci sono effettivamente delle pressioni che portano il dollaro verso il basso e tra l’altro se guardiamo alla prima presidenza Trump, non è che allora le cose siano andate molto diversamente. Nel 2017, quando anche allora andò in fissa con i dazi alla Cina, il cambio euro dollaro passò da 1,05 a 1,23. Allora 16% di rafforzamento dell’euro verso il dollaro. Alla fine del 2019 il dollaro era invece già tornato a 1,09. Oggi siamo a circa 1,16.

Morale: ci sono tendenze centrifughe che fanno pensare che il dollaro possa perdere ulteriore valore nel tempo rispetto a dove è ora? Sì.

Ci sono però delle chiare alternative al dollaro come riserva valutaria globale?

Neanche l’ombra.

Oscillazioni tra 1 dollaro e dieci e 1 dollaro e trenta rispetto all’euro sarebbero quindi semplicemente in linea con la media storica degli ultimi vent’anni.

Ricordiamoci che più di metà delle riserve valutarie estere globali sono in dollari, due terzi di tutte le obbligazioni societarie sono emesse in dollari e più di metà di tutte le fatture internazionali sono in dollari.

Con tutti i problemi e gli acciacchi che può avere il greenback, sostituirlo come valuta di riferimento è tutt’altro che una passeggiata e non esiste alcuna valuta che possa ricoprire questo ruolo nel futuro prevedibile. E su questa frase, amici cripto fan, scatenatevi!

NUMERO DUE: Obbligazioni — e qui distinguiamo: titoli di stato americani e europei.

I Treasury, l’abbiamo detto tante volte, sono l’asset più importante della galassia.

Semplicemente, la finanza globale non funziona senza di loro e quanto succede qualcosa di negativo ai rendimenti dei Treasury il problema generalmente si propaga ovunque, perché per usare una metafora di Robert Armstrong del FT, quello che ha inventato l’acronimo TACO, se i mercati finanziari sono un sandwich, i Treasury sono la maionese che lubrifica e amalgama tutti gli ingredienti.

Tra TACO e sandwich con la maionese mi vien da pensare che la dieta di Armstrong non sia particolarmente equilibrata.

Ad ogni modo, i Treasury hanno sofferto molto il Tariff Drama e soprattutto le iniziative fiscali di Trump, perché il mercato sta temendo che ad una certa si raggiunga il punto di non ritorno e che l’immane debito pubblico americano non si riesca più a rifinanziare così facilmente — o comunque non a questi tassi.

Anche qui, però, come per il dollaro, due considerazioni.

– La mole di debito è pericolosa e soprattutto sulle scadenze lunghe c’è molta diffidenza: il mercato sta cominciando a tenere conto del fatto che in futuro possa esserci un’oversupply di Treasury, un eccesso di offerta con ovvie conseguenza sui rendimenti.

– Esiste però un’alternativa ai Treasury per lubrificare gli ingranaggi della macchina finanziaria globale? No. Il bund è l’alternativa più vicina, ma quello dei titoli di Stato tedeschi non è un mercato neanche lontanamente così liquido e profondo come quello dei Treasury. Inoltre è vero che i Treasury a sto giro hanno funzionato meno come safe haven, come porto sicuro durante i crolli azionari, ma è anche vero che di fronte ad una minaccia reale come la guerra in Medioriente, alla fine hanno reagito come ti aspetti, tanto che dal 16 al 23 giugno il rendimento del decennale è sceso da 4,46 a 4,30%, segnale che nonostante tutto il titolo è stato comprato di fronte all’incertezza degli sviluppi militari in quell’area.

Per quanto riguarda invece i titoli di Stato dei singoli Paesi dell’area Euro abbiamo due forze contrastanti in gioco.

– Da un lato un euro più forte attrae investimenti in titoli governativi — e questo è buono;

– Dall’altro, come dicevamo prima, gli stimoli fiscali europei, guidati dalla Germania in primis, necessitano di una maggiore emissione di debito nel futuro che può avere come probabile conseguenza un rialzo dei rendimenti soprattutto sulle scadenze più lunghe — e questo è meno buono.

In attesa di capire il peso netto di queste due forze in gioco, sembra quindi lecito aspettarsi uno “steepening”, un irripidimento della curva dei rendimenti, cioè un aumento della differenza di rendimento tra titoli a scadenza breve e titoli a scadenza più lunga, che è un modo con cui il mercato dice: nel breve termine tutto ok, nel futuro stiamo in campana perché il rischio inflazione o comunque di rialzo dei tassi non è così remoto.

NUMERO TRE: le azioni, il nostro asset preferito. Anche qui, distinguiamo: S&P 500, Paesi sviluppati ex US ed Emergenti.

Qualche giorno fa il nostro amico Meb Faber ha intervistato l’altro nostro amico Rob Arnott insieme al suo socio in Research Affiliates Campbell Harvey all’interno del suo podcast, il Meb Faber show.

Neanche ve lo sto a dire, episodio spettacolare.

Ora, sappiamo che Arnott non è un grande fan dell’index investing ed è a tutti gli effetti un value investor, quindi ha naturalmente un bias contro tutto ciò che ha valutazioni elevate come l’S&P 500 — l’aveva detto anche qui da noi.

Però ciò non toglie che i loro ragionamenti siano stati ineccepibili.

In poche parole, riassumo così il loro condivisibile punto di vista:

– Azioni americane molto care, con uno dei più alti spread che si siano mai visti tra le azioni growth e quelle value. Per chi è capitato qui per la prima volta, le azioni value sono quelle con un prezzo relativamente basso rispetto al valore patrimoniale della società e che il mercato ritiene abbiano basse prospettive di crescita. Quelle growth, l’opposto. È noto che storicamente il rendimento medio di lungo termine delle società value è superiore a quello delle società growth, perché le prime sono percepite come più rischiose e spesso vengono sottovalutate, mentre le altre sono percepite come meno rischiose e spesso vengono sopravvalutate.
Su questo Arnott si è addirittura spinto nella previsione che, pur non sapendo quando, da qui al 2035 le società value torneranno a sovraperformare quelle growth, dopo gli ultimi 15 anni in cui è accaduto il contrario. La stima a 10 anni di research affiliates è che le grandi società growth americane cresceranno ad un misero 1,9% all’anno, meno dell’inflazione, contro quasi 9% per le small cap value.
Ovviamente questi numeri vanno prese con le pinzissime, ma dà l’idea di quanto ampio sia oggi il gap di valutazioni tra le grandi società growth che hanno dominato negli ultimi anni e le piccole società value che sono fuori dall’S&P 500.

In generale, comunque, un po’ per le valutazioni molto elevate, un po’ per la riallocazione di capitali internazionali via dagli Stati Uniti e dal dollaro, è possibile che l’S&P 500 non sia più the only game in town come sembrava fino alla fine del 2024.

E in questo podcast abbiamo raccontato tantissime volte come ci siano tantissimi buoni motivi per pensare che, dopo 15 anni di corsa sfrenata, possa anche starci che nei prossimi anni l’S&P 500 tiri un po’ il fiato, anche perché altrimenti di questo passo tra altri 15 anni gli Stati Uniti finirebbero per pesare il 90% del MSCI ACWI, mentre noi sappiamo bene che se nel breve medio termine prevalgono i trend, nel lungo termine tende a prevalere la regressione verso la media.

Questo, tuttavia, non è un buon motivo per non essere investiti negli Stati Uniti. Giammai!
Però avere consapevolezza di ciò è importante per gestire al meglio il rapporto con il nostro portafoglio.

– Arnott e Harvey sono invece sicuramente più bullish sui mercati sviluppati ex US. Loro partono anche qui dalle valutazioni nettamente più basse rispetto a quelle americane, ma è anche lecito aggiungere che dopo un decennio mediocre, oggi l’Eurozona, il Regno Unito e il Giappone potrebbero tutti avere buoni motivi per attrarre parte di quei capitali che non andranno più di default tutti nell’S&P 500.
Per ora l’impatto si è visto solo sulle valute: euro, sterlina e yen si sono tutte rafforzate contro il dollaro. A livello di equity il dato non è ancora così macroscopico, ma se le iniziative fiscali e i vari investimenti strutturali soprattutto in Europa dovessero davvero prendere piede, allora tutto ciò, unito ad un euro forte, potrebbe essere vento in poppa per le azioni europee.

– Sui mercati emergenti, infine, sia Arnott e Campell che altri, come per esempio lo stesso Howard Marks e anche Davide Serra quando era stato da noi, hanno fatto delle riflessioni interessanti, soprattutto sulla Cina.
La Cina ha un serie di elementi estremamente favorevoli:

– Le sue società sono di livello paragonabile a quelle occidentali e come dicevamo prima il loro livello di avanzamento tecnologico ha poco da invidiare ai giganti americani.

– Inoltre le valutazioni azionarie sono ridicolmente basse. Mentre l’S&P 500 scambia a circa 22 volte gli utili attesi, l’MSCI China è esattamente alla metà, 11 volte.

Ci sono dei però:

– Il primo è che la crisi del settore immobiliare, acuita da un peggioramento della situazione demografica, non viene bilanciata dal governo cinese con un forte stimolo dei consumi interni.

– Il secondo è che la Cina ha un mercato ancora molto chiuso ai capitali esteri.

Se mettiamo tutto assieme, la combinazione tra stimoli alla domanda interna e apertura dei capitali ad investitori esteri sarebbero un doping da elefante per il mercato cinese.

Quali sono però i rischi?
Beh ricordiamoci che i mercati sono piuttosto efficienti fino a prova contraria.
Se fosse tutto così ovvio il Price/Earning ratio del MSCI China non sarebbe 11 ma sarebbe più elevato.
I mercati prezzano il rischio.
Bassi multipli = rischio percepito elevato e quindi elevato rendimento atteso richiesto per investirci.

I rischi sono fondamentalmente tre:

– Il primo è sempre quello normativo. Degli Stati Uniti di Trump ci fidiamo forse un po’ meno oggi, ma sicuramente ci fidiamo molto di più che della Cina di Xi Jinping. La Cina deve ancora dimostrare di essere business-friendly e integerrima nel tutelare gli investitori stranieri. Inoltre le aziende sono praticamente tutte partecipate dallo stato o fortemente controllate e la trasparenza dei dati finanziari non sempre è di casa.

– Il secondo rischio è che vengano a mancare appunto le due premesse, ossia: stimoli alla domanda interna e apertura all’esterno, entrambi per la stessa motivazione e cioè per paura che l’autorità centrale perda controllo. Lo stato cinese, infatti, investe molto a livello infrastrutturale e produttivo, ma fa molto poco per stimolare i consumi e negli anni ha creato un modello in cui le famiglie cinesi risparmiano molto per un mix di fattori ideologici e di insicurezza sociale e di conseguenza spendono poco. Mentre sappiamo bene che le economie occidentali e soprattutto quella americana, negli ultimi decenni hanno prosperato grazie allo sviluppo dei consumi.

– Il terzo rischio è legato alla politica monetaria, con il Reminbi che potrebbe venir sistematicamente svalutato per controbilanciare gli impatti dei dazi sulle sue esportazioni, con un effetto negativo sul valore degli asset detenuti da investitori stranieri.

Tutto sommato, comunque, il mercato cinese non è sicuramente da sottovalutare e non è fuori luogo ritenere che quel misero 2-3% che pesa oggi nell’MSCI ACWI non ne rappresenti correttamente il potenziale economico.

Se coglierà l’occasione per aprirsi al mondo, rimuovere alcuni limiti ideologici che rallentano i consumi interni e sfruttare i vuoti che potrebbero essere lasciati dal neoisolazionismo americano, il tutto unito alla sua inarrestabile avanzata tecnologica, il mercato cinese potrebbe essere un protagonista del futuro prossimo.

Proprio Marks la scorsa settimana si è detto molto ottimista sulle prospettive cinesi nel lungo termine ma ha invitato espressamente le autorità cinesi ad aprire il proprio mercato agli investitori stranieri per realizzarne al meglio il potenziale.

Chiudiamo con oro e materie prime.

Buona parte dei trend che abbiamo elencato all’inizio sono sicuramente favorevoli all’oro.

– Lo è il potenziale indebolimento del dollaro

– Lo è la rinuncia americana al suo ruolo di supervisore di un mondo aperto e globalizzato

– Lo è l’aumento dell’investimento militare generalizzato.

La necessità di rendersi indipendenti dal dollaro e di avere riserve di valore affidabili in caso di shock geopolitici sono due ingredienti ideali per l’oro, che continua ad essere super comprato soprattutto dalle banche centrali non occidentali.

Tra l’altro l’oro oggi è diventato, di fatto, la seconda “valuta”, tra virgolette, nelle riserve internazionali.

Dopo il dollaro al primo posto, come dicevamo, prima, l’oro ha scalzato l’euro occupando oltre il 20% del peso complessivo.

Recentemente anche Nassim Taleb ha rilasciato un’intervista a Bloomberg in cui ha espresso esattamente questo pensiero, ossia che l’oro sia a tutti gli effetti la valuta che esce vincente da questa fase di trasformazione degli equilibri economici globali, con un graduale spostamento della fiducia dal dollaro verso l’oro quale valuta di riserva privilegiata, tangibile e apolitica.

Per gli investitori internazionali, inoltre, l’oro è un hedge naturale nei confronti del dollaro perché essendo prezzato in dollari, tende a rafforzarsi quando il dollaro si indebolisce, compensando in parte la svalutazione degli asset americani nei portafogli.

Infine, dollaro più debole, stimoli monetari in Cina ed Europa e maggiori tensioni geopolitiche internazionali sono favorevoli anche alle materie prime, soprattutto perché l’ultimo fattore potrebbe spingere a creare riserve strategiche, aumentando la domanda di commodities e sostenendone il prezzo.

Ovviamente tutte le cose di cui abbiamo parlato oggi non rappresentano delle previsioni su quali saranno gli asset più performanti del futuro.

Possiamo affermare che nel 2025 sono successe cose importanti che per certi versi rappresentano dei punti di non ritorno.

E questi eventi non resteranno senza conseguenze.

Abbiamo visto quali potrebbero essere le implicazioni più ragionevoli, ma naturalmente ci sono anche tante variabili in gioco quindi nessuna delle considerazioni espresse dovrebbe guidare alcuna decisione di investimento.

Tranne una: la diversificazione.

Non vorrei dire che oggi il mondo è più incerto che in altri momenti.

L’incertezza regna sovrana nel mondo e quando pensiamo che non ci sia è solo perché non la percepiamo, non perché sia assente.

Quindi non è OGGI il momento per diversificare. È SEMPRE.

Ma oggi è tanto più macroscopico quanto il mondo stia accelerando la sua velocità trasformativa e dunque quanto sia importante non avere in portafogli posizioni eccessivamente concentrate, basate su convinzioni che ci siamo fatti nel passato e magari con dei rischi che puntano tutti nelle stesse direzioni.

– Gli Stati Uniti sono e restano il più grande mercato azionario del mondo — e benché abbia detto più volte di averli sottopesati nel mio portafoglio, farei fatica a immaginarmi che non occupino il peso più grande della mia quota azionaria.

– Gli altri paesi sviluppati rappresentano certamente delle opportunità visto il gap nelle valutazioni, ma è importante non passare da un eccesso all’altro perché valutazioni inferiori prezzano anche un maggiore rischio implicito. Uno può prenderselo, ma deve essere consapevole delle conseguenze. Stesso discorso, ma sotto steroidi, sui mercati emergenti, per via dell’ulteriore complessità determinata dalle variabili geopolitiche e normative.

– Le obbligazioni hanno sempre un senso nel portafoglio, soprattutto per coprire la sua componente a basso rischio. Ma bisogna ricordarsi che buona prassi è sempre avere asset e liabilities nella stessa valuta. Se la mia vita è in euro e uso le obbligazioni per avere una base stabile nel portafoglio e per far fronte a spese future, tutta la componente obbligazionaria non in euro sarà tutt’altro che sicura. Ci può stare, ma teniamo conto che la volatilità della variabile valutaria è solitamente superiore alla volatilità media di un bond governativo ad alto rating.

– Oro ed eventualmente materie prime possono a loro volta avere un ruolo importante nel portafoglio, sia per il loro rapporto con il dollaro, sia perché seguono altre logiche rispetto ad azioni e obbligazioni, aumentando il livello di diversificazione.

Ovviamente la diversificazione è soprattutto un’assicurazione, non ciò che massimizza il rendimento atteso.

Per fare questo bisognerebbe puntare solo sui pochi asset che si ritengono vincenti. Con tutti i rischi specifici che ciò comporta.

Diversificare è però il modo migliore che abbiamo per costruire portafogli in grado di attraversare diverse stagioni economiche riducendo il rischio che eventi inattesi e imprevedibili causino degli shock irrecuperabili.

Un mancato guadagno farà sempre meno male di una perdita della stessa entità.

Facciamo quindi questi episodi non per suggerire dove investire, ma per fondare su basi concrete la tesi secondo cui investire in modo diversificato sia il primo principio inviolabile da rispettare per sempre come investitore, mentre quotidianamente verremo persuasi dalla tentazione di fare il contrario e periodicamente ci rammaricheremo per non aver concentrato maggiormente il portafoglio. Poi ciascuno, in base alle proprie idee e sensibilità, deciderà che posizioni prendere rispetto a quanto detto.

Ricordatevi che solo a posteriori le cose sembrano perfettamente ovvie.

Quando invece si fanno scommesse sul futuro, prendere decisioni sbagliate non è solo una probabilità ma un’ineluttabile certezza.

Bene amiche e amici miei, fine anche di questo episodio.

Spero che via sia piaciuto e che per questo vogliate continuare a seguirci, mettere segui e attivare le notifiche su spotify, apple podcast o dove ci ascoltate e a lasciare una recensione a 5 stelle per supportarci e permetterci di continuare a produrre contenuti che vi raccontano i trend che hanno già cambiato il futuro dei mercati ma mai scalfiranno la nostra disciplina come investitori sempre nuovi.

Prima di lasciarci sono felice di annunciarvi che venerdì uscirà un episodio straordinario extra in cui ci spostiamo un po’ dai temi più strettamente finanziari di sempre e chiacchiereremo con Federico Frattini, il Decano della Graduate School of Business del Politecnico di Milano per parlare di MBA, del futuro della formazione in un modo destinato ad essere trasformato dall’AI, dell’impatto dirompente dell’innovazione nelle nostre vite e tanto altro ancora.

Non parleremo di investimenti, ma come anche Nick Maggiulli e Jason Zweig ci avevano ricordato, stocks and bonds sono solo due elementi del nostro portafoglio, mentre spesso ci dimentichiamo di quello più importante: il nostro capitale umano.

Parleremo soprattutto di questo e di come svilupparlo con il prof. Frattini, non perdetevelo!

Per questo episodio invece è davvero tutto e noi ci risentiamo eccezionalmente venerdì prossimo, segnatevelo sul calendario, sempre qui naturalmente con the bull il tuo podcast di finanza personale.

Recensioni

Quando capisci come funziona la finanza… ti viene voglia di raccontarla!

Podcast che dà sempre spunti interessanti che personalmente mi ha fatto appassionare alla finanza personale spingendomi ad approfondire in prima persona.

Lorenzo, 13 Mar 2025

Ho acquistato e letto il suo libro e l' ho trovato. Esprime i concetti economici in modo semplice e chiaro. Sentirlo parlare conferma che è un professionista del settore.

Giulia N., 11 Ago 2025

La mia ignoranza in materia mi ha sempre creato dei dubbi, ma grazie a un amico ho iniziato ad ascoltare il podcast. Per fortuna che ho 24 anni e un po' di tempo e soldi da dedicarmi a imparare le varie nozioni per me stesso. Grazie mille!

Luca G. 10 Ott 2025

Non sono solito a mettere recensioni e specialmente non ascolto podcast, ma da quando ho iniziato questo, faccio fatica a staccarmi, e quasi non posso più fare a meno di ascoltare e arricchirmi culturalmente.

Andrea V., 22 Set 2025

Veramente interessante, chiaro e conciso. Cambia la vita finanziaria di chiunque.. da ascoltare assolutamente anche per chi di finanza non vuole occuparsi mai

Francesca B., 6 Apr 2024

Da quando l'ho scoperto in 15 gg mi sono ascoltato 150 puntate senza fermarmi, ho annullato gli altri podcast per portarmi alla pari ed ascoltare tutte le precedenti puntate, ben fatto, esattamente il livello di informazione che mi serviva

Gianluca G., 11 Set 2025

Dovrebbero ascoltarlo buona parte degli italiani e io avrei dovuto scoprirlo con qualche anno in anticipo ma meglio tardi che mai

Matteo C., 3 Set 2025

Ho seguito tutte le puntate! Grazie veramente

Amalia A., 17 Set 2025

Podcast piacevole, scorre veloce ma in modo estremamente chiaro, spiega i concetti chiave per gestire le proprie finanze, fornendo la classica cassetta degli attrezzi. Complimenti, davvero ben fatto!

Massimiliano, 29 Mag 2024
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