7 Verità universali degli Investimenti
Una manciata di azioni porta il 100% del rendimento globale. La differenza tra finanza e economia. Cosa possiamo e cosa non possiamo controllare quando investiamo. Parliamo di 7 Verità universali quando investiamo e Buon Natale a tutti!

171. 7 Verità universali degli Investimenti
Risorse
Punti Chiave
Poche azioni generano la maggior parte dei rendimenti; investi sull'intero mercato.
Prioritizza fattori controllabili: risparmio, asset allocation e gestione delle emozioni.
Nel lungo termine, i mercati azionari tendono a vincere; non scommettere sulla fine del mondo.
Trascrizione Episodio
Bentornati a The Bull — il tuo podcast di finanza personale
Buon Natale care amiche e cari amici di The Bull.
Il calendario ha voluto che l’episodio odierno di questo podcast uscisse il 25 dicembre e non sia mai che manchi il mio religioso appuntamento bisettimanale con tutti voi, a maggior ragione oggi che magari sentirete il podcast prima di recarvi al consueto pranzo con i parenti e vi mancassero argomenti di conversazione.
Episodio leggero oggi.
Le borse sono chiuse in tutto il mondo, dopo il tracollo del 18 dicembre è tornata un po’ di calma, vedremo se il mercato si sta preparando al Santa Rally o se sia la famigerata calma prima di una bella tempesta.
Godiamoci il presente però, per il futuro ci sarà tempo.
Oggi episodio universale dedicato a 7 imperiture verità sull’investimento, 7 come i peccati capitali 7 come le virtù, così che se dovesse saltar fuori qualche lontano zio sedicente esperto di finanza e mercati lo mettete a cuccia in quattro e quattr’otto.
Se invece in tutta la famiglia ascoltate The Bull, niente, però so che ci sono tante persone che come me e mia moglie condividono questa tradizione super nerd di riguardarsi tutti gli otto film di Harry Potter, magari potete fare la gara con i vostri parenti a chi trova più plagi del Signore degli Anelli oppure provare a venire a capo di alcune contraddizioni tipo: “me se i buoni non usano l’Avada Kedavra perché non è etico com’è è questi possono fare incantesimi che uccidono comunque i nemici?”.
Cioè è solo un altro incantesimo con un altro nome.
Non ho capito Avada Kedavra è cattivo, mentre quando la signora Wingsley sbriciola Bellatrix allora tutto ok?
Così come non mi è mai stato chiaro perché quando Silente spiega ad Harry che Voldemort gli entra nella testa, affida al professor Piton, a cui Harry Potter sta sul culo sopra ogni cosa, il vitale compito di insegnargli l’occlumanzia, cioè la tecnica per impedire a Voldemort di friggergli il cervello.
Ah l’occlumanzia.
Certo che J.K. Rowling aveva avuto una bella pensata.
Adesso come la spiegho l’occlumanzia a chi non ha visto o letto Harry Potter?
In pratica, è come se la testa di Harry Potter fosse il vostro pc o il vostro smartphone che mentre si trova in posti esotici tipo Hogwarts va su internet e viene invaso di virus, malware, mail di phising e ogni genere di robaccia per corromperlo.
Quello che Piton prova a spiegare a Harry con scarso successo è in pratica come sviluppare una VPN magica per tenere Voldemort alla larga.
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E con questa si conclude ufficialmente la sponsorizzazione più nerd di tutta la storia di questo podcast.
Torniamo alla prima ipotesi, quella in cui a tavola non parlate di Harry Potter ma delle 10 immutabili verità sugli investimenti.
VERITA’ NUMERO UNO: la maggior parte delle azioni fa schifo.
In che senso direte?
Nel senso che investire nella stragrande maggioranza delle azioni produce nella migliore delle ipotesi una miseria di rendimento, che investire in strumenti monetari o obbligazioni a breve termine sarebbe stato meglio.
E questa è la migliore delle ipotesi.
La peggiore delle ipotesi è che investire in azioni non produca “excess return”, ossia non generi un rendimento superiore a quello che sarebbe stato il rendimento risk-free.
In pratica se uno investe in azioni ha il 98% di probabilità di assumersi molto più rischio che investire in un titolo di Stato a breve e di portarsi pure a casa meno rendimento.
Penserete forse che mi sia ammattito, ma questa è una pura e semplice verità che abbiamo già espresso più volte nel corso del podcast, anche se l’avevamo sempre girata in un altro modo.
Colui che più di ogni altro ha messo in chiaro questa cosa è stato Hendrik Bessembinder.
Lo avevamo citato in passato per il suo paper del 2018 sulle azioni americane dal titolo “Do Stocks Outperform Bonds?”, che aveva chiarito come un misero 4% delle oltre 28.000 azioni presenti nel CRSP Database dell’Università di Chicago, quindi praticamente il 4% della stragrande maggioranza di tutte le azioni mai quotate nella storia degli Stati Uniti, fosse responsabile del 100% del rendimento in eccesso del mercato azionario oltre i treasury bills.
Nel marzo 2023 Bessembinder ha pubblicato un nuovo studio in cui ha preso in esame la performance di oltre 64.000 azioni questa volta a livello globale, nel periodo 1990 — 2020.
I risultati di questo paper sono allucinanti.
– UNO: il 55% delle azioni americane e il 57% di quelle internazionali extra Stati Uniti ha reso meno dei Treasury Bills lungo quei 30 anni;
– DUE: appena 5 società (Apple, Microsoft, Amazon, Alphabet e Tencent) sono hanno creato da sole il 10% di tutta la ricchezza generata dal mercato azionario in quel trentennio. Questa ricchezza complessiva ammonta a quasi 76 trilioni di dollari (30 volte il pil italiano per intenderci). Di questi 76 trilioni, metà sono stati creati dallo 0,25% delle società più performanti, mentre solo il 2,39% è responsabile dell’intera creazione di ricchezza netta a livello globale. Il 2,39%. Poco più di 2 azioni su 100 sono buone. Le altre 98 nella migliore delle ipotesi sono “mehhh”.
E se togliamo il mercato americano e guardiamo solo al mercato globale ex US, appena l’1,4% delle società è responsabile del 100% del ritorno azionario.
– TRE: se ancora ce ne fosse bisogno, questo paper sancisce in maniera quantitativa la disarmante asimmetria positiva dei rendimenti azionari.
Cosa significa asimmetria positiva, positive skewness?
Significa che il rendimento “mediano” delle singole azioni è nettamente inferiore al rendimento “medio”.
Ricordo che “mediano” significa: prendo il rendimento di tutte le azioni, li ordino dal peggiore al migliore, il valore centrale è quello mediano.
Media vuol dire il sommo e divido per il numero di azioni.
Se la media è maggiore della mediana, come avevamo già detto in passato, vuol dire che pochissime azioni contribuiscono alla stragrande maggioranze del risultato complessivo dell’investimento azionario.
Conclusione di Bessembinder: a meno che tu sia dotato di un’oggettiva e rara capacità di identificare in anticipo i “few winners”, la tua migliore chance è di investire in tutto il mercato.
Per quanto ovvio e sensato possa sembrare investire in certe società, per quanto sembri un goal a porta vuota puntare su realtà too big too fail o altre scemenze del genere, l’investimento azionario è estremamente controintuitivo: nel suo complesso ha rendimento atteso in eccesso rispetto ai titoli di Stato positivo (e finora molto positivo), mentre il rendimento atteso dall’investimento nell’azione media va da zero a negativo.
Ricordatelo allo zio fenomeno che vi spiegherà in quali azioni ha investito e perché.
VERITA’ NUMERO DUE: in media, le cose medie non accadono mai.
Cosa voglio dire?
Voglio dire che passiamo tutto il tempo a parlare di rendimento medio, volatilità media, durata e profondità media dei drawdown e così via.
Ma la media, beh, quella è molto rara che si presenti.
Per esempio, l’S&P 500 ha un rendimento medio annuo aritmetico dell’11%.
Sapete in quanti anni, dal 1926 ad oggi, ha prodotto davvero un rendimento compreso tra il 10 e il 12%?
Solo 6 volte.
E sapete quante volte è cresciuto in un anno più del 20%?
Ben 36 volte.
E quante volte invece ha avuto un anno negativo?
26 volte.
Altre 15 volte è cresciuto meno del 10%.
E sempre 15 volte è cresciuto tra il 12 e il 20%.
In totale fanno 72 anni positivi e 26 negativi.
Nel complesso c’è di che essere ottimisti chiaro, ma la media è il grande assente di tutto questo conteggio.
Investire significa mettere in conto che a periodi di grande crescita del nostro portafoglio si accompagneranno periodi nettamente più complicati — e ciò è tanto più vero quanto più la componente azionaria del portafoglio è rilevante.
Questa cosa non è importante solo dal punto di vista statistico.
È importante dal punto di vista della pianificazione finanziaria di ciascuno.
E il messaggio è: mai fare affidamento al rendimento “medio” del nostro portafoglio.
Nel lungo termine sarà anche realistico, ma durante il percorso gli estremi saranno più frequenti che non i valori medi e sarà quindi più facile vivere anni in cui il portafoglio cresce del 15-20% o crolla del 10, 20, 30 anche 40%.
Raramente faremo il 6-7% all’anno giusto giusto.
Bisogna quindi puntare al massimo assumendoci tutto il rischio che ragionevolmente ci possiamo permettere.
Ma anche prepararsi al peggio considerando soprattutto se possiamo sopportare gli scenari negativi.
Gli scenari medi sono buoni solo per i backtest.
VERITA’ NUMERO TRE: la finanza non è l’economia.
Daniel Kahneman, premio nobel per l’economia e grande padre dell’economia comportamentale, forse il Nobel più citato di questo podcast dopo il mio premio Nobel preferito Eugene Fama — e qualunque riferimento a fatti realmente accaduti è naturalmente del tutto casuale — dicevo Danny Kahneman dimostrò un sacco di cose sui meccanismi in base ai quali il nostro cervello prende decisioni.
Uno dei più potenti è quello dell’ancoraggio, anchoring in Inglese.
L’anchoring è quell’euristica, quella scorciatoia mentale che noi utilizziamo senza rendercene conto per prendere decisioni in assenza di informazioni rilevanti.
Se si abituato al fatto che un iPhone appena uscito costi più di 1.000 € ti sembrerà un affare comprarlo a 950 €.
In tutt’altro contesto invece mai ti sogneresti di pagare quasi 1.000 € per uno smartphone.
Così come inserire alcuni piatti o alcune bottiglie di vino esageratamente costose nel menu di un ristorante fanno sembrare gli altri più economici, anche se questi hanno magari un prezzo oggettivamente elevato.
In assenza di una competenza specifica, noi ci attacchiamo alle informazioni che abbiamo a disposizione per formulare la nostra valutazione e prendere la nostra decisione.
Ma Kahneman ha dimostrato che il nostro cervello si fa condizionare anche da dati che non c’entrano nulla con il contesto della nostra decisione.
Ho citato spesso l’esperimento in cui chiese agli intervistati di scrivere su un foglio le ultime due cifre del proprio codice fiscale e poi di stimare il numero di stati africani membri dell’Onu e le stime erano tanto più alte o più basse a seconda di quando alto o basso fosse il numero a due cifre scritto per primo.
Sembra assurdo, ma il nostro cervello funziona così.
E in finanza questa cosa non è dà meno.
Ci sono stati numerosi decenni in cui sembrava che l’andamento dell’S&P 500 fosse legato alla produzione di burro in Bangladesh.
Ma senza arrivare a quest’evidente assurdità, chi deve fare stime in finanza non può fare altro che attaccarsi alla cosa che gli sembra più vicina per fornire dati affidabili su cu cui fondare le proprie previsioni: l’economia.
Il problema vero però è che nonostante finanza ed economia ad un certo punto debbano convergere, i dati economici sono quasi del tutto inutili per formulare delle stime sul futuro più attendibili di un lancio di una moneta.
Direi che ci sono almeno quattro motivi principali, o almeno due me ne vengono in mente.
– Il PRIMO è che la finanza è forward looking, mentre l’economia è backward looking. Cosa significa? Significa che i mercati cercano di esprimere attraverso i prezzi delle aspettative sul futuro. L’economia invece registra dati di cose accadute nel passato.
Pensate ai dati macroeconomici più importanti di cui parliamo sempre:
– L’inflazione del mese passato rispetto allo stesso mese dell’anno prima;
– Il numero di posti di lavoro creati il mese scorso;
– Il PIL dello scorso trimestre
– E così via…
Si cerca di estrapolare il futuro a partire da dati del passato, ma benché quei dati abbiano certamente un valore importante per la comprensione dello scenario economico in cui anche la finanza si muove, non sono alla fine di nessuna reale utilità per prendere decisioni finanziariamente corrette.
– Il SECONDO motivo è che, almeno nel breve medio termine, c’è una certa disconnessione tra economia e finanza:
– Pensiamo ad anni come il 2009 o il 2020, in cui l’economia reale ha subito delle batoste mostruose per la grande crisi finanziaria prima e per il covid dopo. Ciononostante, sono stati anni molto positivi per i mercati perché avevano iniziato a scontare una ripresa futura.
– Oppure pensiamo al fatto che alcune notizie apparentemente positive, come un calo della disoccupazione o un aumento dei salari potrebbero avere conseguenze negative sui mercati per i timori di una recrudescenza futura dell’inflazione.
– Pensiamo infine alla distribuzione disomogenea soprattutto dei rendimenti azionari. Come dicevamo per la verità numero 1, poche grandi società sono responsabili del grosso dei rendimenti. Le dieci società più grandi pesano per oltre il 30% dell’S&P 500. E ancora di più pesano le 10 società più grandi di tutti gli altri grandi indici nazionali. In Francia, Germania e Regno Unito le prime 10 pesano per oltre il 50%. In Italia per oltre il 70%. La finanzia racconta uno spaccato di realtà estremamente parziale rispetto al contesto economico generale.
– Il TERZO motivo è, se vogliamo, matematico: l’economia si basa sulle somme, cioè deve sommare tutti gli elementi per fotografare la realtà nel suo complesso. Il numero di occupati, il PIL, la produzione industriale e così via. La finanza invece si basa sulle differenze. Un’economia povera in crescita si riflette di solito in un mercato azionario positivo. Un’economia forte stabile tende invece a non essere particolarmente apprezzata dai mercati.
– Il QUARTO motivo è che la stragrande maggioranza degli investitori investe seguendo indici. L’S&P 500, l’MSCI World, lo Stoxx 600, il FTSE 100 e così via.
Per esempio per essere nell’S&P 500 sono richiesti determinati requisiti di capitalizzazione e avere almeno 4 trimestri in profitto. Per essere nell’S&P 500 devi essere profittevole, eo ipso certe società che pur appartengono all’economia, possono però sparire dai radar della finanza perché appunto l’universo realmente investibile è in realtà un sottoinsieme molto specifico dell’economia reale.
Il takeaway qui è: non utilizzare mai le informazioni che arrivano dall’economia per prendere decisioni per il nostro portafoglio.
In primis perché siamo già in ritardo, i prezzi incorporano ogni nuova informazione in tempo reale.
In secondo luogo, perché l’economia non fornisce informazioni utili per investire meglio.
In assenza di altre informazioni, ci attacchiamo a quello che abbiamo per giustificare le nostre decisioni.
Ma non è detto che sia una buona idea.
VERITA’ NUMERO QUATTRO: nel breve vale tutto, ma nel lungo termine sono i profitti ciò che determinano il rendimento a lungo termine di un’azione.
Nel breve questa correlazione non è evidente.
Per nulla se si prendono gli utili per azione degli ultimi 12 mesi ed è solo leggermente superiore prendendo quelli dei 12 mesi successivi.
Ma in aggregato e nel lungo termine, la crescita del mercato azionario ha una correlazione vicina ad 1 con la crescita degli utili per azione.
In un mercato perfettamente razionale i prezzi delle azioni esprimono i “discounted future cash flows”, cioè i flussi di cassi futuri attualizzati da un tasso di sconto, assumendo che tutti gli utili vengano distribuiti come dividendi, buyback o reinvestiti per generare indirettamente valore per gli azionisti.
Nel breve però succede di tutto — e sono soprattutto le aspettative e l’umore generale del mercato a muovere i prezzi.
Ricordiamo che il rendimento del mercato azionario è una funzione di tre variabili, che sono:
– I dividendi distribuiti
– La variazione degli utili per azione e infine
– La variazione del rapporto tra prezzi e utili.
Mentre i primi due hanno a che fare con gli utili generati, il terzo ha a che fare con l’aspettativa di crescita degli utili futuri.
Negli ultimi 40 anni abbiamo assistito, almeno negli Stati Uniti, ad una crescita significativa di questo terzo elemento, infatti come diciamo spesso i prezzi attuali delle azioni americane sono in media molto più alti della media storica.
Oggi l’S&P 500 in media ha un prezzo di quasi 23 volte gli utili attesi per i prossimi 12 mesi.
Storicamente questo valore era più nell’ordine di 16-17.
In parte questa cosa si può spiegare con la lunga discesa dei tassi di interesse dagli anni 80 ad oggi. Tassi in discesa significa che il mercato applicherà un tasso di sconto inferiore quando prezza le azioni, quindi a parità di utili, se uso un tasso di sconto più basso il prezzo aumenta.
Spieghiamo bene questa cosa.
Io sono un investitore che deve decidere, tanto per cambiare, se allocare il suo capitale in titoli di stato a breve termine senza rischio oppure in azioni.
Chiaramente non esistono investimenti senza rischio in assoluto, ma per convenzione sappiamo che il rendimento dei Treasury Bills a breve scadenza sono considerati il risk-free-rate, mentre in Europa qualcosa di simile è espresso dall’Euro Short-term-rate o dall’Euribor.
Quindi io investitore mi chiedo: a parità di rendimento con un titolo di Stato a breve investirei in azioni?
Ovviamente no, perché se sono sano di mente non voglio assumermi un rischio maggiore per avere lo stesso risultato no?
Per investire in azioni mi aspetto un rendimento superiore al risk-free-rate, che è quello che solitamente viene chiamato premio al rischio, equity risk premium, ossia il rendimento supplementare che io investitore richiedo per assumermi più rischio.
Stesso discorso si potrebbe fare con le obbligazioni a lunga scadenza, le obbligazioni corporate, le obbligazioni high-yield e così via, che hanno tutte uno spread, ossia un differenziale di rendimento teoricamente superiore perché devono compensare il maggior rischio dell’investitore.
Restiamo sulle azioni però.
Dicevamo, io investo in azioni solo in cambio di un rendimento superiore a quello dei titoli di stato a breve.
La teoria finanziaria classica cosa dice.
Dice prendi i flussi di cassa che ti aspetti di ottenere nel futuro investendo in una certa società — sotto l’ipotesi che tutti gli utili siano distribuiti ad un certo punto — e “scontali”, cioè attualizzali al valore presente usando un tasso di sconto che sarà più alto del tasso risk-free, perché sarà invece:
– Tasso risk free +
– Premio al rischio.
Ammettiamo che l’investitore richieda almeno 5 punti percentuali di rendimento in più per compensare il rischio dell’investimento azionario, allora il suo tasso di sconto sarà il tasso risk free più 5.
Ora, cosa è successo dal 1981 al 2021.
Lungo questi 40 anni esatti i tassi di interesse sono scesi dal picco di oltre 19% a zero.
Non è stato un processo lineare, ogni tanto sono andati su e già, ma la traiettoria di lungo termine è stata questa.
Se per 40 anni abbiamo avuto tassi progressivamente discendenti chiaramente l’investitore avrà applicato un tasso di sconto gradualmente inferiore, perché il tasso risk-free è andato via via a scendere.
La formula del valore presente è una divisione: si prendono i flussi di cassa attesi e si dividono per il tasso di sconto.
Siccome il tasso di sconto è al denominatore, minore è il suo valore, maggiore sarà il valore presente dell’azione e quindi maggiore tenderà ad essere il suo prezzo.
Esempio: se stimo utili per azione di 5 dollari e uso un tasso di sconto del 10% il suo valore presente sarà 50, cioè 5 diviso 0,1. Se invece uso un tasso di sconto dell’8%, 5 diviso 0,08 fa 62,5 dollari.
Tassi discendenti hanno via via favorito la crescita delle valutazioni azionarie ed è per questo che oggi siamo arrivati a prezzi così elevati.
Non sappiamo se il fatto che siano elevati sia giusto o sbagliato.
È solo un numero.
Un tempo il mercato azionario era dominato da realtà industriali.
Oggi è dominato da realtà tech, che per definizione hanno tassi di crescita superiori e profittabilità superiori.
Non significa necessariamente essere in una bolla per il fatto che le valutazioni siano elevate, finché perlomeno la crescita degli utili sostiene queste valutazioni.
Tornando al discorso da cui siamo partiti, i ritorni azionari sono determinati in parte dagli utili e in parte dalle aspettative sugli utili futuri.
Benché la correlazione nel breve termine non sia evidente, nel lungo termine le due cose devono andare a braccetto, altrimenti se l’aspettativa sugli utili futuri venisse disattesa, automaticamente i prezzi scenderebbero per riallineare le aspettative degli investitori.
VERITA’ NUMERO CINQUE: ci sono cose che possiamo controllare e cose che non possiamo controllare quando investiamo. Per qualche motivo ci concentriamo solo su quelle che NON possiamo controllare.
Quali sono le cose che non possiamo controllare e che ciononostante attraggono tutta la nostra attenzione e le nostre ansie:
– i rendimenti del mercato;
– l’andamento futuro dell’inflazione;
– gli shock geopolitici;
– il livello dei tassi di interesse;
– quello che la gente scrive sui social media a proposito di questo o quell’investimento.
Vi torna?
I vostri pensieri e le vostre preoccupazioni non sono spesso assorbiti da queste cose?
– E se il mercato crolla?
– E se risale l’inflazione?
– E se i tassi vengono nuovamente alzati?
– E se la Cina invade Taiwan?
– E se quello su LinkedIn ha postato un grafico che dimostra CHIARAMENTE che è meglio vendere tutto?
E sticazzi credo sia la risposta migliore a queste domande.
Possiamo farci qualcosa?
A meno che voi non siate il capo di una banca centrale o il dittatore di qualche paese bellicoso, dubito che possiate fare granché.
Quali sono invece le cose che si possono controllare?
– L’allineamento tra la nostra asset allocation e i nostri obiettivi di vita;
– La nostra tolleranza al rischio;
– L’orizzonte temporale dei nostri investimenti;
– Il nostro tasso di risparmio (e di questo riparliamo nella verità successiva)
– E infine le nostre emozioni, più o meno.
Queste cose nel lungo termine conteranno immensamente di più sul bilancio finale del nostro portafoglio di quanto possano contare le decisioni della Fed l’anno prossimo o i prossimi report trimestrali di Nvidia.
Se l’asset allocation è allineata ai nostri obiettivi e alla nostra tolleranza al rischio, conta il giusto ciò che il mercato farà ogni anno.
Se i nostri sforzi si concentrano di più sul nostro risparmio che non sulla microottimizzazione del portafoglio, il risultato finale sarà nettamente migliore.
Se impostiamo il nostro processo e non ci facciamo condizionare dalle nostre emozioni e dal fiume di informazioni più o meno utili che inondano i nostri feed, sarà più probabile mantenere la rotta, non disinvestire nei momenti sbagliati, non sovrainvestire quando ci sembra di aver capito la ricetta della felicità e in generale a fare tutte le cose giuste per la salute del nostro portafoglio.
Il takeaway qui è: le cose che non possiamo controllare non è che non siano importanti. Ma se non le possiamo controllare, facciamo che occupino poco spazio nei nostri pensieri e usiamo il 90% delle nostre energie per gestire al meglio le cose su cui possiamo davvero avere un impatto significativo.
VERITA’ NUMERO SEI: Il risparmio è più importante dell’investimento.
Questo è forse il concetto a cui sono più affezionato.
È vero, non ne parlo così spesso.
Parlare di portafogli, numeri e finanza dura e pura mi piace di più.
Datemi un paper pieno di dati e sono felice come un bambino a Natale che scarta la sua PS5 nuova.
Ma alla fin della fiera, possiamo stare qui a raccontarcela fino alla fine dei nostri giorni, possiamo disquisire se sia meglio fare all in sulle azioni, se sia meglio il golden butterfly, se sia meglio tiltare su value e small caps o quel che vi pare. Tutto questo inciderà, certo, ma non come riuscire ad organizzare la propria vita e la propria professione per raddoppiare il risparmio che riusciamo ad investire.
Un esempio a caso:
– 500 € al mese investiti nell’MSCI World negli ultimi 30 anni varrebbe oggi quasi 800.000 €;
– Per ottenere lo stesso risultato con un portafoglio 60% MSCI World e 40% obbligazioni governative globali sarebbero bastati 725 €.
– Idem se avessimo investito in una versione semplificata del golden Butterfly, quindi 40% MSCI World, 40% titoli di stato globali e 20% di oro.
Possiamo generalizzare in questo modo.
Se prendo il solito orizzonte di trent’anni, il risultato di un portafoglio molto aggressivo che, con tutti i rischi del caso, dovesse rendere in media l’8% all’anno può essere pareggiato da un portafoglio più conservativo che rende il 5% solo raddoppiando l’investimento mensile. Anzi un po’ meno.
Se investo 500 € al mese in un portafoglio che rende il 5% all’anno, ottengo lo stesso risultato dopo trent’anni che investendo 265 € al mese in un portafoglio che rende l’8%.
Dopo 171 episodi credo che vi sarà perfettamente chiaro che impostare guadagnare 3 punti percentuali di rendimento ogni anno per trent’anni sia un’impresa titanica se paragonata allo sforzo che serve per passare da un pac da 265€ al mese ad uno da 500 €.
A volte ci spacchiamo la testa cercando di capire:
– Ma sarà meglio ridurre l’esposizione agli Stati Uniti? O forse è meglio aumentarla?
– E gli emergenti? Sarà arrivato il loro momento?
– E forse ore è meglio allungare la duration dei bond? No aspetta forse è meglio accorciarla perché l’inflazione risale…
Insomma, chi lo sa.
È chiaro che se di lavoro faceste i gestori di un fondo d’investimento, non è che potete andare dai clienti a dirgli: “guarda, stiamo facendo cagare rispetto al benchmark, però caro cliente basta che raddoppi il tuo investimento mensile e praticamente non ti accorgi della differenza”.
Eh… quello ti manda a quel paese il secondo dopo.
Ma fortunatamente la stragrande maggioranza di chi mi ascolta di lavoro non fa l’asset manager (qualcuno invece sì, vi saluto e abbraccio), ecco dicevo, dato che per quel che ci riguarda nessuno viene a chiederci di rendere conto né del rendimento assoluto del portafoglio, né dello sharpe ratio né di chissà cos’altro, nel dubbio fate così:
– Scegliete un asset allocation adatta al vostro profilo di investitori
– Investite tutto quello che potete al netto delle solite cose, fondo di emergenza, spese prevedibili, ecc. e
– Fate di tutto per incrementare il risparmio che potete destinare all’investimento ogni mese, idealmente aumentando il reddito E riducendo le spese.
VERITA’ NUMERO SETTE: nel lungo termine, sono i Tori a vincere.
Il 18 ottobre del 2008 l’S&P 500 era sotto di oltre il 30% rispetto al picco di un anno prima.
Lehman Brothers era fallita da un mese.
Il settore immobiliare americano era al collasso.
L’economia globale stava sprofondando nell’ora più buia della sua storia post-bellica.
Milioni di disoccupati.
Imprese e negozi chiusi per sempre.
Banche piene zeppe di titoli tossici nei bilanci, che era quasi impossibile distinguere i sani dai malati.
Ero molto giovane allora, avevo appena 22 anni e zero soldi investiti.
Ma in quel momento la finanza mi rapì.
Mi terrorizzò e affascinò al tempo stesso.
Mentre il mondo intero era avvolto nel panico, il 18 Ottobre uscì un editoriale sul New York Times dal titolo: Buy American. I am.
Investite nell’america, io lo sto facendo.
L’autore di quell’editoriale era naturalmente sua maestà: Warren Buffet.
La chiamata di Warren Buffet fu semplicemente spettacolare.
Investì massicciamente nell’ottobre del 2008, a fine febbraio dell’anno successivo il mercato toccò il fondo e poi da lì iniziò una corsa che non è ancora terminata, oltre 15 anni dopo.
Scriveva Buffet: nel ventesimo secolo gli Stati Uniti hanno combattuto in due guerre mondiali e hanno dovuto sopportare altri costosi e traumatici conflitti militari; la Grande Depressione; una dozzina di recessioni e crisi finanziarie; shock petroliferi; un’epidemia di influenza; e le dimissioni di un presidente caduto in disgrazia. Ciononostante, il Dow Jones è cresciuto da 66 punti a 11.497.
Per la cronaca, mentre sto registrando il Dow Jones è a quasi 43.000 punti.
Nessuno meglio di Warren Buffet sa che nel lungo termine l’investimento azionario è imbattuto e forse imbattibile.
Questo fa di lui forse il più celebre Permabull, come vengono chiamati coloro che hanno quasi sempre un’opinione fondamentalmente positiva sul buon esito dell’investimento in azioni.
Come lui, altri noti permabull sono Jeremy Siegel, l’autore di Stock for the long run, il mio libro preferito per distanza sul mondo azionario, Ed Yardeni, che ogni tanto citiamo, nonché fondamentalmente i due Nick e i due Ben che da sempre sono i miei riferimenti preferiti di questo podcast: Nick Maggiulli, Nick Protasoni, Ben Carlson e Ben Felix.
Come dicevamo la volta scorsa però, se vuoi sembrare intelligente, fai il permabear.
Fai come Jeremy Grantham, che da dieci anni scommette sulle azioni deep value e sconsiglia di investire nelle large tech growth americane, o come John Hussman, un altro leggendario market guru, che ancora mi chiedo quante minchiate deve dire uno perché perda lo status di market guru, che rimarrà per sempre nella storia per aver predetto nell’estate del 2013 che il mercato avrebbe perso dal 40 al 50%.
Dal 40 al 50%!
Nell’agosto del 2013.
Mancato di poco.
Da allora l’S&P è cresciuto di oltre il 450%.
La straordinaria previsione del market guru John Hussman avrebbe semplicemente mancato uno dei più grandi bull market di tutti i tempi.
È sexy mostrarsi come il genio che ha previsto il prossimo crollo del mercato.
Basta imbroccarla una volta per entrare nel mito.
Michael Burry fondamentalmente ha indovinato solo la crisi del 2008. Solo tra molte virgolette naturalmente.
Però da allora ha chiamato un’altra dozzina di crisi che non sono più arrivate.
Ma sarà per sempre ricordato come quello che ha previsto la crisi del 2008, non come quello che ha sbagliato altre 12 previsioni.
Per via di questa iniquità, c’è probabilmente un forte incentivo implicito, soprattutto sui media, a prospettare minacce più o meno fondate.
Se chiami la crisi e questa non avviene sarai chiamato prudente.
Se non chiami la crisi e questa arriva sarai condannato per sempre.
I Permabear sono i market guru, i geni che vedono cose che i comuni mortali non vedono.
I Permabull sembrano invece degli ingenui, incoscienti dei rischi e incapace di comprendere che “questa volta è diverso”.
Se vuoi sembrare smart sii un permabear.
Ma se vuoi fare i soldi, probabilmente ti conviene sembrare un ingenuo permabull.
Uno tra i più scemi e ingenui permabull di questa terra è colui che vi sta parlando.
Ora, questo non vuol dire che investire in azioni sia sicuro e che sia una macchina per stampare i soldi.
Come diciamo sempre, un rendimento supplementare c’è perché c’è sempre anche un rischio.
E non bisogna mai dimenticarsi di questa cosa.
Ma al netto di questo — e al netto di tutto quello che diciamo sempre sulla gestione del rischio, sull’allineamento tra asset allocation e obiettivi e sulla pianificazione consapevole delle proprie finanze — scommettere sul fatto che le cose nel lungo termine andranno bene è la migliore opzione che abbiamo.
Il 2 dicembre si è spento Art Cashin, una vera leggenda di Wall Street, Director of Floor Operations per UBS e volto molto noto alla CNBC e Bloomberg.
Art Cashin è passato alla storia, tra le varie cose, per la sagacia delle sue interpretazioni sui mercati.
Una delle sue uscite più memorabili è stata questa, nell’ottobre del 2009, commentando il recente rally iniziato a marzo dalle ceneri della Great Financial Crisis.
“Never bet on the end of the world, because that only happens once”.
Non scommettere sulla fine del mondo, perché quella succede una volta sola.
Più o meno questo era stato tutto ciò di cui aveva bisogno per decidere nel marzo del 2009 di essere bullish, così come Warren Buffet e come Howard Marks, che, come avevamo raccontato qualche settimana, fa fece un pozzo di soldi comprando aggressivamente nel 2009 sapendo che le alternative erano solo due: fare un grande colpo o la fine del capitalismo.
Durante la crisi dei missili sovietici a Cuba pare che avesse detto ad uno dei suoi, in panico e senza altro in testa se non liquidare tutte le posizioni: “ragazzo sta calmo. Se tu hai sentito che potrebbero partire dei missili nucleari da Cuba agli Stati Uniti tu compri, non vendi. Perché se non succede niente facciamo i soldi. Se invece hai ragione e i missili arrivano, non importa comunque, perché saremo tutti morti”.
Ai permabear piace scommettere 4 o 5 volte all’anno sulla fine del mondo.
Per definizione, i permabull ci prenderanno sempre più spesso, perché la fine del mondo può arrivare al massimo una volta.
Mentre da cent’anni, i mercati alla fine si sono dimostrati una formidabile fonte di ricchezza.
Non so ovviamente cosa succederà nel 2025, nel 2026 e così via.
Ma tra bolle e crisi, la mia scommessa è che nel lungo termine gli stolti e ingenui permabull, avranno ragione ancora una volta.
Che altro dire care amiche e cari amici di questo podcast.
In questa giornata natalizia, o quando vorrete ascoltare quest’episodio, sentivo di voler fare un punto senza tempo su cosa significa investire.
Spero che quest’episodio vi abbia dato utili spunti per conversazioni in famiglia durante le feste, sennò come dicevo c’è sempre Harry Potter, e che in generale abbiano consolidato ancora una volta alcuni pilastri fondamentali per investire con buon senso.
Grazie di cuore per questo ennesimo momento assieme e per tutto l’entusiasmo che sta accompagnando questo podcast.
Anche a Natale vi invito a mettere segui e attivare le notifiche su Spotify, Apple Podcast o dove ci ascoltate e a lasciare una recensione a 5 stelle per supportarci e permetterci di continuare a produrre contenuti che supportano le vostre dispute natalizie a tra tassi di sconto e Ava Kedavra sempre nuovi.
Per questo episodio invece è davvero tutto e ci ritroviamo domenica prossima con l’ultimo appuntamento dell’anno per vedere se il Santa Rally ci sarà stato davvero o se l’avrò tirata anche quest’anno sempre qui naturalmente con The Bull il tuo podcast di finanza personale.
Bentornati a The Bull — il tuo podcast di finanza personale
Buon Natale care amiche e cari amici di The Bull.
Il calendario ha voluto che l’episodio odierno di questo podcast uscisse il 25 dicembre e non sia mai che manchi il mio religioso appuntamento bisettimanale con tutti voi, a maggior ragione oggi che magari sentirete il podcast prima di recarvi al consueto pranzo con i parenti e vi mancassero argomenti di conversazione.
Episodio leggero oggi.
Le borse sono chiuse in tutto il mondo, dopo il tracollo del 18 dicembre è tornata un po’ di calma, vedremo se il mercato si sta preparando al Santa Rally o se sia la famigerata calma prima di una bella tempesta.
Godiamoci il presente però, per il futuro ci sarà tempo.
Oggi episodio universale dedicato a 7 imperiture verità sull’investimento, 7 come i peccati capitali 7 come le virtù, così che se dovesse saltar fuori qualche lontano zio sedicente esperto di finanza e mercati lo mettete a cuccia in quattro e quattr’otto.
Se invece in tutta la famiglia ascoltate The Bull, niente, però so che ci sono tante persone che come me e mia moglie condividono questa tradizione super nerd di riguardarsi tutti gli otto film di Harry Potter, magari potete fare la gara con i vostri parenti a chi trova più plagi del Signore degli Anelli oppure provare a venire a capo di alcune contraddizioni tipo: “me se i buoni non usano l’Avada Kedavra perché non è etico com’è è questi possono fare incantesimi che uccidono comunque i nemici?”.
Cioè è solo un altro incantesimo con un altro nome.
Non ho capito Avada Kedavra è cattivo, mentre quando la signora Wingsley sbriciola Bellatrix allora tutto ok?
Così come non mi è mai stato chiaro perché quando Silente spiega ad Harry che Voldemort gli entra nella testa, affida al professor Piton, a cui Harry Potter sta sul culo sopra ogni cosa, il vitale compito di insegnargli l’occlumanzia, cioè la tecnica per impedire a Voldemort di friggergli il cervello.
Ah l’occlumanzia.
Certo che J.K. Rowling aveva avuto una bella pensata.
Adesso come la spiegho l’occlumanzia a chi non ha visto o letto Harry Potter?
In pratica, è come se la testa di Harry Potter fosse il vostro pc o il vostro smartphone che mentre si trova in posti esotici tipo Hogwarts va su internet e viene invaso di virus, malware, mail di phising e ogni genere di robaccia per corromperlo.
Quello che Piton prova a spiegare a Harry con scarso successo è in pratica come sviluppare una VPN magica per tenere Voldemort alla larga.
Una specie di NordVPN che anche a Natale è sponsor di questo podcast e che vi aiuta a tenere al riparo i vostri device da virus e da incantesimi di oscuri maghi quasi uccisi quando eravate neonati.
Tra l’altro, se adesso con le vacanze di Natale vi capitasse di prendere un treno magico al binario 9 e ¾, non so quanto sia sicuro il wifi a bordo.
Come un expecto patronus, NordVPN proteggerà voi, i vostri nuovi cellulari trovati sotto l’albero e la vostra navigazione, senza perdere velocità di connessione e tenendovi al riparo da siti fraudolenti, pubblicità sgradita e dissennatori di Azkaban.
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E con questa si conclude ufficialmente la sponsorizzazione più nerd di tutta la storia di questo podcast.
Torniamo alla prima ipotesi, quella in cui a tavola non parlate di Harry Potter ma delle 10 immutabili verità sugli investimenti.
VERITA’ NUMERO UNO: la maggior parte delle azioni fa schifo.
In che senso direte?
Nel senso che investire nella stragrande maggioranza delle azioni produce nella migliore delle ipotesi una miseria di rendimento, che investire in strumenti monetari o obbligazioni a breve termine sarebbe stato meglio.
E questa è la migliore delle ipotesi.
La peggiore delle ipotesi è che investire in azioni non produca “excess return”, ossia non generi un rendimento superiore a quello che sarebbe stato il rendimento risk-free.
In pratica se uno investe in azioni ha il 98% di probabilità di assumersi molto più rischio che investire in un titolo di Stato a breve e di portarsi pure a casa meno rendimento.
Penserete forse che mi sia ammattito, ma questa è una pura e semplice verità che abbiamo già espresso più volte nel corso del podcast, anche se l’avevamo sempre girata in un altro modo.
Colui che più di ogni altro ha messo in chiaro questa cosa è stato Hendrik Bessembinder.
Lo avevamo citato in passato per il suo paper del 2018 sulle azioni americane dal titolo “Do Stocks Outperform Bonds?”, che aveva chiarito come un misero 4% delle oltre 28.000 azioni presenti nel CRSP Database dell’Università di Chicago, quindi praticamente il 4% della stragrande maggioranza di tutte le azioni mai quotate nella storia degli Stati Uniti, fosse responsabile del 100% del rendimento in eccesso del mercato azionario oltre i treasury bills.
Nel marzo 2023 Bessembinder ha pubblicato un nuovo studio in cui ha preso in esame la performance di oltre 64.000 azioni questa volta a livello globale, nel periodo 1990 — 2020.
I risultati di questo paper sono allucinanti.
– UNO: il 55% delle azioni americane e il 57% di quelle internazionali extra Stati Uniti ha reso meno dei Treasury Bills lungo quei 30 anni;
– DUE: appena 5 società (Apple, Microsoft, Amazon, Alphabet e Tencent) sono hanno creato da sole il 10% di tutta la ricchezza generata dal mercato azionario in quel trentennio. Questa ricchezza complessiva ammonta a quasi 76 trilioni di dollari (30 volte il pil italiano per intenderci). Di questi 76 trilioni, metà sono stati creati dallo 0,25% delle società più performanti, mentre solo il 2,39% è responsabile dell’intera creazione di ricchezza netta a livello globale. Il 2,39%. Poco più di 2 azioni su 100 sono buone. Le altre 98 nella migliore delle ipotesi sono “mehhh”.
E se togliamo il mercato americano e guardiamo solo al mercato globale ex US, appena l’1,4% delle società è responsabile del 100% del ritorno azionario.
– TRE: se ancora ce ne fosse bisogno, questo paper sancisce in maniera quantitativa la disarmante asimmetria positiva dei rendimenti azionari.
Cosa significa asimmetria positiva, positive skewness?
Significa che il rendimento “mediano” delle singole azioni è nettamente inferiore al rendimento “medio”.
Ricordo che “mediano” significa: prendo il rendimento di tutte le azioni, li ordino dal peggiore al migliore, il valore centrale è quello mediano.
Media vuol dire il sommo e divido per il numero di azioni.
Se la media è maggiore della mediana, come avevamo già detto in passato, vuol dire che pochissime azioni contribuiscono alla stragrande maggioranze del risultato complessivo dell’investimento azionario.
Conclusione di Bessembinder: a meno che tu sia dotato di un’oggettiva e rara capacità di identificare in anticipo i “few winners”, la tua migliore chance è di investire in tutto il mercato.
Per quanto ovvio e sensato possa sembrare investire in certe società, per quanto sembri un goal a porta vuota puntare su realtà too big too fail o altre scemenze del genere, l’investimento azionario è estremamente controintuitivo: nel suo complesso ha rendimento atteso in eccesso rispetto ai titoli di Stato positivo (e finora molto positivo), mentre il rendimento atteso dall’investimento nell’azione media va da zero a negativo.
Ricordatelo allo zio fenomeno che vi spiegherà in quali azioni ha investito e perché.
VERITA’ NUMERO DUE: in media, le cose medie non accadono mai.
Cosa voglio dire?
Voglio dire che passiamo tutto il tempo a parlare di rendimento medio, volatilità media, durata e profondità media dei drawdown e così via.
Ma la media, beh, quella è molto rara che si presenti.
Per esempio, l’S&P 500 ha un rendimento medio annuo aritmetico dell’11%.
Sapete in quanti anni, dal 1926 ad oggi, ha prodotto davvero un rendimento compreso tra il 10 e il 12%?
Solo 6 volte.
E sapete quante volte è cresciuto in un anno più del 20%?
Ben 36 volte.
E quante volte invece ha avuto un anno negativo?
26 volte.
Altre 15 volte è cresciuto meno del 10%.
E sempre 15 volte è cresciuto tra il 12 e il 20%.
In totale fanno 72 anni positivi e 26 negativi.
Nel complesso c’è di che essere ottimisti chiaro, ma la media è il grande assente di tutto questo conteggio.
Investire significa mettere in conto che a periodi di grande crescita del nostro portafoglio si accompagneranno periodi nettamente più complicati — e ciò è tanto più vero quanto più la componente azionaria del portafoglio è rilevante.
Questa cosa non è importante solo dal punto di vista statistico.
È importante dal punto di vista della pianificazione finanziaria di ciascuno.
E il messaggio è: mai fare affidamento al rendimento “medio” del nostro portafoglio.
Nel lungo termine sarà anche realistico, ma durante il percorso gli estremi saranno più frequenti che non i valori medi e sarà quindi più facile vivere anni in cui il portafoglio cresce del 15-20% o crolla del 10, 20, 30 anche 40%.
Raramente faremo il 6-7% all’anno giusto giusto.
Bisogna quindi puntare al massimo assumendoci tutto il rischio che ragionevolmente ci possiamo permettere.
Ma anche prepararsi al peggio considerando soprattutto se possiamo sopportare gli scenari negativi.
Gli scenari medi sono buoni solo per i backtest.
VERITA’ NUMERO TRE: la finanza non è l’economia.
Daniel Kahneman, premio nobel per l’economia e grande padre dell’economia comportamentale, forse il Nobel più citato di questo podcast dopo il mio premio Nobel preferito Eugene Fama — e qualunque riferimento a fatti realmente accaduti è naturalmente del tutto casuale — dicevo Danny Kahneman dimostrò un sacco di cose sui meccanismi in base ai quali il nostro cervello prende decisioni.
Uno dei più potenti è quello dell’ancoraggio, anchoring in Inglese.
L’anchoring è quell’euristica, quella scorciatoia mentale che noi utilizziamo senza rendercene conto per prendere decisioni in assenza di informazioni rilevanti.
Se si abituato al fatto che un iPhone appena uscito costi più di 1.000 € ti sembrerà un affare comprarlo a 950 €.
In tutt’altro contesto invece mai ti sogneresti di pagare quasi 1.000 € per uno smartphone.
Così come inserire alcuni piatti o alcune bottiglie di vino esageratamente costose nel menu di un ristorante fanno sembrare gli altri più economici, anche se questi hanno magari un prezzo oggettivamente elevato.
In assenza di una competenza specifica, noi ci attacchiamo alle informazioni che abbiamo a disposizione per formulare la nostra valutazione e prendere la nostra decisione.
Ma Kahneman ha dimostrato che il nostro cervello si fa condizionare anche da dati che non c’entrano nulla con il contesto della nostra decisione.
Ho citato spesso l’esperimento in cui chiese agli intervistati di scrivere su un foglio le ultime due cifre del proprio codice fiscale e poi di stimare il numero di stati africani membri dell’Onu e le stime erano tanto più alte o più basse a seconda di quando alto o basso fosse il numero a due cifre scritto per primo.
Sembra assurdo, ma il nostro cervello funziona così.
E in finanza questa cosa non è dà meno.
Ci sono stati numerosi decenni in cui sembrava che l’andamento dell’S&P 500 fosse legato alla produzione di burro in Bangladesh.
Ma senza arrivare a quest’evidente assurdità, chi deve fare stime in finanza non può fare altro che attaccarsi alla cosa che gli sembra più vicina per fornire dati affidabili su cu cui fondare le proprie previsioni: l’economia.
Il problema vero però è che nonostante finanza ed economia ad un certo punto debbano convergere, i dati economici sono quasi del tutto inutili per formulare delle stime sul futuro più attendibili di un lancio di una moneta.
Direi che ci sono almeno quattro motivi principali, o almeno due me ne vengono in mente.
– Il PRIMO è che la finanza è forward looking, mentre l’economia è backward looking. Cosa significa? Significa che i mercati cercano di esprimere attraverso i prezzi delle aspettative sul futuro. L’economia invece registra dati di cose accadute nel passato.
Pensate ai dati macroeconomici più importanti di cui parliamo sempre:
– L’inflazione del mese passato rispetto allo stesso mese dell’anno prima;
– Il numero di posti di lavoro creati il mese scorso;
– Il PIL dello scorso trimestre
– E così via…
Si cerca di estrapolare il futuro a partire da dati del passato, ma benché quei dati abbiano certamente un valore importante per la comprensione dello scenario economico in cui anche la finanza si muove, non sono alla fine di nessuna reale utilità per prendere decisioni finanziariamente corrette.
– Il SECONDO motivo è che, almeno nel breve medio termine, c’è una certa disconnessione tra economia e finanza:
– Pensiamo ad anni come il 2009 o il 2020, in cui l’economia reale ha subito delle batoste mostruose per la grande crisi finanziaria prima e per il covid dopo. Ciononostante, sono stati anni molto positivi per i mercati perché avevano iniziato a scontare una ripresa futura.
– Oppure pensiamo al fatto che alcune notizie apparentemente positive, come un calo della disoccupazione o un aumento dei salari potrebbero avere conseguenze negative sui mercati per i timori di una recrudescenza futura dell’inflazione.
– Pensiamo infine alla distribuzione disomogenea soprattutto dei rendimenti azionari. Come dicevamo per la verità numero 1, poche grandi società sono responsabili del grosso dei rendimenti. Le dieci società più grandi pesano per oltre il 30% dell’S&P 500. E ancora di più pesano le 10 società più grandi di tutti gli altri grandi indici nazionali. In Francia, Germania e Regno Unito le prime 10 pesano per oltre il 50%. In Italia per oltre il 70%. La finanzia racconta uno spaccato di realtà estremamente parziale rispetto al contesto economico generale.
– Il TERZO motivo è, se vogliamo, matematico: l’economia si basa sulle somme, cioè deve sommare tutti gli elementi per fotografare la realtà nel suo complesso. Il numero di occupati, il PIL, la produzione industriale e così via. La finanza invece si basa sulle differenze. Un’economia povera in crescita si riflette di solito in un mercato azionario positivo. Un’economia forte stabile tende invece a non essere particolarmente apprezzata dai mercati.
– Il QUARTO motivo è che la stragrande maggioranza degli investitori investe seguendo indici. L’S&P 500, l’MSCI World, lo Stoxx 600, il FTSE 100 e così via.
Per esempio per essere nell’S&P 500 sono richiesti determinati requisiti di capitalizzazione e avere almeno 4 trimestri in profitto. Per essere nell’S&P 500 devi essere profittevole, eo ipso certe società che pur appartengono all’economia, possono però sparire dai radar della finanza perché appunto l’universo realmente investibile è in realtà un sottoinsieme molto specifico dell’economia reale.
Il takeaway qui è: non utilizzare mai le informazioni che arrivano dall’economia per prendere decisioni per il nostro portafoglio.
In primis perché siamo già in ritardo, i prezzi incorporano ogni nuova informazione in tempo reale.
In secondo luogo, perché l’economia non fornisce informazioni utili per investire meglio.
In assenza di altre informazioni, ci attacchiamo a quello che abbiamo per giustificare le nostre decisioni.
Ma non è detto che sia una buona idea.
VERITA’ NUMERO QUATTRO: nel breve vale tutto, ma nel lungo termine sono i profitti ciò che determinano il rendimento a lungo termine di un’azione.
Nel breve questa correlazione non è evidente.
Per nulla se si prendono gli utili per azione degli ultimi 12 mesi ed è solo leggermente superiore prendendo quelli dei 12 mesi successivi.
Ma in aggregato e nel lungo termine, la crescita del mercato azionario ha una correlazione vicina ad 1 con la crescita degli utili per azione.
In un mercato perfettamente razionale i prezzi delle azioni esprimono i “discounted future cash flows”, cioè i flussi di cassi futuri attualizzati da un tasso di sconto, assumendo che tutti gli utili vengano distribuiti come dividendi, buyback o reinvestiti per generare indirettamente valore per gli azionisti.
Nel breve però succede di tutto — e sono soprattutto le aspettative e l’umore generale del mercato a muovere i prezzi.
Ricordiamo che il rendimento del mercato azionario è una funzione di tre variabili, che sono:
– I dividendi distribuiti
– La variazione degli utili per azione e infine
– La variazione del rapporto tra prezzi e utili.
Mentre i primi due hanno a che fare con gli utili generati, il terzo ha a che fare con l’aspettativa di crescita degli utili futuri.
Negli ultimi 40 anni abbiamo assistito, almeno negli Stati Uniti, ad una crescita significativa di questo terzo elemento, infatti come diciamo spesso i prezzi attuali delle azioni americane sono in media molto più alti della media storica.
Oggi l’S&P 500 in media ha un prezzo di quasi 23 volte gli utili attesi per i prossimi 12 mesi.
Storicamente questo valore era più nell’ordine di 16-17.
In parte questa cosa si può spiegare con la lunga discesa dei tassi di interesse dagli anni 80 ad oggi. Tassi in discesa significa che il mercato applicherà un tasso di sconto inferiore quando prezza le azioni, quindi a parità di utili, se uso un tasso di sconto più basso il prezzo aumenta.
Spieghiamo bene questa cosa.
Io sono un investitore che deve decidere, tanto per cambiare, se allocare il suo capitale in titoli di stato a breve termine senza rischio oppure in azioni.
Chiaramente non esistono investimenti senza rischio in assoluto, ma per convenzione sappiamo che il rendimento dei Treasury Bills a breve scadenza sono considerati il risk-free-rate, mentre in Europa qualcosa di simile è espresso dall’Euro Short-term-rate o dall’Euribor.
Quindi io investitore mi chiedo: a parità di rendimento con un titolo di Stato a breve investirei in azioni?
Ovviamente no, perché se sono sano di mente non voglio assumermi un rischio maggiore per avere lo stesso risultato no?
Per investire in azioni mi aspetto un rendimento superiore al risk-free-rate, che è quello che solitamente viene chiamato premio al rischio, equity risk premium, ossia il rendimento supplementare che io investitore richiedo per assumermi più rischio.
Stesso discorso si potrebbe fare con le obbligazioni a lunga scadenza, le obbligazioni corporate, le obbligazioni high-yield e così via, che hanno tutte uno spread, ossia un differenziale di rendimento teoricamente superiore perché devono compensare il maggior rischio dell’investitore.
Restiamo sulle azioni però.
Dicevamo, io investo in azioni solo in cambio di un rendimento superiore a quello dei titoli di stato a breve.
La teoria finanziaria classica cosa dice.
Dice prendi i flussi di cassa che ti aspetti di ottenere nel futuro investendo in una certa società — sotto l’ipotesi che tutti gli utili siano distribuiti ad un certo punto — e “scontali”, cioè attualizzali al valore presente usando un tasso di sconto che sarà più alto del tasso risk-free, perché sarà invece:
– Tasso risk free +
– Premio al rischio.
Ammettiamo che l’investitore richieda almeno 5 punti percentuali di rendimento in più per compensare il rischio dell’investimento azionario, allora il suo tasso di sconto sarà il tasso risk free più 5.
Ora, cosa è successo dal 1981 al 2021.
Lungo questi 40 anni esatti i tassi di interesse sono scesi dal picco di oltre 19% a zero.
Non è stato un processo lineare, ogni tanto sono andati su e già, ma la traiettoria di lungo termine è stata questa.
Se per 40 anni abbiamo avuto tassi progressivamente discendenti chiaramente l’investitore avrà applicato un tasso di sconto gradualmente inferiore, perché il tasso risk-free è andato via via a scendere.
La formula del valore presente è una divisione: si prendono i flussi di cassa attesi e si dividono per il tasso di sconto.
Siccome il tasso di sconto è al denominatore, minore è il suo valore, maggiore sarà il valore presente dell’azione e quindi maggiore tenderà ad essere il suo prezzo.
Esempio: se stimo utili per azione di 5 dollari e uso un tasso di sconto del 10% il suo valore presente sarà 50, cioè 5 diviso 0,1. Se invece uso un tasso di sconto dell’8%, 5 diviso 0,08 fa 62,5 dollari.
Tassi discendenti hanno via via favorito la crescita delle valutazioni azionarie ed è per questo che oggi siamo arrivati a prezzi così elevati.
Non sappiamo se il fatto che siano elevati sia giusto o sbagliato.
È solo un numero.
Un tempo il mercato azionario era dominato da realtà industriali.
Oggi è dominato da realtà tech, che per definizione hanno tassi di crescita superiori e profittabilità superiori.
Non significa necessariamente essere in una bolla per il fatto che le valutazioni siano elevate, finché perlomeno la crescita degli utili sostiene queste valutazioni.
Tornando al discorso da cui siamo partiti, i ritorni azionari sono determinati in parte dagli utili e in parte dalle aspettative sugli utili futuri.
Benché la correlazione nel breve termine non sia evidente, nel lungo termine le due cose devono andare a braccetto, altrimenti se l’aspettativa sugli utili futuri venisse disattesa, automaticamente i prezzi scenderebbero per riallineare le aspettative degli investitori.
VERITA’ NUMERO CINQUE: ci sono cose che possiamo controllare e cose che non possiamo controllare quando investiamo. Per qualche motivo ci concentriamo solo su quelle che NON possiamo controllare.
Quali sono le cose che non possiamo controllare e che ciononostante attraggono tutta la nostra attenzione e le nostre ansie:
– i rendimenti del mercato;
– l’andamento futuro dell’inflazione;
– gli shock geopolitici;
– il livello dei tassi di interesse;
– quello che la gente scrive sui social media a proposito di questo o quell’investimento.
Vi torna?
I vostri pensieri e le vostre preoccupazioni non sono spesso assorbiti da queste cose?
– E se il mercato crolla?
– E se risale l’inflazione?
– E se i tassi vengono nuovamente alzati?
– E se la Cina invade Taiwan?
– E se quello su LinkedIn ha postato un grafico che dimostra CHIARAMENTE che è meglio vendere tutto?
E sticazzi credo sia la risposta migliore a queste domande.
Possiamo farci qualcosa?
A meno che voi non siate il capo di una banca centrale o il dittatore di qualche paese bellicoso, dubito che possiate fare granché.
Quali sono invece le cose che si possono controllare?
– L’allineamento tra la nostra asset allocation e i nostri obiettivi di vita;
– La nostra tolleranza al rischio;
– L’orizzonte temporale dei nostri investimenti;
– Il nostro tasso di risparmio (e di questo riparliamo nella verità successiva)
– E infine le nostre emozioni, più o meno.
Queste cose nel lungo termine conteranno immensamente di più sul bilancio finale del nostro portafoglio di quanto possano contare le decisioni della Fed l’anno prossimo o i prossimi report trimestrali di Nvidia.
Se l’asset allocation è allineata ai nostri obiettivi e alla nostra tolleranza al rischio, conta il giusto ciò che il mercato farà ogni anno.
Se i nostri sforzi si concentrano di più sul nostro risparmio che non sulla microottimizzazione del portafoglio, il risultato finale sarà nettamente migliore.
Se impostiamo il nostro processo e non ci facciamo condizionare dalle nostre emozioni e dal fiume di informazioni più o meno utili che inondano i nostri feed, sarà più probabile mantenere la rotta, non disinvestire nei momenti sbagliati, non sovrainvestire quando ci sembra di aver capito la ricetta della felicità e in generale a fare tutte le cose giuste per la salute del nostro portafoglio.
Il takeaway qui è: le cose che non possiamo controllare non è che non siano importanti. Ma se non le possiamo controllare, facciamo che occupino poco spazio nei nostri pensieri e usiamo il 90% delle nostre energie per gestire al meglio le cose su cui possiamo davvero avere un impatto significativo.
VERITA’ NUMERO SEI: Il risparmio è più importante dell’investimento.
Questo è forse il concetto a cui sono più affezionato.
È vero, non ne parlo così spesso.
Parlare di portafogli, numeri e finanza dura e pura mi piace di più.
Datemi un paper pieno di dati e sono felice come un bambino a Natale che scarta la sua PS5 nuova.
Ma alla fin della fiera, possiamo stare qui a raccontarcela fino alla fine dei nostri giorni, possiamo disquisire se sia meglio fare all in sulle azioni, se sia meglio il golden butterfly, se sia meglio tiltare su value e small caps o quel che vi pare. Tutto questo inciderà, certo, ma non come riuscire ad organizzare la propria vita e la propria professione per raddoppiare il risparmio che riusciamo ad investire.
Un esempio a caso:
– 500 € al mese investiti nell’MSCI World negli ultimi 30 anni varrebbe oggi quasi 800.000 €;
– Per ottenere lo stesso risultato con un portafoglio 60% MSCI World e 40% obbligazioni governative globali sarebbero bastati 725 €.
– Idem se avessimo investito in una versione semplificata del golden Butterfly, quindi 40% MSCI World, 40% titoli di stato globali e 20% di oro.
Possiamo generalizzare in questo modo.
Se prendo il solito orizzonte di trent’anni, il risultato di un portafoglio molto aggressivo che, con tutti i rischi del caso, dovesse rendere in media l’8% all’anno può essere pareggiato da un portafoglio più conservativo che rende il 5% solo raddoppiando l’investimento mensile. Anzi un po’ meno.
Se investo 500 € al mese in un portafoglio che rende il 5% all’anno, ottengo lo stesso risultato dopo trent’anni che investendo 265 € al mese in un portafoglio che rende l’8%.
Dopo 171 episodi credo che vi sarà perfettamente chiaro che impostare guadagnare 3 punti percentuali di rendimento ogni anno per trent’anni sia un’impresa titanica se paragonata allo sforzo che serve per passare da un pac da 265€ al mese ad uno da 500 €.
A volte ci spacchiamo la testa cercando di capire:
– Ma sarà meglio ridurre l’esposizione agli Stati Uniti? O forse è meglio aumentarla?
– E gli emergenti? Sarà arrivato il loro momento?
– E forse ore è meglio allungare la duration dei bond? No aspetta forse è meglio accorciarla perché l’inflazione risale…
Insomma, chi lo sa.
È chiaro che se di lavoro faceste i gestori di un fondo d’investimento, non è che potete andare dai clienti a dirgli: “guarda, stiamo facendo cagare rispetto al benchmark, però caro cliente basta che raddoppi il tuo investimento mensile e praticamente non ti accorgi della differenza”.
Eh… quello ti manda a quel paese il secondo dopo.
Ma fortunatamente la stragrande maggioranza di chi mi ascolta di lavoro non fa l’asset manager (qualcuno invece sì, vi saluto e abbraccio), ecco dicevo, dato che per quel che ci riguarda nessuno viene a chiederci di rendere conto né del rendimento assoluto del portafoglio, né dello sharpe ratio né di chissà cos’altro, nel dubbio fate così:
– Scegliete un asset allocation adatta al vostro profilo di investitori
– Investite tutto quello che potete al netto delle solite cose, fondo di emergenza, spese prevedibili, ecc. e
– Fate di tutto per incrementare il risparmio che potete destinare all’investimento ogni mese, idealmente aumentando il reddito E riducendo le spese.
VERITA’ NUMERO SETTE: nel lungo termine, sono i Tori a vincere.
Il 18 ottobre del 2008 l’S&P 500 era sotto di oltre il 30% rispetto al picco di un anno prima.
Lehman Brothers era fallita da un mese.
Il settore immobiliare americano era al collasso.
L’economia globale stava sprofondando nell’ora più buia della sua storia post-bellica.
Milioni di disoccupati.
Imprese e negozi chiusi per sempre.
Banche piene zeppe di titoli tossici nei bilanci, che era quasi impossibile distinguere i sani dai malati.
Ero molto giovane allora, avevo appena 22 anni e zero soldi investiti.
Ma in quel momento la finanza mi rapì.
Mi terrorizzò e affascinò al tempo stesso.
Mentre il mondo intero era avvolto nel panico, il 18 Ottobre uscì un editoriale sul New York Times dal titolo: Buy American. I am.
Investite nell’america, io lo sto facendo.
L’autore di quell’editoriale era naturalmente sua maestà: Warren Buffet.
La chiamata di Warren Buffet fu semplicemente spettacolare.
Investì massicciamente nell’ottobre del 2008, a fine febbraio dell’anno successivo il mercato toccò il fondo e poi da lì iniziò una corsa che non è ancora terminata, oltre 15 anni dopo.
Scriveva Buffet: nel ventesimo secolo gli Stati Uniti hanno combattuto in due guerre mondiali e hanno dovuto sopportare altri costosi e traumatici conflitti militari; la Grande Depressione; una dozzina di recessioni e crisi finanziarie; shock petroliferi; un’epidemia di influenza; e le dimissioni di un presidente caduto in disgrazia. Ciononostante, il Dow Jones è cresciuto da 66 punti a 11.497.
Per la cronaca, mentre sto registrando il Dow Jones è a quasi 43.000 punti.
Nessuno meglio di Warren Buffet sa che nel lungo termine l’investimento azionario è imbattuto e forse imbattibile.
Questo fa di lui forse il più celebre Permabull, come vengono chiamati coloro che hanno quasi sempre un’opinione fondamentalmente positiva sul buon esito dell’investimento in azioni.
Come lui, altri noti permabull sono Jeremy Siegel, l’autore di Stock for the long run, il mio libro preferito per distanza sul mondo azionario, Ed Yardeni, che ogni tanto citiamo, nonché fondamentalmente i due Nick e i due Ben che da sempre sono i miei riferimenti preferiti di questo podcast: Nick Maggiulli, Nick Protasoni, Ben Carlson e Ben Felix.
Come dicevamo la volta scorsa però, se vuoi sembrare intelligente, fai il permabear.
Fai come Jeremy Grantham, che da dieci anni scommette sulle azioni deep value e sconsiglia di investire nelle large tech growth americane, o come John Hussman, un altro leggendario market guru, che ancora mi chiedo quante minchiate deve dire uno perché perda lo status di market guru, che rimarrà per sempre nella storia per aver predetto nell’estate del 2013 che il mercato avrebbe perso dal 40 al 50%.
Dal 40 al 50%!
Nell’agosto del 2013.
Mancato di poco.
Da allora l’S&P è cresciuto di oltre il 450%.
La straordinaria previsione del market guru John Hussman avrebbe semplicemente mancato uno dei più grandi bull market di tutti i tempi.
È sexy mostrarsi come il genio che ha previsto il prossimo crollo del mercato.
Basta imbroccarla una volta per entrare nel mito.
Michael Burry fondamentalmente ha indovinato solo la crisi del 2008. Solo tra molte virgolette naturalmente.
Però da allora ha chiamato un’altra dozzina di crisi che non sono più arrivate.
Ma sarà per sempre ricordato come quello che ha previsto la crisi del 2008, non come quello che ha sbagliato altre 12 previsioni.
Per via di questa iniquità, c’è probabilmente un forte incentivo implicito, soprattutto sui media, a prospettare minacce più o meno fondate.
Se chiami la crisi e questa non avviene sarai chiamato prudente.
Se non chiami la crisi e questa arriva sarai condannato per sempre.
I Permabear sono i market guru, i geni che vedono cose che i comuni mortali non vedono.
I Permabull sembrano invece degli ingenui, incoscienti dei rischi e incapace di comprendere che “questa volta è diverso”.
Se vuoi sembrare smart sii un permabear.
Ma se vuoi fare i soldi, probabilmente ti conviene sembrare un ingenuo permabull.
Uno tra i più scemi e ingenui permabull di questa terra è colui che vi sta parlando.
Ora, questo non vuol dire che investire in azioni sia sicuro e che sia una macchina per stampare i soldi.
Come diciamo sempre, un rendimento supplementare c’è perché c’è sempre anche un rischio.
E non bisogna mai dimenticarsi di questa cosa.
Ma al netto di questo — e al netto di tutto quello che diciamo sempre sulla gestione del rischio, sull’allineamento tra asset allocation e obiettivi e sulla pianificazione consapevole delle proprie finanze — scommettere sul fatto che le cose nel lungo termine andranno bene è la migliore opzione che abbiamo.
Il 2 dicembre si è spento Art Cashin, una vera leggenda di Wall Street, Director of Floor Operations per UBS e volto molto noto alla CNBC e Bloomberg.
Art Cashin è passato alla storia, tra le varie cose, per la sagacia delle sue interpretazioni sui mercati.
Una delle sue uscite più memorabili è stata questa, nell’ottobre del 2009, commentando il recente rally iniziato a marzo dalle ceneri della Great Financial Crisis.
“Never bet on the end of the world, because that only happens once”.
Non scommettere sulla fine del mondo, perché quella succede una volta sola.
Più o meno questo era stato tutto ciò di cui aveva bisogno per decidere nel marzo del 2009 di essere bullish, così come Warren Buffet e come Howard Marks, che, come avevamo raccontato qualche settimana, fa fece un pozzo di soldi comprando aggressivamente nel 2009 sapendo che le alternative erano solo due: fare un grande colpo o la fine del capitalismo.
Durante la crisi dei missili sovietici a Cuba pare che avesse detto ad uno dei suoi, in panico e senza altro in testa se non liquidare tutte le posizioni: “ragazzo sta calmo. Se tu hai sentito che potrebbero partire dei missili nucleari da Cuba agli Stati Uniti tu compri, non vendi. Perché se non succede niente facciamo i soldi. Se invece hai ragione e i missili arrivano, non importa comunque, perché saremo tutti morti”.
Ai permabear piace scommettere 4 o 5 volte all’anno sulla fine del mondo.
Per definizione, i permabull ci prenderanno sempre più spesso, perché la fine del mondo può arrivare al massimo una volta.
Mentre da cent’anni, i mercati alla fine si sono dimostrati una formidabile fonte di ricchezza.
Non so ovviamente cosa succederà nel 2025, nel 2026 e così via.
Ma tra bolle e crisi, la mia scommessa è che nel lungo termine gli stolti e ingenui permabull, avranno ragione ancora una volta.
Che altro dire care amiche e cari amici di questo podcast.
In questa giornata natalizia, o quando vorrete ascoltare quest’episodio, sentivo di voler fare un punto senza tempo su cosa significa investire.
Spero che quest’episodio vi abbia dato utili spunti per conversazioni in famiglia durante le feste, sennò come dicevo c’è sempre Harry Potter, e che in generale abbiano consolidato ancora una volta alcuni pilastri fondamentali per investire con buon senso.
Grazie di cuore per questo ennesimo momento assieme e per tutto l’entusiasmo che sta accompagnando questo podcast.
Anche a Natale vi invito a mettere segui e attivare le notifiche su Spotify, Apple Podcast o dove ci ascoltate e a lasciare una recensione a 5 stelle per supportarci e permetterci di continuare a produrre contenuti che supportano le vostre dispute natalizie a tra tassi di sconto e Ava Kedavra sempre nuovi.
Per questo episodio invece è davvero tutto e ci ritroviamo domenica prossima con l’ultimo appuntamento dell’anno per vedere se il Santa Rally ci sarà stato davvero o se l’avrò tirata anche quest’anno sempre qui naturalmente con The Bull il tuo podcast di finanza personale.
Recensioni
Quando capisci come funziona la finanza… ti viene voglia di raccontarla!
Veramente veramente raccomandato! la finanza personale riassunta alla perfezione! e spiegata partendo dall'ABC! Ottimo anche da ascoltare a velocita 1,5x!
Giorgia R., 23 Gen 2025Ho acquistato e letto il suo libro e l' ho trovato. Esprime i concetti economici in modo semplice e chiaro. Sentirlo parlare conferma che è un professionista del settore.
Giulia N., 11 Ago 2025Veramente interessante, chiaro e conciso. Cambia la vita finanziaria di chiunque.. da ascoltare assolutamente anche per chi di finanza non vuole occuparsi mai
Francesca B., 6 Apr 2024Non sono solito a mettere recensioni e specialmente non ascolto podcast, ma da quando ho iniziato questo, faccio fatica a staccarmi, e quasi non posso più fare a meno di ascoltare e arricchirmi culturalmente.
Andrea V., 22 Set 2025Dovrebbero ascoltarlo buona parte degli italiani e io avrei dovuto scoprirlo con qualche anno in anticipo ma meglio tardi che mai
Matteo C., 3 Set 2025Podcast che dà sempre spunti interessanti che personalmente mi ha fatto appassionare alla finanza personale spingendomi ad approfondire in prima persona.
Lorenzo, 13 Mar 2025Ho seguito tutte le puntate! Grazie veramente
Amalia A., 17 Set 2025Riccardo mi ha letteralmente cambiato la vita e fatto scoprire che amo la finanza, ho ascoltato il podcast già due volte e non mi stufo mai di ascoltarlo, parla in modo semplice e chiaro
Massimo D., 23 Set 2025Da quando l'ho scoperto in 15 gg mi sono ascoltato 150 puntate senza fermarmi, ho annullato gli altri podcast per portarmi alla pari ed ascoltare tutte le precedenti puntate, ben fatto, esattamente il livello di informazione che mi serviva
Gianluca G., 11 Set 2025