Investire in Private Equity: perché ha reso tanto e cosa aspettarsi in futuro.

Il Private Equity sta occupando sempre più spazio nei portafogli istituzionali e stanno aumentando le opportunità di investimento anche per i privati. In cosa consiste? Quali sono i rischi e le opportunità? Renderà anche in futuro così tanto come nel recente passato?

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231. Investire in Private Equity: perché ha reso tanto e cosa aspettarsi in futuro.

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Punti Chiave

Il Private Equity (PE) investe in società non quotate; il suo rendimento (IRR) non è confrontabile direttamente con l'azionario pubblico.

Attenzione a rischi, illiquidità e "illusioni ottiche" su rendimenti passati e volatilità, anche per il retail.

Trascrizione Episodio

Bentornati a The Bull — il tuo podcast di finanza personale

Avete mai avuto la sensazione dell’elefante nella stanza?

Una cosa gigante di cui non si parla mai e che praticamente ci si deve sforzare ad ignorarla, ma è talmente ingombrante che ad un certo punto non si può che prendere atto della sua presenza.

Nel mio caso, uno di questi pachidermi che ormai occupa un ruolo di primo piano nel mondo della finanza si chiama Private Equity.

Non è l’unico, a dire il vero, c’è probabilmente almeno un altro grande tema che non tocco mai che è quello delle polizze e delle gestioni separate, ma quello sarà argomento per un’altra occasione.

Il Private Equity è invece un tema di cui bisogna prendere una qualche consapevolezza perché ho pochi dubbi sul fatto che negli anni a venire diventerà sempre più pervasivo nelle discussioni su portafogli e investimenti ANCHE per gli investitori retail.

Ora, piccola disclosure prima di iniziare questo episodio introduttivo al tema del Private Equity: come sapete uno degli storici sponsor di questo podcast è Scalable Capital, che è anche uno dei due broker che utilizzo per investire in ETF.

Dopo che lo uso da più di due anni non posso che riconfermare di essermici sempre trovato benissimo e che obiettivamente la possibilità fare piani di accumulo a zero costi d’ordine, Scalable Insights e la liquidità non investita remunerata sono dei grandi punti di forza per l’investimento retail a lungo termine.

E soprattutto non posso fare a meno di consigliare di usare il link in descrizione per aprire un account su Scalable, cosa che non darà alcun beneficio ulteriore a voi ma farà sì che Scalable riconoscerà a me una cospicua commissione, che a sto giro mi sarà pagata in bobine di rame visto il prezzo a cui è andato dopo il 50% di dazi imposti da sua eccellenza il presidente con più betacarotene della storia americana.

Scalable però ha anche lanciato da poco la possibilità di investire in un ELTIF, ossia un European Long-Term Investment Fund, uno strumento europeo pensato per dare accesso anche a investitori di piccola taglia ai mercati privati dell’equity, del credito e dell’infrastruttura.

Il prodotto è di Blackrock e sull’app si trovano tutte le indicazioni sul prodotto, il kid, la scheda informativa i costi e tutto quel che c’è da sapere prima di investirci, cosa che tra l’altro può essere fatta solo dopo la compilazione di un questionario di idoneità sulle competenze finanziarie e sullo stato patrimoniale.

Ora, in questo episodio non voglio né consigliarvi né sconsigliarvi di investire in questo o in altri strumenti di private equity. Eventualmente dedicheremo un futuro episodio ad un deep dive sullo strumento.

Quella di Scalable è sicuramente una novità assoluta per gli investitori retail, quindi è giusto sapere che c’è questa possibilità, ma prima di compiere qualunque scelta di investimento, così come abbiamo fatto in lungo in largo e continueremo a fare con ETF, azioni, obbligazioni, oro e compagnia bello, lo stesso deve valere per gli asset privati, ossia: è importante prendere consapevolezza di rischi e opportunità per decidere se un certo strumento fa per noi e per la nostra pianificazione finanziaria.

L’obiettivo di oggi è quindi quello di dare i contorni di che cos’è Private Equity, spiegare perché se ne parla tanto, perché da asset class super elitaria per investitori istituzionali o super milionari sta diventando sempre più accessibile al mondo retail e quali possono essere opportunità e rischi.

Cominciamo dicendo una cosa.

Noi siamo abituati a sovrapporre l’andamento di un’economia e quello del suo mercato azionario.

Non che non ci sia una correlazione forte, anzi.

È ovvio che al netto di divergenze di breve termine, nel lungo termine è difficile immaginarsi un’economia depressa e un mercato azionario forte — mentre non è del tutto impossibile il contrario. Per esempio il rendimento di lunghissimo termine di alcuni mercati azionari come quello tedesco, quello giapponese o quello italiano sono stati piuttosto mediocri, nonostante stiamo parlando di 3 delle 7 economie più importanti del secolo scorso.

Però soprattutto quest’ultima cosa ci conferma il fatto che l’economia di un Paese e il suo mercato azionario sono due cose piuttosto diverse.

Per prendere l’esempio più macroscopico, quello americano, nel 2023 erano quotate circa 4.400 società, di cui chiaramente sappiamo che le prime 500 fanno oltre l’80% dell’intero mercato e che le prime 10 di esse pesano oggi per circa il 30% del totale.

Comunque, 4.400 società quotate.

Invece il numero di società non quotate negli Stati Uniti è oltre 730.000.

Chiaramente in queste 730.000 c’è dentro tutto.

Ma anche se ci limitiamo solo alle società più grandi, ossia quelle che fatturano almeno 100 milioni di dollari l’anno, l’87% di esse non è quotata in borsa.

Inoltre ci sono alcuni colossi, sia negli Stati Uniti che in Europa, che non sono quotati in borsa e che per motivazioni strategiche hanno deciso di rimanere private.

Negli Stati Uniti abbiamo Cargill e Koch Industries, due società private che fatturano oltre 100 miliardi di dollari, e il gigante alimentare Mars, oltre 50 miliardi di fatturato. Oltre naturalmente a tanti altri nomi noti come la catena di alberghi Hilton, Bloomberg, Stripe e ovviamente la società aerospaziale di Musk SpaceX.

In Europa alcuni casi celebri sono Bosch, Ikea, Lego e il nostro fiore all’occhiello Ferrero.

Non tutti hanno dei fondi di private equity alle spalle, ma in generale il mondo delle corporate private rappresenta una porzione assolutamente dominante dell’economia globale.

Ora, come funziona un fondo di private equity?

Un fondo di private equity investe appunto in società non quotate — oppure in alcuni casi in società quotate per delistarle e renderle private — con l’obiettivo solitamente di incidere sulla strategia, su aspetti organizzativi oppure a volte in ristrutturazioni profonde per renderle maggiormente profittevoli e poi tipicamente rivenderle ad altri fondi oppure quotarle in Borsa, attraverso operazioni di IPO.

Per fare questo, vengono raccolti capitali tipicamente da soggetti istituzionali o da investitori privati high net worth, dato che il più delle volte gli investimenti minimi nel PE sono nell’ordine di milioni di dollari — anche se come vedremo oggi questa cosa sta cambiando e ci sarà da capire se ciò sia un bene o un male. Dicevo vengono raccolti capitali da questi soggetti che diventano limited partners e poi il fondo agisce come general partner e compone il portafoglio di società investendo in società private.

Se lasciamo da parte per oggi il discorso sul Venture Capital, che si concentra tipicamente su start-up, il tipo di operazioni più emblematico del private equity vero e proprio, si rivolge a società più grandi e consolidate che sono già sul mercato da diversi anni. Una delle forme più diffuse è il cosiddetto Leveraged Buyout.

Molto semplicemente LBO significa prendere in prestito del capitale per comprare una quota di una società, spesso anche il 70-80% del necessario, e poi utilizzare i flussi di cassa della società per ripagare il debito.

Negli ultimi 10 anni questa si è rivelata una formula estremamente profittevole perché ha potuto beneficiare del costo eccezionalmente basso del denaro con i tassi che sono rimasti quasi a zero fino al 2021.

I fondi PE prendevano quindi denaro in prestito praticamente gratis, compravano la società, intervenivano nel piano strategico apportando spesso anche know-how e competenze, tagliavano i costi ritenuti non necessari, facevano crescere la profittabilità della società, con parte dei profitti ripagavano il debito e solitamente nell’arco di 5-7 anni le società venivano o quotate o rivendute ad un prezzo maggiore, realizzando un guadagno mediamente elevato ed amplificato dall’effetto della leva, ossia dal fatto che l’acquisto iniziale non era stato fatto con soldi propri ma soldi presi in prestito e poi ripagati con i flussi di cassa della società.

So far so good.

Uno dei primi ad intuire il potenziale del private equity come forma di investimento alternativo e più profittevole dell’investimento nel public equity, nel mercato azionario, è stato il leggendario Dave Swensen, che per oltre 30 anni gestì l’Endowment di Yale, l’immenso patrimonio che tipicamente hanno tutte le grandi Università americane che vengono amministrati da superstar del portfolio management.

Swensen ottenne risultati eccezionali, trasformando il capitale iniziale di meno di un miliardo di dollari nel 1985 a oltre 30 miliardi alla sua morte nel 2021, realizzando una performance di circa il 12% medio annuo grazie ad una formidabile combinazione di asset assolutamente pioneristica per l’epoca, che comprendeva hedge funds, real asset e una grossa quota, appunto, di private equity.

La cosa più sorprendente non è tanto il 12% medio, che secondo altre fonti è stato anche di più, c’è chi dice 13-14%, ma il fatto che durante il decennio perduto, con l’S&P che ha perso in media l’1% all’anno, lo Yale Endowment è continuato a crescere al ritmo dell11,8%, come ha riportato un articolo di Burton Malkiel sul WSJ qualche giorno fa.

Swensen fu uno dei primi ad intuire i potenziali benefici dell’investimento in private equity.

– In primo luogo, quello delle società private è un mercato meno efficiente di quello pubblico, di conseguenza ci sono teoricamente maggiori opportunità per un fondo di selezionare realtà con elevato potenziale non ancora espresso. Inoltre, a differenza delle società quotate, il fondo di private equity interviene direttamente nella governance della società e tipicamente crea un sistema di incentivi per il management che allinea gli interessi in funzione dell’exit, cioè del momento in cui la società verrà venduta o quotata cercando di generare il massimo profitto. Normalmente questa cosa si fa legando parte della retribuzione del management a quote della società.

– In secondo luogo la combinazione tra la leva dei leveraged buyouts, l’efficientamento operativo, l’orientamento alla profittabilità delle società in cicli di medio periodo e la razionalizzazione dei costi è stato spesso un mix efficace per permettere al fondo di comprare a valutazioni adeguate e rivendere al momento giusto a valutazioni più ricche.

– Infine — e qui parliamo di una cosa fondamentale su cui torneremo tra pochissimo — Swensen comprese bene il fatto che il private equity potesse pagare un extra rendimento rispetto all’S&P 500 per via di ciò che si chiama “illiquidity premium”.

Spendiamo due parole su questo.

Fin dalla notte dei tempi di questo podcast abbiamo parlato dell’importanza di prediligere strumenti liquidi nel portafoglio, proprio perché l’illiquidità di uno strumento implica maggiori costi, nella migliore delle ipotesi, e maggiori rischi nella peggiore.

L’S&P 500, i principali indici dei paesi sviluppati, il mercato dei titoli di stato americani, europei e giapponesi e così via per tutti gli altri ambiti di investimento che trattiamo qui sono tutti estremamente liquidi.

Se io volessi, in questo momento potrei prendere il mio smartphone e vendere tutto il mio portafoglio in un click — e vedrei i soldi sul conto del mio broker nell’arco di una manciata di secondi, qualche minuto al massimo.

Con il private equity solitamente non funziona così.

Quando investo in un fondo di private do il mio committment per diversi anni e i tempi di uscita sono poco prevedibili, perché dipende da quando il fondo riesce effettivamente a vendere le società in portafoglio o quotarle in Borsa.

Nel frattempo ci possono naturalmente essere delle distribuzioni di capitale di altra natura e soprattutto negli ultimi anni molti fondi hanno cominciato a garantire delle finestre di liquidazione parziale del capitale.

Ma in generale, per definizione l’investimento in realtà private è illiquido.

Essendo illiquido è tecnicamente più rischioso.

Essendo più rischioso in quest’accezione deve pagare un premium, un rendimento supplementare.

Per Swensen, che doveva gestire un patrimonio destinato a sopravvivergli, il trade off era assolutamente giustificabile:

– Il capitale era destinato a rimanere nell’università per sempre, mentre solo una piccola parte serviva annualmente per pagare professori e ricerca;

– Lui riuscì a negoziare delle fee assolutamente fuori mercato per via della grossa economia di scala e per l’interesse di marketing che i fondi avevano nel poter dire che erano stati scelti da Swensen e Yale

– Tutto funzionò alla perfezione e l’Endowment portfolio diventò un modello per tutte le istituzioni universitarie, ma anche per altri grandi investitori istituzionali.

Detto questo, perché oggi si parla così tanto di Private Equity, come se dovesse diventare una componente necessaria della maggior parte dei portafogli?

Sicuramente di portafogli istituzionali e forse anche dei portafogli retail.

Proviamo a dividere le — diciamo così — buone motivazioni da altre che sollevano quanto meno il sospetto che siano un po’ meno buone.

– PRIMA BUONA MOTIVAZIONE: le valutazioni azionarie, soprattutto dell’S&P 500, sono spremute come un limone. Rapporto medio tra prezzo e utili futuri a quasi 23, Shiller-Cape Ratio intorno a 36, tutti valori molto molto molto vicini a quello che viene considerato il folle picco del 1999.
Perché l’S&P 500 superi i 7.000 punti l’anno prossimo, quindi una crescita tutto sommato modesta dato che siamo intorno ai 6.200, le valutazioni dell’S&P dovrebbero addirittura superare quelle del 1999, andando oltre 26 volte gli utili attesi.
Se le sono valutazioni stiracchiate allora, prima o poi, i rendimenti futuri potrebbero essere inferiori. Vi ricordate tutto il pippone dello scorso episodio? Se guardiamo le azioni come fossero bond, l’inverso del rapporto tra prezzo e utili, ossia l’earning yield, è mediamente un discreto indicatore del rendimento reale di lungo termine. A seconda del criterio che si utilizza, l’S&P sembra destinato ad un rendimento reale di medio-lungo termine nell’ordine del 3-4% all’anno, ben lontano dal 6,7% storico e dal mostruoso 11 e passa% degli ultimi 15 anni.

E’ quindi qui che i mercati privati entrano in soccorso. Non solo private equity, ma anche la versione privata del mondo obbligazionario, il private credit, e altri ambiti come il private infrastracture e private real estate, rappresentano tutti delle alternative potenzialmente ad alto rendimento per sostenere i portafogli se è vero che ci apprestiamo ad un periodo dii ritorni mediocri sui mercati finanziari pubblici.

– SECONDA BUONA MOTIVAZIONE: ci sono potenzialmente molte più opportunità sui mercati privati, in particolare in quello dell’equity, dato che come abbiamo vista prima il numero di società non quotate è immensamente più elevato di quelle quotate e diversamente dal mercato azionario, il fondo di private equity non si limita a costruire un portafoglio come un asset manager azionario, ma interviene nella strategia societaria portando una leva operativa finalizzata a massimizzarne la profittabilità. In teoria. Quindi, sempre in teoria, il contributo del gestore del fondo di private equity potrebbe fare davvero la differenza selezionando realtà di qualità e contribuendo attivamente al loro successo.

– TERZA (forse) BUONA MOTIVAZIONE: tante società oggi decidono di rimanere private più a lungo. Rispetto a vent’anni fa, la vita media di una società al momento della sua quotazione in borsa era di 8 anni, mentre oggi è salita a 12-14, a seconda delle fonti. Teoricamente quindi esistono oggi società più grandi e mature che non sono ancora quotate sui mercati finanziari. E uno dei motivi è che dove non c’è necessità di raccogliere capitali sul mercato, restare privati risparmia le società da tutta una serie di vincoli regolamentari a cui sono sottoposte le società pubbliche.

Siccome però io sono come San Tommaso e tendo ad essere diffidente per natura, ci sono anche delle altre motivazioni un po’ meno virtuose di cui sento l’odore da lontano.

Vedete, come dissi in episodi più riflessivi dedicati ai grandi principi che la finanza mi ha insegnato per la vita, sono fermamente convinto che per capire dinamiche economiche, sociali, relazionali e in generale “umane” non ci sia niente di meglio che considerare gli INCENTIVI.

Perché tutte le società di asset management, in particolare negli ultimi 3-4 anni, hanno cominciato a smartellare i cosiddetti ad ogni piè sospinto sulle meraviglie del private equity e dei suoi favolosi ritorni apparentemente a rischio più contenuto delle azioni?

Ecco fissatevi intanto queste due cose: ritorni più elevati e minor rischio, perché saranno due delle tre possibili illusioni ottiche da cui il mondo del private equity potrebbe essere offuscato.

Dicevo, comunque, quali sono le motivazioni un po’ meno buone per questa spinta degli asset manager sul private equity?

– PRIMA (MENO BUONA) MOTIVAZIONE: i margini. Oggi gli ETF dominano i mercati e negli Stati Uniti hanno superato, come volume di asset gestiti, i fondi comuni di investimento. Capisco però che il problema per iShares, Vanguard e per tutti gli altri sia sostenere gli utili a lungo termine con commissioni che ormai arrivano allo 0,03% all’anno.
Da una parte tutta l’offerta di ETF “particolari”, quindi tutti quelli che non si limitano a replicare gli indici principali, hanno TER più alti perché sì hanno anche altri costi, ma probabilmente anche per recuperare marginalità.
Dall’altra il classico sistema commissionale del private equity, molto simile a quello degli hedge fund, ossia 2 e 20, 2% di commissioni annue più 20% di commissioni di performance oltre una certa soglia, rappresenta un’opportunità di business eccezionale.

Nella sua ultima lettera annuale agli azionisti, il potentissimo CEO di Blackrock Larry Fink ha scritto che il portafoglio standard del futuro non sarà più 60% azioni e 40% obbligazioni, ma qualcosa di più simile a 50% azioni, 30% obbligazioni e 20% asset privati.
Da una parte comprensibile.
Dall’altra non è del tutto disinteressato dato che ha speso quasi 30 miliardi di dollari per comprare società specializzate in private equity, private credit e private infrastracture proprio per entrare con entrambi i piedi in questo ricchissimo business.

– SECONDA (MENO BUONA MOTIVAZIONE): se è vero che il private equity ha realizzato performance storiche elevate, gli ultimi anni sono stati molto meno eccezionali. Secondo il Financial Times, il 2024 è stato il primo anno in cui il rendimento del private market index di State Street, che è diciamo una sorta di equivalente privato dell’S&P 500, ha sottoperformato l’S&P 500 su tutti gli orizzonti temporali: 1 anni, 3 anni, 5 anni e 10 anni.
Le motivazioni potrebbero essere molteplici:

– In primis oggi il denaro costa molto di più che fino al 2021. Se fare leveraged buyout dal 2009 al 2021 era stato praticamente gratis, dato che era possibile prendere soldi in prestito a meno dell’1% e in un contesto di enorme quantitative easing da parte delle banche centrali, dopo il 2022 è cambiato tutto. Con i tassi della Fed al 4,33%, ciò è un grosso freno al mercato del private che aveva prosperato grazie alla leva a basso costo.

– Collegato a questo c’è il fatto che in molti casi le operazioni di leveraged buyout sono state fatte a tassi variabili, con l’ovvia conseguenza che ora tassi più alti gravano sull’indebitamento di alcune società.

– Ma soprattutto inizia a farsi largo l’idea che il mercato sia un po’ saturo e sovraesposto sul private equity. Il meccanismo magico ha funzionato finché basso costo del debito e valutazioni di acquisto relativamente economiche hanno permesso ai fondi di PE di realizzare grandi profitti al momento delle exit o delle IPO, delle quotazioni in borsa. Dopo l’euforia soprattutto del 2020-2021, però, la situazione oggi è che ci sia una significativa quota di società private acquistate a valutazioni molto alte e su cui grava un debito significativo, tanto che secondo un report di Moody’s il tasso di default delle società con dietro un fondo di private equity è salito al 17%, il doppio rispetto alla media del mercato.

Si crea quindi un circolo vizioso, in cui si fa sempre più fatica a raccogliere nuovi capitali per via del costo del denaro più elevato e di conseguenza si fa sempre più fatica a fare le exit, senza le quali non si realizza nessun profitto. A complicare le cose, poi, c’è il fatto che dopo il 2022 si è anche nettamente rallentata l’attività di IPO e meno società si quotano in borsa, riducendo le opportunità per i fondi monetizzare portando le società private in borsa e chiudendo le posizioni.

Dan Rasmussen di Verdad ha scritto un articolo su FT un mese fa in cui parlava proprio di possibile “Money Trap” del private equity. In estrema sintesi, la tesi è che questa forte spinta a far entrare il private equity sia nei fondi pensione sia nei portafogli degli investitori retail sia necessaria per allargare un mercato che oggi è troppo saturo, sovrainvestito, fatto di società comprate a prezzi troppo alti e con un costo del debito elevato.

Rasmussen scrive che per esempio Yale ha circa il 40% del portafoglio in private equity e questo è abbastanza comune in molti portafogli istituzionali. Ma il mercato effettivo per il private equity — cioè la sua reale capacità di assorbire le compravendite di società private — è circa un decimo rispetto a quello del mercato azionario, di conseguenza quel 40% di Yale, Harvard e tanti altri sembra eccessivo.

Insomma gli storici investitori nel private equity sembra abbiano una certa esigenza — non dico di scaricare — però in qualche modo di trovare nuovi compratori altrimenti il rischio è di dover liquidare in massa posizioni molto poco liquide ad una frazione del valore che gli si attribuisce oggi.

– Infine c’è anche la solita grande legge inviolabile dei mercati efficienti. Chiamiamola l’entropia inversa dei mercati. Se ci sono delle opportunità molto redditizie, come oggettivamente è stato fino a poco tempo fa il Private Equity, prima o poi queste vengono arbitraggiate, cioè arrivano nuovi investitori attratti da golosi ritorni, salgono i prezzi, scende il tasso di sconto (ossia la percezione del rischio), e ad un certo punto quelle opportunità non ci sono più.
E’ come se tutti investissero in società Value perché si sa che sovraperformano. Se tutti investono in Value, queste cessano di essere Value e la sovraperformance si va a far benedire.

Ora, capiamoci bene, non voglio fare di tutta un’erba un fascio.

Non ho un’opinione forte sul mondo del private equity.

Come in tutte le cose ci sono delle opportunità e dei rischi.

E non ho alcun dubbio che anche nell’ambito degli asset privati le cose possano andare bene o male come con qualunque altro asset e che in ultima istanza ciò che conta sia la funzione di un certo strumento non preso per sé ma nell’economia generale del portafoglio.

Quello che voglio fare è solo presentare ciò che mi sembra lo stato dell’arte della discussione sul tema affinché poi ciascuno possa prendere decisioni informate e decidere di conseguenza.

A tal proposito, come dicevo prima ci sono tre potenziali illusioni ottiche a cui bisogna stare attenti quando ci si affaccia al mondo del private equity.

Il PRIMO riguarda il discorso dei rendimenti stellari.

Non è infatti infrequente leggere affermazioni del tipo che fondi come Apollo o KKR hanno realizzato un rendimento medio annuale, al netto delle fee, nell’ordine del 20-25%, contro il 10% dell’S&P 500.

Qui però c’è un gioco di prestigio matematico sottile ma di incalcolabile importanza per evitare di prendere cantonate o settarsi aspettative irrealistiche.

La metrica che usano i fondi di private equity per determinare la propria redditività è il cosiddetto Internal Rate of Return, il tasso interno di rendimento. IRR in inglese, TIR in italiano.

Cos’è l’IRR o TIR: è in pratica il rendimento di un investimento ponderato per i suoi flussi di cassa, ciò che in altri contesti viene chiamato Money weighted Rate o Return, quando per esempio vuoi misurare il rendimento di un piano di accumulo rispetto al rendimento del mercato in cui stai investendo.

Adesso, senza farla troppo complicata, il rendimento di un fondo di private equity non puoi misurarlo come faremmo con un fondo sull’S&P 500.

Con l’S&P 500 hai un mercato in cui gli asset sono prezzati in tempo reale cinque giorni alla settimana, quindi se tu investi 10.000 € oggi e tra 10 anni rivendi a 20.000 €, facile, il tuo ritorno sull’investimento è stato il 100%, mentre il tuo ritorno medio annuo composto (il cosiddetto Compund Annual Growth Rate o CAGR) sarà la media geometrica.

Ricordo come si calcola.

20.000 diviso 10.000 fa 2.

2 elevato alla 1 diviso 10, il numero degli anni, -1, fa 7,2% circa.

Il mio rendimento medio annuo composto è stato 7,2%.

Con il fondo di private equity questa cosa non la puoi fare, perché non hai asset prezzati a mercato, ma tu metti i soldi nel fondo, ad un certo punto il fondo compra delle società, poi qualcuna la vende e distribuisce indietro dei soldi agli investitori e così via.

Quindi per misurare effettivamente come è andato questo investimento è stata inventata questa formula un po’ strana, il TIR, che pondera il rendimento complessivo in base a quando i soldi sono entrati e usciti dall’investimento, ossia in base al timing e al rendimento dei singoli flussi di cassa.

Il problema, però, è che il Tasso interno di rendimento e il rendimento per esempio del mercato azionario sono due numeri che non possono essere confrontati tra loro, perché esprimono concetti completamente diversi.

Prendo in prestito la spiegazione del professore di Oxford Ludovic Phalippou, tra l’altro autore di alcuni paper molto famosi sul private equity.

Il TIR è definito come quel rendimento che equipara il valore attuale dei flussi di cassa futuri di un investimento al valore dell’investimento iniziale.

Mettiamo che io nel 2010 ho investito 1.000.000 in un fondo di private equity.

Poi nel 2014 il fondo ha fatto delle belle exit e mi ha pagato 3.000.000 e poi oggi mi ha liquidato tutto quello che era rimasto investito a 5.000.000.

Qual è il mio rendimento?

Tecnicamente io ho investito 1 milione e il fondo me ne ha ridati 8, però in momenti diversi e sappiamo che in finanza i soldi hanno un diverso valore nel tempo.

Il TIR infatti presuppone che i 3 milioni che mi sono stati dati nel 2014 io li abbia reinvestiti ad un certo tasso di rendimento.

Ecco, chi si ricorda quando in terza media ha imparato a fare le equazioni, saprà che non si può risolvere un’equazione con due incognite.

E quali sono qui le incognite?

Le incognite sono:

– Quando mi ha reso in totale l’investimento nel fondo, chiamiamolo x

– E quando mi ha reso il reinvestimento dei soldi che mi sono stati dati nel 2014, chiamiamolo y.

E allora la matematica finanziaria ha trovato uno stratagemma e ha detto: diciamo che x e y sono uguali, cioè diamo per scontato che i 3 milioni ricevuti nel 2014 li abbia reinvestiti in qualcosa che avrebbe dato lo stesso rendimento dell’investimento iniziale che ha generato quei 3 milioni.

Ma questa è una finzione contabile naturalmente.

Infatti il Tasso interno di rendimento non è un tasso di rendimento, ma è un tasso di sconto e in realtà non serve a dire “quanto ha reso un investimento”, ma serve piuttosto a confrontare due investimenti tra loro che abbiano dei flussi di cassa distribuiti nel tempo.

Nell’esempio che ho fatto prima il tasso interno di rendimento, che si può calcolare facilmente con Excel, è di circa 33%.

Ma se il mio milione iniziale fosse cresciuto del 33% per 15 anni oggi dovrei avere quasi 80.000.000, invece non è così.

L’illusione deriva dal fatto che la cosa che conta di più quanto uno calcola il TIR è il timing dei flussi di cassa.

Se un fondo distribuisce all’inizio una grossa quota di capitale, poi il TIR si muove pochissimo anche se negli anni successivi fa risultati straordinari o disastrosi.

Paradossalmente se il valore del mio fondo oggi fosse zero, il TIR passerebbe dal 33% al 31%.

Oppure se il valore del mio fondo oggi fosse 10.000.000 il TIR passerebbe dal 33% al 35%.

Cosa vuol dire sta cosa?

Due cose:

– La prima è che c’è un forte survivorship bias. Le società di private equity che hanno fatto bene all’inizio hanno blindato nel marmo il proprio track record e anche se fanno oggi numeri straordinari o terribili, il TIR storico si sposterà di poco e potranno sempre dire: da quando esistiamo abbiamo un TIR del 25-30% ecc. Mentre i fondi che hanno fatto schifo all’inizio sono spariti dal mercato. Survivorship bias.

– L’altra cosa è che il fondo ha una certa libertà nel decidere come muovere i flussi di cassa e teoricamente può fare in modo di spingere certi deal per distribuire cash agli investitori piuttosto presto, così per tutti gli anni a venire il TIR resterà molto alto.

Ora, a scanso di equivoci: questa cosa non è né illegale, né eticamente rilevante.

Ed è un fatto che, usando altre metriche che sono state inventate per confrontare PE e mercato azionario, comunque il private equity ha avuto ritorni superiori all’azionario quotato, ma non così tanto superiori.

Forse 2-3 punti percentuali in media di extra rendimento oltre l’S&P 500, che è tanta roba, ma non quella cosa astronomica che invece ti porta a pensare che il PE abbia reso il doppio o il triplo del mercato azionario

Quindi è giusto che si usi il TIR.

L’importante è sapere cosa significa e non mischiare le mele con le pere.

La SECONDA ILLUSIONE OTTICA è invece quella secondo cui il PE sarebbe meno rischioso in termini relativi e che quindi migliorerebbe sia il risk-adjusted return di un portafoglio fatto solo di stock e bond sia la sua diversificazione.

Anche qui, due cose:

– Numero uno: sì, oggi azioni e obbligazioni sembrano più correlate che in passato perché tassi alti, debito, bla bla bla lo sappiamo. Però il Private Equity, fino a prova contraria, è equity, quindi non è possibile che sia decorrelato dall’azionario quotato. Vivrà proprio le stesse sorti dell’azionario pubblico e sarà soggetto agli stessi destini della stessa economia.

– Numero due: se vogliamo essere caustici possiamo prendere in prestito l’espressione di Cliff Asness “volatilty laundering”. Il fatto che gli asset privati non siano prezzati ogni giorno perché non sono quotati su una borsa, esattamente come casa mia che non so quanto vale finché non la vendo o comunque finché non faccio una valutazione comparativa a spanne con le altre simili che stanno vendendo nella zona di Milano in cui abito, non significa che le valutazioni non fluttuino.
è solo un’illusione che siano più sicuri, perché l’investitore resta investito per forza di cose per 5-7-10 anni senza poter vendere, il valore è attribuito in maniera discrezionale e finché non vendi non sai effettivamente quanto vale.

Questo non è né un bene, né un male, ma è importante sapere che per il solo fatto che un asset non è soggetto a mark-to-market ogni giorno, ciò non significa che sia meno rischioso.

La TERZA e ultima ILLUSIONE OTTICA riguarda proprio il discorso dell’illiquidity premium, che è tipicamente un’argomentazione a sostegno del private equity, soprattutto oggi che sta cercando di farsi largo nei fondi pensione americani nel mercato retail.

L’illiquidity premium presuppone che ci sia un ritorno ulteriore per il fatto che i fondi non sono facilmente svincolabili.

Ma nel mondo in cui crei un mercato più grande, con più transazione, con fondi che offrono la possibilità di uscire più frequentemente, con accesso al mercato retail e così via, automaticamente l’illiquidity premium viene meno.

Se so che in realtà posso liquidare i miei investimenti più facilmente che in passato, allora sarò disposto a pagare prezzi più alti e quindi il mio rendimento atteso scende.

Finance 101.

Non è detto che venga cancellato del tutto.
Però è giusto sapere che non esistono rendimenti garantiti a priori.

Detto questo, oggi ciascuno di noi può cominciare, se vogliamo, a valutare investimenti nel mondo del PE, ma a condizione di essere consapevoli di queste cose:

– UNO: è un investimento rischioso e se ha un rendimento atteso superiore all’azionario, si può star certi che sia più rischioso che investire in azioni quotate;

– DUE: è comunque illiquido, quindi adatto a lunghi orizzonti temporali solo laddove si è certi di non dover svincolare il capitale in anticipo;

– TRE: è molto probabile che i rendimenti formidabili del passato non siano quelli che ci si può attendere oggi, soprattutto per investitori retail che probabilmente non avranno accesso alla fascia premium riservata ai grandi investitori istituzionali;

– QUATTRO: possono essere un modo per diversificare il portafoglio, ma ricordatevi che il private equity è equity e il private debt è debito, quindi se succede un patatrac sul mercato azionario o su quello obbligazionario, non è che i mercati privati sono immuni da shock, anzi.

In conclusione, chiarito tutto questo, se uno vuole investire in private equity che opzione ha:

– OPZIONE UNO: se ha capitali abbastanza elevati, può investire direttamente in fondi di private equity tradizionali;

– OPZIONE DUE: iniziano ad esserci i primi strumenti destinati agli investitori retail, come ad esempio gli ELTIF in Europa, come quello di Scalable e Blackrock di cui abbiamo parlato all’inizio.

– OPZIONE TRE: molto semplicemente si può investire in ETF focalizzati sulle società di PE, quindi in strumenti settoriali che investono in realtà come Blackstone, KKR, Apollo, Capital Group e così via. È come dire: invece che investire in oro, investo in società minerarie. La logica è più o meno la stessa.

Bene amici miei, fine di questo primo appuntamento insieme dedicato al mondo del private equity, fatemi sapere che ne pensate perché è sicuramente un tema che sarà sempre più ricorrente nel futuro e trovo quindi importante farsi trovare preparati man mano che il mercato sarà sempre più maturo e l’offerta di questi prodotti aumenterà.

Nel frattempo vi invito come sempre a mettere segui e attivare le notifiche su spotify, apple podcast o dove ci ascoltate a lasciare una recensione a 5 stelle per supportarci e permetterci di continuare a produrre contenuti che vi spiegano che il private equity è equity ma che il tasso di rendimento non è rendimento sempre nuovi.

Per questo episodio invece è davvero tutto e noi ci rivediamo mercoledì prossimo con un nuovo appuntamento assieme, sempre qui, naturalmente con The Bull il tuo podcast di finanza personale.

Recensioni

Quando capisci come funziona la finanza… ti viene voglia di raccontarla!

Podcast piacevole, scorre veloce ma in modo estremamente chiaro, spiega i concetti chiave per gestire le proprie finanze, fornendo la classica cassetta degli attrezzi. Complimenti, davvero ben fatto!

Massimiliano, 29 Mag 2024

Riccardo mi ha letteralmente cambiato la vita e fatto scoprire che amo la finanza, ho ascoltato il podcast già due volte e non mi stufo mai di ascoltarlo, parla in modo semplice e chiaro

Massimo D., 23 Set 2025

Non sono solito a mettere recensioni e specialmente non ascolto podcast, ma da quando ho iniziato questo, faccio fatica a staccarmi, e quasi non posso più fare a meno di ascoltare e arricchirmi culturalmente.

Andrea V., 22 Set 2025

Dovrebbero ascoltarlo buona parte degli italiani e io avrei dovuto scoprirlo con qualche anno in anticipo ma meglio tardi che mai

Matteo C., 3 Set 2025

Podcast che dà sempre spunti interessanti che personalmente mi ha fatto appassionare alla finanza personale spingendomi ad approfondire in prima persona.

Lorenzo, 13 Mar 2025

Da quando l'ho scoperto in 15 gg mi sono ascoltato 150 puntate senza fermarmi, ho annullato gli altri podcast per portarmi alla pari ed ascoltare tutte le precedenti puntate, ben fatto, esattamente il livello di informazione che mi serviva

Gianluca G., 11 Set 2025

Veramente veramente raccomandato! la finanza personale riassunta alla perfezione! e spiegata partendo dall'ABC! Ottimo anche da ascoltare a velocita 1,5x!

Giorgia R., 23 Gen 2025

La mia ignoranza in materia mi ha sempre creato dei dubbi, ma grazie a un amico ho iniziato ad ascoltare il podcast. Per fortuna che ho 24 anni e un po' di tempo e soldi da dedicarmi a imparare le varie nozioni per me stesso. Grazie mille!

Luca G. 10 Ott 2025

Ho seguito tutte le puntate! Grazie veramente

Amalia A., 17 Set 2025
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