Perché i prezzi delle Azioni salgono quando i Tassi d’Interesse scendono?

Il prezzo di un asset esprime il valore scontato presente dei flussi di cassa futuri. Perché questo è forse il concetto più importante in finanza e perché i mercati non aspettano altro che la Fed tagli i tassi di interesse?

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Perché i prezzi delle Azioni salgono quando i Tassi d’Interesse scendono?
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241. Perché i prezzi delle Azioni salgono quando i Tassi d’Interesse scendono?

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Punti Chiave

Investire è comprare futuri flussi di reddito.

Tassi di sconto determinano il valore: tassi bassi -> prezzi alti e rendimenti futuri inferiori.

Le variazioni nei tassi di sconto sono il driver principale dei mercati azionari, non tanto le aspettative sugli utili futuri.

Trascrizione Episodio

Bentornati a The Bull — il tuo podcast di finanza personale!

Le azioni fondamentalmente sono delle obbligazioni.

Dopo la grigliata di Ferragosto dedicata a spiegare personale finance 101 ai vostri amici sbronzi che finalmente dopo si saranno messi ad ascoltare The Bull, ecco che li mandiamo subito in confusione dicendo loro che le due asset class principali, in qualche modo, sono la stessa cosa.

Ok, le azioni rappresentano quote di società mentre le obbligazioni sono prestiti, è ovvio che non sono la stessa cosa.

Ma dal punto di vista di come si comportano e di cosa un investitore deve aspettarsi per il futuro, beh, hanno parecchio in comune.

In fondo, se ci pensate, ciò che abbiamo sempre chiamato “investimenti in senso stretto”, cioè prestiti e società, cosa sono del resto?

Investire non vuol dire altro che comprare futuri flussi di reddito.

È per questo che azioni, obbligazioni (e volendo anche il settore immobiliare) sono degli investimenti veri e propri, mentre oro, materie prime, bitcoin, orologi, arte, vini e così via sono invece investimenti speculativi — a questa seconda categoria manca il flusso di reddito. Il loro valore presente è legato unicamente all’aspettativa sul loro futuro incremento di prezzo, che solitamente è una funzione della loro domanda e offerta.

Con azioni e obbligazioni invece un investitore compra un certo flusso di reddito futuro al quale dovrà attribuire un valore presente.

Perché questo?

Perché naturalmente deve cercare di determinare OGGI quanto varranno quei flussi di cassa che riceverà da qui a enne anni.

Per fare questa cosa sappiamo che si usa un tasso di sconto, cioè si divide il flusso di reddito atteso per un certo tasso che corrisponde … beh … lo sai sempre a posteriori a cosa corrisponde.

Come stiamo dicendo spesso ultimamente, il mercato si trova sempre in un certo equilibrio tra tutti i suoi soggetti coinvolti e in qualche modo il tasso di sconto esprime la media di tutte le opinioni, le aspettative e le preferenze soggettive di tutti gli investitori.

Ogni prezzo in ogni momento rappresenta quell’equilibrio.

In un momento in cui l’economia è in salute, c’è ottimismo per il futuro e in generale c’è un clima di fiducia che attiva la propensione al rischio della maggior parte degli investitori, i flussi di reddito che derivano dall’investimento azionario hanno un valore elevato e questo si traduce in due cose che sono la faccia della stessa medaglia:

– Prezzi che salgono e

– Rendimenti attesi che scendono.

E viceversa quando l’economia è in crisi ovviamente.

Sembra che stia un po’ rigirando la stessa frittata da un po’ su quest’argomento, ma credo che sia uno dei concetti più importanti della finanza e quindi per me è fondamentale tornarci sopra per fare in modo questa roba qua sia perfettamente chiara a ciascun singolo ascoltatore.

Allora, facciamo un esempio semplice semplice.

Ammettiamo che dall’investimento in una certa azione mi aspetti ogni anno 5 dollari di payout (cioè un mix di quel che mi torna in tasca tra dividendi e buyback) e che il tasso di crescita annuo di questo payout sia 6%.

Il valore presente di questi 5 dollari all’anno che ogni anno crescono del 6% sarà dato da:

CINQUE diviso un certo tasso di sconto (ossia un certo rendimento atteso) meno 6%.

Vediamo allora tre esempi con tre diversi tassi di sconto.

Caso UNO: ipotizziamo che il tasso di sconto sia 10%, il rendimento medio composto di lunghissimo termine dell’S&P 500 (facciamo finta che l’azione sia americana e che il Capital Asset Pricing Model abbia ancora qualche valore).

Con 10% viene: 5 diviso (10% – 6% cioè 4%) che fa: 125 dollari.

Quello che ho appena applicato si chiama Gordon Dividend Growth Model ed è uno dei metodi più antichi per determinare il valore presente di un’azione.

Ovviamente è un modello imperfetto, come tutti, però lo usiamo solo per capire la logica di fondo.

Ora, caso DUE: gli investitori hanno molta fiducia alimentata da diversi anni di crescita, da politiche pro business, da un clima generale di ottimismo, dalle meme stocks, quello che volete. Sta di fatto che in un contesto come questo attribuiscono a quel flusso di reddito un valore superiore.

Perché questo:

– Razionalmente perché si ritiene che sia maggiormente certo (e cioè meno rischioso che in passato)

– Emotivamente perché non si sa mai quando il mercato passa da confidence a overconfidence e la FOMO, la fear of missing out, prevale sulla FOL, la Fear of Losing.

Qualunque sia il motivo, l’investitore medio non pretende più un tasso di sconto del 10%, ma magari dell’8%.

La differenza tra 10 e 8 sembra minima, ma in realtà ha un impatto enorme.

Infatti cosa viene fuori:

5 diviso (8%-6% cioè 2%) fa: 250 dollari.

Se l’azione costa meno di 250 dollari una parte degli investitori si affretterà a comprare perché, date queste ipotesi, il prezzo risulterà sottovalutato, mentre dall’altra parte altri investitori avranno una visione diversa e saranno disposti a vendere e da qualche parte si setterà il nuovo prezzo in equilibrio.

In un momento positivo del mercato, un certo flusso di reddito “vale di più”, diciamola così.

E le conseguenze quali sono? Quelle che dicevamo prima:

– Che nel breve i prezzi salgono ma allo stesso tempo ciò significa

– Che nel medio-lungo termine i rendimenti attesi scendono (perché naturalmente se compri a prezzi più alti il tuo rendimento futuro sarà inferiore).

Caso TRE: succede qualcosa. Crisi economica. Shock geopolitico. Inflazione. Fallisce JP morgan. Quello che volete. Capita qualche evento disruptive cambia completamente il mood del mercato.

Pensate per esempio al brusco passaggio dall’euforia — col senno di poi — irrazionale del 1999 alla doccia fredda dell’anno dopo che inaugurò il decennio perduto.

Ora quei 5 dollari di reddito futuro della nostra azione valgono meno, perché durante una crisi o comunque in uno scenario che si fa più incerto gli investitori saranno meno predisposti a rischiare i propri soldi per lo stesso flusso di reddito.

Quindi, come dire, l’investitore medio penserà: se prima quel flusso di reddito sarei stato disposto a comprarlo ad una certa cifra, oggi con l’aria che tira sono disposto a comprarlo solo ad un prezzo inferiore, perché mi sembra più rischioso.

Ammettiamo che questo “mi sembra più rischioso” si traduca in un tasso di sconto del 12%.

5 dollari diviso (12% – 6%) fa 83 dollari.

Questo cosa comporta?

Ovviamente la cosa uguale e contraria a quella di prima, ossia:

– Nel breve i prezzi scendono e

– Nel medio lungo termine i rendimenti attesi salgono.

Vedete che variazioni apparentemente piccole del tasso di sconto applicato fanno sì che la stessa identica azione da cui ci si aspetta lo stesso identico flusso di reddito nel futuro ha un valore presente molto diverso a seconda che io investitore sia disponibile ad accettare un rendimento basso, durante un boom economico o finanziario, o un rendimento alto, durante una crisi.

Lo stesso flusso di reddito del nostro esempio potrebbe quindi oscillare tra un valore presente di 250 dollari e 83 dollari.

Attenzione che io sto facendo esempi molto semplificati ipotizzando un flusso di reddito con crescita stabile per sempre — che è un’ipotesi irrealistica, ma se complichiamo ulteriormente le cose non si capisce una fava.

Allo stesso modo è chiaro che, nel breve perlomeno, se il prezzo della nostra azione passa, che ne so, da 125 dollari a 150 dollari, cioè può voler dire due cose:

– Potrebbe intanto voler dire che gli investitori si aspettano maggiori utili nel futuro (e quindi maggiori dividendi).
Per esempio, potrebbero essere usciti dei report trimestrali sopra le attese e ora la stima è che i flussi di cassa attesi saranno di 6 dollari per azione, non più 5.
Usando lo stesso tasso di sconto del 10% 6 diviso 10% meno 6% fa appunto 150 dollari.

– Però potrebbe anche voler dire che semplicemente gli investitori sono disposti ad ottenere un rendimento minore per lo stesso flusso di reddito di 5 dollari per azione.
Per esempio il tasso di sconto potrebbe diventare 9,3%, invece che 10%.
5 diviso 9,3% meno 6% fa sempre 150 dollari.

E la stessa cosa al contrario naturalmente.

Il prezzo potrebbe passare — che so — da 125 a 100 dollari sia perché il mercato si aspetta dividendi di 4 dollari e non più 5, oppure sempre 5 dollari ma con un tasso di sconto più alto, tipo 11%.

O un mix di queste due cose.

Quello che però ha mostrato la ricerca di personaggi monumentali come John Cochrane, Robert Shiller e John Campbell, che tra l’altro verrà a trovarci a Settembre, è che mentre c’è molta enfasi nel breve termine sui profitti attesi dalle società che ogni tre mesi pubblicano i risultati, ciò che muove davvero i mercati non è tanto la variazione nelle aspettative sugli utili futuri, quanto invece le variazioni nei tassi di sconto — che rappresentano probabilmente il numero più importante e meno direttamente osservabile di tutta la finanza.

Infatti nel suo importantissimo paper del 2011, chiamato appunto Discount Rates, Cochrane dice che quando i prezzi sono elevati rispetto agli utili ciò non è un segnale di una forte crescita dei profitti nel futuro, ma piuttosto del fatto che i rendimenti futuri scenderanno.

Lo scorso luglio è uscito un importante paper sul Journal of Financial Economics scritto da Delao, Han e Myers dal titolo The Return of the Return Dominance: De-composing the cross section of prices, che attraverso un’analisi sui prezzi delle azioni americane dal 1963 al 2020 cerca di capire cosa determina il fatto che alcune azioni (o interi indici) abbiano una valutazione più elevata di altre. Il paper mostra che, contrariamente a quel che si pensa, le aspettative sulla crescita degli utili giocano un ruolo molto piccolo. Secondo i loro calcoli, il 75% delle variazioni nei rapporti prezzi e utili dipende dalle differenze nei rendimenti attesi, mentre solo il 25% dipende dalle differenze nella crescita degli utili futuri.

Di conseguenza, come scrisse Cochrane 14 anni prima, dato che la crescita degli utili di lungo termine tra le diverse azioni non presenta differenze significative, allora quando si hanno rapporti tra prezzi e utili elevati ciò predice principalmente bassi ritorni futuri, piuttosto che una maggiore crescita degli utili futuri.

Ed è esattamente seguedno questa prospettiva qua che le azioni si comportano a tutti gli effetti come dei bond.

Chi segue il mio amico Paolo Coletti, che sull’argomento ha spaccato il proverbiale capello in 400, saprà già molto bene cosa significa che, per esempio, un BTP con scadenza settembre 2044 rende 4%.

4% è il tasso interno di rendimento, ossia quel tasso che fa equivalere il valore del flusso di cedole da qui al 2044 al prezzo a cui compro il BTP.

Per la precisione quel BTP oggi è prezzato sopra la pari e costa 110 euro, perché paga cedole elevate del 4,75%.

Se voi per ciascuna cedola fate 4,75 diviso (1+4%) elevato a t, cioè a ciascun anno in cui ricevete ciascuna cedola ottenete il valore presente di tutti i flussi di cassa.

I 4,75 € che ricevo oggi valgono per esempio 4,57 €.

I 4,75 € che ricevo tra 20 anni con l’ultima cedola varranno invece appena 2,17 €.

Se sommate il valore presente di tutte le cedole e del rimborso finale otterrete il prezzo che pagate oggi, cioè 110 €.

110 € è il valore presente dei flussi di cassa attesi dal bond.

Attenzione però: il giochino funziona ad una condizione.

Se voi quei 4,75 € per ogni BTP ve li spendete, il rendimento del vostro BTP non sarà 4%, sarà di meno.

Il rendimento di un’obbligazione è un valore che presuppone che tutti le cedole siano reinvestite allo stesso tasso.

Mettiamo però che c’è un nuovo rialzo dell’inflazione, oppure la stabilità del bilancio italiano viene compromessa — ah ah aha aha stabilità del bilancio italiano, fa sempre ridere — dicevo, succede qualunque cosa e i rendimenti dei BTP salgono, cosa accade?

Se oggi i rendimenti dei BTP ventennali passassero da 4 a 5%, il prezzo di quel bond scenderebbe sotto il 97 €, perché l’investitore riterrà che quello stesso flusso di reddito avrà meno valore di prima, dato che investire in BTP diventa più costoso.

Diciamo sempre che quando i rendimenti salgono i prezzi dei bond scendono, ma contemporaneamente è vero anche il contrario: quando i prezzi scendono, i rendimenti futuri salgono.

Viceversa, se per enne motivi i rendimenti dei BTP ventennali scendono dal 4 al 3%, allora quel flusso di reddito da 4,75 € all’anno varrà di più per l’investitore, perché penserà sia meno rischioso da comprare. Di conseguenza sarà disposto a pagarlo di più.

Infatti il prezzo di quel BTP salirebbe circa a 126 €.

Anche qui, quando i rendimenti scendono i prezzi salgono, ma contemporaneamente quando i prezzi salgono i rendimenti futuri scendono.

La grossa differenza tra azioni e bond è che il flusso di reddito delle azioni è completamente incerto, mentre quello dei bond è più prevedibile — soprattutto per quei bond che non hanno rischio di credito e zero rischio di default.

Ma il principio che guida il loro andamento è esattamente lo stesso.

Quando i tassi a cui scontiamo il loro valore futuro scendono il loro prezzo sale (e il loro rendimento futuro diminuisce) mentre quando invece i tassi salgono il loro prezzo scende (e il loro rendimento futuro aumenta).

Ora, perché stiamo parlando proprio oggi di questa roba?

Beh perché questo è un po’ il leitmotiv del momento, in particolare nel mercato che conta più di tutti: quello americano ovviamente.

Ricapitoliamo:

– I dazi medi applicati sulle importazioni negli Stati Uniti sono di oltre il 18%, il valore più alto da quasi 100 anni;

– L’economia si sta raffreddando, perlomeno a giudicare dal fatto che le assunzioni degli ultimi 3 mesi sono state meno di 100.000, contro il mezzo milione stimato in precedenza;

– Il dato sull’inflazione uscito martedì scorso è sì “meno peggio del previsto”, ma comunque l’inflazione è tornata al 2,7%, ben lontana dal 2% Target della Fed, e soprattutto ci sono segnali minacciosi sulle componenti core dell’inflazione, quelle che considerano direttamente i consumi ed escludono per esempio i costi energetici, ben oltre il 3%.

Alla casa bianca sono stati tutti super euforici per questo dato che avrebbe dimostrato che i dazi non causano inflazione.

Poi però giovedì è uscito il dato sull’inflazione dei prezzi di produzione, che è praticamente l’inflazione all’ingrosso, e lì invece la crescita è stata del 3,3%, contro il 2,5% atteso.

Quindi l’inflazione è già salita e non si può escludere che pian piano anche sugli altri beni l’impatto si vedrà.

Comunque, nonostante la maggior parte dei segnali macroeconomici sia piuttosto negativa, l’S&P 500 fino a giovedì aveva continuato a macinare un massimo dietro l’altro.

Come è possibile vi chiederete?

Probabilmente gli investitori sono incoraggiati dalle trimestrali sfavillanti che hanno largamente battuto le attese.

O magari pensano che i potenziali danni dai dazi saranno meno gravi del previsto e che gli impatti sulla crescita economica non saranno così devastanti come temuto all’inizio.

O ancora che il gettito fiscale che arriva dai dazi (che potrebbe valore 400 miliardi di dollari l’anno) potrà sostenere i tagli alle tasse del Big Beautiful Bill.

Ma da qualche settimana a questa parte sembra proprio che il motivo principale riguardi le prospettive sui tassi di interesse: se guardate il FedWatch tool di CME, che citiamo ogni tanto perché dà delle previsioni in tempo reale, basate sui futures sui titoli di stato americani, sui tassi di interesse che la Fed deciderà nei prossimi meeting — ecco dicevo: il mercato sta scontando un 90% di probabilità che da qui a fine anno la Fed taglierà i tassi da 50 a 75 punti base.

Scott Bessent, Segretario al Tesoro, addirittura ha sparato che il Fed Funds Rate dovrebbe essere intorno al 2%, rispetto al 4,33% di oggi.

Ho letto un articolo di John Auters su Bloomberg che spiega perché l’affermazione non ha alcun supporto nei dati.

Però tanto basta per ringalluzzire il mercato, che è sempre molto felice quando la Fed taglia i tassi, anche se, storicamente, ogni volta che la Fed ha tagliato i tassi con l’inflazione al 3% non è mai finita benissimo.

Però il suo capo aspirante padrone dell’Universo Donald Trump vuole tassi più bassi e sta facendo di tutto per fare pressioni sulla Fed e sul povero Jerome Powell con questo obiettivo.

Il tira e molla è sempre lo stesso:

– Trump spinge per avere tassi più bassi nell’aspettativa che ciò abbassi il costo del debito americano, riducendo il rendimento dei Treasury, faccia scendere i mutui e agevoli l’acquisto di case per gli americani, riduca gli interessi sulle carte di credito e dia stimolo all’economia.

– Dall’altra Powell teme che tagliare i tassi con l’inflazione così alta e i consumi che comunque tengono botta possa essere una zappata sui piedi.

Inoltre qual è il problema?

Se vi ricordate esattamente 12 mesi fa c’era stato il bagno di sangue di agosto legato al carry trade sullo Yen e tutti dicevano che la Fed era in ritardo con il taglio dei tassi.

Alla fine arrivò il meeting di settembre — perché ad agosto la fed non si riunisce — e fecero il famoso big cut da 0,5%, a cui seguirono altri due tagli entro la fine dell’anno da 0,25 ciascuno.

Cosa successe però?

Successe che i tassi di interesse scesero di un 1%, 100 punti base, ma allo stesso tempo i rendimenti dei Treasury decennali salirono di 100 punti base.

Perché se i tassi scendevano, i rendimenti dei Treasury salivano?

Non dovrebbero andare giù insieme ai tassi?

Eh, teoricamente sì.

Ma la verità è che i tassi di interesse influenzano il costo del denaro e dei prestiti a breve termine.

I rendimenti dei prestiti a lungo termine sono influenzati da altri fattori.

Su tutti, se il mercato con i suoi Bond Vigilantes inventati dal nostro amico Ed Yardeni pensa che la Fed abbia sbagliato ad abbassare i tassi e che ci siano dei rischi sull’inflazione futura, allora cosa fanno? Vendono Treasury e fanno SALIRE i rendimenti, in maniera tale che rispecchino queste aspettative su inflazione e tassi futuri più alti.

Anyway, questo è quanto.

Non è chiaro quali saranno gli effetti, ma il mercato per il momento sembra scommettere su un certo numero di tagli dei tassi di interesse e prende per buono il fatto che l’effetto netto sia positivo.

Ma quali sono allora i QUATTRO PRINCIPALI motivi per cui generalmente le azioni salgono quando è nell’aria la prospettiva di tagli dei tassi di interesse?

Vediamoli velocemente uno per uno.

PRIMO MOTIVO: potrebbe abbassarsi il tasso di sconto.

Tutto il ragionamento che abbiamo fatto nella prima parte di quest’episodio ha una prima importante conseguenza qui.

Perché?

Perché quando il mercato, più o meno deliberatamente, setta il tasso a cui scontare gli utili futuri di un asset di fatto sta determinando qual è il rendimento minimo che si attende dall’investimento in quell’asset.

Nel caso delle azioni il tasso di sconto sarà, più o meno: rendimento (quasi) senza rischio di un titolo di Stato PIU’ il premio al rischio per il fatto che investire in azioni è più incerto.

A parità di altre condizioni, quindi, succede una cosa meccanica.

Se il tasso senza rischio, cioè i rendimenti dei titoli di stato scendono, scende anche il tasso di sconto per le azioni (ammesso che il premio al rischio non vari, perché se invece i tassi scendono perché c’è una recessione, allora il tasso senza rischio scende, ma il premio al rischio sale e siamo punto e a capo).

In realtà, in un clima di generale euforia, potrebbe addirittura succedere il contrario: la Fed taglia i tassi, il mercato festeggia e anche il premio al rischio scende, spingendo ulteriormente in su le valutazioni.

Per questo tassi più bassi sono solitamente bullish per le azioni — perché è come se l’investitore accettasse un minor rendimento per investire nello stesso asset e per i motivi che abbiamo spiegato prima ciò comporta due cose:

– Prezzi che salgono nel breve e

– Rendimenti attesi che scendono nel medio-lungo termine.

Il SECONDO MOTIVO riguarda invece il cosiddetto “costo del capitale”, che è una cosa collegata a quello che abbiamo appena detto, ma dalla prospettiva della società.

Come fa una società a raccogliere capitali infatti?

Solitamente ha solo due strade: debito o equity.

O si fa prestare soldi (per esempio emettendo un’obbligazione), oppure cede quote di proprietà (cioè emette azioni).

Però non raccoglie capitali tanto per, ma solitamente per finanziare una serie di attività o di progetti che produrranno un certo flusso di guadagni nel tempo.

Esattamente come fa un investitore, la società deve perseguire progetti in cui il ROIC atteso, cioè il Ritorno sul capitale investito, sia superiore al WACC, al Weighted Average Cost of Capital, ossia al costo medio ponderato del capitale.

Cos’è questo costo medio ponderato del capitale?

Non è altro che il tasso medio a cui dovrà scontare i flussi di cassa attesi, che corrisponde a quando alla società è costato prendere soldi in prestito con obbligazioni o raccogliere capitali tramite azioni.

Se una società per esempio raccoglie 100 milioni di dollari, metà in obbligazioni con rendimento al 5% e metà in azioni con rendimento atteso del 10%, allora il suo costo medio del capitale sarà 7,5% (teoricamente bisognerebbe togliere anche le tasse ma non complichiamoci la vita).

Ammettiamo che quei soldi gli permettano di generare 8 milioni di profitti all’anno per vent’anni.

È un buon uso del capitale da parte della società?

No, perché con 8 milioni per 20 anni il rendimento sul capitale investito sarebbe intorno al 5%, meno del costo ponderato per raccogliere capitale.

Se invece il progetto generasse 12 milioni per 20 anni, allora il tasso interno di rendimento sarebbe del 10%, maggiore del costo del capitale.

Come avevamo detto un paio di episodi fa, un investimento finanziario non si verifica in astratto, ma sempre all’interno di un sistema interconnesso che coinvolge controparti complementari.

Ciò che è rendimento atteso per un investitore — che compra bond o azioni — è costo del capitale per una società.

Dato che il costo del debito e il costo dell’equity hanno come base i tassi di interesse, allora tassi più bassi significa — a parità di altre condizioni — un minor costo del capitale per le società che quindi avranno più benzina per investire nei propri business.

Se il primo motivo per cui il mercato festeggia riguarda la prospettiva dell’investitore, il secondo motivo riguarda la prospettiva dell’impresa.

Il TERZO MOTIVO riguarda invece la rotazione degli asset in portafoglio.

Il capitale oscilla come un pendolo tra due macro opzioni di investimento: prestiti senza rischio, come titoli di stato, o investimenti in capitale di rischio, in azioni — per farla molto semplice senza considerare le sfumature intermedie.

Se i tassi aumentano cosa succede:

– I prezzi delle azioni scendono e

– I rendimenti futuri dei titoli di Stato salgono.

Con tassi reali più elevati l’investimento in titoli di stato diventa più attrattivo rispetto all’investimento azionario.

Se invece i tassi scendono

– I prezzi delle azioni salgono e

– I rendimenti futuri dei titoli di stato scendono.

Quando i rendimenti obbligazionari sono bassi, gli investitori tendono a cercare rendimento nel breve termine investendo in azioni — che è stata la grande storia dal 2009 al 2021.

Ed è un po’ il principio alla base della regola di The Bull, dove la percentuale del proprio capitale investita in azioni è inversamente proporzionale al tasso risk free.

Nel caso qualcuno fosse capitato qui oggi per la prima volta, la regola di The Bull suggerisce che la percentuale del proprio risparmio investibile da allocare in azioni è uguale a 125 — i propri anni — il risk free rate per 5.

Il QUARTO MOTIVO infine è più di natura psicologica e riguarda la narrazione che si crea.

Il principio è quello della profezia che si autoavvera.

Se un taglio dei tassi è visto con favore dalla maggior parte del mercato, allora ciò tenderà a generare ottimismo e ad aumentare la propensione al rischio degli investitori.

Ovviamente i modelli finanziari non contemplano i condizionamenti psicologici e fattori che non sono quantificabili.

Però, insomma, difficile negare che anche questi ci siano e che abbiano un qualche ruolo nel determinare l’andamento dei mercati.

Lo stesso paper che abbiamo citato prima fa anche vedere che il basso rendimento di azioni o portafogli con valutazioni elevate dipende principalmente dall’eccessivo ottimismo nelle stime di crescita futura degli utili.

Quindi, valutazioni elevate non significa, in media, elevata crescita delgi utili in futuro, ma piuttosto eccessivo ottimismo nelle aspettative di crescita e quindi rendimenti futuri bassi.

Ora, è legittimo questo ragionamento?

È corretto supporre che nonostante tutto quel che sta accadeno il mercato azionario americano debba continuare a crescere nonostante valutazioni già elevate ed un contesto macroeconomico tutt’altro che incoraggiante solo perché in vista ci sono 2-3 tagli da 25 punti base da parte della Fed?

C’è qualche buona motivazione per dire Sì:

– In fondo, il fatto che le valutazioni siano molto elevate, come abbiamo visto, dipende ANCHE dalle prospettive sugli utili, che in effetti sono migliori che nei decenni passati. L’ultimo trimestre ha visto profitti astronomici per le società americane e la guidance sugli utili della seconda parte dell’anno è stata alzata.

– Inoltre oggi le società che pesano di più sull’S&P 500 sono meno capital intensive, orientate ai servizi e quindi in grado di generare potenzialmente un RoE, un ritorno sull’equity, maggiore rispetto al passato.

– E poi c’è il solito discorso che riguarda la trasformazione dell’investimento in generale. Grazie a ETF, index fund, trading online e bassi costi, oggi la partecipazione ai mercati è vastissima. Questo riduce il rendimento atteso in maniera meccanica — a parità di altre condizioni. Di conseguenza le valutazioni sarebbero strutturalmente più elevate perché essendo percepito come meno rischioso l’investimento azionario sarebbe soggetto a tassi di sconto sistematicamente più bassi.

C’è poi qualche buona motivazione per dire NO:

– Non si può mai dire di essere in una bolla. Solo a posteriori questo genere di considerazioni ha senso. Però che tiri aria di bolla è fuori discussione. Tutti gli indicatori sono piuttosto al limiti: rapporto prezzo utili attesi dell’S&P 500 a 23; CAPE ratio a 38; spread molto basso tra obbligazioni corporate e Treasury, oro quasi ai massimi, bitcoin ai massimi e soprattutto si osserva una tendenza ormai dilagante degli investitori retail a fare buy the dip a qualunque correzione e a buttarsi su meme stock o altre società dissestate per ritentare colpi alla GameStop, tanto che ormai si sta diffondendo il modo di dire “Flight to Crap”, in opposizione al “Flight to Quality”.

– C’è poi uno scollamento piuttosto evidente tra prezzi e valori fondamentali sottostanti. Le società dell’S&P 500 sono scambiate in media a prezzi oltre 3,3 volte il fatturato, un record assoluto. È vero che la profittabilità è aumentata. Ma è anche vero che stiamo dicendo che una certa società è valutata il triplo di quello che in un anno riesce a vendere.

Giusto per capirci: immaginiamo che ci sia una società che fattura 100 milioni all’anno.

Sareste disposti a pagare questa società 330 milioni di dollari?

La società deve avere margini netti di almeno il 15% e gli utili devono crescere di almeno il 7,5% all’anno perché la valutazione sia fair, immaginando che metà degli utili vengano distribuiti come dividendi o buyback.

Ma marginalità netta del 15% e crescita del 7,5% in perpetuo sono assunzioni mooolto ottimistiche.

È quindi uno scenario medio in cui tutto deve andare meravigliosamente bene.

Basta che il mercato cambi umore o che le prospettive sugli utili si riducano perché la valutazione si sgretoli.

Detto questo, non vuol nemmeno dire che sia sbagliato rimanere investiti.

È più una questione di settare le aspettative e tenere a mente due cose, una positiva e una negativa:

– Quella negativa è che prima o poi i lunghi cicli rialzisti, i cosiddetti bull market secolari, terminano. E quando terminano, terminano male. Valutazioni elevate — ripetiamolo ancora una volta — non sono sintomatiche di maggior crescita futura degli utili ma di rendimenti attesi inferiori.

– Quella positiva è che i cicli rialzisti, anche quando si trasformano in bolle senza senso, possono durare per lunghissimi periodi.

Il ciclo che ha preceduto il decennio perduto è durato praticamente 19 anni.

E gli ultimi 5 sono stati folli sotto ogni prospettiva.

Il capo della Fed di allora, Alan Greenspan, fece il famoso discorso sull’euforia irrazionale nel 1995. Il mercato andò avanti a crescere a ritmi mai visti per altri 5 anni.

In teoria penso anch’io che siamo un po’ a limite.

Ma in pratica, al netto dell’applicazione della regola di Merton, che tende a sottopesare le azioni quando il rendimento atteso è più basso, non mi sogno lontanamente di mollare i miei investimenti azionari.

Diversifico proprio perché non ho idea di cosa succederà.

– Ho circa un terzo del portafoglio in azioni americane perché è lì che il mercato ci dice di stare;

– Ho circa un altro terzo in azioni del resto del mondo, dove le valutazioni sono più contenute e non sono soggetto ai chiari di luna del dollaro;

– Ho circa un altro terzo del portafoglio in obbligazioni e oro, perché ogni tanto ci sono le recessioni e perché ogni tanto … boh shit happens e l’oro non si sa bene perché ma sta lì per quel motivo.

Mi frega il giusto se la fed taglierà o meno i tassi.

Probabilmente non dovrebbe.

Probabilmente lo farà.

In ogni caso, noi saremo sempre qui a raccontare quel che succederà e cercare di comprendere insieme quel che accade nel mondo e sui mercati perché il nostro portafoglio sia il più possibile a prova di sorprese inaspettate e adatto ad accompagnarci nella realizzazione di tutti i progetti della nostra vita.

Bene amici miei, fine anche di questo episodio post ferragosto, che spero vi sia piaciuto e abbia aggiunto qualche nuovo tassello all’enorme mosaico di educazione finanziaria che da due anni e fischia stiamo costruendo assieme.

Nel frattempo vi invito a mettere segui e attivare le notifiche su spotify, apple podcast o dove ci ascoltate a lasciare una recensione a 5 stelle per supportarci e permetterci di continuare a produrre contenuti che vi spiegano che i tassi di sconto sono quasi l’unica cosa che conta e che in fondo azioni e bond sono la stessa cosa ma fino ad un certo punto, sempre nuovi.

Per questo episodio invece è davvero tutto e noi ci risentiamo mercoledì prossimo con un nuovo appuntamento assieme, sempre qui, naturalmente, con The Bull il tuo podcast di finanza personale.

Recensioni

Quando capisci come funziona la finanza… ti viene voglia di raccontarla!

Veramente veramente raccomandato! la finanza personale riassunta alla perfezione! e spiegata partendo dall'ABC! Ottimo anche da ascoltare a velocita 1,5x!

Giorgia R., 23 Gen 2025

Veramente interessante, chiaro e conciso. Cambia la vita finanziaria di chiunque.. da ascoltare assolutamente anche per chi di finanza non vuole occuparsi mai

Francesca B., 6 Apr 2024

Podcast piacevole, scorre veloce ma in modo estremamente chiaro, spiega i concetti chiave per gestire le proprie finanze, fornendo la classica cassetta degli attrezzi. Complimenti, davvero ben fatto!

Massimiliano, 29 Mag 2024

Podcast che dà sempre spunti interessanti che personalmente mi ha fatto appassionare alla finanza personale spingendomi ad approfondire in prima persona.

Lorenzo, 13 Mar 2025

La mia ignoranza in materia mi ha sempre creato dei dubbi, ma grazie a un amico ho iniziato ad ascoltare il podcast. Per fortuna che ho 24 anni e un po' di tempo e soldi da dedicarmi a imparare le varie nozioni per me stesso. Grazie mille!

Luca G. 10 Ott 2025

Dovrebbero ascoltarlo buona parte degli italiani e io avrei dovuto scoprirlo con qualche anno in anticipo ma meglio tardi che mai

Matteo C., 3 Set 2025

Non sono solito a mettere recensioni e specialmente non ascolto podcast, ma da quando ho iniziato questo, faccio fatica a staccarmi, e quasi non posso più fare a meno di ascoltare e arricchirmi culturalmente.

Andrea V., 22 Set 2025

Ho seguito tutte le puntate! Grazie veramente

Amalia A., 17 Set 2025

Riccardo mi ha letteralmente cambiato la vita e fatto scoprire che amo la finanza, ho ascoltato il podcast già due volte e non mi stufo mai di ascoltarlo, parla in modo semplice e chiaro

Massimo D., 23 Set 2025
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