Buffett vende Apple e Investire in Opere d’Arte (con Alessia Zorloni)
Warren Buffett coglie tutti di sorpresa e dimezza la sua posizione in Apple e dopo la settimana al cardiopalma successiva al Black Monday del 05/08 parliamo di Arte e di come il collezionismo possa essere una forme di investimento con Alessia Zorloni, Prof. di Teorie del Mercato dell'arte allo IULM. (disclaimer: episodio registrato il 4 agosto 2024)

Risorse
Punti Chiave
Cause del crollo globale: dati occupazione USA, rialzo tassi BoJ e unwinding del Carry Trade.
Invito alla calma: importanza di un piano di lungo termine e asset allocation coerente al proprio rischio.
La volatilità è normale per le azioni ed è il prezzo da pagare per i rendimenti a lungo termine.
Trascrizione Episodio
Bentornati a The Bull — Il tuo podcast di finanza personale.
Eccalà! Finalmente è arrivato un giorno nerissimo sui mercati mondiali.
In confronto, il tonfo di venerdì 2 agosto è stata una carezza.
Il quasi -13% delle borsa di Tokyo che ci ha dato il buongiorno lunedì 5 agosto, probabilmente primo giorno di ferie di migliaia tra voi, è una di quelle cose che fa correre i brividi lungo la schiena.
Come da copione, prima l’Europa e poi gli Stati Uniti, sono crollati a picco con ribassi che un po’ ovunque sono girati tra il -2 e il -3%.
E poteva pure andare peggio, visto che il Nasdaq aveva aperta addirittura a -6% alle tre e mezza del pomeriggio.
Questo è un episodio d’emergenza.
Per oggi avevo già preparato e registrato un episodio con la professoressa Alessia Zorloni, che insegna Teorie del Mercato dell’Arte allo IULM, su come investire in opere d’arte.
Ma, come dire, il fiume di messaggi che mi avete mandato mi ha fatto capire che forse era il caso di dire due parole su quel che sta succedendo, così poi di arte e collezionismo parliamo magari con calma domenica.
Essendo un episodio di emergenza che sto scrivendo in fretta e furia, abbiate pazienza, verrà come verrà.
Allora spieghiamo intanto cosa è successo e perché è venuto giù tutto.
Il mix letale è stato la combinazione di due elementi principali: il primo è stato la pubblicazione di dati leggermente negativi sull’occupazione americana, con un numero di nuovi posti di lavoro creati a Luglio inferiore alle aspettative e un tasso di disoccupazione salito di uno 0,5% rispetto allo scorso trimestre, innescando la cosiddetta Sahm’s Rule, ossia la regola secondo la quale quando succede questa cosa in pratica è iniziata una recessione.
In realtà tutto ciò non è affatto scontato, però il mercato, che già era un po’ nervoso da un pezzo e che quando arriva il caldo di agosto sbarella, l’ha presa malissimo.
Si è cominciato a dire che la Fed avrebbe dovuto tagliare i tassi prima, che orami è tardi, la recessione è inevitabile e tutta la tarantella che ne consegue.
Morale: azioni giù — e particolare fragore hanno fatto le magnifiche sette — e obbligazioni su perché cominciano a scontare più tagli dei tassi di quanto previsto solo poche settimane fa.
Il secondo ingrediente del mix letale è stato il rialzo i 25 punti base, quindi 0,25%, dei tassi di interesse da parte della banca centrale del Giappone.
Come abbiamo spiegato nello scorso episodio, quest’avvio di politica monetaria restrittiva nel sol levante ha comportato un rafforzamento dello Yen, in particolare nei confronti del dollaro, e ciò ha avuto due conseguenze: la prima è che il mercato giapponese è crollato perché la sua esuberante crescita degli ultimi due anni è stata alimentata soprattutto dallo yen debole che ha favorito l’enorme export delle società giapponesi. Se invece lo yen si rafforza, di conseguenza le società che esportano fanno meno utili in valuta locale.
Chi ha un po’ di anni sulle spalle ricorderà che una prassi molto comune nell’Italia degli anni ’80 e ’90 era svalutare la Lira per favorire le nostre esportazioni. Pratica che nel breve funzionava, ma nel lungo ha comportato una serie di conseguenza negative, in particolare per un paese come il nostro che importa quasi il 100% delle sue materie prime energetiche.
Comunque sia, quando un paese è un grande esportatore è favorito da una valuta locale debole e viceversa.
Quindi, yen su, azioni giapponesi giù e giù come se non ci fosse un domani, perché appunto il Nikkei ha segnato la sua seconda peggior seduta dai tempi del black Monday del 1987 (che per questioni di fuso per loro era stato un Black Tuesday).
Finisse qui uno dice, va beh, Giappone va giù, ok è la terza o quarta più grande economia del mondo, però sarà un problema soprattutto loro, la borsa di Tokyo non ha la rilevanza sistemica di quella di New York.
Sì peccato che l’avidità finanziaria non ha limiti e soprattutto non manca in creatività.
Il rialzo dello Yen ha creato un effetto domino, le cui conseguenze sono ancora da misurare, legato alla pratica che avevamo spiegato la volta scorsa chiamata Carry Trade.
Carry Trade significa indebitarsi in una valuta debole e acquistare asset in valute di paesi che hanno alti tassi di interesse.
Molti investitori si sono quindi indebitati negli ultimi anni in yen per comprare asset in dollari e non solo titoli di stato, ma anche asset speculativi come le azioni delle società tech.
Se tu ti indebiti in yen, paghi interessi quasi nulli sul prestito, e investi in asset denominati in dollari, in pratica questa cosa è come una macchina che stampa soldi.
Quando finisce però la cuccagna?
Eh appunto quando inizia una divergenza nella politica monetaria dei due paesi: gli Stati Uniti dovrebbero tornare espansivi, mentre il Giappone ha iniziato a stringere alzando i tassi.
Morale: quando succede questa cosa, la banca che mi ha prestato gli yen vuole maggiori garanzie rispetto a prima e fa ciò che viene chiamata margin call, con la quale impone al debitore di comprare ulteriori yen per coprire le loro posizioni precedenti, cosa che a sua volta rafforza lo yen stesso, alimentando un circolo vizioso.
Proviamo a spiegarla un po’ alla buona usando le azioni di Nvidia come esempio.
Ammettiamo che ho un milione di dollari, che faccio? Compro Nvidia con i miei soldi come farebbe un banale investitore qualunque?
No! Vado a indebitarmi in Yen! E uso i miei soldi per farci altro.
Al suo apice qualche giorno fa con un milione di dollari ti prendevi 160 milioni di yen circa a prezzo stracciato, perché con i tassi a zero (o addirittura negativi) i prestiti sono molto economici.
Con i miei 160 milioni di yen mi prendo l’equivalente di un milione di dollari di azioni Nvidia che cresce come se non ci fosse un domani, metto queste azioni come collaterale a garanzia del prestito e con un pezzettino del mio gigantesco rendimento mi pago il costo del prestito.
Soldi gratis appunto.
Poi però la stupida Bank of Japan mi alza i tassi!
E lo Yen di colpo sbam!, da 160 dollari passa a circa 145.
Sorpresa sorpresa, a quel punto mi chiama la banca e mi dice arigato gosaimas, qui è la cordiale banca giapponese dove hai preso in prestito 160 milioni di yen.
Vorremmo informarla che il suo milione di dollari ora non copre più quei 160 milioni, ma solo 145. È quindi pregato di comprare altri 15 milioni di yen per coprire la sua posizione.
A quel punto cosa fa il furbo investitore che sperava di fare soldi gratis a vita con il carry trade? Deve liquidare una parte delle sue posizioni in titoli americani, e in particolare i titoli speculativi con cui nel frattempo sperava di arricchirsi indebitandosi a basso costo, per comprare ulteriori yen.
Morale: sell-off di titoli azionari che fa crollare le borse, rafforzamento dello yen che implica nuove margin call, che richiede nuovi sell-off azionari, che rafforza lo yen, che al mercato mio padre comprò…
Qualcuno di voi ricorderà che qualche mese fa il nostro buon Nicola Protasoni era venuto a spiegarci perché era fallito l’hedge fund dei premi nobel Long Term capital management.
Temi diversi, ma logica simile.
Quelli facevano soldi a palate usando una leva gigantesca per sfruttare il differenziale tra il costo di indebitamento in un asset liquido e il rendimento derivante dall’acquisto di un asset meno liquido.
Quando la Russia ha fatto default nel 1998 e altre valute dei paesi emergenti hanno avuto qualche problema non sono stati più in grado di chiudere le loro posizioni e per via dell’enorme leva che utilizzavano hanno creato un buco gigantesco scatenando il panico sui mercati.
Oggi non sta succedendo la stessa cosa e non sembra nemmeno che le proporzioni in gioco siano le stesse.
Però quando investi utilizzando il debito e la leva, prima o poi ti torna in quel posto anche per minime variazioni dello scenario di partenza.
Quelli di Long Term avevano stimato che una serie di eventi come quella che avrebbe portato al loro fallimento aveva una probabilità su 13 miliardi di capitare e va che sfiga alla fine è capitata solo 4 anni dopo che avevano aperto la società.
Capito?
È un attimo che succede un patatrac.
Aggiungici poi il generale unwind dei trade più popolari, ossia la chiusura generalizzata di numerosi posizioni che fino ad oggi avevano alimentato il mercato nella sua folle crescita, come Nvidia, appunto, che dai suoi massimi ha perso quasi il 30%, e la frittata è servita.
Ci si è messo pure zio Warren Buffet, quando sabato è stato reso noto che nel secondo trimestre ha liquidato metà della sua posizione in Apple, circa 80 miliardi di dollari, innescando in molti il pensiero che l’oracolo di Omaha avesse annusando una nuova mega crisi arrivare e si stia preparando a qualche nuovo colpo spettacolare portando la cassa di berkshire hathaway alla spaventosa cifra di oltre 270 miliardi di dollari.
Ne avevo parlato velocemente nell’episodio che doveva uscire oggi ma che a sto punto uscirà domenica, quindi qualche mia considerazione ve la lascio lì sennò ridico sempre le stesse cose che già sono logorroico di mio.
Torniamo a noi.
C’è da cagarsi sotto adesso?
Allora, in linea di principio no, MAI.
Ad un’unica condizione: che i nostri investimenti siano in linea con la nostra pianificazione.
Se abbiamo il fondo di emergenza, non abbiamo grosse spese in vista e la nostra asset allocation riflette la nostra propensione al rischio e la nostra situazione personale, allora tutto ok.
Ragazzi, sono 130 episodi che vi sto preparando a cose del genere. Vi ho detto in tutte le salse del mondo che investire in azioni comporta dei rischi e che questi rischi hanno la forma di queste sberle fotoniche che ci siamo tutti presi lunedì.
Tutto normale, il mercato va su piano piano per mesi e crolla giù in pochi giorni.
Fateci l’abitudine perché quel che è successo lunedì 5 agosto succederà, con intensità sicuramente maggiore, chissà quante altre volte.
Comunque, dicevamo, c’è da cagarsi addosso.
Al momento sembrerebbe che questa giornata di fragorose vendite sia simile, come forma e non come intensità, al più famoso black Monday del 1987, quando la borsa di NY perse in solo giorno oltre il 20%.
L’S&P ha perso il 3%, direi che siamo lontani anni luce.
Però dal punto di vista formale è una cosa simile.
Una grossa crisi tutta di colpo dovuta ad una concatenazione di eventi che hanno fatto conflagrare un generale eccesso di assunzioni di rischio e di overconfidence verso la crescita illimitata di un mercato forse un po’ gonfiato.
Non sembra che sia invece una cosa paragonabile a Long Term Capital Management né tanto meno a quel disastro epocale che è stata la grande crisi finanziaria del 2008.
Rispetto ad allora le banche si trovano in una situazione molto più stabile, con una situazione patrimoniale estremamente più sicura, mentre parte del rischio che allora avevano le banche ce l’hanno oggi società private senza la rilevanza sistemica di una banca come poteva essere stata Lehman Brothers.
Per ora, almeno, sembra una cosa circoscritta a fenomeni di mercato, non generalizzati all’economia reale.
Per ora…
Molti di voi mi hanno scritto chiedendomi “eh adesso? Cosa consigli di fare?”.
Premesso che io non consiglio mai niente di specifico a nessuno sennò finisco a guardare il mercato di viale papiniano dalle finestre a sbarre di San Vittore, ragazzi, che volete fare? Niente.
Scusate 130 episodi in cui parliamo di long term, pazienza, solo strategia e niente tattica, niente market timing, niente buy the dip e altre stronzate del genere e al primo barcollamento mi chiedete cosa fare?
Non bisogna fare niente.
Se avete avuto ripercussioni pesanti lunedì 5 è perché avete investito alla cazzo.
Se invece avete fatto le cose di cui parliamo sempre qui e il vostro portafoglio è allineato alla vostra pianificazione, allora non c’è niente da fare, perché la vostra pianificazione avrà già incluso anche il fatto che cose del genere possano accadere.
Chi mi segue da tanto sa che come consiglio di massima dico sempre di adattare il bilanciamento tra azioni e obbligazioni usando la formula 125 — età — tassi della fed per 5 per individuare la percentuale di azioni da avere in portafoglio e poi di adattarla in base alla pianificazione soggettiva e al proprio margine di sicurezza proiettando la componente obbligazionaria da qui ai prossimi 5-10 anni.
Esiste un altro metodo, che dovrebbe risalire ad Harry Browne, il padre del permanent portfolio, di cui non vi ho mai parlato perché non mi ha mai fatto impazzire, ma chi vuole impostare il proprio portafoglio in base esclusivamente ad un criterio psicologico può seguire la sua idea che consiste nell’avere in azioni una percentuale corrispondente alla perdita massima che si è disposti a tollerare moltiplicata per 2,5.
In pratica, se io al massimo posso sopportare che il mio portafoglio perda il 10% metterò il 25% in azioni.
Se invece sono disposto ad accettare una perdita massima del 30% metterò il 75% in azioni.
Oltre il 40% di perdita parliamo di un portafoglio 100% azionario naturalmente.
Può essere una comoda regola di massima.
Ciò che non mi è mai piaciuto di questa regola è che non considera né il proprio orizzonte temporale, né la situazione macroeconomica determinata dai tassi di interesse, che può avere un impatto significativo sulle scelte di natura obbligazionaria.
Comunque, se in questi giorni avete provato terrore e il terrore non vi piace più di tanto, potete fare doublecheck con il vostro portafoglio e assicurarvi di avere una quota azionaria coerente con il drawdown massimo che siete disposti ad accettare.
Non è una formula scientifica naturalmente, però sono assolutamente d’accordo su questo coefficiente di 2,5. Per esempio, un portafoglio metà azioni e metà obbligazioni, difficilmente potrà andare giù più di un 20%.
Ok.
Allora abbiamo detto che sto casino è successo per un mix di cose che per oggi sembrano soprattutto di natura finanziaria e che non è da escludere un po’ di overreaction rispetto ai dati sull’economia americana.
Fino a prova contraria a inizio luglio era stato pubblicato il dato sul pil del trimestre precedente e aveva disintegrato le previsioni, 2,8% contro 2,1, quindi non è che si va in recessione di punto in bianco.
Inoltre anche il discorso della disoccupazione in aumento potrebbe benissimo essere il prodromo di un grave deterioramento economico, ma allo stesso tempo potrebbe anche essersi trattato del risultato di una serie di contingenze, come ad esempio l’uragano Debby che potrebbe aver impedito ad alcune società nelle aree coinvolte di assumere personale.
Quindi, keep calm prima di gridare alla recessione imminente, che fino a ieri non sembrava neanche che ci fosse un soft landing in vista, ma addirittura che si riuscisse ad annientare l’inflazione senza nemmeno far smettere di crescere l’economia.
Un buon motivo per starsene tranquilli e non farsi prendere dalla smania di vendere tutto arriva invece da alcune statistiche tipiche di situazioni come queste.
Già in passato, sempre con l’aiuto di Nicola, avevamo parlato dell’indice VIX, che è l’indice che traccia la volatilità implicita dell’S&P 500.
La volatilità implicita, diversamente da quella storica che tiene conto di quanto in passato il mercato è stato ballerino, è una misura della volatilità futura per come viene percepita dal mercato in base all’andamento dei prezzi delle opzioni.
Un’opzione put, come sapete bene, è un contratto derivato che dà all’acquirente il diritto, ma non l’obbligo, di vendere un certo sottostante, in questo caso l’S&P 500, in un dato momento nel futuro ad un certo prezzo ed è una diffusissima forma di protezione che investitori istituzionali e hedge fund utilizzano per coprire le proprie posizioni lunghe.
Quando succedono cose come quelle accadute lunedì, il VIX schizza alle stelle perché molti più investitori corrono a comprare opzioni put per coprirsi.
Questa cosa però crea un effetto domino, perché se io compro un’opzione put sull’S&P 500, allora dall’altra parte serve un market maker, o una banca, o chi per loro che mi vende l’opzione e se io sono short la mia controparte sarà long. Questo però, nel momento in cui mi vende l’opzione, allo stesso tempo deve coprirsi a sua volta e per farlo dovrà vendere un valore corrispondente di quote dell’S&P 500.
Siccome negli ultimi mesi — e l’avevamo visto con Nicola — il VIX è stato eccezionalmente piatto rispetto alla media storica, anche per effetto di tutta una serie di nuovi strumenti di investimento come le opzioni a scadenza giornaliera o gli ETF che usano strategie con opzioni call coperte, una volta che lunedì si è innescata la bomba la volatilità è andata subito alle stelle, con gli investitori da una parte che si coprivano con opzioni put e dall’altra con chi glie le vendeva che a loro volta dovevano vendere S&P 500 per mantenere il proprio bilancio equilibrato.
Va beh se sta cosa non è chiara, fa niente.
Il punto da capire è che si sono alcuni meccanismi intrinseci al funzionamento dei mercati tali per cui quando ci sono situazioni eccezionali innescano degli effetti a catena che amplificano le conseguenze negative di quel che sta accadendo.
Quindi attenzione quando vedete che il mercato va giù perché tutti vendono.
Non significa necessariamente che tutti gli investitori del mondo tranne voi si sono convinti che sia tutto finito e che si debba vendere tutto.
A volte semplicemente ci sono dei fatti tecnici che portano a vendere delle posizioni per ragioni più contabili che non legati a qualche strategia di investimento.
Se tanti investitori erano scoperti sulle posizioni in carry trade, hanno dovuto vendere i loro collaterali per coprire le posizioni anche se probabilmente non volevano farlo.
Se tanti investitori sono corsi a coprirsi assumendo posizioni corte sul mercato, usando ad esempio le opzioni put, altrettanti market maker sono stati costretti a vendere l’S&P 500 per tenere il bilancio in equilibrio, non perché avessero improvvisamente deciso che l’S&P fosse da vendere.
Poi però si innesca il panic selling e va tutti dietro, ma anche per questo è importante non prendere MAI, MAI, MAI decisioni a seguito di brevi periodi di euforia positiva o di panico negativo.
Dicevo però che c’è una statistica incoraggiante.
L’87% delle volte che un investitore ha comprato, o tenuto se ce l’aveva già, l’S&P 500 in un giorno in cui il VIX ha chiuso ad un valore superiore a 30 (e lunedì ha chiuso oltre 40), entro 12 mesi si sarebbe trovato in profitto.
Invece svendere il giorno successivo ad un sell-off è quasi sempre una pessima idea.
Questo fatto, unito al fatto che l’economia americana sta messa molto meglio di quel che il casino di questi giorni farebbe pensare, è un ottimo motivo per non fare niente, starsene buoni, andare al mare e pensare ad altro.
Comunque sia, tutto quel che è successo lunedì 5, a parte la mostruosa debacle del giappone, che comunque il giorno dopo già ha rimbalzato facendo più del 10% e quindi recuperando almeno due terzi del crollo del giorno prima, è assolutamente nell’ordine delle cose.
La grande anomalia è stata il fatto che per tutto il 2023 e 2024 abbiamo avuto pochissime giornate con risultati un po’ estremi e praticamente per un anno e mezzo abbondante ogni singolo giorno di borsa del mercato americano si è chiuso in un range molto ristretto compreso tra -2 e +2%.
Nel solo 2022, invece, oltre 20 giorni di contrattazioni hanno riportato cali superiori al 2% ben tre tonfi nell’ordine del 4%.
Per non parlare del 2020 quando, in pieno covid, ci sono stati giorni a -6, -8, -10 e addirittura -12%.
Che lunedì sia stato un black Monday, niente da dire.
Ma un -3% dell’S&P 500, per quanto faccia girare il culo e neanche vi sto a dire quanti soldi in meno mi sono ritrovato nel portafoglio, è assolutamente un fatto normale.
Il grande Ben Carlos, nel sua splendida e storica newsletter A Wealth of common sense, ieri ha sfornato in tempo zero una serie di dati che danno un’idea cristallina di quanto poco abbia senso prendersi male in situazioni come quella di ieri.
Per esempio è interessante il fatto che l’S&P 500 abbia avuto dei ritracciamenti di almeno il 5%, ossia momenti in cui ha perso almeno il 5% da un suo massimo precedente, nel 94% degli anni. Cioè praticamente ogni anno c’è un momento in cui l’S&P perde almeno il 5%. Non in un giorno solo, ma in un lasso relativamente breve di tempo.
Due anni su tre, per la precisione il 64% degli anni, ha una correzione di almeno il 10%.
Addirittura 2 anni su 5 ha dei tonfi che superano il 15%.
Infine un anno ogni 4, e questa cosa la sappiamo molto bene, c’è un bear market, ossia un momento in cui il mercato arriva a perdere oltre il 20%, from peak to trough come si dice.
L’S&P ha lasciato per strada più del 5% dal suo massimo di quest’anno? Bene, succede quasi tutti gli anni.
Lascerà giù più del 10%? È successo anche l’anno scorso e comunque succede due anni su tre.
Ci sarà un bear market? Sti cazzi, succede 1 anno ogni 4.
Voi direte “eh va beh ma c’era stato già nel 2022”.
Giusto, però prima del 2022 per trovare un bear market bisogna risalire al 2008.
La media è 1 ogni 4, poi ci sono momenti in cui avviene più spesso o più sporadicamente.
Se però uno investe con un orizzonte di 20 o 30 anni, capite che tutto ciò ha ben poco rilievo.
In generale, comunque, se facciamo il medione dei medioni, l’S&P perde in media il 16,4% ogni anno. A volte è il 5%. A volte è il 25%. A volte ancora è il 45%. Ma dal 1928 ad oggi il drawdown intrannuale medio dell’S&P è 16,4%.
Ma questo 16,4% di drawdown medio annuale non gli ha impedito di rendere ai suoi investitori la bellezza di oltre il 10% all’anno per un secolo.
Dal 1928 al 2023, l’S&P 500 ha chiuso l’anno in positivo 70 volte su 96.
Di questi 70 anni con rendimento positivo, 35 hanno vissuto un drawdown intermedio a doppia cifra, quindi almeno 10%.
In 56 anni di questi 70 l’S&P ha chiuso con una crescita di almeno 10% e in quasi metà di questi anni, 24 per la precisione, ha accusato durante l’anno una perdita di almeno il 10%.
Insomma, come dice molto giustamente Carlson, il mercato va giù anche quando va su e la volatilità è il prezzo del biglietto per poter investire in azioni.
Fatevene una ragione, state sereni e soprattutto siate contenti che il mercato va giù se state facendo un piano di accumulo perché comprare ogni mese a prezzi sempre più alti non farebbe affatto bene al vostro rendimento di lungo termine.
Questo podcast di solito non commenta i fatti finanziari in tempo reale, ma le vicende del nostro piccolo black Monday estivo mi hanno fatto pensare che un intervento fosse necessario, fosse anche solo per non farvi salire l’ansia, che già ho visto i titoloni sui giornali italiani con cose tipo “crollano le borse mondiali!” “quanto è grave?”, “cosa fare se si ha azioni” (spolier: il solito suggerimento del cazzo, comprare BTP, io veramente non so più cosa dire…).
Perdonate se risulterà un po’ buttato lì e ci sarà qualche imprecisione.
Mi premeva in qualche modo parlarvi subito, urbi et orbi, perché ho percepito un po’ di strizza generalizzata e, perlomeno per quel che ne sappiamo ora, non ne vale la pena.
Quindi keep calm e attenetevi al vostro piano di lungo termine.
Se davvero è di lungo termine, quel che succede in singoli giorni, in singole settimane, in singoli mesi o anche in singoli anni lascia il tempo che trova.
Visto che mi sono messo a fare quest’episodio in fretta e furia dal mare gratis et amore dei come si dice, fatemi la gentilezza di mettere segui e attivare le notifiche su spotify, apple podcast o dove volete e di lasciare una recensione a 5 stelle per supportarci e permetterci di continuare a produrre contenuti che vi dispenseranno calma e serenità lungo tutti i black Monday e pure gli altri giorni neri della vostra vita da investitori sempre nuovi.
Per questo episodio è davvero tutto e noi ci ritroviamo domenica prossima a parlare di investimenti nel mondo del collezionismo, sempre che non succeda un altro macello nel frattempo, sempre qui, naturalmente, con The Bull, il tuo podcast di finanza personale.
Bentornati a The Bull — Il tuo podcast di finanza personale.
Eccalà! Finalmente è arrivato un giorno nerissimo sui mercati mondiali.
In confronto, il tonfo di venerdì 2 agosto è stata una carezza.
Il quasi -13% delle borsa di Tokyo che ci ha dato il buongiorno lunedì 5 agosto, probabilmente primo giorno di ferie di migliaia tra voi, è una di quelle cose che fa correre i brividi lungo la schiena.
Come da copione, prima l’Europa e poi gli Stati Uniti, sono crollati a picco con ribassi che un po’ ovunque sono girati tra il -2 e il -3%.
E poteva pure andare peggio, visto che il Nasdaq aveva aperta addirittura a -6% alle tre e mezza del pomeriggio.
Questo è un episodio d’emergenza.
Per oggi avevo già preparato e registrato un episodio con la professoressa Alessia Zorloni, che insegna Teorie del Mercato dell’Arte allo IULM, su come investire in opere d’arte.
Ma, come dire, il fiume di messaggi che mi avete mandato mi ha fatto capire che forse era il caso di dire due parole su quel che sta succedendo, così poi di arte e collezionismo parliamo magari con calma domenica.
Essendo un episodio di emergenza che sto scrivendo in fretta e furia, abbiate pazienza, verrà come verrà.
Allora spieghiamo intanto cosa è successo e perché è venuto giù tutto.
Il mix letale è stato la combinazione di due elementi principali: il primo è stato la pubblicazione di dati leggermente negativi sull’occupazione americana, con un numero di nuovi posti di lavoro creati a Luglio inferiore alle aspettative e un tasso di disoccupazione salito di uno 0,5% rispetto allo scorso trimestre, innescando la cosiddetta Sahm’s Rule, ossia la regola secondo la quale quando succede questa cosa in pratica è iniziata una recessione.
In realtà tutto ciò non è affatto scontato, però il mercato, che già era un po’ nervoso da un pezzo e che quando arriva il caldo di agosto sbarella, l’ha presa malissimo.
Si è cominciato a dire che la Fed avrebbe dovuto tagliare i tassi prima, che orami è tardi, la recessione è inevitabile e tutta la tarantella che ne consegue.
Morale: azioni giù — e particolare fragore hanno fatto le magnifiche sette — e obbligazioni su perché cominciano a scontare più tagli dei tassi di quanto previsto solo poche settimane fa.
Il secondo ingrediente del mix letale è stato il rialzo i 25 punti base, quindi 0,25%, dei tassi di interesse da parte della banca centrale del Giappone.
Come abbiamo spiegato nello scorso episodio, quest’avvio di politica monetaria restrittiva nel sol levante ha comportato un rafforzamento dello Yen, in particolare nei confronti del dollaro, e ciò ha avuto due conseguenze: la prima è che il mercato giapponese è crollato perché la sua esuberante crescita degli ultimi due anni è stata alimentata soprattutto dallo yen debole che ha favorito l’enorme export delle società giapponesi. Se invece lo yen si rafforza, di conseguenza le società che esportano fanno meno utili in valuta locale.
Chi ha un po’ di anni sulle spalle ricorderà che una prassi molto comune nell’Italia degli anni ’80 e ’90 era svalutare la Lira per favorire le nostre esportazioni. Pratica che nel breve funzionava, ma nel lungo ha comportato una serie di conseguenza negative, in particolare per un paese come il nostro che importa quasi il 100% delle sue materie prime energetiche.
Comunque sia, quando un paese è un grande esportatore è favorito da una valuta locale debole e viceversa.
Quindi, yen su, azioni giapponesi giù e giù come se non ci fosse un domani, perché appunto il Nikkei ha segnato la sua seconda peggior seduta dai tempi del black Monday del 1987 (che per questioni di fuso per loro era stato un Black Tuesday).
Finisse qui uno dice, va beh, Giappone va giù, ok è la terza o quarta più grande economia del mondo, però sarà un problema soprattutto loro, la borsa di Tokyo non ha la rilevanza sistemica di quella di New York.
Sì peccato che l’avidità finanziaria non ha limiti e soprattutto non manca in creatività.
Il rialzo dello Yen ha creato un effetto domino, le cui conseguenze sono ancora da misurare, legato alla pratica che avevamo spiegato la volta scorsa chiamata Carry Trade.
Carry Trade significa indebitarsi in una valuta debole e acquistare asset in valute di paesi che hanno alti tassi di interesse.
Molti investitori si sono quindi indebitati negli ultimi anni in yen per comprare asset in dollari e non solo titoli di stato, ma anche asset speculativi come le azioni delle società tech.
Se tu ti indebiti in yen, paghi interessi quasi nulli sul prestito, e investi in asset denominati in dollari, in pratica questa cosa è come una macchina che stampa soldi.
Quando finisce però la cuccagna?
Eh appunto quando inizia una divergenza nella politica monetaria dei due paesi: gli Stati Uniti dovrebbero tornare espansivi, mentre il Giappone ha iniziato a stringere alzando i tassi.
Morale: quando succede questa cosa, la banca che mi ha prestato gli yen vuole maggiori garanzie rispetto a prima e fa ciò che viene chiamata margin call, con la quale impone al debitore di comprare ulteriori yen per coprire le loro posizioni precedenti, cosa che a sua volta rafforza lo yen stesso, alimentando un circolo vizioso.
Proviamo a spiegarla un po’ alla buona usando le azioni di Nvidia come esempio.
Ammettiamo che ho un milione di dollari, che faccio? Compro Nvidia con i miei soldi come farebbe un banale investitore qualunque?
No! Vado a indebitarmi in Yen! E uso i miei soldi per farci altro.
Al suo apice qualche giorno fa con un milione di dollari ti prendevi 160 milioni di yen circa a prezzo stracciato, perché con i tassi a zero (o addirittura negativi) i prestiti sono molto economici.
Con i miei 160 milioni di yen mi prendo l’equivalente di un milione di dollari di azioni Nvidia che cresce come se non ci fosse un domani, metto queste azioni come collaterale a garanzia del prestito e con un pezzettino del mio gigantesco rendimento mi pago il costo del prestito.
Soldi gratis appunto.
Poi però la stupida Bank of Japan mi alza i tassi!
E lo Yen di colpo sbam!, da 160 dollari passa a circa 145.
Sorpresa sorpresa, a quel punto mi chiama la banca e mi dice arigato gosaimas, qui è la cordiale banca giapponese dove hai preso in prestito 160 milioni di yen.
Vorremmo informarla che il suo milione di dollari ora non copre più quei 160 milioni, ma solo 145. È quindi pregato di comprare altri 15 milioni di yen per coprire la sua posizione.
A quel punto cosa fa il furbo investitore che sperava di fare soldi gratis a vita con il carry trade? Deve liquidare una parte delle sue posizioni in titoli americani, e in particolare i titoli speculativi con cui nel frattempo sperava di arricchirsi indebitandosi a basso costo, per comprare ulteriori yen.
Morale: sell-off di titoli azionari che fa crollare le borse, rafforzamento dello yen che implica nuove margin call, che richiede nuovi sell-off azionari, che rafforza lo yen, che al mercato mio padre comprò…
Qualcuno di voi ricorderà che qualche mese fa il nostro buon Nicola Protasoni era venuto a spiegarci perché era fallito l’hedge fund dei premi nobel Long Term capital management.
Temi diversi, ma logica simile.
Quelli facevano soldi a palate usando una leva gigantesca per sfruttare il differenziale tra il costo di indebitamento in un asset liquido e il rendimento derivante dall’acquisto di un asset meno liquido.
Quando la Russia ha fatto default nel 1998 e altre valute dei paesi emergenti hanno avuto qualche problema non sono stati più in grado di chiudere le loro posizioni e per via dell’enorme leva che utilizzavano hanno creato un buco gigantesco scatenando il panico sui mercati.
Oggi non sta succedendo la stessa cosa e non sembra nemmeno che le proporzioni in gioco siano le stesse.
Però quando investi utilizzando il debito e la leva, prima o poi ti torna in quel posto anche per minime variazioni dello scenario di partenza.
Quelli di Long Term avevano stimato che una serie di eventi come quella che avrebbe portato al loro fallimento aveva una probabilità su 13 miliardi di capitare e va che sfiga alla fine è capitata solo 4 anni dopo che avevano aperto la società.
Capito?
È un attimo che succede un patatrac.
Aggiungici poi il generale unwind dei trade più popolari, ossia la chiusura generalizzata di numerosi posizioni che fino ad oggi avevano alimentato il mercato nella sua folle crescita, come Nvidia, appunto, che dai suoi massimi ha perso quasi il 30%, e la frittata è servita.
Ci si è messo pure zio Warren Buffet, quando sabato è stato reso noto che nel secondo trimestre ha liquidato metà della sua posizione in Apple, circa 80 miliardi di dollari, innescando in molti il pensiero che l’oracolo di Omaha avesse annusando una nuova mega crisi arrivare e si stia preparando a qualche nuovo colpo spettacolare portando la cassa di berkshire hathaway alla spaventosa cifra di oltre 270 miliardi di dollari.
Ne avevo parlato velocemente nell’episodio che doveva uscire oggi ma che a sto punto uscirà domenica, quindi qualche mia considerazione ve la lascio lì sennò ridico sempre le stesse cose che già sono logorroico di mio.
Torniamo a noi.
C’è da cagarsi sotto adesso?
Allora, in linea di principio no, MAI.
Ad un’unica condizione: che i nostri investimenti siano in linea con la nostra pianificazione.
Se abbiamo il fondo di emergenza, non abbiamo grosse spese in vista e la nostra asset allocation riflette la nostra propensione al rischio e la nostra situazione personale, allora tutto ok.
Ragazzi, sono 130 episodi che vi sto preparando a cose del genere. Vi ho detto in tutte le salse del mondo che investire in azioni comporta dei rischi e che questi rischi hanno la forma di queste sberle fotoniche che ci siamo tutti presi lunedì.
Tutto normale, il mercato va su piano piano per mesi e crolla giù in pochi giorni.
Fateci l’abitudine perché quel che è successo lunedì 5 agosto succederà, con intensità sicuramente maggiore, chissà quante altre volte.
Comunque, dicevamo, c’è da cagarsi addosso.
Al momento sembrerebbe che questa giornata di fragorose vendite sia simile, come forma e non come intensità, al più famoso black Monday del 1987, quando la borsa di NY perse in solo giorno oltre il 20%.
L’S&P ha perso il 3%, direi che siamo lontani anni luce.
Però dal punto di vista formale è una cosa simile.
Una grossa crisi tutta di colpo dovuta ad una concatenazione di eventi che hanno fatto conflagrare un generale eccesso di assunzioni di rischio e di overconfidence verso la crescita illimitata di un mercato forse un po’ gonfiato.
Non sembra che sia invece una cosa paragonabile a Long Term Capital Management né tanto meno a quel disastro epocale che è stata la grande crisi finanziaria del 2008.
Rispetto ad allora le banche si trovano in una situazione molto più stabile, con una situazione patrimoniale estremamente più sicura, mentre parte del rischio che allora avevano le banche ce l’hanno oggi società private senza la rilevanza sistemica di una banca come poteva essere stata Lehman Brothers.
Per ora, almeno, sembra una cosa circoscritta a fenomeni di mercato, non generalizzati all’economia reale.
Per ora…
Molti di voi mi hanno scritto chiedendomi “eh adesso? Cosa consigli di fare?”.
Premesso che io non consiglio mai niente di specifico a nessuno sennò finisco a guardare il mercato di viale papiniano dalle finestre a sbarre di San Vittore, ragazzi, che volete fare? Niente.
Scusate 130 episodi in cui parliamo di long term, pazienza, solo strategia e niente tattica, niente market timing, niente buy the dip e altre stronzate del genere e al primo barcollamento mi chiedete cosa fare?
Non bisogna fare niente.
Se avete avuto ripercussioni pesanti lunedì 5 è perché avete investito alla cazzo.
Se invece avete fatto le cose di cui parliamo sempre qui e il vostro portafoglio è allineato alla vostra pianificazione, allora non c’è niente da fare, perché la vostra pianificazione avrà già incluso anche il fatto che cose del genere possano accadere.
Chi mi segue da tanto sa che come consiglio di massima dico sempre di adattare il bilanciamento tra azioni e obbligazioni usando la formula 125 — età — tassi della fed per 5 per individuare la percentuale di azioni da avere in portafoglio e poi di adattarla in base alla pianificazione soggettiva e al proprio margine di sicurezza proiettando la componente obbligazionaria da qui ai prossimi 5-10 anni.
Esiste un altro metodo, che dovrebbe risalire ad Harry Browne, il padre del permanent portfolio, di cui non vi ho mai parlato perché non mi ha mai fatto impazzire, ma chi vuole impostare il proprio portafoglio in base esclusivamente ad un criterio psicologico può seguire la sua idea che consiste nell’avere in azioni una percentuale corrispondente alla perdita massima che si è disposti a tollerare moltiplicata per 2,5.
In pratica, se io al massimo posso sopportare che il mio portafoglio perda il 10% metterò il 25% in azioni.
Se invece sono disposto ad accettare una perdita massima del 30% metterò il 75% in azioni.
Oltre il 40% di perdita parliamo di un portafoglio 100% azionario naturalmente.
Può essere una comoda regola di massima.
Ciò che non mi è mai piaciuto di questa regola è che non considera né il proprio orizzonte temporale, né la situazione macroeconomica determinata dai tassi di interesse, che può avere un impatto significativo sulle scelte di natura obbligazionaria.
Comunque, se in questi giorni avete provato terrore e il terrore non vi piace più di tanto, potete fare doublecheck con il vostro portafoglio e assicurarvi di avere una quota azionaria coerente con il drawdown massimo che siete disposti ad accettare.
Non è una formula scientifica naturalmente, però sono assolutamente d’accordo su questo coefficiente di 2,5. Per esempio, un portafoglio metà azioni e metà obbligazioni, difficilmente potrà andare giù più di un 20%.
Ok.
Allora abbiamo detto che sto casino è successo per un mix di cose che per oggi sembrano soprattutto di natura finanziaria e che non è da escludere un po’ di overreaction rispetto ai dati sull’economia americana.
Fino a prova contraria a inizio luglio era stato pubblicato il dato sul pil del trimestre precedente e aveva disintegrato le previsioni, 2,8% contro 2,1, quindi non è che si va in recessione di punto in bianco.
Inoltre anche il discorso della disoccupazione in aumento potrebbe benissimo essere il prodromo di un grave deterioramento economico, ma allo stesso tempo potrebbe anche essersi trattato del risultato di una serie di contingenze, come ad esempio l’uragano Debby che potrebbe aver impedito ad alcune società nelle aree coinvolte di assumere personale.
Quindi, keep calm prima di gridare alla recessione imminente, che fino a ieri non sembrava neanche che ci fosse un soft landing in vista, ma addirittura che si riuscisse ad annientare l’inflazione senza nemmeno far smettere di crescere l’economia.
Un buon motivo per starsene tranquilli e non farsi prendere dalla smania di vendere tutto arriva invece da alcune statistiche tipiche di situazioni come queste.
Già in passato, sempre con l’aiuto di Nicola, avevamo parlato dell’indice VIX, che è l’indice che traccia la volatilità implicita dell’S&P 500.
La volatilità implicita, diversamente da quella storica che tiene conto di quanto in passato il mercato è stato ballerino, è una misura della volatilità futura per come viene percepita dal mercato in base all’andamento dei prezzi delle opzioni.
Un’opzione put, come sapete bene, è un contratto derivato che dà all’acquirente il diritto, ma non l’obbligo, di vendere un certo sottostante, in questo caso l’S&P 500, in un dato momento nel futuro ad un certo prezzo ed è una diffusissima forma di protezione che investitori istituzionali e hedge fund utilizzano per coprire le proprie posizioni lunghe.
Quando succedono cose come quelle accadute lunedì, il VIX schizza alle stelle perché molti più investitori corrono a comprare opzioni put per coprirsi.
Questa cosa però crea un effetto domino, perché se io compro un’opzione put sull’S&P 500, allora dall’altra parte serve un market maker, o una banca, o chi per loro che mi vende l’opzione e se io sono short la mia controparte sarà long. Questo però, nel momento in cui mi vende l’opzione, allo stesso tempo deve coprirsi a sua volta e per farlo dovrà vendere un valore corrispondente di quote dell’S&P 500.
Siccome negli ultimi mesi — e l’avevamo visto con Nicola — il VIX è stato eccezionalmente piatto rispetto alla media storica, anche per effetto di tutta una serie di nuovi strumenti di investimento come le opzioni a scadenza giornaliera o gli ETF che usano strategie con opzioni call coperte, una volta che lunedì si è innescata la bomba la volatilità è andata subito alle stelle, con gli investitori da una parte che si coprivano con opzioni put e dall’altra con chi glie le vendeva che a loro volta dovevano vendere S&P 500 per mantenere il proprio bilancio equilibrato.
Va beh se sta cosa non è chiara, fa niente.
Il punto da capire è che si sono alcuni meccanismi intrinseci al funzionamento dei mercati tali per cui quando ci sono situazioni eccezionali innescano degli effetti a catena che amplificano le conseguenze negative di quel che sta accadendo.
Quindi attenzione quando vedete che il mercato va giù perché tutti vendono.
Non significa necessariamente che tutti gli investitori del mondo tranne voi si sono convinti che sia tutto finito e che si debba vendere tutto.
A volte semplicemente ci sono dei fatti tecnici che portano a vendere delle posizioni per ragioni più contabili che non legati a qualche strategia di investimento.
Se tanti investitori erano scoperti sulle posizioni in carry trade, hanno dovuto vendere i loro collaterali per coprire le posizioni anche se probabilmente non volevano farlo.
Se tanti investitori sono corsi a coprirsi assumendo posizioni corte sul mercato, usando ad esempio le opzioni put, altrettanti market maker sono stati costretti a vendere l’S&P 500 per tenere il bilancio in equilibrio, non perché avessero improvvisamente deciso che l’S&P fosse da vendere.
Poi però si innesca il panic selling e va tutti dietro, ma anche per questo è importante non prendere MAI, MAI, MAI decisioni a seguito di brevi periodi di euforia positiva o di panico negativo.
Dicevo però che c’è una statistica incoraggiante.
L’87% delle volte che un investitore ha comprato, o tenuto se ce l’aveva già, l’S&P 500 in un giorno in cui il VIX ha chiuso ad un valore superiore a 30 (e lunedì ha chiuso oltre 40), entro 12 mesi si sarebbe trovato in profitto.
Invece svendere il giorno successivo ad un sell-off è quasi sempre una pessima idea.
Questo fatto, unito al fatto che l’economia americana sta messa molto meglio di quel che il casino di questi giorni farebbe pensare, è un ottimo motivo per non fare niente, starsene buoni, andare al mare e pensare ad altro.
Comunque sia, tutto quel che è successo lunedì 5, a parte la mostruosa debacle del giappone, che comunque il giorno dopo già ha rimbalzato facendo più del 10% e quindi recuperando almeno due terzi del crollo del giorno prima, è assolutamente nell’ordine delle cose.
La grande anomalia è stata il fatto che per tutto il 2023 e 2024 abbiamo avuto pochissime giornate con risultati un po’ estremi e praticamente per un anno e mezzo abbondante ogni singolo giorno di borsa del mercato americano si è chiuso in un range molto ristretto compreso tra -2 e +2%.
Nel solo 2022, invece, oltre 20 giorni di contrattazioni hanno riportato cali superiori al 2% ben tre tonfi nell’ordine del 4%.
Per non parlare del 2020 quando, in pieno covid, ci sono stati giorni a -6, -8, -10 e addirittura -12%.
Che lunedì sia stato un black Monday, niente da dire.
Ma un -3% dell’S&P 500, per quanto faccia girare il culo e neanche vi sto a dire quanti soldi in meno mi sono ritrovato nel portafoglio, è assolutamente un fatto normale.
Il grande Ben Carlos, nel sua splendida e storica newsletter A Wealth of common sense, ieri ha sfornato in tempo zero una serie di dati che danno un’idea cristallina di quanto poco abbia senso prendersi male in situazioni come quella di ieri.
Per esempio è interessante il fatto che l’S&P 500 abbia avuto dei ritracciamenti di almeno il 5%, ossia momenti in cui ha perso almeno il 5% da un suo massimo precedente, nel 94% degli anni. Cioè praticamente ogni anno c’è un momento in cui l’S&P perde almeno il 5%. Non in un giorno solo, ma in un lasso relativamente breve di tempo.
Due anni su tre, per la precisione il 64% degli anni, ha una correzione di almeno il 10%.
Addirittura 2 anni su 5 ha dei tonfi che superano il 15%.
Infine un anno ogni 4, e questa cosa la sappiamo molto bene, c’è un bear market, ossia un momento in cui il mercato arriva a perdere oltre il 20%, from peak to trough come si dice.
L’S&P ha lasciato per strada più del 5% dal suo massimo di quest’anno? Bene, succede quasi tutti gli anni.
Lascerà giù più del 10%? È successo anche l’anno scorso e comunque succede due anni su tre.
Ci sarà un bear market? Sti cazzi, succede 1 anno ogni 4.
Voi direte “eh va beh ma c’era stato già nel 2022”.
Giusto, però prima del 2022 per trovare un bear market bisogna risalire al 2008.
La media è 1 ogni 4, poi ci sono momenti in cui avviene più spesso o più sporadicamente.
Se però uno investe con un orizzonte di 20 o 30 anni, capite che tutto ciò ha ben poco rilievo.
In generale, comunque, se facciamo il medione dei medioni, l’S&P perde in media il 16,4% ogni anno. A volte è il 5%. A volte è il 25%. A volte ancora è il 45%. Ma dal 1928 ad oggi il drawdown intrannuale medio dell’S&P è 16,4%.
Ma questo 16,4% di drawdown medio annuale non gli ha impedito di rendere ai suoi investitori la bellezza di oltre il 10% all’anno per un secolo.
Dal 1928 al 2023, l’S&P 500 ha chiuso l’anno in positivo 70 volte su 96.
Di questi 70 anni con rendimento positivo, 35 hanno vissuto un drawdown intermedio a doppia cifra, quindi almeno 10%.
In 56 anni di questi 70 l’S&P ha chiuso con una crescita di almeno 10% e in quasi metà di questi anni, 24 per la precisione, ha accusato durante l’anno una perdita di almeno il 10%.
Insomma, come dice molto giustamente Carlson, il mercato va giù anche quando va su e la volatilità è il prezzo del biglietto per poter investire in azioni.
Fatevene una ragione, state sereni e soprattutto siate contenti che il mercato va giù se state facendo un piano di accumulo perché comprare ogni mese a prezzi sempre più alti non farebbe affatto bene al vostro rendimento di lungo termine.
Questo podcast di solito non commenta i fatti finanziari in tempo reale, ma le vicende del nostro piccolo black Monday estivo mi hanno fatto pensare che un intervento fosse necessario, fosse anche solo per non farvi salire l’ansia, che già ho visto i titoloni sui giornali italiani con cose tipo “crollano le borse mondiali!” “quanto è grave?”, “cosa fare se si ha azioni” (spolier: il solito suggerimento del cazzo, comprare BTP, io veramente non so più cosa dire…).
Perdonate se risulterà un po’ buttato lì e ci sarà qualche imprecisione.
Mi premeva in qualche modo parlarvi subito, urbi et orbi, perché ho percepito un po’ di strizza generalizzata e, perlomeno per quel che ne sappiamo ora, non ne vale la pena.
Quindi keep calm e attenetevi al vostro piano di lungo termine.
Se davvero è di lungo termine, quel che succede in singoli giorni, in singole settimane, in singoli mesi o anche in singoli anni lascia il tempo che trova.
Visto che mi sono messo a fare quest’episodio in fretta e furia dal mare gratis et amore dei come si dice, fatemi la gentilezza di mettere segui e attivare le notifiche su spotify, apple podcast o dove volete e di lasciare una recensione a 5 stelle per supportarci e permetterci di continuare a produrre contenuti che vi dispenseranno calma e serenità lungo tutti i black Monday e pure gli altri giorni neri della vostra vita da investitori sempre nuovi.
Per questo episodio è davvero tutto e noi ci ritroviamo domenica prossima a parlare di investimenti nel mondo del collezionismo, sempre che non succeda un altro macello nel frattempo, sempre qui, naturalmente, con The Bull, il tuo podcast di finanza personale.
Recensioni
Quando capisci come funziona la finanza… ti viene voglia di raccontarla!
Veramente interessante, chiaro e conciso. Cambia la vita finanziaria di chiunque.. da ascoltare assolutamente anche per chi di finanza non vuole occuparsi mai
Francesca B., 6 Apr 2024Ho acquistato e letto il suo libro e l' ho trovato. Esprime i concetti economici in modo semplice e chiaro. Sentirlo parlare conferma che è un professionista del settore.
Giulia N., 11 Ago 2025Podcast piacevole, scorre veloce ma in modo estremamente chiaro, spiega i concetti chiave per gestire le proprie finanze, fornendo la classica cassetta degli attrezzi. Complimenti, davvero ben fatto!
Massimiliano, 29 Mag 2024Da quando l'ho scoperto in 15 gg mi sono ascoltato 150 puntate senza fermarmi, ho annullato gli altri podcast per portarmi alla pari ed ascoltare tutte le precedenti puntate, ben fatto, esattamente il livello di informazione che mi serviva
Gianluca G., 11 Set 2025Non sono solito a mettere recensioni e specialmente non ascolto podcast, ma da quando ho iniziato questo, faccio fatica a staccarmi, e quasi non posso più fare a meno di ascoltare e arricchirmi culturalmente.
Andrea V., 22 Set 2025Riccardo mi ha letteralmente cambiato la vita e fatto scoprire che amo la finanza, ho ascoltato il podcast già due volte e non mi stufo mai di ascoltarlo, parla in modo semplice e chiaro
Massimo D., 23 Set 2025Veramente veramente raccomandato! la finanza personale riassunta alla perfezione! e spiegata partendo dall'ABC! Ottimo anche da ascoltare a velocita 1,5x!
Giorgia R., 23 Gen 2025La mia ignoranza in materia mi ha sempre creato dei dubbi, ma grazie a un amico ho iniziato ad ascoltare il podcast. Per fortuna che ho 24 anni e un po' di tempo e soldi da dedicarmi a imparare le varie nozioni per me stesso. Grazie mille!
Luca G. 10 Ott 2025Ho seguito tutte le puntate! Grazie veramente
Amalia A., 17 Set 2025