Perché non basta investire solo in azioni
Le azioni sono l’asset più redditizio nel lungo periodo. Allora perché non investire il 100% del portafoglio solo in azioni? In questa puntata analizziamo i motivi teorici e pratici per cui un portafoglio solo azionario non è efficiente: la teoria finanziaria, la variazione dei rendimenti attesi, i rischi legati alla pianificazione della vita reale e l’impatto psicologico della volatilità. Una risposta chiara a uno dei dubbi più diffusi tra chi inizia a investire.
Risorse
Punti Chiave
Investire solo in azioni non è un portafoglio ottimale perché non è efficiente in termini di rischio/rendimento.
La volatilità (rischio) amplifica gli effetti del rischio di sequenza, che è cruciale in fase di accumulo e decumulo.
La diversificazione (azioni + bond) è l'unica assicurazione per proteggere il portafoglio nei momenti di crisi.
Contenuti del video
- 00:00 Perché non basta investire solo in azioni
- 04:19 Primo motivo teorico: la teoria finanziaria
- 13:22 Secondo motivo teorico: la variazione dei rendimenti attesi
- 20:13 Primo motivo pratico: l’utilità pratica del portafoglio
- 27:00 Secondo motivo pratico: impatti psicologici
- 00:00 Perché non basta investire solo in azioni
- 04:19 Primo motivo teorico: la teoria finanziaria
- 13:22 Secondo motivo teorico: la variazione dei rendimenti attesi
- 20:13 Primo motivo pratico: l’utilità pratica del portafoglio
- 27:00 Secondo motivo pratico: impatti psicologici
Trascrizione Video
Bentornati a The Bull — Il tuo podcast di finanza personale
Lo so benissimo.
Appena si comincia ad investire — o comunque dopo un po’ che si comincia a capire tutta sta pappardella della finanza personale e degli investimenti in generale — ci sono una serie di domande che all’investitore medio vengono in mente — e per qualche motivo sono sempre domande che finiscono per prendersela con le obbligazioni.
Una di questa riguarda l’oggetto del video precedente, ossia perché investire in ETF obbligazionari invece che in singole obbligazioni, dato che i primi non scadono mentre i bond singoli mi garantiscono alla scadenza il rimborso del capitale.
Come abbiamo spiegato in quell’episodio e altre svariate volte nel podcast, per il tipico investitore privato, con un orizzonte di lungo termine, gli ETF obbligazionari sono più pratici, più diversificati, hanno potenzialmente un rendimento maggiore perché avendo duration costante restano esposti sistematicamente al term premium della curva obbligazionaria e in definitiva… beh in definitiva avere un mix di singoli bond o un ETF che replica bond dello stesso tipo con la stessa scadenza media non cambia una cippa, è solo tutto più complicato da gestire.
Questo domanda, però, si inserisce in un discorso più di carattere generale — e questo si rifa’ alla seconda domanda che solitamente gli investitori all’inizio si fanno e che in qualche modo, come dire, fa da sfondo a quella su Bond contro ETF di bond.
La domanda è: ma se le azioni sono l’asset class che rende più di tutte, ma perché cacchio devo buttare via i soldi investendo in altre asset class — non posso investire 100% in azioni?
Ok se dovessi investire da qui a 5 anni.
Ma se il mio orizzonte temporale è 20-30-40 anni, ma che mi frega di avere bond nel portafoglio?
In effetti, se guardo come sono andate le cose negli ultimi 50 anni per le tre asset class principali: azioni, titoli di stato e oro, c’è poco da discutere:
Ho usato l’S&P 500, Treasury decennali e oro in dollari, solo per avere dati che andassero abbastanza indietro nel tempo.
Ma se vogliamo usare indici globali espressi in euro, non è che la storia negli ultimi 40 anni sia stata molto diversa:
Negli ultimi 40 l’indice azionario dei paesi sviluppati, l’mSCI World, ha reso in euro oltre l’8% medio composto all’anno, contro praticamente la metà di oro e di un indice di titoli di stato dei paesi sviluppati, come il FTSE World GOv. Bonds.
Quindi?
Perché sprecare potenziali profitti investendo in un asset class a basso rendimento atteso?
Capisco se uno si spaventa che ogni tanto le azioni vanno su e giù.
Ma alla fine se io sopporto bene la volatilità e ho una prospettiva di lungo termine, 100% azioni e non se ne parla più.
Poi, casomai se ho delle spese da qui ai prossimi anni e voglio essere sicuro di non dover metter mano agli investimenti azionari, allora posso prendere dei titoli di Stato su diverse scadenze, così le varie esigenza di spesa sono coperte.
Per il resto, però, se ho almeno 10-15 anni di investimento di fronte a me, investire in altro fuorché azioni non ha senso.
Vi suona?
OK, questo ragionamento è assolutamente naturale, intuitivo, sensato e … perlopiù sbagliato.
O almeno, non sbagliato in senso assoluto.
Ha la sua logica.
Però non completamente corretto da due punti di vista, ossia:
– Da un punto di vista TEORICO, nel senso che è qualcosa che
– Intanto non va troppo d’accordo con la teoria finanziaria del portafoglio
– e poi cozza con il fatto che i rendimenti attesi dall’investimento azionario non sono costanti.
– Da un punto di vista PRATICO, invece, questa cosa non va troppo d’accordo con … beh … con come funziona la vita. E questo
– sia sul piano– diciamo — della pianificazione finanziaria
– che sul piano psicologico.
In questo video, allora, cerchiamo di capire questi 4 motivi, due teorici e due pratici, secondo cui 100% in azioni non è praticamente un portafoglio ottimale per nessuno.
[capitolo: primo motivo: la teoria finanziaria]
Dunque
PRIMO MOTIVO TEORICO: la teoria finanziaria da 70 anni ha messo in chiaro qual è il processo di costruzione di un portafoglio ottimale e in nessun caso è arrivato a dire: il portafoglio è 100% azioni.
Fin dai tempi di Harry Markowitz negli anni ’50 si è consolidata l’idea che la costruzione del portafoglio girasse intorno a questi due concetti:
– il primo è che l’investitore è per natura avverso al rischio e quindi a parità di rendimento atteso preferirà l’investimento meno rischioso — quello con meno varianza nella formulazione classica, che è il quadrato della deviazione standard;
– il secondo è che il portafoglio più efficiente è quello che massimizza il rendimento atteso per unità di rischio, non quello che massimizza il rendimento atteso in assoluto.
Riadattiamo ai giorni nostri il famoso paradosso di San Pietroburgo, formulato da Daniel Bernoulli nel diciottesimo secolo.
Fate finta che vi offra la possibilità di scommettere su un gioco basato sul lancio di una moneta.
Se testa esce al primo lancio, vincete 2 €.
Se testa esce al secondo lancio, vincete 4 €.
Se esce al terzo, 8 € e così via,
In pratica vincete
Dove n è il numero di lanci che serve per fare uscire la prima testa.
Quando sareste disposti a pagare per partecipare a questo gioco?
Se ci pensate il valore atteso di questo gioco è infinito.
Se testa esce dopo 10 lanci vincete 1000 €.
Se esce dopo 20 lanci vincete 1 milione
Se esce dopo 30 lanci vincete 1 miliardo.
E così via.
Ora, è ovvio che la probabilità che esca testa dopo 30 lanci è infinitesimale, ma dal punto di vista matematico il valore atteso di questo gioco è infinito, quindi un investitore razionale non avverso al rischio dovrebbe puntare TUTTO il suo patrimonio per parteciparvi.
Perché vi suona strana sta roba?
Intanto perché altrimenti non l’avrebbero chiamato Paradosso di San Pietroburgo ma il perfettamente intuitivo testa o croce di San Pietroburgo.
E poi perché dentro la maggior parte di voi vige il principio dell’utilità marginale decrescente.
L’utilità della ricchezza diminuisce man mano che aumenta.
La prospettiva di vincere un miliardo non compensa la prospettiva di perdere una parte rilevante del mio patrimonio, perché ciò avrebbe un impatto devastante sulla qualità della mia vita.
Questo perché siamo avversi al rischio e appunto non siamo disposti a correre rischi infiniti per rendimenti infiniti, ma vogliamo massimizzare il rendimento per il massimo livello di rischio che siamo disposti ad accettare.
Posto che l’investitore è avverso al rischio e che il suo obiettivo è massimizzare il rendimento atteso per la quantità di rischio che si deve assumere, il processo di costruzione del portafoglio ottimale è fatto di due step:
– primo step: determinare il mix di asset rischiosi che massimizza il rapporto tra rischio e rendimento e in finanza esiste una misura che esprime questa cosa, nota come Sharpe ratio, che è questa cosa qua che sembra molto complicata:
> Ma in realtà significa semplicemente dividere il rendimento atteso del > portafoglio in eccesso al tasso di interesse senza rischio, come > quello di un titolo di stato a breve termine, per la deviazione > standard del portafoglio: rendimento diviso rischio. Facile. > > Ora, lasciamo perdere come si fa questa cosa, perché è più facile a > dirsi che ha farsi, visto che presuppone che facciamo delle stime sui > rendimenti attesi, sul rischio atteso e sulla correlazione attesa tra > i diversi elementi del portafoglio. > > Ammettiamo solo che sia possibile identificare un mix di buon senso > che massimizzi il rendimento rispetto al rischio. > Per esempio, una cosa che sappiamo, è che storicamente un portafoglio > composto al 60% da azioni globali e al 40% da titoli di Stato avrebbe > avuto un rendimento inferiore ad un portafoglio fatto solo da azioni, > ma un rapporto tra rendimento e rischio migliore. > > – Fatto questo il secondo step è determinare quanto rischio mi voglio effettivamente prendere. La teoria classica dice:
– Se vuoi meno rischio, una parte dei tuoi risparmi la tieni in cash (e per cash non si intende li tieni sul conto, ma li tieni in strumenti a zero rischio come fondi monetari o obbligazioni a brevissima scadenza)
– Se vuoi più rischio, invece, usi la leva: cioè prendi soldi in prestito.
È stato, dimostrato innumerevoli volte e per esempio qui …
che se tu prendi il portafoglio con il miglior sharpe ratio — ammettiamo per ipotesi che sia 60/40 per semplicità — e usi la leva per portare il suo livello di rischio, la sua deviazione standard, al pari di quella di un portafoglio solo azionario, ottieni in media più rendimento per meno rischio, perché un portafoglio 100% azionario non è efficiente.
Ora, magari l’investitore privato come me e voi non usa la leva perché richiede una gestione più complicata o per altri motivi, ma ci sono altri modi per ottenere qualcosa di simile, cioè un portafoglio che a parità di rischio di un 100% azionario renda di più o che a parità di rendimento rischi di meno.
Nello stesso paper per esempio si fa l’esempio delle small-cap, cioè usando la logica dei fattori (factor investing) — che però oggi non approfondiamo e che è oggetto di un video dedicato che a partire da metà ottobre si troverà nella playlist dedicata alla costruzione del portafoglio.
Questo, giusto per fare un esempio, è backtest del mio portafoglio dal 1998 ad oggi, che è fatto
circa da
– 67% azioni con dentro un quarto di strumenti fattoriali
– 25% titoli di stato globali
– 8% di oro
Ho fatto dal 98 solo perché non riuscivo ad andare più indietro nel tempo.
Comunque vedete che lungo questi 27 anni, il portafoglio ha reso praticamente tanto quanto un 100% azionario, ma con meno rischio
Oh, ovviamente due cose:
– UNO: non è che “bravo io”, semplicemente ho copiato cose che hanno fatto altri e sicuramente ci sono portafogli che avranno fatto ancora meglio in termini di rischio rendimento… e purtroppo non ho questo portafoglio dal 98, anzi, ho questa versione più o meno definitiva da circa 2 anni e l’oro è entrato e uscito ed è stabilmente in portafoglio da meno di un anno;
– DUE: non è detto che funzioni in futuro, quindi non copiate, o se volte copiate ma purché siate perfettamente consapevoli di cosa state facendo.
Però il punto era dire: 100% azionario non è un portafoglio efficiente e non è sempre la cosa migliore – anzi.
È ovvio che in media, se punti tutto sull’asset con il maggior rendimento atteso, realizzi IN MEDIA il maggior rendimento effettivo.
Ma questa non è neanche finanza — è aritmetica.
Però se un portafoglio non è efficiente, mi prendo del rischio inutile, per un’utilità marginale insufficiente a compensarlo.
Perché però si è consolidato questo mito del “100% in azioni e non ci pensi più” e oggi l’esperienza di chiunque abbia iniziato ad investire dopo il 2009 è che le azioni, in particolare quelle americane, siano the only game in town?
Che io sappia ci sono stati almeno tre momenti in cui sono dilagati articoli, paper, libri e teorie varie sul fatto che l’investitore di lungo termine farebbe bene a investire in azioni perché nel lungo termine sono l’asset più sicuro di tutti.
– nel 1929, giusto un attimo prima del peggiore crollo azionario di tutti i tempi;
– alla fine degli anni ’90, giusto un attimo prima dello scoppio della peggiore bolla speculativa del dopoguerra e
– beh, oggi, sperando che non ci troviamo giusto un attimo prima di un nuovo tracollo finanziario, anche se i segnali in giro iniziano a diventare fastidiosamente convincenti.
Notate niente?
Questi discorsi sul fatto che “siccome le azioni sono l’asset class con il maggior rendimento atteso e quella che in passato ha sempre reso di più in confronto ad altre allora l’investitore di lungo termine dovrebbe investire solo in azioni” saltano sempre fuori — guarda caso — dopo 10-15 anni in cui i mercati azionari sono praticamente solo cresciuti.
E grazie al cazzo mi vien da dire no?
Andate invece a guardare se nel 1939, nel 1979 o nel 2009 sono usciti molti libri che spiegavano che investire in azioni era praticamente la cosa più ovvia del mondo per qualunque investitore di lungo termine.
Ovviamente non ne troverete molti, il che dovrebbe far venire il sospetto che questa teoria non sia così “rock-solid” come sembra, ma forse è più figlia di alcuni periodi, e soprattutto viene formulata prevalentemente guardando nello specchietto retrovisore e assumendo che ciò che è accaduto nel passato, in particolare nel recente passato, debba ripetersi paro paro anche nel futuro.
E purtroppo, poche cose sono sbagliate in finanza come il fatto di basare le aspettative future su estrapolazioni da cose accadute nel passato.
[capitolo: secondo motivo: la variazione dei rendimenti attesi]
Veniamo quindi al SECONDO MOTIVO TEORICO.
Dire: negli ultimi 50 anni le azioni hanno disintegrato le obbligazioni QUINDI anche per il futuro possiamo aspettarci la stessa cosa si basa su un presupposto, ossia, che i rendimenti attesi non variino, che siano sempre quelli.
Cioè, detta in un altro modo: fondare le aspettative future estrapolando il comportamento passato dei mercati presuppone appunto che il rendimento atteso dall’investimento azionario sia più o meno stabile.
In realtà sono ormai 30 almeno trent’anni che si è capito che le cose non stanno proprio così e che invece i rendimenti attesi cambiano eccome nei vari cicli economici e se volete farvi una cultura in merito potete spararvi
Questo paper qui
OPPURE
Questo paper qui
OPPURE
Questo paper qui
Quello che spesso si fa vedere è che se hai un orizzonte breve, investire in titoli di stato o strumenti monetari è più sicuro che in azioni, ma se hai un orizzonte molto lungo, paradossalmente investire in azioni diventa quasi meno rischioso che investire negli altri due.
Questo grafico per esempio è di JP Morgan e fa vedere come cambia la dispersione dei rendimenti man mano che l’orizzonte di investimento si allunga
Vedete in un singolo anno, investire nell’S&P 500 può rendere il 52%, come successo nel 1954, oppure perdere addirittura il 37%, come successo nel 2008.
Per i bond decennali invece la dispersione è già più contenuta.
Più si va avanti invece, più ci si accorge che la dispersione dei rendimenti realizzati si riduce.
Per esempio per ogni dollaro che investo OGGI nell’S&P 500, dovrei aspettarmi che tra 20 vent’anni sia cresciuto in media del 6% all’anno se mi ha detto male o del 18% se invece mi ha detto benissimo.
Con i bond invece, ho praticamente quasi lo stesso gap, però spostato più in basso, visto che posso aspettarmi tra l’1% e l’11%.
A questo punto uno guarda questo grafico e dice: “beh, non c’è nessun motivo per non investire solo in azioni, dato che più passa il tempo, meno si fanno rischiose e la probabilità di perdere soldi su 20 anni di investimento è praticamente nulla”.
Tutto verissimo — e infatti chi vi parla ama le azioni alla follia e quasi due terzi del proprio portafoglio è in azioni.
Però uno si dovrebbe chiedere: ma perché nel breve termine le azioni sono molto più rischiose delle obbligazioni, mentre nel lungo termine il rischio delle azioni diminuisce “più velocemente” di quello delle obbligazioni?
Allora, la spiegazione non è proprio immediata, però seguitemi un secondo.
Come si misura il rischio in finanza?
La misura statistica del rischio è la deviazione standard.
Per farla breve: se in un anno posso aspettarmi che il rendimento di un asset sia tra -37 e +52%, allora la sua deviazione standard sarà maggiore di quella di un asset che mi darà tra -11 e +33%.
Per semplicità diciamo che il rendimento medio azionario sia 10% e che la deviazione standard annualizzata dei rendimenti sia circa 20%, allora secondo le regole della distribuzione normale due terzi degli anni potrò aspettarmi un rendimento tra, diciamo, -10% e +30%, il 95% degli anni, tra -30 e +50 e il 99,7% degli anni tra -50 e +70%.
Su orizzonti temporali più lunghi, però, la deviazione standard si riduce di un fattor di uno diviso radice quadrata di N, dove N è il numero di anni.
Questa cosa però dovrebbe essere vera sia per le azioni che per le obbligazioni.
Perché invece le azioni diventano meno rischiose “più velocemente” delle obbligazioni?
La risposta più accreditata è che i rendimenti del mercato azionario nelle varie fasi dei mercati siano — si dice — autocorrelati e tendano a regredire verso la media.
Cosa significa?
Significa che in pratica i rendimenti passati influenzano i rendimenti futuri, in maniera relativamente prevedibile.
Non abbastanza prevedibile per aprirci il nostro hedge fund e diventare milionari, ma abbastanza prevedibili su cicli di lungo termine: a lunghi cicli positivi di crescita dei mercati azionari, solitamente di 10-15 anni, seguono quasi sistematicamente periodi negativi, e a periodi negativi seguono invece nuovi cicli positivi e via dicendo.
Di solito i cicli positivi sono più lenti e più lunghi, mentre quelli negativi sono più brevi e più intensi.
Ma perché i rendimenti attesi variano?
Bisognerebbe fare un discorso lungo e articolato, però per oggi accontentiamoci di dire che variano perché dopo lunghi cicli positivi gli investitori tendono a diventare iperottimisti, ad avere una forte propensione al rischio e quindi a richiedere un rendimento inferiore per investire in azioni. Invece dopo le crisi di mercato, gli investitori in media diventano più avversi al rischio, o magari c’è stata una crisi anche economica, hanno perso il lavoro o per altri motivi non possono prendersi rischi finanziari, e quindi richiedono un rendimento elevato per compensare il rischio di investire in azioni in questo contesto.
In termini tecnici si dice che varia il tasso a cui viene scontato il valore futuro dei flussi di cassa attesi.
Sempre la solita formula che spiega quasi tutto in finanza:
Se i rendimenti attesi diminuiscono il prezzo aumenta, ma i rendimenti futuri diminuiscono.
Se invece i rendimenti attesi aumentano il prezzo scende, ma i rendimenti futuri aumentano.
Questa alternanza relativamente prevedibile del mercato determinata dalle variazioni dei rendimenti attesi spiega perché nel lungo termine la rischiosità delle azioni si riduce più velocemente di quella dei bond.
Però se i rendimenti variano, capite bene che estrapolare dal passato per prendere decisioni di investimento sul futuro non è che sia proprio l’idea del secolo, perché IN MEDIA posso aspettarmi dalle azioni un certo investimento positivo, ma IN REALTA’ dipende dai cicli di mercato che attraverso, da quando inizio e quando finisco di investire e da quanto capitale verso nelle varie fasi.
In un video che si trova sempre nella playlist dedicata ad asset allocation e che sarà disponibile più o meno della seconda metà di ottobre, vedremo insieme qualche approccio per costruire un portafoglio con un approccio dinamico che tenga conto dei rendimenti attesi futuri, invece che dare per scontato che sovrappesare l’asset class che in passato ha reso di più sia sempre l’idea migliore.
Bene, se però siete gente del tipo: sticazzi la teoria, a me interessa l’esperienza reale, l’impatto sulla vita vera, non quello che scrivono gli accademici sui paper, passiamo alle motivazione pratiche per cui investire 100% in azioni non è generalmente una buona idea.
[terzo motivo: l’utilità pratica del portafoglio]
MOTIVAZIONE PRATICA NUMERO UNO:
Diciamo intanto una cosa.
Il lungo termine non esiste.
Il lungo termine è un’astrazione.
Long term is abstraction. Short term is reality, citando Morgan Housel.
È assolutamente vero, come abbiamo detto prima, che su orizzonti di tempo sufficientemente lunghi aumenta la probabilità che fenomeni estremi si compensino e che lo spettro dei possibili esiti sia più ristretto.
Se investire in azioni per un singolo anno può tranquillamente darmi un risultato del +50% o del -40%, su 30 anni sarà tra +13% e +7%, almeno prendendo l’S&P 500 come riferimento.
Nel lunghissimo termine, teoricamente, il risultato che effettivamente conseguirò con i miei investimenti in media tenderà ad avvicinarsi al risultato atteso, basato sulla media storica e tenuto conto del principio di regressione.
In teoria.
Ma intanto ricordiamoci che il risultato scoppiettante degli ultimi 40 anni, soprattutto del mercato azionario americano, è dipeso da un mix difficilmente ripetibile in futuro: tagli alle tasse, deregolamentazioni, globalizzazione, tassi di interesse in discesa, esorbitante spesa pubblica per finanziare economia e consumi che ha fatto esplodere i debiti. L’effetto di tutto ciò è stato che l’S&P 500 ha dominato in lungo e in largo e trainato i mercati occidentali, ma i suoi prezzi oggi sono più del triplo di quelli della fine degli anni ’80, rispetto agli utili.
L’ovvia conclusione è che i rendimenti attesi futuri saranno quasi sicuramente più bassi — a meno che davvero l’intelligenza artificiale non compia meraviglie inimmaginabili per la produttività dell’economia globale.
Invece è difficile immaginare che il mix di condizioni favorevoli dagli anni ’80 in poi si ripetano paro paro pure nei prossimi 40 anni.
Quindi nel lungo termine bla bla bla ok, però magari il lungo termine che ci aspetta sarà un po’ diverso.
Non necessariamente negativo.
Ma diverso.
Prima cosa.
Seconda cosa.
Storicamente è perlopiù vero che le azioni sono l’asset class che ha sempre fatto meglio (soprattutto in confronto all’altra grande asset, le obbligazioni), ma se prendiamo la storia recente ci sono stati decenni, ventenni e anche di più in cui i bond hanno reso più delle azioni. Per esempio dal 1985 al 2009 il FTSE World Government Bond avrebbe reso di più dell’MSCI World.
In teoria nel lungo termine le azioni rendono più delle obbligazioni.
Sì.
Ma possono capitarti benissimo diversi decenni sfigati in cui la cosa non accade.
E poco te ne fai alla fine della tua vita da investitore, che poi è la fine della tua vita in generale, se le azioni all’ultima curva fanno il sorpasso.
Detto questo, aggiungiamo un’altra cosa.
Se i rendimenti attesi variano e i mercati attraversano diversi cicli, la sequenza dei rendimenti conta, soprattutto perché non è che uno investe 100.000 € quando ha venticinque anni e poi a 65 va a vedere quanti sono diventati, ma investirà un po’ per volta nel tempo, altre volte preleverà dei soldi e così via.
il rischio di sequenza è quel principio secondo cui l’ordine in cui si susseguono i rendimenti incide sul risultato finale.
È semplicemente una cosa matematica.
A parità di rendimento medio,
– l’ideale è avere anni negativi all’inizio e positivi alla fine durante la fase di accumulo e viceversa quando sono in pensione.
– l’inferno invece è rendimenti positivi all’inizio e negativi alla fine della fase di accumulo e il contrario in fase di decumulo.
Quindi avere un portafoglio molto volatile fa una grande differenza, perché la volatilità si mangia via rendimento.
Tra la media aritmetica dei rendimenti di ciascun anno e la media geometrica, cioè quello che noi effettivamente ci portiamo a casa e che chiamiamo CAGR, compund annual growth rate o rendimento composto, in mezzo c’è la volatilità.
Sempre per gli amanti della matematica il rendimento Geometrico è più o meno rendimento medio aritmetico meno varianza diviso 2
Se la formula l’avete capita bene, altrimenti se non l’avete capita fa niente, tanto non serve ad un cazzo.
L’importante è il concetto di fondo.
Più un portafoglio è volatile più perdo rendimento per strada.
E se durante la mia vita di investitore, come è normale che sia, metto e tolgo soldi dal portafoglio, allora la volatilità amplifica il rischio di sequenza, cioè il rischio che le cose possano andarmi eccezionalmente bene o eccezionalmente male.
Il problema del lungo termine, però, è che in mezzo c’è tutta la nostra vita e il nostro portafoglio deve servirla nel migliore dei modi per sostenere tutte le decisioni finanziarie che vorremmo prendere via via per realizzare le nostre aspirazioni.
La cosa più rilevante per un investitore generalmente è trovare il punto di equilibrio tra il rischio che si è disposti ad assumersi e il rendimento atteso perché, mettiamola così, non lo sai cosa accadrà nella tua vita. Non lo sai quando si tratterà di dover cambiare i piani. Non lo sai se e quando circostanze inaspettate di porteranno a modificare la pianificazione che avevi in mente. Di conseguenza la volatilità del portafoglio non è solo una questione estetica o di sollecitazione emotiva. La volatilità può essere un problema reale esattamente nel momento in cui avresti bisogno che il tuo portafoglio rimanesse in un range limitato invece che fare un decennio alle stelle e uno alle stalle.
Più che il rendimento atteso medio assoluto, quello che in realtà a me interessa è che il rendimento negli scenari peggiori sia accettabile.
Non mi interessa un portafoglio che IN MEDIA renda di più, perché per usare un vecchio esempio, se tu metti il termostato della casa di nonna a 35° in camera da letto e 5° in bagno, hai in media una nonna che sta confortevolmente a 20°, ma in realtà hai probabilmente una nonna morta per una congestione.
Con il portafoglio il concetto è lo stesso.
È il maggior rendimento per il rischio assunto che mi interessa, non il maggior rendimento assoluto.
Per questa ragione il discorso che stiamo facendo è collegato al discorso dei bond singoli versus etf obbligazionari.
Con i secondi è più semplice costruire un portafoglio bilanciato.
Un conto è dire: uso i bond per pianificare le spese prevedibili — ammesso che sia una cosa fattibile. Un altro è considerare l’imprevedibile, ossia il fatto che la vita può riservare mille sorprese. E avere un portafoglio con una volatilità più contenuta, diversificato, che permette di beneficiare dei ribilanciamenti quando un asset class corre molto più di un’altra e così via è un valore reale nel servizio che il nostro portafoglio di investimenti deve svolgere per gli obiettivi della nostra vita.
[quarto motivo: impatti psicologici]
ULTIMA MOTIVAZIONE PRATICA: quella psicologica.
Ricordiamoci una cosa.
Sono 15 anni che va tutto bene e la cosa peggiore è successa nel 2022, quando al massimo l’MSCI World, in Euro, è sceso di poco meno del 20%. Nulla di paragonabile al disastro dei 13 anni dal picco del 2000 al 2013
Quando si tratta di sopportare dei crolli del 40-50% e poi aspettare 13 anni per tornare al punto di partenza nominale di prima, non è che sia proprio una passeggiata.
13 anni sono tanti.
Una buona fetta della tua vita se n’è andata nel frattempo.
Ok che dopo sarebbe stata uno spasso.
Ma nessuno ti assicura che anche la prossima volta andrà allo stesso modo.
Oggi per esempio molti ritengono che siamo in una situazione simile alla fine della dot.com bubble di inizio 2000.
Io non so se sia così e probabilmente la situazione di allora era molto più gonfiata di quella di oggi, dato che la qualità media e la profittabilità delle società che oggi dominano i mercati è sicuramente superiore a quella di allora.
Però facciamo finta che sia così e che oggi si ripeta quello che è successo nel 2000.
C’erano stati prima 15 anni pazzeschi, come oggi, anche se il periodo 1985-2000 fu ancora più redditizio, e poi appunto puff, la bolla scoppia e parte il decennio perduto.
Ci sono l’investitore A e l’investitore B, entrambi con 100.000 €.
L’investitore A investe solo in MSCI World o VWCE and chill, come piace agli amici di Reddit.
L’investitore B investe 60% MSCI World e 40% in FTSE Government Bond.
Se si ripetesse quello che è accaduto dal 2000 in poi, sapete quando il portafoglio dell’investitore A riuscirà a raggiungere quello dell’investitore B?
Solo tra 21 anni.
Qualche anno prima invece se i due avessero fatto un piano di accumulo
Però voi avete presente persistere nella fede che nel lungo termine le azioni vincono sempre se per 15-20 anni ci rendiamo conto che il portafoglio meno volatile e più adatto a sostenerci nelle diverse variabili imprevedibili della nostra vita avrebbe pure fatto meglio in termini di rendimento assoluto?
Non investo da così tanto per esserci passato, ma sono abbastanza certo che se fossi stato l’investitore A, anche dall’alto dei risultati fantastici degli ultimi anni, comunque avrei fatto volentieri a cambio con l’investitore B se avessi potuto tornare indietro.
Ora, io non prevedo il futuro, però un bull market secolare di 30 anni non c’è mai stato.
Non vuol dire che non possa mai esserci, ma ci vuole davvero un moto di ottimismo sensazionale per pensare che il 2025-2039 sarà una ripetizione del 2009-2024.
Quindi per non sapere né leggere né scrivere, io sono un grandissimo fan dell’investimento azionario, ma cmq diversifico perché il rischio in eccesso che andrei prendermi non ritengo sarebbe compensato dal maggior beneficio potenziale che ne trarrei, mentre invece se le cose buttano veramente male, il danno sarebbe in valore assoluto superiore.
Quando usiamo i numeri siamo abituati a usare concetti simmetrici.
+5 ha la stessa distanza da zero di -5.
Ma psicologicamente il discorso è diverso.
Perdere 1.000 € non è compensato, psicologicamente, da un guadagno di 1.000 €.
Il dolore per la perdita è doppio rispetto al piacere di un guadagno dello stesso importo.
Almeno secondo questo signore qua
Di conseguenza è importante ricordarsi che massimizzare le probabilità di successo negli scenari più negativi è più importante che massimizzare la probabilità di successo assoluta.
In media investire in azioni è quasi sempre la cosa migliore.
Ma io, in quella media, potrei far parte della quota sfigata del campione.
Ma è naturale che sia così — e non potrebbe essere altrimenti.
Le azioni rendono di più perché il mercato paga un “risk premium”, cioè un premio per compensare la maggiore assunzione di rischio. Ma come abbiamo detto tante volte questo rischio non è un modo dire — è un rischio reale, a più livelli.
Se il mercato sapesse che alla fine questo rischio è solo passeggero il premio si assottiglierebbe.
Il fatto che il premio al rischio potrebbe non trasformarsi in rendimento effettivamente REALIZZATO è esattamente la condizione necessaria perché un premio al rischio in generale ci sia.
È quello che più volte ho chiamato nel podcast “il paradosso del premio al rischio”: esiste perché non è garantito. Se fosse garantito, non esisterebbe.
Per usare una brillante immagine del geniale Howard Marks, è vero che quando investi in un asset più rischioso, aumenta il tuo rendimento atteso.
Ma così come aumenta, in media, il rendimento atteso, aumenta anche l’ampiezza dei risultati possibili per ciascun investitore in quell’asset rischioso in diversi momenti.
Il rendimento atteso medio è elevato.
Ma le singole esperienze dei singoli investitori possono essere incredibilmente positive o incredibilmente negative.
Rendiamo onore a Marks che a quanto pare è stato molto orgoglioso di questo disegnino che ha fatto durante un viaggio in australia per spiegare sta cosa:
Ok, forse non un capolavoro artistico, ma rende l’idea.
Se rischio poco ho basso rendimento ma anche bassa variabilità — quello che mi aspetto è quasi certamente quel che otterrò.
Se rischio tanto ho alto rendimento atteso ma la distribuzione dei risultati possibili reali, quelli che messi tutti assieme danno la media, è estremamente ampia.
Lo so che non è un concetto semplice questo.
E non è semplice perché è un ragionamento su più piani.
C’è quello statistico, che ci dice che le azioni hanno un rendimento atteso maggiore, ma atteso e realizzato sono due cose ben diverse e in mezzo potrebbe volerci un tempo più lungo del tempo utile alla nostra vita.
C’è poi un discorso pragmatico: io investo per massimizzare la mia utilità marginale, non per conseguire il massimo ritorno assoluto, perché ciò potrebbe compromettere proprio quegli obiettivi che investendo voglio realizzare.
Infine c’è un discorso di pianificazione: non in tutte le fasi della vita ho bisogno dello stesso tipo di portafoglio.
E infine c’è il discorso psicologico: l’aritmetica del nostro stomaco risponde a regole diverse rispetto a quella dei numeri della finanza.
Ad ogni modo se uno comprende che un portafoglio vive nello stesso continuum della nostra vita e non è proiettato là, in un momento imprecisato tra x decenni per farci chissà cosa, comprende anche perché la diversificazione rappresenti un principio inviolabile nella costruzione del portafoglio: non per massimizzare il nostro successo, ma fondamentalmente per proteggerci il culo.
Diversification.
Sempre e comunque.
Perché è l’unica vera assicurazione che può proteggerci da un disastro che ritenevamo improbabile e che, come tutti i disastri, proprio perché era improbabile si sarà rivelato un disastro.
Quindi cari miei, lascio alla vostra propensione al disastro elaborare la vostra personale posizione rispetto a questo tema.
Fine del video!
Spero vi sia piaciuto e che abbia chiarito qualche aspetto di uno dei dubbi più diffusi e pericolosi che si annida nelle mente di chiunque inizi ad investire — sottoscritto compreso qualche anno fa.
Come sempre vi invito a iscrivervi al canale, mettere like, attivare le notifiche per supportarci e permetterci di continuare a produrre contenuti che mi spiegano che investire nella cose che rende di più è bello sulla carta ma potenzialmente dolorosa nella vita sempre nuovi.
Per questo episodio invece è davvero tutto e noi ci rivediamo nei prossimi video di questa playlist dedicate alle domande più frequenti che ho ricevuto in questi anni parlando a centinaia di migliaia di investitori, sempre qui naturalmente con The Bull il tuo podcast di finanza personale.
Bentornati a The Bull — Il tuo podcast di finanza personale
Lo so benissimo.
Appena si comincia ad investire — o comunque dopo un po’ che si comincia a capire tutta sta pappardella della finanza personale e degli investimenti in generale — ci sono una serie di domande che all’investitore medio vengono in mente — e per qualche motivo sono sempre domande che finiscono per prendersela con le obbligazioni.
Una di questa riguarda l’oggetto del video precedente, ossia perché investire in ETF obbligazionari invece che in singole obbligazioni, dato che i primi non scadono mentre i bond singoli mi garantiscono alla scadenza il rimborso del capitale.
Come abbiamo spiegato in quell’episodio e altre svariate volte nel podcast, per il tipico investitore privato, con un orizzonte di lungo termine, gli ETF obbligazionari sono più pratici, più diversificati, hanno potenzialmente un rendimento maggiore perché avendo duration costante restano esposti sistematicamente al term premium della curva obbligazionaria e in definitiva… beh in definitiva avere un mix di singoli bond o un ETF che replica bond dello stesso tipo con la stessa scadenza media non cambia una cippa, è solo tutto più complicato da gestire.
Questo domanda, però, si inserisce in un discorso più di carattere generale — e questo si rifa’ alla seconda domanda che solitamente gli investitori all’inizio si fanno e che in qualche modo, come dire, fa da sfondo a quella su Bond contro ETF di bond.
La domanda è: ma se le azioni sono l’asset class che rende più di tutte, ma perché cacchio devo buttare via i soldi investendo in altre asset class — non posso investire 100% in azioni?
Ok se dovessi investire da qui a 5 anni.
Ma se il mio orizzonte temporale è 20-30-40 anni, ma che mi frega di avere bond nel portafoglio?
In effetti, se guardo come sono andate le cose negli ultimi 50 anni per le tre asset class principali: azioni, titoli di stato e oro, c’è poco da discutere:
Ho usato l’S&P 500, Treasury decennali e oro in dollari, solo per avere dati che andassero abbastanza indietro nel tempo.
Ma se vogliamo usare indici globali espressi in euro, non è che la storia negli ultimi 40 anni sia stata molto diversa:
Negli ultimi 40 l’indice azionario dei paesi sviluppati, l’mSCI World, ha reso in euro oltre l’8% medio composto all’anno, contro praticamente la metà di oro e di un indice di titoli di stato dei paesi sviluppati, come il FTSE World GOv. Bonds.
Quindi?
Perché sprecare potenziali profitti investendo in un asset class a basso rendimento atteso?
Capisco se uno si spaventa che ogni tanto le azioni vanno su e giù.
Ma alla fine se io sopporto bene la volatilità e ho una prospettiva di lungo termine, 100% azioni e non se ne parla più.
Poi, casomai se ho delle spese da qui ai prossimi anni e voglio essere sicuro di non dover metter mano agli investimenti azionari, allora posso prendere dei titoli di Stato su diverse scadenze, così le varie esigenza di spesa sono coperte.
Per il resto, però, se ho almeno 10-15 anni di investimento di fronte a me, investire in altro fuorché azioni non ha senso.
Vi suona?
OK, questo ragionamento è assolutamente naturale, intuitivo, sensato e … perlopiù sbagliato.
O almeno, non sbagliato in senso assoluto.
Ha la sua logica.
Però non completamente corretto da due punti di vista, ossia:
– Da un punto di vista TEORICO, nel senso che è qualcosa che
– Intanto non va troppo d’accordo con la teoria finanziaria del portafoglio
– e poi cozza con il fatto che i rendimenti attesi dall’investimento azionario non sono costanti.
– Da un punto di vista PRATICO, invece, questa cosa non va troppo d’accordo con … beh … con come funziona la vita. E questo
– sia sul piano– diciamo — della pianificazione finanziaria
– che sul piano psicologico.
In questo video, allora, cerchiamo di capire questi 4 motivi, due teorici e due pratici, secondo cui 100% in azioni non è praticamente un portafoglio ottimale per nessuno.
[capitolo: primo motivo: la teoria finanziaria]
Dunque
PRIMO MOTIVO TEORICO: la teoria finanziaria da 70 anni ha messo in chiaro qual è il processo di costruzione di un portafoglio ottimale e in nessun caso è arrivato a dire: il portafoglio è 100% azioni.
Fin dai tempi di Harry Markowitz negli anni ’50 si è consolidata l’idea che la costruzione del portafoglio girasse intorno a questi due concetti:
– il primo è che l’investitore è per natura avverso al rischio e quindi a parità di rendimento atteso preferirà l’investimento meno rischioso — quello con meno varianza nella formulazione classica, che è il quadrato della deviazione standard;
– il secondo è che il portafoglio più efficiente è quello che massimizza il rendimento atteso per unità di rischio, non quello che massimizza il rendimento atteso in assoluto.
Riadattiamo ai giorni nostri il famoso paradosso di San Pietroburgo, formulato da Daniel Bernoulli nel diciottesimo secolo.
Fate finta che vi offra la possibilità di scommettere su un gioco basato sul lancio di una moneta.
Se testa esce al primo lancio, vincete 2 €.
Se testa esce al secondo lancio, vincete 4 €.
Se esce al terzo, 8 € e così via,
In pratica vincete
Dove n è il numero di lanci che serve per fare uscire la prima testa.
Quando sareste disposti a pagare per partecipare a questo gioco?
Se ci pensate il valore atteso di questo gioco è infinito.
Se testa esce dopo 10 lanci vincete 1000 €.
Se esce dopo 20 lanci vincete 1 milione
Se esce dopo 30 lanci vincete 1 miliardo.
E così via.
Ora, è ovvio che la probabilità che esca testa dopo 30 lanci è infinitesimale, ma dal punto di vista matematico il valore atteso di questo gioco è infinito, quindi un investitore razionale non avverso al rischio dovrebbe puntare TUTTO il suo patrimonio per parteciparvi.
Perché vi suona strana sta roba?
Intanto perché altrimenti non l’avrebbero chiamato Paradosso di San Pietroburgo ma il perfettamente intuitivo testa o croce di San Pietroburgo.
E poi perché dentro la maggior parte di voi vige il principio dell’utilità marginale decrescente.
L’utilità della ricchezza diminuisce man mano che aumenta.
La prospettiva di vincere un miliardo non compensa la prospettiva di perdere una parte rilevante del mio patrimonio, perché ciò avrebbe un impatto devastante sulla qualità della mia vita.
Questo perché siamo avversi al rischio e appunto non siamo disposti a correre rischi infiniti per rendimenti infiniti, ma vogliamo massimizzare il rendimento per il massimo livello di rischio che siamo disposti ad accettare.
Posto che l’investitore è avverso al rischio e che il suo obiettivo è massimizzare il rendimento atteso per la quantità di rischio che si deve assumere, il processo di costruzione del portafoglio ottimale è fatto di due step:
– primo step: determinare il mix di asset rischiosi che massimizza il rapporto tra rischio e rendimento e in finanza esiste una misura che esprime questa cosa, nota come Sharpe ratio, che è questa cosa qua che sembra molto complicata:
> Ma in realtà significa semplicemente dividere il rendimento atteso del > portafoglio in eccesso al tasso di interesse senza rischio, come > quello di un titolo di stato a breve termine, per la deviazione > standard del portafoglio: rendimento diviso rischio. Facile. > > Ora, lasciamo perdere come si fa questa cosa, perché è più facile a > dirsi che ha farsi, visto che presuppone che facciamo delle stime sui > rendimenti attesi, sul rischio atteso e sulla correlazione attesa tra > i diversi elementi del portafoglio. > > Ammettiamo solo che sia possibile identificare un mix di buon senso > che massimizzi il rendimento rispetto al rischio. > Per esempio, una cosa che sappiamo, è che storicamente un portafoglio > composto al 60% da azioni globali e al 40% da titoli di Stato avrebbe > avuto un rendimento inferiore ad un portafoglio fatto solo da azioni, > ma un rapporto tra rendimento e rischio migliore. > > – Fatto questo il secondo step è determinare quanto rischio mi voglio effettivamente prendere. La teoria classica dice:
– Se vuoi meno rischio, una parte dei tuoi risparmi la tieni in cash (e per cash non si intende li tieni sul conto, ma li tieni in strumenti a zero rischio come fondi monetari o obbligazioni a brevissima scadenza)
– Se vuoi più rischio, invece, usi la leva: cioè prendi soldi in prestito.
È stato, dimostrato innumerevoli volte e per esempio qui …
che se tu prendi il portafoglio con il miglior sharpe ratio — ammettiamo per ipotesi che sia 60/40 per semplicità — e usi la leva per portare il suo livello di rischio, la sua deviazione standard, al pari di quella di un portafoglio solo azionario, ottieni in media più rendimento per meno rischio, perché un portafoglio 100% azionario non è efficiente.
Ora, magari l’investitore privato come me e voi non usa la leva perché richiede una gestione più complicata o per altri motivi, ma ci sono altri modi per ottenere qualcosa di simile, cioè un portafoglio che a parità di rischio di un 100% azionario renda di più o che a parità di rendimento rischi di meno.
Nello stesso paper per esempio si fa l’esempio delle small-cap, cioè usando la logica dei fattori (factor investing) — che però oggi non approfondiamo e che è oggetto di un video dedicato che a partire da metà ottobre si troverà nella playlist dedicata alla costruzione del portafoglio.
Questo, giusto per fare un esempio, è backtest del mio portafoglio dal 1998 ad oggi, che è fatto
circa da
– 67% azioni con dentro un quarto di strumenti fattoriali
– 25% titoli di stato globali
– 8% di oro
Ho fatto dal 98 solo perché non riuscivo ad andare più indietro nel tempo.
Comunque vedete che lungo questi 27 anni, il portafoglio ha reso praticamente tanto quanto un 100% azionario, ma con meno rischio
Oh, ovviamente due cose:
– UNO: non è che “bravo io”, semplicemente ho copiato cose che hanno fatto altri e sicuramente ci sono portafogli che avranno fatto ancora meglio in termini di rischio rendimento… e purtroppo non ho questo portafoglio dal 98, anzi, ho questa versione più o meno definitiva da circa 2 anni e l’oro è entrato e uscito ed è stabilmente in portafoglio da meno di un anno;
– DUE: non è detto che funzioni in futuro, quindi non copiate, o se volte copiate ma purché siate perfettamente consapevoli di cosa state facendo.
Però il punto era dire: 100% azionario non è un portafoglio efficiente e non è sempre la cosa migliore – anzi.
È ovvio che in media, se punti tutto sull’asset con il maggior rendimento atteso, realizzi IN MEDIA il maggior rendimento effettivo.
Ma questa non è neanche finanza — è aritmetica.
Però se un portafoglio non è efficiente, mi prendo del rischio inutile, per un’utilità marginale insufficiente a compensarlo.
Perché però si è consolidato questo mito del “100% in azioni e non ci pensi più” e oggi l’esperienza di chiunque abbia iniziato ad investire dopo il 2009 è che le azioni, in particolare quelle americane, siano the only game in town?
Che io sappia ci sono stati almeno tre momenti in cui sono dilagati articoli, paper, libri e teorie varie sul fatto che l’investitore di lungo termine farebbe bene a investire in azioni perché nel lungo termine sono l’asset più sicuro di tutti.
– nel 1929, giusto un attimo prima del peggiore crollo azionario di tutti i tempi;
– alla fine degli anni ’90, giusto un attimo prima dello scoppio della peggiore bolla speculativa del dopoguerra e
– beh, oggi, sperando che non ci troviamo giusto un attimo prima di un nuovo tracollo finanziario, anche se i segnali in giro iniziano a diventare fastidiosamente convincenti.
Notate niente?
Questi discorsi sul fatto che “siccome le azioni sono l’asset class con il maggior rendimento atteso e quella che in passato ha sempre reso di più in confronto ad altre allora l’investitore di lungo termine dovrebbe investire solo in azioni” saltano sempre fuori — guarda caso — dopo 10-15 anni in cui i mercati azionari sono praticamente solo cresciuti.
E grazie al cazzo mi vien da dire no?
Andate invece a guardare se nel 1939, nel 1979 o nel 2009 sono usciti molti libri che spiegavano che investire in azioni era praticamente la cosa più ovvia del mondo per qualunque investitore di lungo termine.
Ovviamente non ne troverete molti, il che dovrebbe far venire il sospetto che questa teoria non sia così “rock-solid” come sembra, ma forse è più figlia di alcuni periodi, e soprattutto viene formulata prevalentemente guardando nello specchietto retrovisore e assumendo che ciò che è accaduto nel passato, in particolare nel recente passato, debba ripetersi paro paro anche nel futuro.
E purtroppo, poche cose sono sbagliate in finanza come il fatto di basare le aspettative future su estrapolazioni da cose accadute nel passato.
[capitolo: secondo motivo: la variazione dei rendimenti attesi]
Veniamo quindi al SECONDO MOTIVO TEORICO.
Dire: negli ultimi 50 anni le azioni hanno disintegrato le obbligazioni QUINDI anche per il futuro possiamo aspettarci la stessa cosa si basa su un presupposto, ossia, che i rendimenti attesi non variino, che siano sempre quelli.
Cioè, detta in un altro modo: fondare le aspettative future estrapolando il comportamento passato dei mercati presuppone appunto che il rendimento atteso dall’investimento azionario sia più o meno stabile.
In realtà sono ormai 30 almeno trent’anni che si è capito che le cose non stanno proprio così e che invece i rendimenti attesi cambiano eccome nei vari cicli economici e se volete farvi una cultura in merito potete spararvi
Questo paper qui
OPPURE
Questo paper qui
OPPURE
Questo paper qui
Quello che spesso si fa vedere è che se hai un orizzonte breve, investire in titoli di stato o strumenti monetari è più sicuro che in azioni, ma se hai un orizzonte molto lungo, paradossalmente investire in azioni diventa quasi meno rischioso che investire negli altri due.
Questo grafico per esempio è di JP Morgan e fa vedere come cambia la dispersione dei rendimenti man mano che l’orizzonte di investimento si allunga
Vedete in un singolo anno, investire nell’S&P 500 può rendere il 52%, come successo nel 1954, oppure perdere addirittura il 37%, come successo nel 2008.
Per i bond decennali invece la dispersione è già più contenuta.
Più si va avanti invece, più ci si accorge che la dispersione dei rendimenti realizzati si riduce.
Per esempio per ogni dollaro che investo OGGI nell’S&P 500, dovrei aspettarmi che tra 20 vent’anni sia cresciuto in media del 6% all’anno se mi ha detto male o del 18% se invece mi ha detto benissimo.
Con i bond invece, ho praticamente quasi lo stesso gap, però spostato più in basso, visto che posso aspettarmi tra l’1% e l’11%.
A questo punto uno guarda questo grafico e dice: “beh, non c’è nessun motivo per non investire solo in azioni, dato che più passa il tempo, meno si fanno rischiose e la probabilità di perdere soldi su 20 anni di investimento è praticamente nulla”.
Tutto verissimo — e infatti chi vi parla ama le azioni alla follia e quasi due terzi del proprio portafoglio è in azioni.
Però uno si dovrebbe chiedere: ma perché nel breve termine le azioni sono molto più rischiose delle obbligazioni, mentre nel lungo termine il rischio delle azioni diminuisce “più velocemente” di quello delle obbligazioni?
Allora, la spiegazione non è proprio immediata, però seguitemi un secondo.
Come si misura il rischio in finanza?
La misura statistica del rischio è la deviazione standard.
Per farla breve: se in un anno posso aspettarmi che il rendimento di un asset sia tra -37 e +52%, allora la sua deviazione standard sarà maggiore di quella di un asset che mi darà tra -11 e +33%.
Per semplicità diciamo che il rendimento medio azionario sia 10% e che la deviazione standard annualizzata dei rendimenti sia circa 20%, allora secondo le regole della distribuzione normale due terzi degli anni potrò aspettarmi un rendimento tra, diciamo, -10% e +30%, il 95% degli anni, tra -30 e +50 e il 99,7% degli anni tra -50 e +70%.
Su orizzonti temporali più lunghi, però, la deviazione standard si riduce di un fattor di uno diviso radice quadrata di N, dove N è il numero di anni.
Questa cosa però dovrebbe essere vera sia per le azioni che per le obbligazioni.
Perché invece le azioni diventano meno rischiose “più velocemente” delle obbligazioni?
La risposta più accreditata è che i rendimenti del mercato azionario nelle varie fasi dei mercati siano — si dice — autocorrelati e tendano a regredire verso la media.
Cosa significa?
Significa che in pratica i rendimenti passati influenzano i rendimenti futuri, in maniera relativamente prevedibile.
Non abbastanza prevedibile per aprirci il nostro hedge fund e diventare milionari, ma abbastanza prevedibili su cicli di lungo termine: a lunghi cicli positivi di crescita dei mercati azionari, solitamente di 10-15 anni, seguono quasi sistematicamente periodi negativi, e a periodi negativi seguono invece nuovi cicli positivi e via dicendo.
Di solito i cicli positivi sono più lenti e più lunghi, mentre quelli negativi sono più brevi e più intensi.
Ma perché i rendimenti attesi variano?
Bisognerebbe fare un discorso lungo e articolato, però per oggi accontentiamoci di dire che variano perché dopo lunghi cicli positivi gli investitori tendono a diventare iperottimisti, ad avere una forte propensione al rischio e quindi a richiedere un rendimento inferiore per investire in azioni. Invece dopo le crisi di mercato, gli investitori in media diventano più avversi al rischio, o magari c’è stata una crisi anche economica, hanno perso il lavoro o per altri motivi non possono prendersi rischi finanziari, e quindi richiedono un rendimento elevato per compensare il rischio di investire in azioni in questo contesto.
In termini tecnici si dice che varia il tasso a cui viene scontato il valore futuro dei flussi di cassa attesi.
Sempre la solita formula che spiega quasi tutto in finanza:
Se i rendimenti attesi diminuiscono il prezzo aumenta, ma i rendimenti futuri diminuiscono.
Se invece i rendimenti attesi aumentano il prezzo scende, ma i rendimenti futuri aumentano.
Questa alternanza relativamente prevedibile del mercato determinata dalle variazioni dei rendimenti attesi spiega perché nel lungo termine la rischiosità delle azioni si riduce più velocemente di quella dei bond.
Però se i rendimenti variano, capite bene che estrapolare dal passato per prendere decisioni di investimento sul futuro non è che sia proprio l’idea del secolo, perché IN MEDIA posso aspettarmi dalle azioni un certo investimento positivo, ma IN REALTA’ dipende dai cicli di mercato che attraverso, da quando inizio e quando finisco di investire e da quanto capitale verso nelle varie fasi.
In un video che si trova sempre nella playlist dedicata ad asset allocation e che sarà disponibile più o meno della seconda metà di ottobre, vedremo insieme qualche approccio per costruire un portafoglio con un approccio dinamico che tenga conto dei rendimenti attesi futuri, invece che dare per scontato che sovrappesare l’asset class che in passato ha reso di più sia sempre l’idea migliore.
Bene, se però siete gente del tipo: sticazzi la teoria, a me interessa l’esperienza reale, l’impatto sulla vita vera, non quello che scrivono gli accademici sui paper, passiamo alle motivazione pratiche per cui investire 100% in azioni non è generalmente una buona idea.
[terzo motivo: l’utilità pratica del portafoglio]
MOTIVAZIONE PRATICA NUMERO UNO:
Diciamo intanto una cosa.
Il lungo termine non esiste.
Il lungo termine è un’astrazione.
Long term is abstraction. Short term is reality, citando Morgan Housel.
È assolutamente vero, come abbiamo detto prima, che su orizzonti di tempo sufficientemente lunghi aumenta la probabilità che fenomeni estremi si compensino e che lo spettro dei possibili esiti sia più ristretto.
Se investire in azioni per un singolo anno può tranquillamente darmi un risultato del +50% o del -40%, su 30 anni sarà tra +13% e +7%, almeno prendendo l’S&P 500 come riferimento.
Nel lunghissimo termine, teoricamente, il risultato che effettivamente conseguirò con i miei investimenti in media tenderà ad avvicinarsi al risultato atteso, basato sulla media storica e tenuto conto del principio di regressione.
In teoria.
Ma intanto ricordiamoci che il risultato scoppiettante degli ultimi 40 anni, soprattutto del mercato azionario americano, è dipeso da un mix difficilmente ripetibile in futuro: tagli alle tasse, deregolamentazioni, globalizzazione, tassi di interesse in discesa, esorbitante spesa pubblica per finanziare economia e consumi che ha fatto esplodere i debiti. L’effetto di tutto ciò è stato che l’S&P 500 ha dominato in lungo e in largo e trainato i mercati occidentali, ma i suoi prezzi oggi sono più del triplo di quelli della fine degli anni ’80, rispetto agli utili.
L’ovvia conclusione è che i rendimenti attesi futuri saranno quasi sicuramente più bassi — a meno che davvero l’intelligenza artificiale non compia meraviglie inimmaginabili per la produttività dell’economia globale.
Invece è difficile immaginare che il mix di condizioni favorevoli dagli anni ’80 in poi si ripetano paro paro pure nei prossimi 40 anni.
Quindi nel lungo termine bla bla bla ok, però magari il lungo termine che ci aspetta sarà un po’ diverso.
Non necessariamente negativo.
Ma diverso.
Prima cosa.
Seconda cosa.
Storicamente è perlopiù vero che le azioni sono l’asset class che ha sempre fatto meglio (soprattutto in confronto all’altra grande asset, le obbligazioni), ma se prendiamo la storia recente ci sono stati decenni, ventenni e anche di più in cui i bond hanno reso più delle azioni. Per esempio dal 1985 al 2009 il FTSE World Government Bond avrebbe reso di più dell’MSCI World.
In teoria nel lungo termine le azioni rendono più delle obbligazioni.
Sì.
Ma possono capitarti benissimo diversi decenni sfigati in cui la cosa non accade.
E poco te ne fai alla fine della tua vita da investitore, che poi è la fine della tua vita in generale, se le azioni all’ultima curva fanno il sorpasso.
Detto questo, aggiungiamo un’altra cosa.
Se i rendimenti attesi variano e i mercati attraversano diversi cicli, la sequenza dei rendimenti conta, soprattutto perché non è che uno investe 100.000 € quando ha venticinque anni e poi a 65 va a vedere quanti sono diventati, ma investirà un po’ per volta nel tempo, altre volte preleverà dei soldi e così via.
il rischio di sequenza è quel principio secondo cui l’ordine in cui si susseguono i rendimenti incide sul risultato finale.
È semplicemente una cosa matematica.
A parità di rendimento medio,
– l’ideale è avere anni negativi all’inizio e positivi alla fine durante la fase di accumulo e viceversa quando sono in pensione.
– l’inferno invece è rendimenti positivi all’inizio e negativi alla fine della fase di accumulo e il contrario in fase di decumulo.
Quindi avere un portafoglio molto volatile fa una grande differenza, perché la volatilità si mangia via rendimento.
Tra la media aritmetica dei rendimenti di ciascun anno e la media geometrica, cioè quello che noi effettivamente ci portiamo a casa e che chiamiamo CAGR, compund annual growth rate o rendimento composto, in mezzo c’è la volatilità.
Sempre per gli amanti della matematica il rendimento Geometrico è più o meno rendimento medio aritmetico meno varianza diviso 2
Se la formula l’avete capita bene, altrimenti se non l’avete capita fa niente, tanto non serve ad un cazzo.
L’importante è il concetto di fondo.
Più un portafoglio è volatile più perdo rendimento per strada.
E se durante la mia vita di investitore, come è normale che sia, metto e tolgo soldi dal portafoglio, allora la volatilità amplifica il rischio di sequenza, cioè il rischio che le cose possano andarmi eccezionalmente bene o eccezionalmente male.
Il problema del lungo termine, però, è che in mezzo c’è tutta la nostra vita e il nostro portafoglio deve servirla nel migliore dei modi per sostenere tutte le decisioni finanziarie che vorremmo prendere via via per realizzare le nostre aspirazioni.
La cosa più rilevante per un investitore generalmente è trovare il punto di equilibrio tra il rischio che si è disposti ad assumersi e il rendimento atteso perché, mettiamola così, non lo sai cosa accadrà nella tua vita. Non lo sai quando si tratterà di dover cambiare i piani. Non lo sai se e quando circostanze inaspettate di porteranno a modificare la pianificazione che avevi in mente. Di conseguenza la volatilità del portafoglio non è solo una questione estetica o di sollecitazione emotiva. La volatilità può essere un problema reale esattamente nel momento in cui avresti bisogno che il tuo portafoglio rimanesse in un range limitato invece che fare un decennio alle stelle e uno alle stalle.
Più che il rendimento atteso medio assoluto, quello che in realtà a me interessa è che il rendimento negli scenari peggiori sia accettabile.
Non mi interessa un portafoglio che IN MEDIA renda di più, perché per usare un vecchio esempio, se tu metti il termostato della casa di nonna a 35° in camera da letto e 5° in bagno, hai in media una nonna che sta confortevolmente a 20°, ma in realtà hai probabilmente una nonna morta per una congestione.
Con il portafoglio il concetto è lo stesso.
È il maggior rendimento per il rischio assunto che mi interessa, non il maggior rendimento assoluto.
Per questa ragione il discorso che stiamo facendo è collegato al discorso dei bond singoli versus etf obbligazionari.
Con i secondi è più semplice costruire un portafoglio bilanciato.
Un conto è dire: uso i bond per pianificare le spese prevedibili — ammesso che sia una cosa fattibile. Un altro è considerare l’imprevedibile, ossia il fatto che la vita può riservare mille sorprese. E avere un portafoglio con una volatilità più contenuta, diversificato, che permette di beneficiare dei ribilanciamenti quando un asset class corre molto più di un’altra e così via è un valore reale nel servizio che il nostro portafoglio di investimenti deve svolgere per gli obiettivi della nostra vita.
[quarto motivo: impatti psicologici]
ULTIMA MOTIVAZIONE PRATICA: quella psicologica.
Ricordiamoci una cosa.
Sono 15 anni che va tutto bene e la cosa peggiore è successa nel 2022, quando al massimo l’MSCI World, in Euro, è sceso di poco meno del 20%. Nulla di paragonabile al disastro dei 13 anni dal picco del 2000 al 2013
Quando si tratta di sopportare dei crolli del 40-50% e poi aspettare 13 anni per tornare al punto di partenza nominale di prima, non è che sia proprio una passeggiata.
13 anni sono tanti.
Una buona fetta della tua vita se n’è andata nel frattempo.
Ok che dopo sarebbe stata uno spasso.
Ma nessuno ti assicura che anche la prossima volta andrà allo stesso modo.
Oggi per esempio molti ritengono che siamo in una situazione simile alla fine della dot.com bubble di inizio 2000.
Io non so se sia così e probabilmente la situazione di allora era molto più gonfiata di quella di oggi, dato che la qualità media e la profittabilità delle società che oggi dominano i mercati è sicuramente superiore a quella di allora.
Però facciamo finta che sia così e che oggi si ripeta quello che è successo nel 2000.
C’erano stati prima 15 anni pazzeschi, come oggi, anche se il periodo 1985-2000 fu ancora più redditizio, e poi appunto puff, la bolla scoppia e parte il decennio perduto.
Ci sono l’investitore A e l’investitore B, entrambi con 100.000 €.
L’investitore A investe solo in MSCI World o VWCE and chill, come piace agli amici di Reddit.
L’investitore B investe 60% MSCI World e 40% in FTSE Government Bond.
Se si ripetesse quello che è accaduto dal 2000 in poi, sapete quando il portafoglio dell’investitore A riuscirà a raggiungere quello dell’investitore B?
Solo tra 21 anni.
Qualche anno prima invece se i due avessero fatto un piano di accumulo
Però voi avete presente persistere nella fede che nel lungo termine le azioni vincono sempre se per 15-20 anni ci rendiamo conto che il portafoglio meno volatile e più adatto a sostenerci nelle diverse variabili imprevedibili della nostra vita avrebbe pure fatto meglio in termini di rendimento assoluto?
Non investo da così tanto per esserci passato, ma sono abbastanza certo che se fossi stato l’investitore A, anche dall’alto dei risultati fantastici degli ultimi anni, comunque avrei fatto volentieri a cambio con l’investitore B se avessi potuto tornare indietro.
Ora, io non prevedo il futuro, però un bull market secolare di 30 anni non c’è mai stato.
Non vuol dire che non possa mai esserci, ma ci vuole davvero un moto di ottimismo sensazionale per pensare che il 2025-2039 sarà una ripetizione del 2009-2024.
Quindi per non sapere né leggere né scrivere, io sono un grandissimo fan dell’investimento azionario, ma cmq diversifico perché il rischio in eccesso che andrei prendermi non ritengo sarebbe compensato dal maggior beneficio potenziale che ne trarrei, mentre invece se le cose buttano veramente male, il danno sarebbe in valore assoluto superiore.
Quando usiamo i numeri siamo abituati a usare concetti simmetrici.
+5 ha la stessa distanza da zero di -5.
Ma psicologicamente il discorso è diverso.
Perdere 1.000 € non è compensato, psicologicamente, da un guadagno di 1.000 €.
Il dolore per la perdita è doppio rispetto al piacere di un guadagno dello stesso importo.
Almeno secondo questo signore qua
Di conseguenza è importante ricordarsi che massimizzare le probabilità di successo negli scenari più negativi è più importante che massimizzare la probabilità di successo assoluta.
In media investire in azioni è quasi sempre la cosa migliore.
Ma io, in quella media, potrei far parte della quota sfigata del campione.
Ma è naturale che sia così — e non potrebbe essere altrimenti.
Le azioni rendono di più perché il mercato paga un “risk premium”, cioè un premio per compensare la maggiore assunzione di rischio. Ma come abbiamo detto tante volte questo rischio non è un modo dire — è un rischio reale, a più livelli.
Se il mercato sapesse che alla fine questo rischio è solo passeggero il premio si assottiglierebbe.
Il fatto che il premio al rischio potrebbe non trasformarsi in rendimento effettivamente REALIZZATO è esattamente la condizione necessaria perché un premio al rischio in generale ci sia.
È quello che più volte ho chiamato nel podcast “il paradosso del premio al rischio”: esiste perché non è garantito. Se fosse garantito, non esisterebbe.
Per usare una brillante immagine del geniale Howard Marks, è vero che quando investi in un asset più rischioso, aumenta il tuo rendimento atteso.
Ma così come aumenta, in media, il rendimento atteso, aumenta anche l’ampiezza dei risultati possibili per ciascun investitore in quell’asset rischioso in diversi momenti.
Il rendimento atteso medio è elevato.
Ma le singole esperienze dei singoli investitori possono essere incredibilmente positive o incredibilmente negative.
Rendiamo onore a Marks che a quanto pare è stato molto orgoglioso di questo disegnino che ha fatto durante un viaggio in australia per spiegare sta cosa:
Ok, forse non un capolavoro artistico, ma rende l’idea.
Se rischio poco ho basso rendimento ma anche bassa variabilità — quello che mi aspetto è quasi certamente quel che otterrò.
Se rischio tanto ho alto rendimento atteso ma la distribuzione dei risultati possibili reali, quelli che messi tutti assieme danno la media, è estremamente ampia.
Lo so che non è un concetto semplice questo.
E non è semplice perché è un ragionamento su più piani.
C’è quello statistico, che ci dice che le azioni hanno un rendimento atteso maggiore, ma atteso e realizzato sono due cose ben diverse e in mezzo potrebbe volerci un tempo più lungo del tempo utile alla nostra vita.
C’è poi un discorso pragmatico: io investo per massimizzare la mia utilità marginale, non per conseguire il massimo ritorno assoluto, perché ciò potrebbe compromettere proprio quegli obiettivi che investendo voglio realizzare.
Infine c’è un discorso di pianificazione: non in tutte le fasi della vita ho bisogno dello stesso tipo di portafoglio.
E infine c’è il discorso psicologico: l’aritmetica del nostro stomaco risponde a regole diverse rispetto a quella dei numeri della finanza.
Ad ogni modo se uno comprende che un portafoglio vive nello stesso continuum della nostra vita e non è proiettato là, in un momento imprecisato tra x decenni per farci chissà cosa, comprende anche perché la diversificazione rappresenti un principio inviolabile nella costruzione del portafoglio: non per massimizzare il nostro successo, ma fondamentalmente per proteggerci il culo.
Diversification.
Sempre e comunque.
Perché è l’unica vera assicurazione che può proteggerci da un disastro che ritenevamo improbabile e che, come tutti i disastri, proprio perché era improbabile si sarà rivelato un disastro.
Quindi cari miei, lascio alla vostra propensione al disastro elaborare la vostra personale posizione rispetto a questo tema.
Fine del video!
Spero vi sia piaciuto e che abbia chiarito qualche aspetto di uno dei dubbi più diffusi e pericolosi che si annida nelle mente di chiunque inizi ad investire — sottoscritto compreso qualche anno fa.
Come sempre vi invito a iscrivervi al canale, mettere like, attivare le notifiche per supportarci e permetterci di continuare a produrre contenuti che mi spiegano che investire nella cose che rende di più è bello sulla carta ma potenzialmente dolorosa nella vita sempre nuovi.
Per questo episodio invece è davvero tutto e noi ci rivediamo nei prossimi video di questa playlist dedicate alle domande più frequenti che ho ricevuto in questi anni parlando a centinaia di migliaia di investitori, sempre qui naturalmente con The Bull il tuo podcast di finanza personale.
Recensioni
Quando capisci come funziona la finanza… ti viene voglia di raccontarla!
Veramente interessante, chiaro e conciso. Cambia la vita finanziaria di chiunque.. da ascoltare assolutamente anche per chi di finanza non vuole occuparsi mai
Francesca B., 6 Apr 2024Dovrebbero ascoltarlo buona parte degli italiani e io avrei dovuto scoprirlo con qualche anno in anticipo ma meglio tardi che mai
Matteo C., 3 Set 2025Ho seguito tutte le puntate! Grazie veramente
Amalia A., 17 Set 2025Podcast piacevole, scorre veloce ma in modo estremamente chiaro, spiega i concetti chiave per gestire le proprie finanze, fornendo la classica cassetta degli attrezzi. Complimenti, davvero ben fatto!
Massimiliano, 29 Mag 2024Non sono solito a mettere recensioni e specialmente non ascolto podcast, ma da quando ho iniziato questo, faccio fatica a staccarmi, e quasi non posso più fare a meno di ascoltare e arricchirmi culturalmente.
Andrea V., 22 Set 2025Riccardo mi ha letteralmente cambiato la vita e fatto scoprire che amo la finanza, ho ascoltato il podcast già due volte e non mi stufo mai di ascoltarlo, parla in modo semplice e chiaro
Massimo D., 23 Set 2025Da quando l'ho scoperto in 15 gg mi sono ascoltato 150 puntate senza fermarmi, ho annullato gli altri podcast per portarmi alla pari ed ascoltare tutte le precedenti puntate, ben fatto, esattamente il livello di informazione che mi serviva
Gianluca G., 11 Set 2025Veramente veramente raccomandato! la finanza personale riassunta alla perfezione! e spiegata partendo dall'ABC! Ottimo anche da ascoltare a velocita 1,5x!
Giorgia R., 23 Gen 2025Podcast che dà sempre spunti interessanti che personalmente mi ha fatto appassionare alla finanza personale spingendomi ad approfondire in prima persona.
Lorenzo, 13 Mar 2025