5 Previsioni dal 2035 sul Decennio che ci aspetta
Il leggendario fondatore di AQR Cliff Asness si proietta nel 2035 e racconta come saranno andati i mercati nei prossimi 10 anni. Dalla rivincita delle azioni ex-US, alla debacle dei private markets, dai bond agli eccessi delle cripto e tanto altro, con il caro vecchio buon senso vincitore indiscusso nel lungo termine.

176. 5 Previsioni dal 2035 sul Decennio che ci aspetta
Risorse
Punti Chiave
Ragionare guardando avanti e non inseguire le performance passate.
La diversificazione è essenziale; non giudicare gli asset solo dalle performance storiche.
Evitare rischi e prezzi folli; i principi di buon senso in investimento restano validi.
Trascrizione Episodio
Bentornati a The Bull — il tuo podcast di finanza personale
No, sembra scemenza quest’episodio ma non lo è.
A parte qualche trovata creativa qua è là giuro che il contenuto è serio.
La mia idea per oggi, sempre scritta sul già citato cartone dell’ultimo panettone dell’anno che comunque sto facendo fatica a finire perché senza più l’albero di Natale e le lucine per strada, uvetta e canditi non hanno più lo stesso sapore di prima.
Dicevo la mia idea per oggi era parlare di diversificazione nel 2025, in vista dell’anno che verrà, così un po’ alla Paolo Fox.
E in parte quest’argomento lo tocchiamo pure.
Ma poi, out of the blue, mi sono imbattuto in uno degli articoli più divertenti che abbia mai letto da quando la passione per la finanza ha definitivamente soppiantato quella che avevo per gli scacchi.
Con il senno di poi, meglio così perché a parlare di finanza me la cavicchio, a scacchi invece ero una pippa al sugo e un qualunque giocatore con un banale 1.400 ELO mi avrebbe fatto il mazzo.
Al che mi sono detto: questo sarà il tema del prossimo episodio di The Bull!
L’articolo è stato scritto nientemeno che da Clifford Asness, già citato fondatore di AQR, uno dei più importanti Hedge Fund Quantitativi attivi negli Stati Uniti, con oltre un quarto di secolo di vita — cosa non scontata per un Hedge Fund.
Cliff Assness non è solo il capo di un hedge fund.
È uno di quelli di cui si può tranquillamente dire: quando Cliff parla, la gente sta ad ascoltare.
Tanto per cominciare, ha preso una laurea in Economia alla Wharton e una in Ingegneria alla University of Pennsylvania, poi ha preso l’MBA all’università di Chicago e sempre lì ha fatto un dottorato in finanza con sua leggenda Eugene Fama, di cui sarebbe poi stato per qualche anno “teaching assistant”, tanto che nella sua bio sul sito di AQR c’è scritto che “si sente sempre un po’ in colpa quando prova a battere i mercati”.
Poi ha lavorato per tanti anni in Goldman, dove ha diretto il team di ricerca quantitativa, e poi si è preso un po’ di colleghi ed è andato a fondare AQR, creando un raro esempio di hedge fund in grado di produrre una montagna di ricerca di livello accademico ed elaborate strategie di investimento di successo.
Insomma, quando Cliff parla, bisogna starlo ad ascoltare.
In questo articolo uscito il 2 gennaio, finge di trovarsi nel 2035 e di essere il gestore di un endowment fund, cioè di un fondo istituzionale come potrebbero essere quelli dei grandi college americani, però in una nota specifica che il discorso potrebbe valere benissimo per qualunque investitore istituzionale.
Ora, attenzione, il fatto che il suo discorso sia in qualche modo rivolto agli investitori istituzionali non deve far pensare che non ci siano spunti molto rilevanti anche per l’investitore retail.
Il Cliff del 2035 si guarda indietro e ripensa a tutti gli errori commessi nel decennio 2025-2034, non senza un tocco di ironia mentre commenta, una per una, la performance delle varie asset class nel decennio che ci aspetta.
L’articolo fa spaccare per due motivi:
– Il primo è che non è il solito articolo che “le previsioni per i prossimi 10 anni”, analisi, statistica, grafici e bla bla bla, ma lui finge di trovarsi nel 2035 e quindi di sapere esattamente come sono andate le cose — e vi assicuro che le argomentazioni sono convincenti.
– Il secondo motivo è che tutto l’articolo è permeato di sarcasmo dalla prima all’ultima parola, quindi da una parte fa ridere, dall’altro bisogna leggerlo ricordandosi che spesso quando dice qualcosa intende l’esatto opposto.
Nell’episodio di oggi quindi vediamo queste 5 previsioni, che in realtà sono 5 previsioni più una, con il duplice scopo di farci due risate con le sue considerazioni e di portarci a casa qualche spunto interessante per migliorare il nostro approccio generale agli investimenti, soprattutto imparando a diventare meno sensibili ad alcuni bias che possono condizionare le nostre decisioni.
Prima di cominciare, anno nuovo, vecchie buone abitudini, buone soprattutto per me, anche quest’anno Scalable Capital è sponsor del nostro Podcast e siamo felici che insieme a noi, pure Scalable nell’ultimo anno ne abbia fatta di strada, con un milione di clienti in tutta Europa e oltre 20 miliardi di euro investiti, e che nel 2025 abbia introdotto una serie di novità come la gestione diretta dei conti titoli, la creazione di EIX, una borsa dedicata agli investitori Retail, in aggiunta alla possibilità di continuare ad investire su Gettex e Xetra, e il 3% annuo di interessi sulla liquidità depositata, fino a 50.000 € per il piano gratuito e fino a 500.000 per chi attiva Prime Plus a 4,99 € al mese.
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Ffff… Warren Buffet guida lo stesso pick-up da vent’anni e abita nella stessa casa da 60, capite poi perché uno non diventerà mai miliardario?
Fine del contenuto sponsorizzato che permette di portare avanti la baracca, veniamo alle 10 previsioni sul passato dal futuro di Cliff Asness.
PREVISIONE NUMERO UNO: Azioni.
Il Cliff del 2035 riconosce che investire massicciamente, se non esclusivamente, nelle large cap americane con uno Shiller CAPE ratio vicino a 40, leggi: S&P 500, oggi dominato per un terzo da 7 società big tech, alla fine non si è rivelata una grande idea.
L’S&P 500 avrà reso un paio di punti percentuali oltre al cash, oltre al risk-free-rate, decisamente molto lontano dalla sua media storica (5-6-7 punti percentuali di extra rendimento oltre a ciò che comunemente si intente per “cash”, come i treasury bills a brevissima scadenza).
Nell’outlook dell’anno scorso AQR prevedeva 1,2% di rendimento reale per il cash, quindi al netto dell’inflazione, e 3,8 per l’equity americana. Non hanno ancora pubblicato quello di quest’anno, che credo arriverà la settimana prossima, ma mi aspetto che il rendimento reale di entrambi si possa assottigliare ancora.
In pratica cosa dice Cliff: ok che le Large cap tech americane sembrano “the only game in town”, ma ad un certo punto valutazioni così elevate hanno una probabilità sempre più alta di restituire rendimenti inferiori.
C’è anche da dire che lui stesso solleva un dubbio sul fatto che non abbiamo dati così di lungo termine per testare la validità statistica del CAPE Ratio.
Al di là della valutazione di buon senso — cioè: se tu paghi tanto un investimento rispetto agli utili che genera, tendenzialmente il tuo ritorno sarà inferiore, questo dice il CAPE Ratio — da un punto di vista statistico non abbiamo serie storiche abbastanza lunghe per dire: ok la correlazione è significativa e non casuale.
Al di là di questo, comunque, Cliff, come tanti scommette sul fatto che l’eccezionale performance delle azioni americane degli ultimi 50 anni debbano più di un grazie a due cose:
– Dal 1981 in poi per 40 anni i tassi di interesse sono scesi quasi in linea retta e nel frattempo
– Le valutazioni sono aumentate significativamente.
Come abbiamo detto anche in tante altre puntate, dei tre elementi che compongono il rendimento azionario, dividendi, utili per azione e crescita del prezzo rispetto agli utili, quest’ultima ha pesato più che in altri mercati soprattutto negli ultimi 15 anni.
Le aziende americane sono le più fighe del pianeta — e su questo Cliff non ha dubbi — ma non c’è altrettanto dubbio sul fatto che la qualità di queste società ora si paghi ad un prezzo elevatissimo.
Quindi, rendimento reale dell’S&P 500 intorno al 3-3,5%, che si traduce in un rendimento nominale che gira intorno al 5-6%, a seconda di dove si posiziona l’inflazione — e né lui né molti altri sono particolarmente ottimisti su un ritorno ad un’inflazione rasoterra per il prossimo decennio (motivi? Suppongo i soliti: deglobalizzazione, Trump, tensioni geopolitiche, Trump, dazi, Trump e così via).
Per converso, il Cliff del futuro si rammarica di non aver investito in azioni ex US, condizionato dall’umiliante confronto tra le performance dell’S&P 500 e quelle dell’MSCI ex US degli ultimi 15 anni.
Per l’azionario dei paesi sviluppati ex US parla addirittura di un 5-6% di rendimento oltre il cash, quindi suppongo abbia in mente 8-9% in termini nominali.
Not bad.
Tra l’altro per chi vuole consiglio un articolo sempre di Asness del 2023 dal titolo International Diversification — Still Not Crazy after All These Years, in cui ha provato a spiegare perché nonostante anche un lunghissimo periodo di sottoperformance, l’esposizione internazionale continua ad aver senso a lungo termine.
Tornando all’articolo della scorsa settimana lui dice, sempre parlando al passato dal 2035: “alla fine gli Stati Uniti avevano sì le migliori società (le più profittevoli, innovative e che crescevano più in fretta) e questa cosa è andata avanti per tutto il decennio. Ma saltò anche fuori che pagare un multiplo epico per il mercato americano rispetto al resto del mondo contò di più di quel che pensavamo mentre la diversificazione internazionale avrebbe pagato e ad un certo prezzo anche investire in aziende Europee avrebbe avuto senso, perché l’eccezionalismo dell’innovazione americana non aveva compensato l’eccezionalismo della sua sopravvalutazione.
Ora, noi qua non abbiamo il tema che investiamo 100% in S&P 500, la diversificazione ce l’abbiamo un po’ di default perché per quanto il peso sia elevato, comunque solitamente abbiamo 60-70% di America nei nostri portafogli.
Ma il discorso che sto facendo lo rivolgo a chi ha orecchie per intendere e considera una scelta scontata sovrappesare ulteriormente gli Stati Uniti.
Naturalmente nessuno sa come andranno le cose in futuro.
Non lo sa Cliff Asness e non lo sa tantomeno sto scemo che vi parla.
Però quello che lui dice è “teniamo conto del fatto che anche se le società americane sono fighissime le stiamo pagando una fortuna e che anche se le società Europee, Giapponesi e così via sembrano sfigate al confronto hanno dei prezzi tutto sommato bassi”.
Questo non è un suggerimento tattico, in fondo il suo maestro direbbe: “just buy the market”, compra il mercato e parti dal presupposto che la capitalizzazione globale, quindi america 60%, sviluppati 30% ed emergenti 10%, oppure america 70% e sviluppati 30% se non vogliamo gli emergenti, è il punto di partenza”.
Da lì uno può prendere tutte le decisioni che vuole, ma deve essere consapevole del motivo per cui le prende e soprattutto del prezzo a cui sta pagando le cose.
Nel suo ultimo memo, anche questo uscito la settimana scorso, il grande Howard Marks ha parlato di bolle.
Molto bello, come tutti, ve lo linko in descrizione.
Marks fa tutta una disamina sulle caratteristiche comuni delle bolle e ricordiamo che lui chiamò la bolla delle dot-com a gennaio del 2000, un paio di mesi prima che esplodesse.
Great call.
Al di là delle caratteristiche delle bolle — e Marks ne rileva parecchie nella situazione di oggi, come i prezzi molto elevati, la fiducia incondizionata nelle nuove tecnologie, la fomo e via dicendo — dicevo al di là delle caratteristiche delle bolle, lui ritiene che oggi non siamo in una bolla, perlomeno non al livello di quella che si era creata alla fine del 1999.
Dice, i mercati hanno prezzi elevati e sono forse “frothy” (schiumosi, appunto nel senso che possono fare le bolle), ma non sembrano “nutty”, non sembrano pazzi”.
Ma dice anche: “It’s not what you buy, it’s what you pay that counts”, cioè non conta solo la qualità di ciò che compri, il fato di investire in buone aziende, alla fin della fiera conta il prezzo a cui lo compri.
Nota mentale: ricordati di citare questa cosa di Marks al prossimo che ti dice che comprare un appartamento a Milano è un investimento sicuro.
Ok?
Quindi USA! USA! Siete i numeri uno e vi meritate che quando sbarcano gli alieni i primi a cui vanno sempre a rompere il c***o siete voi, ma detto questo occhio a non cadere vittima del recency bias e dare per scontato che il dominio americano degli ultimi 15 anni debba necessariamente durare per sempre.
Il Cliff del 2035 dice che non è andata così.
PREVISIONE NUMERO DUE: Obbligazioni e Inflazione.
L’inflazione alla fine è rimasta sticky, intorno al 3-4%, più alta di quanto la fed avrebbe voluto
I tassi reali si sono quindi posizionati più in alto.
E quindi le obbligazioni non è che abbiano brillato, ma non hanno sottoperformato tanto quanto le azioni americane.
(ricordo che parlo al passato per è lui che parla dal futuro).
L’outlook di AQR vede un rendimento reale per i governativi intermedi americani intorno all’1% e circa 2-2,5% per i bond corporate investment grade.
Se avranno ragione, il premio al rischio dell’investimento azionario, almeno nell’azionario americano, sarà piuttosto risicato.
L’idea è quindi che il repricing dei bond dopo il disastro del 2022 abbia posto le basi per prospettive decenti per i prossimi anni, anche se oggi li continuiamo a vedere traballanti perché mentre la fed e la bce tagliano i tassi abbassando i rendimenti sulle scadenze brevi, i rendimenti a lungo termine continuano a salire sia in america che in Europa perché viene prezzata un’inflazione futura più elevata.
E come sappiamo rendimenti che salgono significa che prezzi che scendono.
Nota per tutti voi che mi scrivete almeno 10 volte il giorno che le obbligazioni non vi piacciono e che tutti gli strumenti che esaminate hanno dei grafici pesantemente in rosso da un decennio, non è questo il modo di ragionare.
Le performance di qualunque strumento obbligazionario investment grade, fino al 2023, non ha senso.
I tassi sono stati quasi a zero per un decennio, poi nel 2022 sono stati sparati alle stelle, è normale che sia ancora tutto in profondo rosso.
Il 2022 è stato l’anno dell’Armageddon per i bond, forse il più disastroso di sempre.
Quindi, scurdammoce ‘o passato.
Uno poi non investe per quello che ha fatto un asset in passato.
Uno investe per il ruolo che si aspetta svolgerà quell’asset nel suo portafoglio nel futuro.
I tassi oggi sono più alti che nel 2021? Sì
C’è un buffer che ci consente di aspettarci ritorni positivi anche in caso di un futuro rialzo dei tassi? Entro certi limiti sì.
In un contesto recessivo i bond danno una mano al portafoglio mentre le azioni vanno giù? Se la recessione non è innescata da una spirale inflazionistica e le banche centrali hanno margine per tagliare i tassi di interesse, teoricamente sì.
Non è che sto facendo un endorsement ai bond.
Lo sappiamo tutti che sono l’asset class più barbosa della terra.
Però uno si deve chiedere: nel contesto di una futura recessione, voglio trovarmi con bond di alta qualità in portafoglio?
Ecco, se la risposta è sì, non conta che i bond abbiano fatto schifo negli ultimi anni, conta quel che di buono possono eventualmente fare nei prossimi.
PREVISIONE NUMERO TRE: Private Equity.
Dice il Cliff del futuro: nel 2025 ci siamo messi tutti a investire in private equity, cioè in società non quotate in borsa, perché dovevamo diversificare rispetto alla nostra iperconcentrazione nell’S&P 500 che a sua volta era iperconcentrato in Apple, Nvidia, Microsoft, le solite.
Poi però sono saltate fuori due cose:
– La prima è che anche se lo chiami Private Equity, è sempre equity, e quindi non è un bel niente di alternativo, è maledettamente correlato all’equity, all’azionario;
– La seconda è che il fatto di non essere quotate — e quindi di non riportare in tempo reale le variazioni di prezzo come succede alle azioni quotate — non significa che siano meno volatili.
Asness è celebre, tra le varie cose, per aver parlato negli anni di “volatilty laundering”, cioè di riciclaggio della volatiltà, facendo il verso al “money laundering” che è il riciclaggio di denaro che fanno i criminali per ripulire i proventi delle loro attività illegali.
Secondo Asness, e non solo secondo lui, il mercato del Private Equity sembra meno volatile di quel che è perché non c’è un mercato pubblico e trasparente in cui in ogni momento gli asset sono prezzati (quel che si chiama mark-to-market), ma poi gli stessi fondi di private equity hanno ampie possibilità di presentare le performance in maniera, diciamo, creativa, facendo sembrare il private equity meno rischioso di quel che in effetti è.
Asness mette anche in discussione il fatto che in generale il Private Equity abbia generato un ritorno maggiore del Public Equity, dell’S&P 500, sempre per il fatto che le performance sono difficilmente confrontabili, non essendoci un mercato pubblico di riferimento.
E comunque ammesso e non concesso che questa sovraperfomance nel passato ci sia stata, l’Asness del 2035 si guarda indietro e constata che dal 2025 al 2034, il Private Equity ha fatto pure peggio dell’S&P 500.
Il suo ragionamento è: il private equity un tempo era percepito come più rischioso del public equity perché illiquido.
Se c’è meno liquidità, giustamente l’investitore si aspetta un rendimento maggiore per investirci.
Ma poi ad un certo punto il “volatitly laundering” ha fatto sì che il motivo per cui molti investitori si sono buttati nel private equity è perché sembrava un investimento più redditizio e paradossalmente più tranquillo: in fondo le azioni vanno su e giù tutti i giorni, gli investimenti in PE no, ma questo solo perché non vengono prezzati in tempo reale come succede alle azioni, non perché non siano volatilti.
Morale della favola, il PE è diventato in media un contesto in cui l’investitore paga fee astronomiche per avere questa finta bassa volatilità e questa finta bassa correlazione all’azionario, per ottenere rendimenti che, al netto delle fee, sono inferiori all’azionario quotato.
Però, si sa, per molti gestori stare fuori dagli investimenti più hot e trendy del momento è rischioso.
Se vanno bene, tutto ok.
Se vanno male, sei comunque salvo perché tanto ci stavano investendo tutti.
Se vanno bene e non ci hai investito, invece, perdi il lavoro.
Voi cosa fareste se foste i gestori di soldi di altri?
Per chiudere con l’ambito Private, Cliff non risparmia l’asset class più amata del momento: il Private Credit.
Io non ne parlo quasi mai perché, come il private equity del resto, non è esattamente un investimento retail, cioè per un privato, senza grandi capitali, è difficile avere accesso.
Comunque come il private equity è la versione non quotata dell’azionario, il private credit, la dico male, è la versione non quotata dell’obbligazionario corporate.
I fondi di private credit prestano soldi tipicamente a realtà medio piccole o comunque a realtà che magari hanno minor accesso a finanziamenti tradizionali, come l’emissione a mercato di un’obbligazione, a fronte di interessi molto elevati, anche qui perché in gioco c’è maggior rischio e minor liquidità.
Il private credit è cresciuto sempre di più dopo la crisi del 2008, che aveva portato le banche a ridurre l’esposizione a forme rischiose di finanziamento.
Asenss qua cita una pratica che sta diventando pericolosamente diffusa, che è quella dei cosiddetti Sytnthetic Risk Transfer, un complesso meccanismo tramite cui le banche scaricano il rischio di prestiti rischiosi su fondi di private credit.
Se vi interessa come funziona vi lascio un articolo del financial times in descrizione.
Banche che fanno prestiti rischiosi e si coprono scaricado il rischio con strumenti derivati…
Mmmhhhh….
Vi ricorda niente tutto ciò?
Se stavate pensado ai CDO, i collateralized debt obligation che in pratica erano i prodotti derivati, farciti di mutui immobiliari senza senso, che hanno scatenato l’apocalisse finanziaria del 2008, avete indovinato.
Anche qui, come con il private equity, la mancanza in un mercato regolamentato che prezza in tempo reale queste — chiamiamole — obbligazioni, il private credit sembra molto più sicuro, stabile e redditizio di quel che è in realtà.
Senza arrivare agli estremi del 2008, comunque, non stupisce che l’Asness del 2035 constati come alla fine il tanto decantato private credit non fosse niente di diverso dal public credit, dalle obbligazioni corporate, solo più rischiose, più costose e meno redditizie.
Ricordatevelo non appena Blackrock, dopo aver trovato una miniera d’oro con l’ETF su Bitcoin, che fino al giorno prima il suo CEO Larry Fink considerava la feccia della feccia, riuscirà a lanciare anche l’ETF sui private market, dove potrà applicare delle fee che ovviamente sugli ETF sull’S&P 500 non può neanche sognarsi.
A proposito di Cripto, veniamo alla
PREVISIONE NUMERO QUATTRO: e qui fa ribaltare dal ridere.
L’Asness del 2035 dice che fino al 2025 si era tenuto alla larga dale crypto perché considerava un po’ “silly”, un po’ sciocca l’idea che semplicemente lasciar correre un algoritmo per un lungo periodo di tempo fosse sufficiente a creare valore.
Poi però Bitcoin raggiunse i 100.000 e quando l’anno dopo andò su a 250.000 .
Certo, ci sono ancora degli irriducibili.
Ma francamente l’unica cosa che funzionò davvero per noi fu il fatto che splittammo la nostra allocazione in cripto 90% su Bitcoin e 10% sull’unica criptovaluta che davvero finì per avere un valore sostanziale nel 2035.
Ovviamente, abbiamo perso tutti i guadagni derivanti dalla nostra geniale allocazione del 10% su Fartcoin (che come sapete è questa cripto fuffa che potremmo forse tradurre con “Petollaro”) quando molti dei nostri gestori attivi hanno puntato pesantemente sulle azioni di una società altamente indebitata legata al bitcoin (e qui ovviamente si riferisce a Microstrategy). Si scoprì che pagare il doppio del già elevato prezzo di bitcoin per ciò che essenzialmente era un fondo chiuso legato al bitcoin non qulla grande strategia di “arbitraggio” che ci avevano descritto.
Inoltre, saltò fuori che il bitcoin non aveva effettivamente uno “yield”, un “rendimento”, almeno non nel senso in cui il termine “rendimento” è stato utilizzato sin dall’Impero Romano. Questo, almeno, non ci fa sentire male (anche qui il riferimento è al CEO di Microstrategy Michael Saylor che sostenne, con Microstrategy, che esiste un Bitcoin Yield, come se fosse un dividend yield 3.0). Dopotutto, i nostri gestori attivi si sono fidati dell’oracolo delle criptovalute che guidava questa società (Michael Saylor), il quale, a quanto ne sappiamo, non aveva alcuna storia di speculazioni eccessive su bolle speculative. Inoltre, nessuno con una credibilità significativa ci ha detto che non avremmo dovuto farlo.
Nota di Asness: Warren Buffett, Eugene Fama e una lista incredibilmente lunga di altri vecchi saggi brillanti e onesti ce l’avevano detto
Anche se abbiamo investito solo con l’intento di fare profitti, abbiamo trovato una certa soddisfazione nella rassicurazione che ci era stata data: il Bitcoin avrebbe portato la pace nel mondo, liberato l’umanità dalla schiavitù imposta dalle valute fiat e curato molti altri mali che prima pensavamo estranei al regno del denaro. Anche se, a dire il vero, non abbiamo mai capito come ciò sarebbe realmente accaduto, e i messia delle criptovalute non lo hanno mai spiegato davvero.
Per la cronaca, 1 BTC è effettivamente ancora uguale a 1 BTC, anche se ora vale solo un 25esimo del suo valore rispetto al suo picco di 250.000 dollari. Ci era stato detto che l’equazione 1 BTC = 1 BTC era tutto ciò che interessava ai cultori delle criptovalute (anche se vivevano e amavano misurarlo in valute fiat). Quindi, dato che questa identità è ancora vera, almeno abbiamo questo dalla nostra parte, ed è una bella cosa.
Sì ok è stata un po’ lunga, però non potevo non riportarla, avrebbe sicuramente perso.
Oh intendiamoci, ambasciator non porta pena eh?
Questa è l’opinione di Cliff Asness del 2035.
Sua la responsabilità di ogni posizione espressa.
Veniamo alla
PREVISIONE NUMERO CINQUE: la gestione attiva.
Cliff del 2035 dice che aver affidato la parte equity ai gestori attivi ha peggiorato la cosa, per due motivi:
– Il primo è che la gestione attiva, al netto delle commissioni e dei costi di trading, sottoperforma sempre gli indici passivi e questa cosa è nota come legge di Sharpe, il nostro solito William Sharpe padre del CAPM e dello Sharpe Ratio;
– Il secondo motivo è che proprio i gestori erano sbagliati. La legge di Sharpe non dice che NESSUN gestore attivo può battere il mercato, dice che in aggregato la gestione attiva sottoperforma il mercato, dato che il rendimento aggregato non può essere superiore al rendimento del mercato, quindi per un gestore attivo che vince ce ne vuole uno che perde, metti le fee e i costi e capisci perché ogni anno il report SPIVA decreta l’inesorabile sconfitta dell’investimento attivo rispetto al passivo.
Però alcuni gestori riescono a battere il mercato se prendono le decisioni giuste. E a quanto pare le decisioni giuste nel 2025-2034 comprendevano l’investimento in società profittevoli, a basso rischio e con una valutazione non eccessiva.
Ma non fu questa la strada maestra che venne seguita.
A quanto pare si continuò a puntare sulle società più costose degli Stati Uniti.
Fuori dall’invenzione narrativa, Asness sembra puntare su quello che potremmo chiamare un tilt dei portafogli verso fattori come Value e Quality, quindi società sottovalutare rispetto al valore patrimoniale e società con un’elevata qualità, che di solito significa elevato return on equity, basso debito e crescita degli utili stabile.
Tra l’altro Cliff Asness è stato forse colui che ha introdotto il concetto di Quality come fattore, riscontrando che il mercato tende a pagare un price premium — e quindi a generare un rendimento supplementare — per quelle società che appunto presentano questi requisiti.
Nel 2013 scrisse infatti il paper, assieme a Frazzini e Pedersen, dal titolo “Quality minus Junk”.
Vi ricorderete dagli episodi 113, 124 e 127 dedicati ai fattoriali, che il nostro Eugene Fama aveva definito i fattori del 3 factor model, poi 5 factor model, attraverso queste differenze, cioè erano tutti un qualcosa MINUS (meno) qualcos’altro.
– Il fattore small caps era Small minus Big.
– Il fattore Value era High minus Low.
– E così via tutti gli altri.
Quality minus Junk significa che il fattore esprime l’extrarendimento di un portafoglio che va long, cioè che investe, nelle società che esprimono meglio il fattore quality e che va short, cioè vende allo scoperto, le società meno profittevoli, con alto indebitamento e così via.
I fattori sono sempre il nome del fattore MENO il suo opposto, anche se poi gli etf fattoriali che utilizziamo hanno solo la gamba long, come si dice, cioè si focalizzano su società che esprimono quelle caratteristiche ma non shortano quelle che non ce le hanno.
Questo giusto per ricordare che comprare un ETF fattoriale non significa automaticamente replicare quello che c’è scritto nei paper sui fattoriali.
Chiusa parentesi.
Prima di chiudere l’articolo, Cliff fa altre tre considerazioni.
Due le salto, perché riguardano alcune specifiche strategie di hedge fund e la sua opinione su strumenti piuttosto elaborati per la diversificazione del portafoglio come i managed futures, di cui lui è grande fan, e l’options tail hedging, di cui lo è meno, che però sono robe piuttosto complesse e non particolarmente interessanti per investitori retail, a meno che non vi chiamate Nicola Protasoni.
L’altra considerazione, che invece ha ispirato anche buona parte della visione dell’investimento che il mio buon amico Nicola ha sviluppato, riguarda una delle idee cardinali di Cliff Asness.
Tutto quello che sto per dire meriterebbe un episodio a parte.
Per ora lo accenno solo, poi avremo modo di approfondire il discorso in un episodio a parte.
Il tema riguarda, mettiamola così, le due visioni principali nella costruzione del portafoglio.
Quella classica, che poi è quella di The Bull, si basa sull’idea di investire in azioni e obbligazioni.
Il 60/40 è il benchmark di riferimento, le azioni sono l’asset con il rendimento atteso più elevato, le obbligazioni governative mitigano il rischio e la volatilità, il ribilanciamento è benefico e dato un certo livello di rischio che sono disposto ad accollarmi, questo mix mi consente di ottenere il miglior risk-adjusted return.
L’altra visione, resa celebre per esempio da Ray Dalio, è quella del risk parity che dice: costruisco un portafoglio dando alle varie asset class un peso in maniera tale che tutte contribuiscano in maniera più o meno equa al rischio del portafoglio.
Il famoso portafoglio All Wheater o il permanent portfolio infatti sottopesano le azioni, 25-30%, sovrappesano le obbligazioni e introducono altri asset non correlati, soprattutto l’oro.
L’idea cardinale di Asness è che il miglior portafoglio non è quello che ha il rendimento atteso maggiore, che probabilmente sarebbe un portafoglio 100% stocks.
Per lui il portafoglio definitivo è un portafoglio con il miglior risk adjusted return che contiene una moderata quantità di leva, così da avere teoricamente un ritorno più elevato e una minore volatilità.
Nell’articolo, il Cliff del futuro fa intendere che il portafoglio 60/40 ha battuto storicamente i portafogli risk-parity (non a leva) perché hanno beneficiato di 40 anni di tassi in discesa, dagli anni ’80 in poi e che invece nel decennio 2025-2034, caratterizzato da tassi in salita o comunque non in discesa, un portafoglio risk parity avrebbe avuto la meglio perché la sua previsione è composta da questi elementi:
– Le azioni, perlmeno, quelle americane, sottoperformeranno;
– I bond avranno un miglior risk-adjusted-return e infine
– Altri asset come le commodities avranno un decennio positivo.
Chi lo sa?
Avrà ragione? Avrà torto?
Difficile dirlo.
Il fondamento teorico del risk-parity è potente.
D’altra parte, senza leva il portafoglio difficilmente funziona bene.
Per chi desidera, lascio il finale ironico a chi di voi vorrà leggersi l’articolo, che in poche parole spiega perché non impariamo mai le lezioni decennio dopo decennio.
Ora, per chiudere, cosa ci dobbiamo portare a casa da questo spettacolare articolo del leggendario Cliff Asness.
Tre lezioni.
– NUMERO UNO: non si tratta mai di fare operazioni tattiche, ma neanche di essere ingenui. Come dice Fama partiamo dal presupposto che il mercato è efficiente e i prezzi giusti, ma non facciamoci prendere la mano nei periodi di euforia e soprattutto ragioniamo sempre con il nostro portafoglio guardando avanti, non indietro, considerando i rischi in cui potremo imbatterci, non le performance passate che ci siamo persi.
Tradotto: no, mettere l’80% del portafoglio sul Nasdaq 100 non è una buona idea anche se da decenni surclassa tutti.
– NUMERO DUE: la diversificazione è come la cintura di sicurezza. Non serve praticamente mai, se non quell’unica volta che serve veramente. Eppure, la devi tenere su tutto il tempo altrimenti è inutile.
I 10 anni disastrosi dei bond alle nostre spalle non sono un buon motivo per considerarli inutili nel portafoglio.
– NUMERO TRE: i cari vecchi principi di buon senso, si chiamano così per un motivo. Non smettono improvvisamente di esserlo. Quando si investe ci si espone sempre all’incertezza del futuro. Possiamo supporre che le cose di buon senso del passato, come per esempio non prendersi rischi assurdi a prezzi folli, restino validi anche in futuro. I trade più hot del momento, come investire in società indebitate fino al collo solo perché imbottite di bitcoin e pagando per giunta il doppio del prezzo dei bitcoin, se ci sembrano lontano dal buon senso, ecco, forse perché effettivamente un senso non ce l’hanno.
Bene care amiche e cari amici di The Bull, grazie per avermi ascoltato anche oggi.
Spero che questo episodio un po’ particolare vi sia piaciuto e che vi abbia lasciato qualche spunto di riflessione.
Vi lascio con un grande notizia!
Nelle prossime settimane avremo tre ospiti straordinari, tutti e tre già citati qua e là in questo podcast — e no, mi spiace, non saranno né Warren Buffet né Nassim Taleb.
Tutti e tre americani, per la mia gioia di fare le interviste a tarda sera per questioni di fuso orario, si parte mercoledì prossimo con Christine Benz, Director of Personal Finance and Retirement Solutions di Morningstar US, una vera istituzione e probabilmente una delle donne più importanti del mondo della finanza personale negli Stati Uniti.
Con lei parleremo di principi di investimento, retirement portfolio, safe withdrawal rates e tanto altro ancora.
Come da prassi usciranno due episodi, uno in lingua originale e uno doppiato in italiano.
Nel frattempo, mentre da settimane siamo sul podio sia di Spotify ed Apple Podcast grazie a tutti voi, vi invito a mettere segui e attivare le notifiche su Spotify, Apple Podcast o dove ci ascoltate e a lasciare una recensione a 5 stelle per supportarci e permetterci di continuare a produrre contenuti che vanno nel futuro per farvi le previsioni sul passato che verrà sempre nuove.
Per questo episodio invece è davvero tutto e noi ci rivediamo mercoledì prossimo con Christine Benz, sempre qui, naturalmente con The Bull il tuo podcast di finanza personale.
Bentornati a The Bull — il tuo podcast di finanza personale
No, sembra scemenza quest’episodio ma non lo è.
A parte qualche trovata creativa qua è là giuro che il contenuto è serio.
La mia idea per oggi, sempre scritta sul già citato cartone dell’ultimo panettone dell’anno che comunque sto facendo fatica a finire perché senza più l’albero di Natale e le lucine per strada, uvetta e canditi non hanno più lo stesso sapore di prima.
Dicevo la mia idea per oggi era parlare di diversificazione nel 2025, in vista dell’anno che verrà, così un po’ alla Paolo Fox.
E in parte quest’argomento lo tocchiamo pure.
Ma poi, out of the blue, mi sono imbattuto in uno degli articoli più divertenti che abbia mai letto da quando la passione per la finanza ha definitivamente soppiantato quella che avevo per gli scacchi.
Con il senno di poi, meglio così perché a parlare di finanza me la cavicchio, a scacchi invece ero una pippa al sugo e un qualunque giocatore con un banale 1.400 ELO mi avrebbe fatto il mazzo.
Al che mi sono detto: questo sarà il tema del prossimo episodio di The Bull!
L’articolo è stato scritto nientemeno che da Clifford Asness, già citato fondatore di AQR, uno dei più importanti Hedge Fund Quantitativi attivi negli Stati Uniti, con oltre un quarto di secolo di vita — cosa non scontata per un Hedge Fund.
Cliff Assness non è solo il capo di un hedge fund.
È uno di quelli di cui si può tranquillamente dire: quando Cliff parla, la gente sta ad ascoltare.
Tanto per cominciare, ha preso una laurea in Economia alla Wharton e una in Ingegneria alla University of Pennsylvania, poi ha preso l’MBA all’università di Chicago e sempre lì ha fatto un dottorato in finanza con sua leggenda Eugene Fama, di cui sarebbe poi stato per qualche anno “teaching assistant”, tanto che nella sua bio sul sito di AQR c’è scritto che “si sente sempre un po’ in colpa quando prova a battere i mercati”.
Poi ha lavorato per tanti anni in Goldman, dove ha diretto il team di ricerca quantitativa, e poi si è preso un po’ di colleghi ed è andato a fondare AQR, creando un raro esempio di hedge fund in grado di produrre una montagna di ricerca di livello accademico ed elaborate strategie di investimento di successo.
Insomma, quando Cliff parla, bisogna starlo ad ascoltare.
In questo articolo uscito il 2 gennaio, finge di trovarsi nel 2035 e di essere il gestore di un endowment fund, cioè di un fondo istituzionale come potrebbero essere quelli dei grandi college americani, però in una nota specifica che il discorso potrebbe valere benissimo per qualunque investitore istituzionale.
Ora, attenzione, il fatto che il suo discorso sia in qualche modo rivolto agli investitori istituzionali non deve far pensare che non ci siano spunti molto rilevanti anche per l’investitore retail.
Il Cliff del 2035 si guarda indietro e ripensa a tutti gli errori commessi nel decennio 2025-2034, non senza un tocco di ironia mentre commenta, una per una, la performance delle varie asset class nel decennio che ci aspetta.
L’articolo fa spaccare per due motivi:
– Il primo è che non è il solito articolo che “le previsioni per i prossimi 10 anni”, analisi, statistica, grafici e bla bla bla, ma lui finge di trovarsi nel 2035 e quindi di sapere esattamente come sono andate le cose — e vi assicuro che le argomentazioni sono convincenti.
– Il secondo motivo è che tutto l’articolo è permeato di sarcasmo dalla prima all’ultima parola, quindi da una parte fa ridere, dall’altro bisogna leggerlo ricordandosi che spesso quando dice qualcosa intende l’esatto opposto.
Nell’episodio di oggi quindi vediamo queste 5 previsioni, che in realtà sono 5 previsioni più una, con il duplice scopo di farci due risate con le sue considerazioni e di portarci a casa qualche spunto interessante per migliorare il nostro approccio generale agli investimenti, soprattutto imparando a diventare meno sensibili ad alcuni bias che possono condizionare le nostre decisioni.
Prima di cominciare, anno nuovo, vecchie buone abitudini, buone soprattutto per me, anche quest’anno Scalable Capital è sponsor del nostro Podcast e siamo felici che insieme a noi, pure Scalable nell’ultimo anno ne abbia fatta di strada, con un milione di clienti in tutta Europa e oltre 20 miliardi di euro investiti, e che nel 2025 abbia introdotto una serie di novità come la gestione diretta dei conti titoli, la creazione di EIX, una borsa dedicata agli investitori Retail, in aggiunta alla possibilità di continuare ad investire su Gettex e Xetra, e il 3% annuo di interessi sulla liquidità depositata, fino a 50.000 € per il piano gratuito e fino a 500.000 per chi attiva Prime Plus a 4,99 € al mese.
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Ffff… Warren Buffet guida lo stesso pick-up da vent’anni e abita nella stessa casa da 60, capite poi perché uno non diventerà mai miliardario?
Fine del contenuto sponsorizzato che permette di portare avanti la baracca, veniamo alle 10 previsioni sul passato dal futuro di Cliff Asness.
PREVISIONE NUMERO UNO: Azioni.
Il Cliff del 2035 riconosce che investire massicciamente, se non esclusivamente, nelle large cap americane con uno Shiller CAPE ratio vicino a 40, leggi: S&P 500, oggi dominato per un terzo da 7 società big tech, alla fine non si è rivelata una grande idea.
L’S&P 500 avrà reso un paio di punti percentuali oltre al cash, oltre al risk-free-rate, decisamente molto lontano dalla sua media storica (5-6-7 punti percentuali di extra rendimento oltre a ciò che comunemente si intente per “cash”, come i treasury bills a brevissima scadenza).
Nell’outlook dell’anno scorso AQR prevedeva 1,2% di rendimento reale per il cash, quindi al netto dell’inflazione, e 3,8 per l’equity americana. Non hanno ancora pubblicato quello di quest’anno, che credo arriverà la settimana prossima, ma mi aspetto che il rendimento reale di entrambi si possa assottigliare ancora.
In pratica cosa dice Cliff: ok che le Large cap tech americane sembrano “the only game in town”, ma ad un certo punto valutazioni così elevate hanno una probabilità sempre più alta di restituire rendimenti inferiori.
C’è anche da dire che lui stesso solleva un dubbio sul fatto che non abbiamo dati così di lungo termine per testare la validità statistica del CAPE Ratio.
Al di là della valutazione di buon senso — cioè: se tu paghi tanto un investimento rispetto agli utili che genera, tendenzialmente il tuo ritorno sarà inferiore, questo dice il CAPE Ratio — da un punto di vista statistico non abbiamo serie storiche abbastanza lunghe per dire: ok la correlazione è significativa e non casuale.
Al di là di questo, comunque, Cliff, come tanti scommette sul fatto che l’eccezionale performance delle azioni americane degli ultimi 50 anni debbano più di un grazie a due cose:
– Dal 1981 in poi per 40 anni i tassi di interesse sono scesi quasi in linea retta e nel frattempo
– Le valutazioni sono aumentate significativamente.
Come abbiamo detto anche in tante altre puntate, dei tre elementi che compongono il rendimento azionario, dividendi, utili per azione e crescita del prezzo rispetto agli utili, quest’ultima ha pesato più che in altri mercati soprattutto negli ultimi 15 anni.
Le aziende americane sono le più fighe del pianeta — e su questo Cliff non ha dubbi — ma non c’è altrettanto dubbio sul fatto che la qualità di queste società ora si paghi ad un prezzo elevatissimo.
Quindi, rendimento reale dell’S&P 500 intorno al 3-3,5%, che si traduce in un rendimento nominale che gira intorno al 5-6%, a seconda di dove si posiziona l’inflazione — e né lui né molti altri sono particolarmente ottimisti su un ritorno ad un’inflazione rasoterra per il prossimo decennio (motivi? Suppongo i soliti: deglobalizzazione, Trump, tensioni geopolitiche, Trump, dazi, Trump e così via).
Per converso, il Cliff del futuro si rammarica di non aver investito in azioni ex US, condizionato dall’umiliante confronto tra le performance dell’S&P 500 e quelle dell’MSCI ex US degli ultimi 15 anni.
Per l’azionario dei paesi sviluppati ex US parla addirittura di un 5-6% di rendimento oltre il cash, quindi suppongo abbia in mente 8-9% in termini nominali.
Not bad.
Tra l’altro per chi vuole consiglio un articolo sempre di Asness del 2023 dal titolo International Diversification — Still Not Crazy after All These Years, in cui ha provato a spiegare perché nonostante anche un lunghissimo periodo di sottoperformance, l’esposizione internazionale continua ad aver senso a lungo termine.
Tornando all’articolo della scorsa settimana lui dice, sempre parlando al passato dal 2035: “alla fine gli Stati Uniti avevano sì le migliori società (le più profittevoli, innovative e che crescevano più in fretta) e questa cosa è andata avanti per tutto il decennio. Ma saltò anche fuori che pagare un multiplo epico per il mercato americano rispetto al resto del mondo contò di più di quel che pensavamo mentre la diversificazione internazionale avrebbe pagato e ad un certo prezzo anche investire in aziende Europee avrebbe avuto senso, perché l’eccezionalismo dell’innovazione americana non aveva compensato l’eccezionalismo della sua sopravvalutazione.
Ora, noi qua non abbiamo il tema che investiamo 100% in S&P 500, la diversificazione ce l’abbiamo un po’ di default perché per quanto il peso sia elevato, comunque solitamente abbiamo 60-70% di America nei nostri portafogli.
Ma il discorso che sto facendo lo rivolgo a chi ha orecchie per intendere e considera una scelta scontata sovrappesare ulteriormente gli Stati Uniti.
Naturalmente nessuno sa come andranno le cose in futuro.
Non lo sa Cliff Asness e non lo sa tantomeno sto scemo che vi parla.
Però quello che lui dice è “teniamo conto del fatto che anche se le società americane sono fighissime le stiamo pagando una fortuna e che anche se le società Europee, Giapponesi e così via sembrano sfigate al confronto hanno dei prezzi tutto sommato bassi”.
Questo non è un suggerimento tattico, in fondo il suo maestro direbbe: “just buy the market”, compra il mercato e parti dal presupposto che la capitalizzazione globale, quindi america 60%, sviluppati 30% ed emergenti 10%, oppure america 70% e sviluppati 30% se non vogliamo gli emergenti, è il punto di partenza”.
Da lì uno può prendere tutte le decisioni che vuole, ma deve essere consapevole del motivo per cui le prende e soprattutto del prezzo a cui sta pagando le cose.
Nel suo ultimo memo, anche questo uscito la settimana scorso, il grande Howard Marks ha parlato di bolle.
Molto bello, come tutti, ve lo linko in descrizione.
Marks fa tutta una disamina sulle caratteristiche comuni delle bolle e ricordiamo che lui chiamò la bolla delle dot-com a gennaio del 2000, un paio di mesi prima che esplodesse.
Great call.
Al di là delle caratteristiche delle bolle — e Marks ne rileva parecchie nella situazione di oggi, come i prezzi molto elevati, la fiducia incondizionata nelle nuove tecnologie, la fomo e via dicendo — dicevo al di là delle caratteristiche delle bolle, lui ritiene che oggi non siamo in una bolla, perlomeno non al livello di quella che si era creata alla fine del 1999.
Dice, i mercati hanno prezzi elevati e sono forse “frothy” (schiumosi, appunto nel senso che possono fare le bolle), ma non sembrano “nutty”, non sembrano pazzi”.
Ma dice anche: “It’s not what you buy, it’s what you pay that counts”, cioè non conta solo la qualità di ciò che compri, il fato di investire in buone aziende, alla fin della fiera conta il prezzo a cui lo compri.
Nota mentale: ricordati di citare questa cosa di Marks al prossimo che ti dice che comprare un appartamento a Milano è un investimento sicuro.
Ok?
Quindi USA! USA! Siete i numeri uno e vi meritate che quando sbarcano gli alieni i primi a cui vanno sempre a rompere il c***o siete voi, ma detto questo occhio a non cadere vittima del recency bias e dare per scontato che il dominio americano degli ultimi 15 anni debba necessariamente durare per sempre.
Il Cliff del 2035 dice che non è andata così.
PREVISIONE NUMERO DUE: Obbligazioni e Inflazione.
L’inflazione alla fine è rimasta sticky, intorno al 3-4%, più alta di quanto la fed avrebbe voluto
I tassi reali si sono quindi posizionati più in alto.
E quindi le obbligazioni non è che abbiano brillato, ma non hanno sottoperformato tanto quanto le azioni americane.
(ricordo che parlo al passato per è lui che parla dal futuro).
L’outlook di AQR vede un rendimento reale per i governativi intermedi americani intorno all’1% e circa 2-2,5% per i bond corporate investment grade.
Se avranno ragione, il premio al rischio dell’investimento azionario, almeno nell’azionario americano, sarà piuttosto risicato.
L’idea è quindi che il repricing dei bond dopo il disastro del 2022 abbia posto le basi per prospettive decenti per i prossimi anni, anche se oggi li continuiamo a vedere traballanti perché mentre la fed e la bce tagliano i tassi abbassando i rendimenti sulle scadenze brevi, i rendimenti a lungo termine continuano a salire sia in america che in Europa perché viene prezzata un’inflazione futura più elevata.
E come sappiamo rendimenti che salgono significa che prezzi che scendono.
Nota per tutti voi che mi scrivete almeno 10 volte il giorno che le obbligazioni non vi piacciono e che tutti gli strumenti che esaminate hanno dei grafici pesantemente in rosso da un decennio, non è questo il modo di ragionare.
Le performance di qualunque strumento obbligazionario investment grade, fino al 2023, non ha senso.
I tassi sono stati quasi a zero per un decennio, poi nel 2022 sono stati sparati alle stelle, è normale che sia ancora tutto in profondo rosso.
Il 2022 è stato l’anno dell’Armageddon per i bond, forse il più disastroso di sempre.
Quindi, scurdammoce ‘o passato.
Uno poi non investe per quello che ha fatto un asset in passato.
Uno investe per il ruolo che si aspetta svolgerà quell’asset nel suo portafoglio nel futuro.
I tassi oggi sono più alti che nel 2021? Sì
C’è un buffer che ci consente di aspettarci ritorni positivi anche in caso di un futuro rialzo dei tassi? Entro certi limiti sì.
In un contesto recessivo i bond danno una mano al portafoglio mentre le azioni vanno giù? Se la recessione non è innescata da una spirale inflazionistica e le banche centrali hanno margine per tagliare i tassi di interesse, teoricamente sì.
Non è che sto facendo un endorsement ai bond.
Lo sappiamo tutti che sono l’asset class più barbosa della terra.
Però uno si deve chiedere: nel contesto di una futura recessione, voglio trovarmi con bond di alta qualità in portafoglio?
Ecco, se la risposta è sì, non conta che i bond abbiano fatto schifo negli ultimi anni, conta quel che di buono possono eventualmente fare nei prossimi.
PREVISIONE NUMERO TRE: Private Equity.
Dice il Cliff del futuro: nel 2025 ci siamo messi tutti a investire in private equity, cioè in società non quotate in borsa, perché dovevamo diversificare rispetto alla nostra iperconcentrazione nell’S&P 500 che a sua volta era iperconcentrato in Apple, Nvidia, Microsoft, le solite.
Poi però sono saltate fuori due cose:
– La prima è che anche se lo chiami Private Equity, è sempre equity, e quindi non è un bel niente di alternativo, è maledettamente correlato all’equity, all’azionario;
– La seconda è che il fatto di non essere quotate — e quindi di non riportare in tempo reale le variazioni di prezzo come succede alle azioni quotate — non significa che siano meno volatili.
Asness è celebre, tra le varie cose, per aver parlato negli anni di “volatilty laundering”, cioè di riciclaggio della volatiltà, facendo il verso al “money laundering” che è il riciclaggio di denaro che fanno i criminali per ripulire i proventi delle loro attività illegali.
Secondo Asness, e non solo secondo lui, il mercato del Private Equity sembra meno volatile di quel che è perché non c’è un mercato pubblico e trasparente in cui in ogni momento gli asset sono prezzati (quel che si chiama mark-to-market), ma poi gli stessi fondi di private equity hanno ampie possibilità di presentare le performance in maniera, diciamo, creativa, facendo sembrare il private equity meno rischioso di quel che in effetti è.
Asness mette anche in discussione il fatto che in generale il Private Equity abbia generato un ritorno maggiore del Public Equity, dell’S&P 500, sempre per il fatto che le performance sono difficilmente confrontabili, non essendoci un mercato pubblico di riferimento.
E comunque ammesso e non concesso che questa sovraperfomance nel passato ci sia stata, l’Asness del 2035 si guarda indietro e constata che dal 2025 al 2034, il Private Equity ha fatto pure peggio dell’S&P 500.
Il suo ragionamento è: il private equity un tempo era percepito come più rischioso del public equity perché illiquido.
Se c’è meno liquidità, giustamente l’investitore si aspetta un rendimento maggiore per investirci.
Ma poi ad un certo punto il “volatitly laundering” ha fatto sì che il motivo per cui molti investitori si sono buttati nel private equity è perché sembrava un investimento più redditizio e paradossalmente più tranquillo: in fondo le azioni vanno su e giù tutti i giorni, gli investimenti in PE no, ma questo solo perché non vengono prezzati in tempo reale come succede alle azioni, non perché non siano volatilti.
Morale della favola, il PE è diventato in media un contesto in cui l’investitore paga fee astronomiche per avere questa finta bassa volatilità e questa finta bassa correlazione all’azionario, per ottenere rendimenti che, al netto delle fee, sono inferiori all’azionario quotato.
Però, si sa, per molti gestori stare fuori dagli investimenti più hot e trendy del momento è rischioso.
Se vanno bene, tutto ok.
Se vanno male, sei comunque salvo perché tanto ci stavano investendo tutti.
Se vanno bene e non ci hai investito, invece, perdi il lavoro.
Voi cosa fareste se foste i gestori di soldi di altri?
Per chiudere con l’ambito Private, Cliff non risparmia l’asset class più amata del momento: il Private Credit.
Io non ne parlo quasi mai perché, come il private equity del resto, non è esattamente un investimento retail, cioè per un privato, senza grandi capitali, è difficile avere accesso.
Comunque come il private equity è la versione non quotata dell’azionario, il private credit, la dico male, è la versione non quotata dell’obbligazionario corporate.
I fondi di private credit prestano soldi tipicamente a realtà medio piccole o comunque a realtà che magari hanno minor accesso a finanziamenti tradizionali, come l’emissione a mercato di un’obbligazione, a fronte di interessi molto elevati, anche qui perché in gioco c’è maggior rischio e minor liquidità.
Il private credit è cresciuto sempre di più dopo la crisi del 2008, che aveva portato le banche a ridurre l’esposizione a forme rischiose di finanziamento.
Asenss qua cita una pratica che sta diventando pericolosamente diffusa, che è quella dei cosiddetti Sytnthetic Risk Transfer, un complesso meccanismo tramite cui le banche scaricano il rischio di prestiti rischiosi su fondi di private credit.
Se vi interessa come funziona vi lascio un articolo del financial times in descrizione.
Banche che fanno prestiti rischiosi e si coprono scaricado il rischio con strumenti derivati…
Mmmhhhh….
Vi ricorda niente tutto ciò?
Se stavate pensado ai CDO, i collateralized debt obligation che in pratica erano i prodotti derivati, farciti di mutui immobiliari senza senso, che hanno scatenato l’apocalisse finanziaria del 2008, avete indovinato.
Anche qui, come con il private equity, la mancanza in un mercato regolamentato che prezza in tempo reale queste — chiamiamole — obbligazioni, il private credit sembra molto più sicuro, stabile e redditizio di quel che è in realtà.
Senza arrivare agli estremi del 2008, comunque, non stupisce che l’Asness del 2035 constati come alla fine il tanto decantato private credit non fosse niente di diverso dal public credit, dalle obbligazioni corporate, solo più rischiose, più costose e meno redditizie.
Ricordatevelo non appena Blackrock, dopo aver trovato una miniera d’oro con l’ETF su Bitcoin, che fino al giorno prima il suo CEO Larry Fink considerava la feccia della feccia, riuscirà a lanciare anche l’ETF sui private market, dove potrà applicare delle fee che ovviamente sugli ETF sull’S&P 500 non può neanche sognarsi.
A proposito di Cripto, veniamo alla
PREVISIONE NUMERO QUATTRO: e qui fa ribaltare dal ridere.
L’Asness del 2035 dice che fino al 2025 si era tenuto alla larga dale crypto perché considerava un po’ “silly”, un po’ sciocca l’idea che semplicemente lasciar correre un algoritmo per un lungo periodo di tempo fosse sufficiente a creare valore.
Poi però Bitcoin raggiunse i 100.000 e quando l’anno dopo andò su a 250.000 .
Certo, ci sono ancora degli irriducibili.
Ma francamente l’unica cosa che funzionò davvero per noi fu il fatto che splittammo la nostra allocazione in cripto 90% su Bitcoin e 10% sull’unica criptovaluta che davvero finì per avere un valore sostanziale nel 2035.
Ovviamente, abbiamo perso tutti i guadagni derivanti dalla nostra geniale allocazione del 10% su Fartcoin (che come sapete è questa cripto fuffa che potremmo forse tradurre con “Petollaro”) quando molti dei nostri gestori attivi hanno puntato pesantemente sulle azioni di una società altamente indebitata legata al bitcoin (e qui ovviamente si riferisce a Microstrategy). Si scoprì che pagare il doppio del già elevato prezzo di bitcoin per ciò che essenzialmente era un fondo chiuso legato al bitcoin non qulla grande strategia di “arbitraggio” che ci avevano descritto.
Inoltre, saltò fuori che il bitcoin non aveva effettivamente uno “yield”, un “rendimento”, almeno non nel senso in cui il termine “rendimento” è stato utilizzato sin dall’Impero Romano. Questo, almeno, non ci fa sentire male (anche qui il riferimento è al CEO di Microstrategy Michael Saylor che sostenne, con Microstrategy, che esiste un Bitcoin Yield, come se fosse un dividend yield 3.0). Dopotutto, i nostri gestori attivi si sono fidati dell’oracolo delle criptovalute che guidava questa società (Michael Saylor), il quale, a quanto ne sappiamo, non aveva alcuna storia di speculazioni eccessive su bolle speculative. Inoltre, nessuno con una credibilità significativa ci ha detto che non avremmo dovuto farlo.
Nota di Asness: Warren Buffett, Eugene Fama e una lista incredibilmente lunga di altri vecchi saggi brillanti e onesti ce l’avevano detto
Anche se abbiamo investito solo con l’intento di fare profitti, abbiamo trovato una certa soddisfazione nella rassicurazione che ci era stata data: il Bitcoin avrebbe portato la pace nel mondo, liberato l’umanità dalla schiavitù imposta dalle valute fiat e curato molti altri mali che prima pensavamo estranei al regno del denaro. Anche se, a dire il vero, non abbiamo mai capito come ciò sarebbe realmente accaduto, e i messia delle criptovalute non lo hanno mai spiegato davvero.
Per la cronaca, 1 BTC è effettivamente ancora uguale a 1 BTC, anche se ora vale solo un 25esimo del suo valore rispetto al suo picco di 250.000 dollari. Ci era stato detto che l’equazione 1 BTC = 1 BTC era tutto ciò che interessava ai cultori delle criptovalute (anche se vivevano e amavano misurarlo in valute fiat). Quindi, dato che questa identità è ancora vera, almeno abbiamo questo dalla nostra parte, ed è una bella cosa.
Sì ok è stata un po’ lunga, però non potevo non riportarla, avrebbe sicuramente perso.
Oh intendiamoci, ambasciator non porta pena eh?
Questa è l’opinione di Cliff Asness del 2035.
Sua la responsabilità di ogni posizione espressa.
Veniamo alla
PREVISIONE NUMERO CINQUE: la gestione attiva.
Cliff del 2035 dice che aver affidato la parte equity ai gestori attivi ha peggiorato la cosa, per due motivi:
– Il primo è che la gestione attiva, al netto delle commissioni e dei costi di trading, sottoperforma sempre gli indici passivi e questa cosa è nota come legge di Sharpe, il nostro solito William Sharpe padre del CAPM e dello Sharpe Ratio;
– Il secondo motivo è che proprio i gestori erano sbagliati. La legge di Sharpe non dice che NESSUN gestore attivo può battere il mercato, dice che in aggregato la gestione attiva sottoperforma il mercato, dato che il rendimento aggregato non può essere superiore al rendimento del mercato, quindi per un gestore attivo che vince ce ne vuole uno che perde, metti le fee e i costi e capisci perché ogni anno il report SPIVA decreta l’inesorabile sconfitta dell’investimento attivo rispetto al passivo.
Però alcuni gestori riescono a battere il mercato se prendono le decisioni giuste. E a quanto pare le decisioni giuste nel 2025-2034 comprendevano l’investimento in società profittevoli, a basso rischio e con una valutazione non eccessiva.
Ma non fu questa la strada maestra che venne seguita.
A quanto pare si continuò a puntare sulle società più costose degli Stati Uniti.
Fuori dall’invenzione narrativa, Asness sembra puntare su quello che potremmo chiamare un tilt dei portafogli verso fattori come Value e Quality, quindi società sottovalutare rispetto al valore patrimoniale e società con un’elevata qualità, che di solito significa elevato return on equity, basso debito e crescita degli utili stabile.
Tra l’altro Cliff Asness è stato forse colui che ha introdotto il concetto di Quality come fattore, riscontrando che il mercato tende a pagare un price premium — e quindi a generare un rendimento supplementare — per quelle società che appunto presentano questi requisiti.
Nel 2013 scrisse infatti il paper, assieme a Frazzini e Pedersen, dal titolo “Quality minus Junk”.
Vi ricorderete dagli episodi 113, 124 e 127 dedicati ai fattoriali, che il nostro Eugene Fama aveva definito i fattori del 3 factor model, poi 5 factor model, attraverso queste differenze, cioè erano tutti un qualcosa MINUS (meno) qualcos’altro.
– Il fattore small caps era Small minus Big.
– Il fattore Value era High minus Low.
– E così via tutti gli altri.
Quality minus Junk significa che il fattore esprime l’extrarendimento di un portafoglio che va long, cioè che investe, nelle società che esprimono meglio il fattore quality e che va short, cioè vende allo scoperto, le società meno profittevoli, con alto indebitamento e così via.
I fattori sono sempre il nome del fattore MENO il suo opposto, anche se poi gli etf fattoriali che utilizziamo hanno solo la gamba long, come si dice, cioè si focalizzano su società che esprimono quelle caratteristiche ma non shortano quelle che non ce le hanno.
Questo giusto per ricordare che comprare un ETF fattoriale non significa automaticamente replicare quello che c’è scritto nei paper sui fattoriali.
Chiusa parentesi.
Prima di chiudere l’articolo, Cliff fa altre tre considerazioni.
Due le salto, perché riguardano alcune specifiche strategie di hedge fund e la sua opinione su strumenti piuttosto elaborati per la diversificazione del portafoglio come i managed futures, di cui lui è grande fan, e l’options tail hedging, di cui lo è meno, che però sono robe piuttosto complesse e non particolarmente interessanti per investitori retail, a meno che non vi chiamate Nicola Protasoni.
L’altra considerazione, che invece ha ispirato anche buona parte della visione dell’investimento che il mio buon amico Nicola ha sviluppato, riguarda una delle idee cardinali di Cliff Asness.
Tutto quello che sto per dire meriterebbe un episodio a parte.
Per ora lo accenno solo, poi avremo modo di approfondire il discorso in un episodio a parte.
Il tema riguarda, mettiamola così, le due visioni principali nella costruzione del portafoglio.
Quella classica, che poi è quella di The Bull, si basa sull’idea di investire in azioni e obbligazioni.
Il 60/40 è il benchmark di riferimento, le azioni sono l’asset con il rendimento atteso più elevato, le obbligazioni governative mitigano il rischio e la volatilità, il ribilanciamento è benefico e dato un certo livello di rischio che sono disposto ad accollarmi, questo mix mi consente di ottenere il miglior risk-adjusted return.
L’altra visione, resa celebre per esempio da Ray Dalio, è quella del risk parity che dice: costruisco un portafoglio dando alle varie asset class un peso in maniera tale che tutte contribuiscano in maniera più o meno equa al rischio del portafoglio.
Il famoso portafoglio All Wheater o il permanent portfolio infatti sottopesano le azioni, 25-30%, sovrappesano le obbligazioni e introducono altri asset non correlati, soprattutto l’oro.
L’idea cardinale di Asness è che il miglior portafoglio non è quello che ha il rendimento atteso maggiore, che probabilmente sarebbe un portafoglio 100% stocks.
Per lui il portafoglio definitivo è un portafoglio con il miglior risk adjusted return che contiene una moderata quantità di leva, così da avere teoricamente un ritorno più elevato e una minore volatilità.
Nell’articolo, il Cliff del futuro fa intendere che il portafoglio 60/40 ha battuto storicamente i portafogli risk-parity (non a leva) perché hanno beneficiato di 40 anni di tassi in discesa, dagli anni ’80 in poi e che invece nel decennio 2025-2034, caratterizzato da tassi in salita o comunque non in discesa, un portafoglio risk parity avrebbe avuto la meglio perché la sua previsione è composta da questi elementi:
– Le azioni, perlmeno, quelle americane, sottoperformeranno;
– I bond avranno un miglior risk-adjusted-return e infine
– Altri asset come le commodities avranno un decennio positivo.
Chi lo sa?
Avrà ragione? Avrà torto?
Difficile dirlo.
Il fondamento teorico del risk-parity è potente.
D’altra parte, senza leva il portafoglio difficilmente funziona bene.
Per chi desidera, lascio il finale ironico a chi di voi vorrà leggersi l’articolo, che in poche parole spiega perché non impariamo mai le lezioni decennio dopo decennio.
Ora, per chiudere, cosa ci dobbiamo portare a casa da questo spettacolare articolo del leggendario Cliff Asness.
Tre lezioni.
– NUMERO UNO: non si tratta mai di fare operazioni tattiche, ma neanche di essere ingenui. Come dice Fama partiamo dal presupposto che il mercato è efficiente e i prezzi giusti, ma non facciamoci prendere la mano nei periodi di euforia e soprattutto ragioniamo sempre con il nostro portafoglio guardando avanti, non indietro, considerando i rischi in cui potremo imbatterci, non le performance passate che ci siamo persi.
Tradotto: no, mettere l’80% del portafoglio sul Nasdaq 100 non è una buona idea anche se da decenni surclassa tutti.
– NUMERO DUE: la diversificazione è come la cintura di sicurezza. Non serve praticamente mai, se non quell’unica volta che serve veramente. Eppure, la devi tenere su tutto il tempo altrimenti è inutile.
I 10 anni disastrosi dei bond alle nostre spalle non sono un buon motivo per considerarli inutili nel portafoglio.
– NUMERO TRE: i cari vecchi principi di buon senso, si chiamano così per un motivo. Non smettono improvvisamente di esserlo. Quando si investe ci si espone sempre all’incertezza del futuro. Possiamo supporre che le cose di buon senso del passato, come per esempio non prendersi rischi assurdi a prezzi folli, restino validi anche in futuro. I trade più hot del momento, come investire in società indebitate fino al collo solo perché imbottite di bitcoin e pagando per giunta il doppio del prezzo dei bitcoin, se ci sembrano lontano dal buon senso, ecco, forse perché effettivamente un senso non ce l’hanno.
Bene care amiche e cari amici di The Bull, grazie per avermi ascoltato anche oggi.
Spero che questo episodio un po’ particolare vi sia piaciuto e che vi abbia lasciato qualche spunto di riflessione.
Vi lascio con un grande notizia!
Nelle prossime settimane avremo tre ospiti straordinari, tutti e tre già citati qua e là in questo podcast — e no, mi spiace, non saranno né Warren Buffet né Nassim Taleb.
Tutti e tre americani, per la mia gioia di fare le interviste a tarda sera per questioni di fuso orario, si parte mercoledì prossimo con Christine Benz, Director of Personal Finance and Retirement Solutions di Morningstar US, una vera istituzione e probabilmente una delle donne più importanti del mondo della finanza personale negli Stati Uniti.
Con lei parleremo di principi di investimento, retirement portfolio, safe withdrawal rates e tanto altro ancora.
Come da prassi usciranno due episodi, uno in lingua originale e uno doppiato in italiano.
Nel frattempo, mentre da settimane siamo sul podio sia di Spotify ed Apple Podcast grazie a tutti voi, vi invito a mettere segui e attivare le notifiche su Spotify, Apple Podcast o dove ci ascoltate e a lasciare una recensione a 5 stelle per supportarci e permetterci di continuare a produrre contenuti che vanno nel futuro per farvi le previsioni sul passato che verrà sempre nuove.
Per questo episodio invece è davvero tutto e noi ci rivediamo mercoledì prossimo con Christine Benz, sempre qui, naturalmente con The Bull il tuo podcast di finanza personale.
Recensioni
Quando capisci come funziona la finanza… ti viene voglia di raccontarla!
Riccardo mi ha letteralmente cambiato la vita e fatto scoprire che amo la finanza, ho ascoltato il podcast già due volte e non mi stufo mai di ascoltarlo, parla in modo semplice e chiaro
Massimo D., 23 Set 2025Dovrebbero ascoltarlo buona parte degli italiani e io avrei dovuto scoprirlo con qualche anno in anticipo ma meglio tardi che mai
Matteo C., 3 Set 2025Podcast piacevole, scorre veloce ma in modo estremamente chiaro, spiega i concetti chiave per gestire le proprie finanze, fornendo la classica cassetta degli attrezzi. Complimenti, davvero ben fatto!
Massimiliano, 29 Mag 2024La mia ignoranza in materia mi ha sempre creato dei dubbi, ma grazie a un amico ho iniziato ad ascoltare il podcast. Per fortuna che ho 24 anni e un po' di tempo e soldi da dedicarmi a imparare le varie nozioni per me stesso. Grazie mille!
Luca G. 10 Ott 2025Veramente veramente raccomandato! la finanza personale riassunta alla perfezione! e spiegata partendo dall'ABC! Ottimo anche da ascoltare a velocita 1,5x!
Giorgia R., 23 Gen 2025Da quando l'ho scoperto in 15 gg mi sono ascoltato 150 puntate senza fermarmi, ho annullato gli altri podcast per portarmi alla pari ed ascoltare tutte le precedenti puntate, ben fatto, esattamente il livello di informazione che mi serviva
Gianluca G., 11 Set 2025Ho seguito tutte le puntate! Grazie veramente
Amalia A., 17 Set 2025Podcast che dà sempre spunti interessanti che personalmente mi ha fatto appassionare alla finanza personale spingendomi ad approfondire in prima persona.
Lorenzo, 13 Mar 2025Ho acquistato e letto il suo libro e l' ho trovato. Esprime i concetti economici in modo semplice e chiaro. Sentirlo parlare conferma che è un professionista del settore.
Giulia N., 11 Ago 2025