Come consiglierebbero di investire oggi 4 Geni della Finanza

Se mettessimo allo stesso tavolo Cliff Asness, Rob Arnott, Meb Faber e Victor Haghani quale portafoglio consiglierebbero all'investitore medio italiano? Unendo alcuni contributi quando sono stati nostri ospiti e ChatGPT abbiamo elaborato un portafoglio modello per aiutarci a ragionare sugli scenari del futuro.

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Come consiglierebbero di investire oggi 4 Geni della Finanza
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232. Come consiglierebbero di investire oggi 4 Geni della Finanza

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Punti Chiave

Il podcast esplora le implicazioni di un nuovo regime macroeconomico sull'asset allocation tradizionale.

Viene presentato un portafoglio modello diversificato, includendo fattori (Value, Momentum) e Managed Futures.

Trascrizione Episodio

Durante il weekend Donald Trump evidentemente si annoia e quindi ormai da sei mesi ha deciso di monopolizzare le news di tutto il mondo sparandone una sempre più grossa dell’altra.

Nel caso in cui non viviate dentro una caverna sperduta senza accesso a internet, a questo punto dovreste sapere che venerdì sera Mr. T. — e purtroppo non il mister T con le catene d’oro del mitico telefilm degli anni ’80 A team, nonché sfidante di Rocky nel terzo e più brutto capitolo della saga — dicevo il Mr. T meno simpatico d’America ha mandato una delle sue solite lettere, nell’ormai classico template fatto probabilmente con ChatGPT e maiuscole a caso, in cui ha ufficializzato che dal primo agosto le importazioni dall’Unione Europea saranno tassate al 30%, cioè 10 punti in più del già assurdo numero sparato durante il Liberation Day il 2 aprile.

Allora i mercati ebbero un’emorragia per lo shock.

Lunedì, invece, le borse hanno reagito con un “oooookkkkk….”.

Lo Stoxx 600 ha chiuso praticamente in pari, l’S&P ha addirittura guadagnato lo 0,1% e il cambio euro-dollaro è rimasto praticamente piatto.

Sinceramente non so dire se il mercato faccia bene a non credere a Trump e a pensare di poterlo tenere per le palle — confidando di aver sempre l’ultima parola come quando gli ha fatto fare dietrofront ad aprile mandando giù azioni e soprattutto i Treasury.

Una delle parole più diffuse tra gli asset manager e le grandi banche è diventata “complacency”.

A partire da sua eminenza Jamie Dimon, l’onnipotente CEO di JP Morgan che è praticamente la versione finanziaria di Chuck Norris, che a più riprese ha detto che il mercato si sarebbe un po’ troppo seduto su questa idea del TACO Trade, cioè che tanto Trump non fa sul serio. Dimon, e come lui tanti altri, pensano che troppa sicurezza sull’ennesima marcia indietro di Trump potrebbe costare qualche duro schiaffo di realtà.

Diciamo solo due cose su questo:

– Intanto Trump ha incassato una serie di vittorie ultimamente: ha fatto passare quella porcheria chiamata Big Beautiful Bill, considerata da ogni parte un suicidio fiscale senza precedenti; ha bombardato l’Iran; ha ottenuto concessioni dall’Unione Europea per le big tech; e in tutto ciò la temuta inflazione provocata dai dazi non si è ancora vista (anche se ieri sono usciti i dati di giugno, che tuttavia non commento perché sto registrando il giorno prima) mentre i primi dazi hanno già portato da inizio anno oltre 100 miliardi di dollari di entrate extra per il governo federale. Insomma, gli sta girando bene tutto — e quindi, come da suo stile, ora può calcare la mano fino al punto in cui qualcosa di serio non gli si ritorce contro. Quindi, insomma, il mercato avrà le sue buone ragioni per starsene praticamente sui massimi nonostante la minaccia di quest’apocalisse nel commercio globale, ma potrebbe non avere fatto i conti fino in fondo con lo smisurato egocentrismo del presidentissimo — per il quale la volontà di potenza potrebbe andare ben oltre i confini del buon senso.

– Dall’altra parte il mercato potrebbe semplicemente essere concentrato su altro, in particolare sui prossimi tagli della Fed e sul fatto che il bullismo di Trump nei confronti degli altri Paesi ha anche il non troppo velato scopo di estorcere impegni all’acquisto di titoli di stato americani a lungo termine, in maniera tale da far scendere artificiosamente i rendimenti e quindi il costo dell’immenso debito di Washington. Lui vuole segare Powell, mettere un suo fantoccio e abbassare i Fed Funds Rate a cazzo di cane fino all’1% – oggi vi ricordo che sono al 4,33 — anche se ciò sarebbe poco utile, perché come sapete i tassi di interesse incidono sugli interessi a breve termine, mentre invece paradossalmente se oggi venissero tagliati, il rendimento dei titoli di stato a scadenza medio lunga aumenterebbe, perché sconterebbe un maggiore rischio di inflazione futura. George Saravelos, capo della strategie sulle valute di Deutsche Bank, sempre il più citato su questi temi, ha calcolato che licenziare Powell provocherebbe in 24 un crollo del dollaro del 3-4% e un aumento dei rendimenti dei treasury decennali di 0,3-0,4%, un’enormità.
Se invece Trump riesce a obbligare tutti a comprarsi montagne di Treasury a lunga scadenza, artificialmente tiene i rendimenti più bassi, riduce il costo dell’indebitamento e così potrebbe ottenere uno scenario da riccioli d’oro.

Insomma, il mercato americano sarebbe quasi sui massimi non perché pensa che i dazi non avranno impatti negativi sull’economia, ma perché ritiene un po’ che i dazi finali non saranno così alti come si pena e un po’ che l’operazione complessiva porterà tassi di interesse più bassi e con i tassi d’interesse più bassi le valutazioni azionarie salgono.

Vi ricordate? Il prezzo di un’azione esprime il rapporto tra i profitti futuri attesi e il tasso di sconto, che è il rendimento atteso dagli investitori. Questo è sempre tasso-risk free più premio al rischio. Se scendono i tassi di interesse — a parità di altre condizioni — si abbassa il tasso di sconto e quindi lo stesso dollaro di utili giustificherebbe un prezzo dell’azione più alto.

Sempre tutto in teoria.

Come sempre: qualunque previsione è destinata ad essere fallimentare in linea di principio e fino a prova contraria i prezzi attuali esprimono la migliore stima che abbiamo sul reale stato delle cose, sui rendimenti attesi e sul rischio percepito dal mercato nel suo complesso.

Scommettere contro questa cosa è un tiro di dadi, con dei dadi truccati in nostro sfavore, perché come sappiamo battere i mercati a lungo termine è fottutamente complicato.

Avere però un portafoglio — diciamo così — resiliente nei vari scenari che si potranno prospettare è invece qualcosa che non richiede alcuna scommessa, ma semplicemente una visione strategica di lungo termine.

L’ennesima bomba di Trump, però, non è l’oggetto principale della chiacchierata di oggi, ma è stato piuttosto lo spunto per ricordarsi ancora una volta che i regimi macroeconomici possono cambiare, che le regole che magari hanno funzionato sui mercati per 40 anni potrebbero non farlo nei prossimi 40 e che ragionare su come diversificare al meglio il portafoglio è sempre qualcosa su cui ha senso spendere una mezzora.

Voglio quindi condividere con voi un portafoglio modello che 4 geni della finanza, esperti in particolare di asset allocation, consiglierebbero oggi ad un investitore medio italiano.

“Oggi” non nel senso che è un portafoglio anti Trump, anti dazi o altre scemenze del genere. Nessuno può fare seriamente una cosa del genere.

Ma più semplicemente un modello di portafoglio che tiene conto di cose più o meno direttamente osservabili come le valutazioni azionarie, la correlazione tra azioni e obbligazioni, le prospettive sui tassi di interesse e sull’inflazione e così via.

Non parliamo di un portafoglio tattico, quindi, ma di un modello portafoglio che dovrebbe essere buono per i prossimi 10 o 20 anni almeno a partire dallo scenario in cui ci troviamo oggi.

Per fare questo ho preso il mio ChatGPT, che ovviamente è bombardato ogni giorno dalle mille informazioni che gli butto dentro, dai miei episodi, dalle interviste, dalle cose che scrivo e così via e gli ho chiesto di immaginarsi un dialogo a 4 su quest’argomento.

I 4 geni che ho scelto sono 3 ex ospiti del nostro podcast e un 4° che temo purtroppo non verrà mai — ossia:

– Cliff Asness, di AQR — che aspetterò con speranza fino all’ultimo episodio di The Bull e anche oltre.

– Robert Arnott, di Research Affiliates

– Meb Faber, di Cambria e

– Victor Haghani, di Elm e come noto ex partner di Long Term Capital Management.

Lo spunto me l’ha dato proprio Meb Faber, che poco tempo fa ha rilasciato un suo clone fatto con ChatGPT, che sia chiama Meb Ai e che potete trovare facilmente online, allenato sui suoi paper, libri e interviste.

E ha scritto che ha fatto fare una conversazione immaginaria tra Asness, Arnott, Charlie Munger e Jack Bogle.

Ora, io volevo fare una cosa simile, però:

1) con gente con cui ho parlato davvero — per fare doublecheck delle risposte di ChatGPT (ok Asness non l’ho mai conosciuto, ma praticamente di nessun altro ho letto così tanto, quindi ero abbastanza sereno che se ChatGPT gli fa avesse fatto dire una cazzata me ne sarei accorto)

2) Munger e Bogle, invece, due giganti enormi della storia della finanza, avrebbero sparato degli aforismi eccezionali, ma avrebbero portato poco al discorso di oggi.

Le versioni Ai dello stesso Faber e Haghani, invece, come ero certo, hanno dato delle risposte molto pratiche e interessanti.

Attenzione: se lo rifate a casa potrebbero uscirvi risultati diversi perché ChatGPT è un po’ paraculo e tende a dirti quello che vuoi sentirti dire.

Io ho cercato di modellare i prompt per essere meno condizionati possibile, ma è chiaro che il mio ChatGPT avrà attinto anche dalle conversazioni specifiche che per esempio ho avuto con Rob, Meb e Victor.

Ad ogni modo.

Questo è il caso di partenza.

Investitore italiano di 35 anni.

Reddito stabile, debito sostenibile e capacità di risparmio.

Orizzonte di investimento medio-lungo.

Tolleranza al rischio media, con massimo drawdown tollerabile del 25-30%.

Date queste informazioni ho chiesto a ChatGPT di impostare un dialogo tra i 4 per formulare un portafoglio modello per questo investitore tipo nel 2025.

Prima di dirvi il risultato, perché credo sia un esercizio interessante?

Non tanto per il portafoglio effettivo che ha tirato fuori Chat GPT, che comunque è molto intelligente, ma per darci l’occasione di riflettere su alcuni criteri di asset allocation che possono esserci di aiuto oggi per due motivi fondamentali:

– Il PRIMO è che lo so che alla maggior parte di voi, ora che avete capito il grosso dei concetti di base sull’investimento, interessa fare un passo in più o comunque approfondire la comprensione di alcune dinamiche che non toccano solo le asset class principali, ma anche il gruppo dei cosiddetti asset alternativi;

– Il SECONDO è che — per motivi che spiegheremo tra pochissimo — ci apprestiamo ad entrare in un’epoca, o forse già ci troviamo con entrambi i piedi, che volenti o nolenti sarà figlia di quella catena di eventi che è iniziata con la grande crisi finanziaria, il quantitive easing, i tassi a zero, l’esplosione dei debiti pubblici, il covid e il ritorno dell’inflazione. E questo potrebbe aver già messo in discussione alcune convinzioni di lungo termine alla base della costruzione del portafoglio per come l’abbiamo intesa negli ultimi decenni.

E i 4 geni, anche nella loro versione stilizzata da ChatGPT, sembrano in effetti tenerne conto.

Partiamo intanto dai contributi soggettivi su cui si concentrerebbero i 4 speaker immaginari di questo panel:

– Asness sottolineerebbe l’opportunità di includere tilt fattoriali al portafoglio, in particolare Momentum, Value e Quality, che sono un po’ il menu della casa in AQR;

– Arnott è anch’egli da sempre un grande fan dell’idea di smart-beta, cioè di tilt fattoriali ai portafogli, con una preferenza particolare per tutto ciò che ha basse valutazioni: soprattutto mercati emergenti e value. Ricorderete che anche quando era stato da noi si era detto piuttosto critico dell’investimento indicizzato, che per natura tende a sovrapesare realtà growth costose e a sottopesare realtà value economiche;

– Faber è invece quello che più di tutti insiste sui temi della diversificazione, al di là delle asset class tradizionali. Il suo modello di riferimento è il Global Market Portfolio e per lui un portafoglio sta in piedi su tre pilastri: azioni, obbligazioni e asset reali.

– Haghani invece ha un approccio molto più essenziale, ma come ci aveva raccontato insiste molto sull’idea di asset allocation dinamica che sovrappesi o sottopesi certi asset o certi mercati in base al rendimento atteso e al rischio soggettivo dell’investitore.

Che portafoglio consiglierebbero quindi?

È chiaro che è una finzione e che nessuno di loro, preso singolarmente, forse darebbe questa risposta, ma in un ideale dialogo, effettivamente questa impostazione potrebbe essere condivisa da tutti e 4.

Partiamo dalle AZIONI: 50% del totale.

– 25% MSCI World

– 15% suddiviso equamente tra MSCI World Momentum, Value e Quality

– 10% Mercati emergenti

Da notare due cose:

– La prima è che con questa semplice allocazione azionaria, che si può ottenere con 5 etf, il peso degli Stati Uniti risulta naturalmente ridotto rispetto a quello che avrebbe in un indice globale. Se ho fatto bene i conti, tra il peso degli Stati Uniti nell’MSCI World e quello nei tre indici fattoriali, siamo intorno al 52-53%, quindi decisamente meno del 63-64% del MSCI ACWI.

E’ infatti opinione di tutti e 4 che, per via delle elevate valutazioni azionarie americane, figlie di 30 anni di arricchimento dei prezzi, i rendimenti attesi per le large cap americane siano inferiori a quelli di altri mercati.

– Arnott è il più pessimista di tutti sugli Stati Uniti.

– Asness lo è abbastanza ma da buon figliol prodigo di Eugene Fama non consiglierebbe mai di deviare completamente dal mercato

– Faber e Haghani, infine, sono anch’essi molto orientati a considerare le valutazioni di partenza, il rendimento atteso e l’importanza della diversificazione e quindi di non copiare paro paro il market cap globale.

– Come sappiamo Faber è molto asciutto sull’argomento, qua da noi 6 mesi fa aveva fondamentalmente consigliato 50% Stati Uniti, 50% resto del mondo;

– Sul sito della società di Haghani, invece, c’è un tool di asset allocation con cui si può giocare e che restituisce un modello di portafoglio che si basa sui redimenti reali attesi. Anche per lui in questo caso siamo a un po’ meno di metà Stati Uniti e un po’ più di metà RoW.

– La seconda cosa da notare è al contrario il sovrappeso dei mercati emergenti. In questa immaginaria conversazione, probabilmente il contributo decisivo è quello di Rob Arnott, che tra i grandi nomi tra gli Asset Manager indipendenti, è uno di quelli che assieme a Jeremy Grantham di GMO da tempo insiste sull’opportunità che rappresenterebbero i mercati emergenti, grazie al loro prezzo iperscontato e alla loro avanzata tecnologica (in particolare in Cina).

Su questo non ho un’opinione forte.
Da un lato è sacrosanto e sia Arnott che Grantham ci vedono del grande valore nelle società più deep value dei mercati emergenti.
Dall’altro il prezzo estremamente basso non è casuale: ci sono un mix di rischi geopolitici, legali, valutari e specifici che determina valutazioni così basse.

Personalmente non so se sarei a mio agio con un peso sugli Emergenti che sarebbe più del doppio di quello che troverei nell’MSCI ACWI, ma questa è una cosa puramente soggettiva.

D’altra parte, è vero che qualunque capital market assumption, da JP Morgan, a Goldman, a Deutsche Bank a AQR e via dicendo attribuiscono ai mercati emergenti il maggior rendimento atteso nei prossimi 5-10 anni.

Comunque la pensi io — che è un dettaglio del tutto irrilevante — questo è ciò che molto coerentemente hanno i proposto i miei cloni AI.

L’altro elemento degno di nota sulla componente azionaria sono i fattori.

Breve ripasso per chi sa già tutto e rapida spiegazione per chi non sa cosa sia un fattore.

In principio, quando è nata la teoria finanziaria classica negli anni ’50 e ’60, si è scoperto che c’è una correlazione lineare tra il rischio sistematico di un asset class e il suo rendimento: più un asset class è rischiosa (dove rischiosa, per lo meno all’inizio, significata che la varianza dei rendimenti era elevata), più il rendimento atteso era superiore.

A partire dagli anni ’90, tuttavia, si è scoperto che ci sono alcune anomalie e che, come dire, in particolare alcune azioni si comportavano in maniera peculiare in base a determinate caratteristiche.

Queste caratteristiche particolari si chiamano “fattori”: società con basse valutazioni (cioè Value stocks), società che sono cresciute di più negli ultimi 12 mesi (Momentum stocks) e società con elevata profittabilità e basso debito (Quality stocks) sembra che generino un extra rendimento rispetto alla media di mercato.

Non sono gli unici fattori riscontrati sul mercato, altri noti riguardano le società a bassa capitalizzazione e quella a bassa volatilità. Però senza dubbio Value, Momentum e Quality sono tra i fattori più universalmente accettati, anche se non c’è molto consenso sui motivi per cui funzionino così.

Ad ogni modo, riducendo la questione all’osso per quel che ci interessa oggi, si potrebbe dire che concentrare una parte del portafoglio azionario su quelle azioni che esprimono questi fattori “dovrebbe, in teoria” portare un maggior rendimento a condizione di essere disposti a sopportare un maggior rischio e magari anche lunghi periodi di sottoperformance rispetto alla media del mercato.

Tornando al nostro portafoglio modello, l’opportunità di combinare Value e Momentum è ormai ben documentata.

Apparentemente sembrano due cose all’opposto l’una rispetto all’altra: Value investe in società, diciamo, depresse, Momentum in società che corrono. Eppure, lo stesso Asness nel 2013 e poi molti altri avevano fatto vedere i benefici di combinare entrambi, dato che hanno una correlazione negativa tra di loro ma ciononostante un rendimento atteso positivo.

Il discorso è molto ampio e complesso e non possiamo trattarlo qui, però diciamo che ormai è una tesi piuttosto consolidata che Value e Momentum sono come il crudo e lo squacquerone: sono buoni anche da soli, ma se li metti insieme hai creato la piadina perfetta.

The Bull si distingue sempre per il rigore accademico delle sue spiegazioni…

Quality invece è uno dei marchi di fabbrica di Asness e oggi è comunemente riconosciuto tra i fattori principali, con un ruolo di rilievo in particolare nelle fasi meno esuberanti del ciclo economico, quando Value e Momentum tendono a funzionare meno.

Detto questo, nello spirito di creare un portafoglio modello adatto ad un investitore retail, ha probabilmente senso combinare l’investimento nel mercato globale con un’esposizione diversificata a questi tre fattori che potrebbero portare un extra rendimento di lungo termine, alternandosi nelle diverse fasi.

Ovviamente è una semplificazione.

Un hedge fund come AQR non investe in Momentum, Value e Quality usando degli ETF.

Per noi comuni mortali, tuttavia, gli ETF fattoriali sono la migliore approssimazione possibile.

Se non altro, un minimo di supporto ce lo dà il fatto che per esempio un portafoglio composto in parti uguali di ETF su MSCI Momentum, Value e Quality ribilanciato annualmente avrebbe sovraperformato l’MSCI World negli ultimi 30 anni e praticamente in qualunque sottoperiodo e in particolare limitato nettamente le perdite dell’azionario globale durante il decennio perduto 2000-2009.

Funzionerà sicuramente anche in futuro?

Boh.

Ricordiamoci la premessa: più rendimento atteso perché più rischio.

L’unica certezza però è il rischio.

E il motivo per cui i fattori potrebbero funzionare è proprio perché ci dobbiamo accollare il rischio che potrebbero NON funzionare.

Passiamo alle OBBLIGAZIONI: 25%

In nessun caso è emersa una forte spinta alla componente obbligazionaria, soprattutto a lungo termine.

Un elemento comune a tutti e quattro è una certa diffidenza verso bond nominali a lungo termine, verso i quali loro ci vedono più rischi che opportunità soprattutto in portafogli con orizzonti temporali adeguati.

Le motivazioni sono diverse, però partiamo considerando una cosa.

Dal 1981 al 2021 i titoli di Stato americani a lunga scadenza hanno reso oltre il 9% all’anno, per una combinazione più unica che rara fatta di tassi iniziale altissimi (quasi 20%) e poi un lunghissimo periodo di disinflazione e basso debito.

Ogni volta che c’è stato qualche momento di crisi, gli investitori facevano incetta di treasury, la fed tagliava i tassi e quelli a lunga scadenza volavano.

Oggi però ci sono due cose che rendono i titoi di Stato, soprattutto a lunga scadenza, forse meno efficaci che in passato per controbilanciare e diversificare adeguatamente le azioni.

– Il primo è che la correlazione con le azioni è tornata positiva, dopo essere stata negativa per buona parte degli anni 2000. Tradotto = azioni e obbligazioni vanno su e giù molto più all’unisono che in passato e ciò offre una minore opportunità di diversificazione. Perché è successo? Perché dopo tanti anni di tassi ultrabassi, prima sono andati alle stelle nel 2022 per contrastare l’inflazione e comunque ora lo scenario base è rimasto “higher for longer”: tassi più alti, più a lungo, soprattutto sulla parte lunga della curva, in un regime a maggior inflazione — e in tutto ciò i dazi non aiutano.

– Il secondo motivo è lo stock di debito. E questo vale per praticamente tutti i Paesi sviluppati. Un debito sempre più elevato fa sì che a parità di domanda di titoli di Stati, per saturare un’offerta maggiore gli Stati dovranno offrire rendimenti più alti.

Insomma, l’idea di fondo è che i titoli di stato, soprattutto a lungo termine, offrano una protezione limitata e rendimenti potenzialmente mediocri, almeno in questo regime di mercato in cui sembra ci troviamo, fatto di bassa crescita, inflazione più elevata e tassi più alti.

Un’idea simile l’aveva espressa da noi anche William Bernstein — come forse ricorderete.

Nel portafoglio modello, quindi, i 4 cloni convergono su questa allocazione molto semplice:

– 15% di global aggregate con copertura valutaria, per esempio tramite il Bloomberg Global Aggregate.

– Il restante 10% invece in titoli governativi europei indicizzati all’inflazione. Per esempio tramite il Barclays Euro Government Inflation linked che investe in titoli di Stato indicizzati di Francia, Italia, Spagna e Germania.

L’idea di fondo è avere un minimo di copertura obbligazionaria in contesti recessivi senza esporsi a scadenze eccessive da una parte e di avere dall’altra un asset “reale”, cioè uno strumento in grado di proteggere dall’inflazione in un eventuale scenario di stagflazione: cioè poca crescita o crescita addirittura negativa e inflazione elevata, che è la criptonite sotto steroidi per i mercati finanziari.

Veniamo infine alla terza fetta del portafoglio: gli ASSET ALTERNATIVI.

Ed è forse qui che soprattutto Asness, Faber e in parte minore Arnott e Haghani hanno portato le idee più interessanti.

C’è una premessa da fare.

Ormai da anni è sempre più crescente il consensus che il mix azioni e titoli di Stato possa diventare via via meno efficace nel futuro come portafoglio modello di riferimento — e questo per almeno tre motivi:

– Intanto il rendimento atteso per le azioni, come abbiamo detto tante volte, è inferiore alla media del passato, che invece negli ultimi 45 anni avevano beneficiato di una serie di condizioni favorevolissime in particolare negli Stati Uniti:

– Tassi in discesa

– Disinflazione

– Globalizzazione

– Esplosione tecnologica

– Tagli delle tasse alle imprese

– Abuso di debito pubblico a basso costo

– Dominio assoluto del dollaro

E tutto ciò ha generato grandi rendimenti, ma anche fatto diventare le azioni americane sempre più costose.

Invece, nel futuro c’è da attendersi:

– Tassi più alti

– Inflazione più alta

– De-globalizzazione

– Maggior pressione fiscale per far fronte ad un debito crescente

– Minor possibilità di far ricorso al debito pubblico per finanziare la crescita

– Ridimensionamento del dollaro (forse)

E tutto ciò non è crea le premesse di un nuovo scenario ultrafavorevole per l’S&P 500.

– La seconda motivazione è legata a quello che abbiamo detto prima sui bond. L’epoca d’oro dei bond è stata il quarantennio dal 1981 al 2021. Il quarantennio precedente invece era stato un disastro. Il prossimo, boh, magari un disastro no perché shock inflazionistici causati dai prezzi delle materie prime come quelli degli anni ’70 oggi sono meno probabili, fosse anche solo che allora gli USA producevano poco petrolio e gas mentre oggi sono i primi produttori al mondo, però appunto non è detto che il comportamento che i titoli di stato hanno avuto nel passato perdurerà immutato anche nel futuro.

– La terza motivazione è che l’aumento della correlazione tra azioni e bond. Se andiamo nella direzione di un regime caratterizzato da inflazione e tassi potenzialmente crescenti, allora possiamo aspettarci una correlazione più alta che nel passato e dunque un minor contributo in termini di diversificazione da parte dei bond rispetto alle azioni.

Quindi?

Come propongono di completare il portafoglio?

L’opinione dei 4 cloni converge su questi tre strumenti:

– 15% diviso più o meno in parti uguali tra oro e commodities, un po’ come nel portafoglio All Season alla Ray Dalio. L’idea, naturalmente, è di avere l’oro come riserva di valore, soprattutto in un contesto di crescenti tensioni geopolitiche, mentre le commodities hanno solitamente un qualche ruolo positivo durante le fasi inflazionistiche alimentate da shock sulle materie prime;

– Il restante 10% è una novità quasi assoluta di questo podcast, perché non ne avevo mai parlato sino ad ora, ossia trend-following attraverso ciò che generalmente vengono chiamati Managed Futures.

Oggi non riesco a spiegare nel dettaglio di cosa si tratta, ma ci limitiamo a dire tre cose, ossia: cosa sono molto in generale, perché sono molto in voga e perché non ne ho mai parlato prima mentre ora potrebbe aver senso farlo.

In maniera molto riduttiva diciamo che i fondi di managed futures utilizzano appunto un mix di futures su azioni, obbligazioni, valute e materie prime e cosa fanno? A seconda delle fasi investono in alcuni asset che, secondo il modello utilizzato, mostrano un trend positivo e allo stesso tempo shortano quelli che stanno manifestando un trend negativo.

Seguono appunto i trend di breve termine.

Per definizione questi sono strumenti che hanno un comportamento completamente decorrelato dalle altre asset class, perché tendono a produrre i risultati migliori proprio durante le fasi ad alta volatilità, come per esempio durante la grande crisi finanziaria o il 2022 — e per questo vanno solitamente nella direzione opposta rispetto al mercato.

Sono sempre più in voga perché teoricamente andrebbero a rispondere proprio all’esigenza di cui parlavamo prima, ossia di avere un reale elemento di diversificazione rispetto ad azioni ed obbligazioni che funzioni davvero quando uno ne ha più bisogno, ossia quando le cose si mettono davvero male.

Il grande contro di questi strumenti è che, per come sono fatti, vanno concepiti come se fossero gli airbag della macchina.

La maggior parte del tempo sono inutili, e la loro tipica performance nell’anno medio ti fa chiedere perché mai ci stai investendo; ma la loro utilità la manifestano in maniera molto concentrata proprio nei momenti più critici.

Chiaramente sono strumenti un po’ complessi, non tanto perché sia complicato investirci — come vedremo tra un secondo — ma perché è importante avere piena consapevolezza di come funzionano ed essere in grado di sopportare di avere nel portafoglio qualcosa che per molto tempo potrebbe solo far perdere soldi — almeno apparentemente.

Perché non ne ho mai parlato sinora?

Beh, perché fino a pochi mesi fa era praticamente impossibile investirci in Italia, se non per mezzo di intermediari.

Invece da qualche mese sono arrivati anche i primi ETF UCITS che investono in Managed Futures, tra cui forse il più noto è quello di Dynamic Beta Investment, chiamato iMGP DBi Managed Futures Fund, che per il momento sia quotato su Euronext Parigi.

Questo quindi è il portafoglio modello condiviso dai 4 geni artificiali che ho interpellato per fare quest’episodio.

Recap:

– 25% MSCI World

– 15% diviso tra MSCI Momentum, Quality e Value

– 10% MSCI Emerging Markets

– 15% Bloomberg Global Aggregate Bonds con copertura in Euro

– 10% Barclays Euro government inflation linked

– 7,5%Oro

– 7,5%Bloomberg Commodities Index

– 10% Managed Futures, per esempio attraverso l’ETF i iMGP.

Ora, prima di chiudere, uno potrebbe chiedersi: ma è un portafoglio lazy che va tenuto così per sempre?

Sì e no.

– Sì, nel senso che l’obiettivo era costruire un portafoglio modello per un investitore standard con un orizzonte temporale medio lungo e una media propensione al rischio;

– No, nella misura in cui può essere adattato alle proprie esigenze e la cosa si può fare in due modi:

– Il modo ideale, ammesso che questo sia il portafoglio che più si avvicina a quello con il miglior rapporto tra rischio e rendimento, probabilmente è prenderlo così com’è e giocare con la leva per aumentare o ridurre il rischio:

– Se voglio puntare ad un rendimento maggiore, investirò con una leva moderata — cioè prendo soldi in prestito e quindi investo più soldi di quelli che ho;

– Se invece voglio ridurre il rischio, faccio la cosa contraria, ossia investo meno del capitale che ho a disposizione e tengo il resto in cash, in un ETF monetario.

Quest’ultima è forse l’idea più forte di Cliff Asness, che per esempio è stata fatta propria come il Vangelo dal caro amico di questo podcast Nick Protasoni, ossia: identificare un portafoglio massimamente diversificato con il miglior rapporto tra rischio e rendimento possibile e usare la leva per gestire il livello di rischio.

– L’altro modo, invece, che è più semplice per l’investitore retail standard, anche se meno efficiente dal punto di vista della teoria finanziaria, consiste nell’aumentare o ridurre la quota azionaria e adattare proporzionalmente il resto.

Questo discorso, me ne rendo conto, meriterebbe un approfondimento maggiore e ce lo teniamo per un’altra volta.

Per oggi mi interessava raccontarvi questo esperimento simpatico, raccontarvi un modello di portafoglio interessante probabilmente per la maggior parte di noi e cogliere questo spunto per ragionare assieme sulle 3-4 cose che possono avere un ruolo rilevante nella composizione strategica del proprio portafoglio: valutazioni azionarie di partenza, regimi macroeconomici, correlazioni, traiettoria dei tassi di interesse e così via.

Chiaramente non è una raccomandazione di investimento e va preso solo come un modello di riferimento, non come una ricetta del medico dei vostri soldi. Del resto lo sappiamo: Il portafoglio perfetto non esiste. Il miglior portafoglio è soprattutto quello che va bene per noi e in cui riusciamo a investire per decenni. Ma se quattro menti brillanti (anche se un po’ reali e un po’ artificiali) convergono su certi punti, forse ascoltarli può essere un utile stimolo. E se poi un giorno riusciremo a far venire anche Cliff, gli chiederemo conferma di persona.

Di tutto quello che abbiamo parlato, forse il discorso sulla terza gamba del portafoglio, quella dedicata agli asset reali, è ciò che meriterebbe un approfondimento ulteriore, fosse anche solo che è la cosa di cui abbiamo parlato di meno in questi due anni e che invece richiederebbe di andare un po’ più in profondità proprio per far fronte alle possibili sfide del futuro.

Il portafoglio fatto di azioni e obbligazioni è il punto di partenza ideale per tutti gli investitori. Su questo è difficile che qualcuno riuscirà mai a farmi cambiare idea.

Il portafoglio fatto di azioni, obbligazioni e “qualcos’altro”, però, può rappresentare invece un’evoluzione ulteriore per chi ritiene importante adattare il proprio portafoglio a certi possibili scenari macroeconomici a cui abbiamo assistito poco negli ultimi decenni e che invece potrebbero diventare lo standard nel futuro prevedibile.

Con tutti i condizionali del caso naturalmente.

Nel prossimo episodio, se non cambio idea nel frattempo, proveremo a fare una rassegna dei diversi asset reali che possono assolvere appunto alla funzione di terza gamba del portafoglio, con tutti i pro e i contro del caso.

Spero intanto che l’episodio di oggi vi sia piaciuto, fatemi sapere che ne pensate e sono certo che qualcuno tra voi proverà a rifare la stessa cosa.

Sicuramente i risultati saranno diversi perché il mio ChatGPT è ovviamente “addestrato” sui miei contenuti, ma magari dai vostri escono degli spunti interessanti.

Nel frattempo vi invito a mettere segui e ad attivare le notifiche su spotify, apple podcast o dove ci ascoltate e a lasciare una recensione a 5 stelle per supportarci e permetterci di continuare a produrre contenuti che vi faranno conoscere tanti protagonisti straordinari dal mondo della finanza e quando questi non vorranno venire ospite ci sarà la loro controparte AI pronta a nostro uso e consumo sempre nuovi.

Per questo episodio invece è davvero tutto e noi ci risentiamo domenica prossima con un nuovo appuntamento insieme, sempre qui, naturalmente con The Bull, il tuo podcast di finanza personale.

Recensioni

Quando capisci come funziona la finanza… ti viene voglia di raccontarla!

Podcast piacevole, scorre veloce ma in modo estremamente chiaro, spiega i concetti chiave per gestire le proprie finanze, fornendo la classica cassetta degli attrezzi. Complimenti, davvero ben fatto!

Massimiliano, 29 Mag 2024

Ho seguito tutte le puntate! Grazie veramente

Amalia A., 17 Set 2025

Riccardo mi ha letteralmente cambiato la vita e fatto scoprire che amo la finanza, ho ascoltato il podcast già due volte e non mi stufo mai di ascoltarlo, parla in modo semplice e chiaro

Massimo D., 23 Set 2025

Dovrebbero ascoltarlo buona parte degli italiani e io avrei dovuto scoprirlo con qualche anno in anticipo ma meglio tardi che mai

Matteo C., 3 Set 2025

Podcast che dà sempre spunti interessanti che personalmente mi ha fatto appassionare alla finanza personale spingendomi ad approfondire in prima persona.

Lorenzo, 13 Mar 2025

Ho acquistato e letto il suo libro e l' ho trovato. Esprime i concetti economici in modo semplice e chiaro. Sentirlo parlare conferma che è un professionista del settore.

Giulia N., 11 Ago 2025

Veramente veramente raccomandato! la finanza personale riassunta alla perfezione! e spiegata partendo dall'ABC! Ottimo anche da ascoltare a velocita 1,5x!

Giorgia R., 23 Gen 2025

Da quando l'ho scoperto in 15 gg mi sono ascoltato 150 puntate senza fermarmi, ho annullato gli altri podcast per portarmi alla pari ed ascoltare tutte le precedenti puntate, ben fatto, esattamente il livello di informazione che mi serviva

Gianluca G., 11 Set 2025

Non sono solito a mettere recensioni e specialmente non ascolto podcast, ma da quando ho iniziato questo, faccio fatica a staccarmi, e quasi non posso più fare a meno di ascoltare e arricchirmi culturalmente.

Andrea V., 22 Set 2025
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