124. Come investire in ETF di Qualità
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Il fattore Quality si basa su profittabilità, basso indebitamento e stabilità degli utili; Utilizzabile tatticamente/strategicamente per portafoglio o come diversificatore; Gli ETF Quality sono long-only, hanno costi maggiori e protezione limitata nei mercati orso.
Trascrizione Episodio
Bentornati a The Bull — Il tuo podcast di finanza personale.
Sì il titolo è una mezza cazzata, serviva solo per attirare qui tutti voi e tutti quelli che fossero alla ricerca di una spiegazione facile e veloce su come far soldi in fretta con gli ETF senza troppe pippe mentali.
In realtà il titolo corretto di questo episodio sarebbe dovuto essere qualcosa tipo: analisi dell’investimento fattoriale, con particolare riferimento al fattore Profittabilità, e della sua correlazione nelle diverse fasi dei cicli economici.
Capite però che sto episodio poi non lo ascoltava nessuno.
E qua invece bisogna continuare a portare a casa la pagnotta, altrimenti se smettete di ascoltare di The Bull veniamo sorpassati da podcast che parlano solo di stragi e squartamenti e ci prendiamo tutti male, soprattutto io che poi mi tocca lavorare per altri 30 anni e il solo pensiero mi fa venire una fitta al cuore.
Invece voi avrete pensato: “ah che bello, capiamo come si scelgono gli ETF di miglior qualità così da dare qualità al mio già bel portafoglio”.
E invece fregati, non parliamo di questo.
Però magari parliamo di una cosa pure più interessante.
Parliamo cioè dell’investimento nel fattore Quality, del perché sta raccogliendo così tanto successo soprattutto negli Stati Uniti e in che circostanze può essere un pilastro utile nella composizione di un portafoglio un po’ più complesso del classicum classicorum di cui parliamo sempre fatto di azioni e obbligazioni, market cap weighted, punto e morta lì.
Per chi fosse capitato qua per caso, consiglio di ascoltare gli episodi 113 e 116 in cui abbiamo parlato di factor investing un po’ in generale.
Giusto per riprendere al volo la teoria, tutto ciò nasce dagli studi di Eugene Fama e Kenneth French che a partire dagli anni ’90 avevano capito che era possibile individuare dei fattori alla base di un extra rendimento sistematico di certi portafogli rispetto al portafoglio market cap weighted che copia il mercato paro paro.
I 5 fattori del cosiddetto Five-Factor-Model erano: Size (ossia società di piccola dimensione), Value (quindi azioni con prezzi relativamente bassi rispetto al valore contabile netto), Profittabilità, Investimenti (quindi società che investono meno in cose come capital expenditures, ricerca e sviluppo e così via) e poi ovviamente il fattore originario che era quello previsto dal modello del Capital Asset Pricing Model, ossia l’equity risk premium del mercato azionario rispetto al tasso d’interesse senza rischio dei titoli di stato moltiplicato per Beta, la volatilità relativa del portafoglio rispetto al mercato di riferimento (ovviamente se investi in un index fund o in un ETF su tutto il mercato, Beta è uguale a 1 e l’unico fattore è l’equity risk premium).
Ora, per definizione un fattore è un portafoglio che va lungo su un asset e corto su un altro.
Il premio al rischio delle azioni, il motivo per cui tutti noi investiamo (almeno in parte) in azioni invece che solo in obbligazioni, è la differenza tra il rendimento derivante dall’investimento azionario e il rendimento derivante da quello obbligazionario.
Andre lungo su un asset e corto su un altro si può forse spiegare in questo modo.
Immaginiamo di non avere soldi da investire e ignoriamo i costi tecnici che servono per fare quello che sto per dire.
Io, squattrinato senza un dollaro, potrei vendere allo scoperto 10.000 dollari di Titoli di Stato Americani a breve scadenza, che oggi rendono un po’ di più del 5% annualizzato, diciamo 5% per comodità.
Per vendere allo scoperto in realtà dovrei pagare qualcuno che mi presti i titoli da vendere, perché gratis questa cosa non te la fa fare nessuno.
Ma nel nostro esempio facciamo finta che si possa fare.
In questo modo ho i miei 10.000 dollari da investire creati dal nulla.
Però alla fine dell’anno comunque devo restituirli e so già che questi, essendo risk-free, quasi certamente a fine anno avranno reso il 5%, quindi avrei da restituire 10.500 dollari.
Allora io investo questi 10.000 dollari nell’S&P 500, mi faccio il segno della croce, e confido che in ogni dato anno l’S&P restituisca il suo rendimento medio storico, ossia circa 11% (in realtà sarebbe un po’ meno ma non complichiamoci troppo la vita).
Alla fine dell’anno i miei 10.000 dollari saranno diventati 11.000, restituisco i 10.500 a quello che mi aveva prestato i titoli di Stato e mi sono portato a casa il 6% lordo.
Questo 6% è il premio al rischio, ossia il fattore di mercato, cioè l’extra rendimento derivante dall’investire in azioni invece che in obbligazioni.
Con gli altri fattori funziona un po’ allo stesso modo.
Il fattore Size, ad esempio, esprime il rendimento derivante dall’investimento in società a bassa capitalizzazione MENO il rendimento derivante dall’investimento in società ad alta capitalizzazione, che è l’equivalente di andare “long”, ossia comprare, azioni Small Cap, e contemporaneamente andare “short”, ossia vendere, azioni Large Cap.
E così via per tutti gli altri fattori.
Da tutte queste belle ricerche è nato l’enorme filone dell’investimento fattoriale che anche nel mondo degli ETF ha prodotto una miriade di strumenti per cercare di catturare questi fattori e far così ottenere, teoricamente, del rendimento supplementare all’investitore.
Ora, alla fine dell’episodio riprenderemo meglio alcune cose che anticipo ora, ma è bene precisare che non è che basta comprare quattro ETF fattoriali e diventiamo ricchi.
Teoricamente gli ETF fattoriali hanno un extra rendimento rispetto al mercato perché comportano l’assunzione di maggiori rischi, fosse anche solo il fatto che per esprimere il lor extra rendimento potenziale potrebbero aver bisogno di lunghi orizzonti di tempo, amplificando gli effetti del momento di ingresso dei nostri investimenti su questi fattori e del rischio di sequenza dei rendimenti.
Rischio di sequenza, vi ricordo, è il fatto che se investo un po’ per volta (o prelevo soldi dal portafoglio), più lo strumento in cui investo è volatile, maggiore sarò lo scostamento del mio rendimento reale da quello dell’asset sottostante.
Se ancora aveste dei dubbi, vi rimando all’episodio 95.
Ok, di tutti gli ETF fattoriali che esistono, perché parliamo di Quality?
Perché di recente ho letto articolo scritto da un tizio che guarda caso fa il responsabile della divisione Factor ETF di Blackrock e che, senza che naturalmente avesse alcuna intenzione di promuovere i prodotti dalla cui vendita deriverà il suo cospicuo bonus di fine anno, ha fatto un’interessante disamina su questo specifico fattore.
La premessa è che nell’ultimo anno negli Stati Uniti oltre 13 miliardi di dollari sono confluiti dentro gli ETF Quality di Blackrock e la tesi è che molti investitori e gestori, che iniziano ad aver un po’ di strizza vedendo il mercato estremamente concentrato in una manciata di poche mega tech, abbiano cominciato a indirizzare un po’ di investimenti verso società definite di alta qualità — e adesso capiamo cosa significa alta qualità.
Questo principalmente perché finora il mercato ha retto bene, ma se il contesto di tassi “higher for longer” dovesse perdurare troppo, prima o poi il mercato presenterà il conto e dato che le valutazioni attuali, come diciamo spesso, sono estremamente elevate, molti percepiscono il rischio di essere in un mercato che sembra andare benissimo ma che in realtà si regge sulla performance di una esigua manciata di società super star.
Ora, come si definisce una società di alta qualità, rispetto ad una di bassa qualità.
Fondamentalmente i criteri sono tre.
– Il PRIMO è la profittabilità definita attraverso il Return on Equity, una metrica di cui avevamo parlato nell’episodio 105.
Return on Equity è il rapporto tra utili per azione degli ultimi 12 mesi e il valore patrimoniale netto per azione.
In pratica esprime quanto profitto la società riesce estrarre dal suo valore contabile.
Maggiore è questo rapporto e maggiore naturalmente è la profittabilità della società.
– Il SECONDO è il rapporto di indebitamento, che si misura facendo Debito a lungo termine diviso valore contabile della società.
Se una società ha 100 miliardi di asset, e 60 miliardi di debiti, allora il suo book value sarà 40 miliardi. 60 diviso 40 fa 1,5 e questo 1,5 è il rapporto di indebitamento.
Non è proprio correttissimo quel che ho detto ma tanto basta per capirci.
L’idea comunque, piuttosto intuitiva, è che una società poco indebitata sia in grado di generare maggiori utili nel tempo e quindi di sostenere la crescita di valore della sua azione.
– Il TERZO è la variabilità degli utili, che tecnicamente è definita come la deviazione standard anno su anno della crescita dell’utile per azioni negli ultimi 5 anni, ossia quanto è stata volatile negli ultimi 5 anni la crescita dell’utile per azione. L’idea qui è che più sia costante la crescita degli utili di una società, migliore dovrebbero essere le performance a lungo termine dell’azione e in particolare meglio dovrebbe comportarsi in contesti di mercato sfavorevoli.
Si capisce da questi tre principi per definire una società di “alta qualità” il motivo per cui in effetti il fattore Quality sia diventato via via più popolare in un momento in cui le valutazioni sono molto alte, i tassi di interessi pure, il mercato è molto concentrato e i permabear non aspettano altro che il mercato vada giù per dire “ve l’avevamo detto!”.
Se lo meritano poverini.
Sono ormai più di 10 anni che lo dicono.
Prima o poi arriverà il loro momento, in fondo anche il proverbiale orologio rotto segna l’ora giusta due volte al giorno.
Comunque, dicevamo, un tilt del portafoglio verso questo fattore potrebbe avere il suo senso e tra poco vediamo in che modo.
Vediamo però gli strumenti innanzitutto.
Ora, qui parliamo quasi esclusivamente di ETF e di gestione passiva, quindi parlando di un ETF che replica il fattore Quality, in realtà stiamo parlando di uno strumento che fa una selezione delle società sottostanti in base ai principi che abbiamo esposto, ma senza la componente short.
Un ETF quindi, al netto di particolari strumenti a gestione attiva, è per definizione long-only.
Al di là di questa specifica tecnica, prendiamo l’ETF più grande disponibile in Europa che replica il fattore qualità a livello globale, che è l’Ishares Edge MSCI World Quality Factor UCITS ETF ad accumulazione. Esiste sia così che nella versione ESG, così come entrambe le versioni sono offerte da Xtrackers.
Quello di Ishares è un ETF bello grosso da oltre 3,6 miliardi di dollari di capitalizzazione.
Come sempre accade per gli ETF fattoriali, i costi non sono proprio bassissimi.
Se guardiamo i costi di gestione viene dichiarato uno 0,3% all’anno.
Di più rispetto a quanto siamo abituati, ma niente di clamoroso rispetto ai soliti 0,1-0,2% all’anno.
Rispetto agli ETF tradizionali, tuttavia, un ETF fattoriale sarà chiamato più spesso a modificare la composizione del portafoglio per catturare l’extra rendimento potenziale che il fattore qualità dovrebbe garantire all’interno del mercato.
Questo si traduce in un maggior impatto in termini di costi di transazione che l’emittente del fondo deve sostenere.
Se andiamo a guardare nel KID, la stima per un periodo di detenzione di 5 anni è dello 0,4% all’anno.
E questo potrebbe essere anche più alto se per qualche il motivo il turnover del portafoglio, ossia il ricambio di titoli al suo interno dovesse aumentare.
Quindi attenzione quando si investe in ETF fattoriali perché è vero che stiamo sempre parlando di cifre contenute, ma quando cominciamo a lasciar per strada lo 0,4-0,5% all’anno di costi non è che sia poca roba.
Se investo 500 € al mese per vent’anni, uno 0,3% di extra costo rispetto al costo di un tradizionale ETF sull’MSCI World mi verrà a costare quasi 10.000 € di rendimento.
Certo, c’è di peggio nella vita, ma anche regalare i soldi non fa piacere a nessuno.
Vediamo intanto come è composto.
A livello geografico, tanto per cambiare stradominio degli Stati Uniti con il 73%.
Al secondo posto abbiamo la Svizzera con il 4,2% e poi a seguire Regno Unito, Olanda, Danimarca, Giappone, Canada, Francia, Spagna, Germania e poi tutti gli altri.
Tra le prime dieci partecipazioni abbiamo — e anche qui, tanti nomi noti:
– Nvidia, con il 5,57%
– Apple, con il 4,7%
– Microsoft, con il 4,5% e poi nell’ordine
– Meta
– Visa
– Novo nordisk
– Eli Lilly
– ASML
– Mastercard e
– Costco
Rispetto al MSCI World generale mancano, almeno tra le prime dieci posizioni, Amazon, Google, Broadcom e JP Morgan.
Ora, su come vengono selezionate le società e sui pesi attribuiti non ci addentriamo, se volete sul sito di MSCI World c’è tutta la metodologia descritta, che è una roba piuttosto tecnica e barbosa.
Volessimo fare un backtest in euro ho trovato i dati fino al 98, perché l’ETF non segue l’indice MSCI Quality, bensì l’MSCI Sector Neutral Quality Index.
La sovraperformance di quality rispetto al mercato dalla fine del 1998 ad oggi è stata piuttosto impressionante: 8,3% all’anno contro 6,7% dell’MSCI World e pure a fronte di una deviazione standard leggermente più bassa.
Anche durante il decennio perduto Quality ha tenuto meglio botta del mercato, perdendo in media l’1,3% all’anno contro il -3,7%.
Negli ultimi 10 anni infine Quality ha fatto meglio dell’MSCI World generale 13,9% all’anno contro 12,7%.
Attenzione, aprite bene le orecchie: il fatto che negli ultimi 26 anni abbia fatto molto bene e che nei singoli sottoperiodi abbia sempre sovraperformato non significa che investire in questo strumento sia una garanzia di extra performance.
Lo strumento esiste dal 2015, abbiamo i dati ricostruiti da MSCI fino al 1998, ma nulla ci dice che i criteri di selezione delle società presenti nell’indice garantiranno extra performance anche nel futuro.
Ora, quali sono gli utilizzi che si possono fare di questo strumento.
Torniamo al nostro amico di Blackrock, capo della divisione factor investing.
Lui propone tre opzioni.
OPZIONE UNO: utilizzo tattico.
Utilizzo tattico significa avere esposizione a società con alta profittabilità e basso indebitamento (quindi 2 dei 3 criteri di cui parlavamo prima) nel contesto attuale caratterizzato da tassi d’interesse più alti e più a lungo, che come noto tendono ad avere un impatto negativo soprattutto su società che hanno bilanci meno solidi.
Inoltre, l’altra ipotesi è che società di alta qualità possano resistere meglio in un contesto di bassa crescita e persino in un eventuale flessione negativa del mercato.
Cioè quindi l’idea tattica è di dare adesso questo tilt al portafoglio per meglio posizionarsi in un contesto di tassi alti a lungo e potenziale deterioramento del quadro economico generale.
OPZIONE DUE: utilizzo strategico.
Utilizzo strategico ha invece più a che fare con l’idea di inserire stabilmente questi strumenti nel portafoglio per fare leva soprattutto sul terzo criterio, ossia potenziale extra rendimento sostenuto da una crescita stabile degli utili.
Come ricorderete il terzo criterio per definire una società di buona qualità era una bassa deviazione standard relativamente alla crescita degli utili per azione degli ultimi 5 anni.
L’inserimento a lungo termine del fattore quality nel portafoglio sarebbe quindi funzionale a catturare questa tendenza stabile alla crescita degli utili di queste società.
Peraltro secondo i dati di Ken French, quello del dinamico duo Fama and French, su singoli anni il fattore quality, definito come Robust Minus Weak Profitability, ossia rendimento di azioni di società con una profittabilità robusta contro quelle con una profittabilità più debole o, detto come fanno quelli bravi, long alta profittabilità e short bassa profittabilità, dicevo in singoli anni il worst scenario è stato anche -37%, ossia è possibile che in singoli anni un portafoglio quality sottoperformi di oltre un terzo un portafoglio non quality.
Su orizzonti di 10 anni, invece, il peggior scenario in base ai dati storici sarebbe stato un -1,7%.
Infine OPZIONE TRE: per diversificare il portafoglio rispetto ad altre inclinazioni fattoriali.
I fattori ad oggi più frequentemente utilizzati sono, oltre a Quality, Size, Value, Momentum, Low Volatility e qualcuno considera anche High Dividend, anche se su quest’ultimo ho trovato spesso pareri discordanti.
Questi 5 (o 6) fattori fanno cose diverse e catturano extra rendimento in base a diversi criteri e in differenti fasi del mercato.
In particolare, Quality, che è considerato un fattore fondamentalmente difensivo, ossia che darebbe il meglio di sé in fasi di rallentamento del mercato, dovrebbe essere un buon contrappeso nei portafogli esposti a Size e Value, dato che sia le Small cap che le società con un basso prezzo rispetto la loro book value tendono invece a crescere soprattutto nelle fasi di ripresa del mercato.
Lui fa poi vedere la solita matrice con la correlazione tra i vari fattori, di cui avevamo già parlato.
Prima però diciamo quale sarebbe il presupposto teorico per cui un portafoglio Quality sarebbe decorrelato in particolare rispetto ad un portafoglio Value.
Il suo ragionamento si basa sul cosiddetto dividend discount model, ossia su un modello piuttosto noto che si utilizza per determinare il fair valute di un’azione.
Proviamo a spiegarlo nel modo più semplice possibile.
Allora premessa: perché uno investe in azioni?
In generale perché si aspetta di ottenere un certo rendimento mettendo il suo capitale a rischio sotto l’auspicio che la società generi degli utili nel tempo, di cui l’azionista godrà per una certa quota.
Ora però una società non distribuisce tutti i suoi utili agli azionisti.
Una parte vengono distribuiti sotto forma di dividendi, mentre un’altra parte resta nella società come retained earnings, che a loro volta possono essere utilizzati per fare nuovi investimenti che continuino a far crescere gli utili della società o più meccanicamente per fare dei buyback, ossia per ricomprarsi le proprie azioni così da far salire i prezzi.
Ad ogni modo, il modello del dividend discount model cerca di definire quale sia il prezzo — tra virgolette — corretto di un’azione come valore presente dei flussi di cassa futuri derivanti dall’investimento in quell’azione.
Detto altrimenti.
Il prezzo di un’azione, sempre che sia correttamente prezzato e che tutte le stime siano giuste, dovrebbe corrispondere al valore presente dei futuri flussi di cassa, intesi sia come dividendi che come utili trattenuti dalla società, attualizzati attraverso un certo tasso di sconto che adesso vi dico.
Intanto la formula dice che il valore di un’azione è uguale al rapporto tra i dividendi per azione attesi e il tasso di sconto netto.
Per tasso di sconto netto si intende la differenza tra il rendimento che mi aspetto dal fatto di investire in quell’azione e il tasso di crescita dei dividendi.
Ok mentre parlo mi sto rendendo conto che non s’è capita una beata fava.
Semplifichiamo partendo da un esempio.
Diciamo che una società paghi un dividendo di 3 dollari per azione e che si aspetti che i dividendi crescano del, boh, 5% all’anno.
Perché dovrebbero crescere mi chiederete voi?
Eh perché per definizione quando un’azienda inizia a ridurre i dividendi tipicamente gli investitori lo prendono come un cattivo segnale e vanno altrove.
Le cosiddette dividend Aristocrats, infatti, sono quelle società che per almeno da 25 anni incrementano ogni anno i dividendi.
Quindi, 5% all’anno.
Ammettiamo inoltre che, per investire in quella specifica società, l’investitore si aspetti di guadagnare almeno il 9% all’anno e questo 10% viene chiamato cost of equity capital, cioè il costo, tra virgolette, che la società deve sostenere per convincere un investitore a dargli i propri soldi.
A questo punto abbiamo tutti i dati per calcolare il fair value dell’azione.
Al numeratore mettiamo 3 dollari aumentati del 5%, perché abbiamo detto che il dividendo atteso crescere del 5% all’anno, quindi 3,15.
Al denominatore mettiamo il tasso netto di sconto che è la differenza tra il rendimento richiesto dall’investitore, 9%, meno il tasso di crescita dei dividendi, 5%, che fa 4%.
3,15 diviso 4% (ossia diviso 0,04) fa 78,75 dollari.
Se ho fatto tutti i conti giusti e se il modello funziona — e tutto ciò è tutt’altro che scontato — allora se il prezzo di mercato dell’azione è superiore a 78,75 dollari potrei considerarla sopravvalutata, viceversa sottovalutata.
Perché vi sto facendo sto pippone atomico?
Eh perché sennò non si capisce per quale motivo secondo questo modello le società quality dovrebbero essere decorrelate rispetto a quelle value.
Le società value sono quelle che avranno un tasso di sconto più alto, perché essendo al denominatore della formula, maggiore è il tasso di sconto, minore sarà la valutazione della società.
Le società quality, invece, avendo degli utili attesi maggiori, avranno valutazioni più alte perché a maggiori utili attesi corrisponderà l’aspettativa di un cash flow superiore e dunque di un numeratore più grande.
Più grande è il numeratore nella formula, maggiore sarà la valutazione dell’azione.
Questo comportamento in qualche modo alternativo tra l’uno e l’altro fa di quality un significativo diversificatore della componente value del portafoglio.
Ora, come si comportanto in generale i vari fattori e dove si inserisce in particolare Quality, potremmo chiederci a valle di tutta sta allegra chiacchierata?
Partiamo dalle correlazioni — e qui ci basiamo sul modello long-short di Fama e French.
Rispetto al mercato in generale, market cap weighted, abbiamo i sequenti rapporti di correlazioni:
– Small Cap: 0,28, quindi c’è una significativa correlazione con il mercato;
– Value; -0,21, quindi la correlazione è leggermente negativa;
– Leggermente negativa è anche per Quality e Momentum, rispettivamente -0,18 e -0,17 e infine
– La massima decorrelazione con il mercato si ha con il fattore minimum volatilty con -0,61.
Ricordiamo che la correlazione è espressa con un valore tra 1 e -1, dove 1 significa perfetta correlazione, -1 perfetta correlazione antitetica, ossia i due asset vanno esattamente in direzioni opposte, mentre 0 significa che hanno un comportamento indipendente l’uno dall’altro.
Se prendiamo il rapporto tra Quality e Small Cap abbiamo -0,35, quindi un livello di decorrelazione piuttosto significativo che fa comprendere come i comportamenti dei due portafogli andrebbero in maniera piuttosto divergente l’uno dall’altro, mentre rispetto a Value c’è una bassa correlazione positiva di 0,09.
Questi valori rispondono alle varie fasi dei mercati in cui i diversi fattori tenderebbero ad esprimere il loro potenziale in termini di extra rendimento.
Vi ricordate le 4 fasi del ciclo economico di cui parliamo spesso?
Abbiamo:
– Una fase di espansione, dove tipicamente è Momentum il fattore dominante;
– Una fase di rallentamento, in cui performerebbero meglio Quality e Low Volatilty;
– Stesso discorso per la fase di contrazione o recessione e infine
– Una fase di recupero, dove invece Small Cap e Value si esprimono al meglio.
In teoria, da quel che abbiamo detto, sembrerebbe che ne derivino queste due conclusioni:
– La PRIMA è che tutti i fattori, tranne Size, sono decorrelati rispetto al mercato azionario generale e quindi dovrebbero essere una valida protezione nei momenti di flessione del mercato;
– La SECONDA è che incorporare i vari fattori nel portafoglio permetterebbe a questo di funzionare bene in ogni fase di mercato eliminando buona parte dei rischi.
Sì, in teoria.
In pratica avrei qualcosa da ridire.
Rispetto al primo punto, non è esattamente vero che quella è la correlazione che noi ci prendiamo investendo in ETF, che sono strumenti che hanno solo la componente long della strategia fattoriale.
Vi linko negli shownote un articolo uscita su Outcast Beta, bello difficilotto e per stomaci forti, che, per farla breve e saltando tutto l’impianto analitico che mi è costato più di un moment per l’emicrania che mi ha provocato, fa vedere che la componente long di una strategia fattoriale ha in effetti un rendimento atteso superiore rispetto al mercato in generale ma durante i bear market, cioè nel momento in cui ci servirebbe di più che i fattori facessero il loro, praticamente non c’è rendimento in eccesso.
Il rendimento in eccesso durante le fasi negative del mercato, e quindi la correlazione negativa della maggior parte di fattori con il mercato in generale, deriva in buona parte dalla componente short della strategia fattoriale, che tuttavia non è presente in un ETF, che di solito si limita solo a concentrare l’investimento in società che esprimono un certo fattore senza shortare quelle che lo esprimono meno.
Ora l’aspetto tecnico di sta roba è interessante fino ad un certo punto.
Diciamo solo che l’investimento fattoriale ha il potenziale a lungo termine per sovraperfomare il mercato ma durante i momenti negativi, mi spiace, ma non c’è da aspettarci che siano di grandissima protezione nei confronti del poratfoglio.
Quando il mercato va male, fattori o mica fattori, se investi in azioni e non hai una strategia che shorta il mercato, ti prendi tutto il male che ne viene. Punto.
Shortare il mercato invece ha tutta una serie di altri problemi e soprattutto costi, di cui però magari ne parleremo un’altra volta.
L’altro punto invece, ossia il fatto che inserire più fattori nel portafoglio risolva tutti i problemi in tutte le stagioni dei mercati, mmhhh, non è proprio detto.
Se costruisco un portafoglio che controbilancia tutti i rischi, quello che ottengo è il rendimento risk-free dei titoli di stato.
Magari è anche vero che in ciascuna delle 4 fasi mi prendo il meglio da ogni fattore, ma ciò funziona, in teoria, se ruoto i fattori, ammesso e non concesso di essere in grado di identificare ogni fase nel momento in cui mi ci trovo (e tendenzialmente con un certo anticipo).
Easier said than done come si dice, più semplice sulla carta che nella realtà.
Se invece mi riempio il portafoglio di fattoriali come se facessi un portafoglio lazy, statico e con il suo bel piano di accumulo mensile, ho qualche dubbio che ciò porti ad un valore aggiunto significativo.
Giusto per fare un esempio, se negli ultimi 10 anni avessimo confrontato un portafoglio al 100% sul MSCI World con un portafoglio in parti uguali composto da Quality, Momentum, Small Caps e Value sempre sull’MSCI world, quello plain vanilla semplice avrebbe ottenuto uno 0,5% di rendimento supplementare all’anno, in buona parte dovuto probabilmente ai maggiori costi degli ETF fattoriali. E lo stesso risultato si ottiene anche investendo una quota fissa mensile.
Negli ultimi 20 anni, invece, il portafoglio multifattoriale avrebbe fatto nettamente meglio, 9,45% contro 8,14%, differenza che però praticamente si annulla se consideriamo un investimento fisso mensile, per via del solito tema del rischio di sequenza. Il motivo probabilmente è dovuto al fatto che il grosso della sovraperformance del portafoglio multifattore è concentrato nei primi 10 anni, mentre invece nella seconda decade, con maggiore capitale investito, pesa di più la crescita impressionante del mercato che viene catturata al meglio con un market cap weighted rispetto ad un portafoglio che incorpora Value e Small caps che da un bel pezzo sottoperformano il mercato.
Conclusioni.
Può essere una buona idea dare un tilt fattoriale verso società di alta qualità nel portafoglio nel momento attuale.
Boh… e che ne so…
Io leggo cose, ve le metto insieme e ve le riporto qua, poi tirate le vostre conclusioni.
Da un lato sì, per tutti i motivi esposti in questa scarsa mezz’ora.
Da un lato boh, perché come tutti gli investimenti in un mercato efficiente maggiori rendimenti comportano potenzialmente maggiori rischi e qui oltre ai maggiori rischi derivanti da un maggiore concentrazione degli asset sottostanti, non bisogna dimenticarsi di costi più alti che a lungo termine hanno senso solo a fronte di una sovraperformance costante, altrimenti possono avere un impatto negativo sulla redditività dell’investimento in generale.
Quindi, boh, fate un po’ quel che vi pare, purché vi sia tutto chiaro e come sempre le vostre decisioni siano consapevoli.
Una bella sventagliata di numeri, analisi e formule matematiche avranno sicuramente rinfrescato la vostra afosa giornata meglio di una granita, lo sapevo che non aspettavate altro in questo torrido luglio se non aggiungere sudore supplementare cercando di capire ciò di cui volevo parlare oggi.
Comunque l’importante è che abbiate capito perché sta girando quest’idea di sovrappesare le società di alta qualità nel portafoglio affinché poi facciate ciò che ritenete più opportuno per i vostri investimenti.
Del resto, lo so per esperienza che dopo un po’ che investite, alla fine un portafoglio tranquillo tranquillo, fatto di due ETF globali senza troppe menate vi annoia, lo so che ora volete capirne di più, fare cose più complicate, provare strategie nuove e via dicendo.
Ecco, con i fattoriali potete davvero divertirvi all’infinito.
Che sia poi una buona idea, beh, chi può dirlo.
Certamente, se fosse dimostrato che un certo rendimento GARANTISCE un miglior risultato, allora tutti vi ci si butterebbero e immediatamente smetterebbe di avere questa caratteristica.
Se l’investimento fattoriale porta un extra rendimento è perché porta con sé anche un extra rischio.
Se vi va di rischiare qualcosa in più e la vostra pianificazione lo consente, ecco, oggi abbiamo buttato giù qualche idea.
Grazie invece come sempre per essere giunti in fondo a quest’ostico episodietto e spero che sia stato utile per aggiungere qualche nuovo tassello all’inifinito puzzle della vostra consapevolezza finanziaria.
Grazie di cuore per essere ancora qui, in questa sgangherata comunità di aspiranti milionari (o plurimilionari, visto che qualche milionario che mi ascolta c’è già) che conta oltre 200.000 persone e che in un annetto ha fatto partire la musichetta iniziale di The Bull oltre 3 milioni di volte.
3 milioni di grazie a tutti voi.
Come sempre a questo punto giunti e prima di congedarci per la 124ma volta vi invito a mettere segui e attivare le notifiche su Spotify, Apple Podcast, Youtube o dove ci ascoltate e a lasciare una recensione a 5 stelle per supportarci e permetterci di continuare a produrre contenuti di qualità, ma così di qualità che per trenta minuti si parla solo di qualità sempre nuovi.
Per questo episodio invece è davvero tutto e noi ci risentiamo domenica prossima con un nuovo capitolo di questa lunghissima poco divina e tanto commedia che stiamo scrivendo tutti assieme sempre qui, naturalmente, con The Bull Il tuo podcast di finanza personale.
Bentornati a The Bull — Il tuo podcast di finanza personale.
Sì il titolo è una mezza cazzata, serviva solo per attirare qui tutti voi e tutti quelli che fossero alla ricerca di una spiegazione facile e veloce su come far soldi in fretta con gli ETF senza troppe pippe mentali.
In realtà il titolo corretto di questo episodio sarebbe dovuto essere qualcosa tipo: analisi dell’investimento fattoriale, con particolare riferimento al fattore Profittabilità, e della sua correlazione nelle diverse fasi dei cicli economici.
Capite però che sto episodio poi non lo ascoltava nessuno.
E qua invece bisogna continuare a portare a casa la pagnotta, altrimenti se smettete di ascoltare di The Bull veniamo sorpassati da podcast che parlano solo di stragi e squartamenti e ci prendiamo tutti male, soprattutto io che poi mi tocca lavorare per altri 30 anni e il solo pensiero mi fa venire una fitta al cuore.
Invece voi avrete pensato: “ah che bello, capiamo come si scelgono gli ETF di miglior qualità così da dare qualità al mio già bel portafoglio”.
E invece fregati, non parliamo di questo.
Però magari parliamo di una cosa pure più interessante.
Parliamo cioè dell’investimento nel fattore Quality, del perché sta raccogliendo così tanto successo soprattutto negli Stati Uniti e in che circostanze può essere un pilastro utile nella composizione di un portafoglio un po’ più complesso del classicum classicorum di cui parliamo sempre fatto di azioni e obbligazioni, market cap weighted, punto e morta lì.
Per chi fosse capitato qua per caso, consiglio di ascoltare gli episodi 113 e 116 in cui abbiamo parlato di factor investing un po’ in generale.
Giusto per riprendere al volo la teoria, tutto ciò nasce dagli studi di Eugene Fama e Kenneth French che a partire dagli anni ’90 avevano capito che era possibile individuare dei fattori alla base di un extra rendimento sistematico di certi portafogli rispetto al portafoglio market cap weighted che copia il mercato paro paro.
I 5 fattori del cosiddetto Five-Factor-Model erano: Size (ossia società di piccola dimensione), Value (quindi azioni con prezzi relativamente bassi rispetto al valore contabile netto), Profittabilità, Investimenti (quindi società che investono meno in cose come capital expenditures, ricerca e sviluppo e così via) e poi ovviamente il fattore originario che era quello previsto dal modello del Capital Asset Pricing Model, ossia l’equity risk premium del mercato azionario rispetto al tasso d’interesse senza rischio dei titoli di stato moltiplicato per Beta, la volatilità relativa del portafoglio rispetto al mercato di riferimento (ovviamente se investi in un index fund o in un ETF su tutto il mercato, Beta è uguale a 1 e l’unico fattore è l’equity risk premium).
Ora, per definizione un fattore è un portafoglio che va lungo su un asset e corto su un altro.
Il premio al rischio delle azioni, il motivo per cui tutti noi investiamo (almeno in parte) in azioni invece che solo in obbligazioni, è la differenza tra il rendimento derivante dall’investimento azionario e il rendimento derivante da quello obbligazionario.
Andre lungo su un asset e corto su un altro si può forse spiegare in questo modo.
Immaginiamo di non avere soldi da investire e ignoriamo i costi tecnici che servono per fare quello che sto per dire.
Io, squattrinato senza un dollaro, potrei vendere allo scoperto 10.000 dollari di Titoli di Stato Americani a breve scadenza, che oggi rendono un po’ di più del 5% annualizzato, diciamo 5% per comodità.
Per vendere allo scoperto in realtà dovrei pagare qualcuno che mi presti i titoli da vendere, perché gratis questa cosa non te la fa fare nessuno.
Ma nel nostro esempio facciamo finta che si possa fare.
In questo modo ho i miei 10.000 dollari da investire creati dal nulla.
Però alla fine dell’anno comunque devo restituirli e so già che questi, essendo risk-free, quasi certamente a fine anno avranno reso il 5%, quindi avrei da restituire 10.500 dollari.
Allora io investo questi 10.000 dollari nell’S&P 500, mi faccio il segno della croce, e confido che in ogni dato anno l’S&P restituisca il suo rendimento medio storico, ossia circa 11% (in realtà sarebbe un po’ meno ma non complichiamoci troppo la vita).
Alla fine dell’anno i miei 10.000 dollari saranno diventati 11.000, restituisco i 10.500 a quello che mi aveva prestato i titoli di Stato e mi sono portato a casa il 6% lordo.
Questo 6% è il premio al rischio, ossia il fattore di mercato, cioè l’extra rendimento derivante dall’investire in azioni invece che in obbligazioni.
Con gli altri fattori funziona un po’ allo stesso modo.
Il fattore Size, ad esempio, esprime il rendimento derivante dall’investimento in società a bassa capitalizzazione MENO il rendimento derivante dall’investimento in società ad alta capitalizzazione, che è l’equivalente di andare “long”, ossia comprare, azioni Small Cap, e contemporaneamente andare “short”, ossia vendere, azioni Large Cap.
E così via per tutti gli altri fattori.
Da tutte queste belle ricerche è nato l’enorme filone dell’investimento fattoriale che anche nel mondo degli ETF ha prodotto una miriade di strumenti per cercare di catturare questi fattori e far così ottenere, teoricamente, del rendimento supplementare all’investitore.
Ora, alla fine dell’episodio riprenderemo meglio alcune cose che anticipo ora, ma è bene precisare che non è che basta comprare quattro ETF fattoriali e diventiamo ricchi.
Teoricamente gli ETF fattoriali hanno un extra rendimento rispetto al mercato perché comportano l’assunzione di maggiori rischi, fosse anche solo il fatto che per esprimere il lor extra rendimento potenziale potrebbero aver bisogno di lunghi orizzonti di tempo, amplificando gli effetti del momento di ingresso dei nostri investimenti su questi fattori e del rischio di sequenza dei rendimenti.
Rischio di sequenza, vi ricordo, è il fatto che se investo un po’ per volta (o prelevo soldi dal portafoglio), più lo strumento in cui investo è volatile, maggiore sarò lo scostamento del mio rendimento reale da quello dell’asset sottostante.
Se ancora aveste dei dubbi, vi rimando all’episodio 95.
Ok, di tutti gli ETF fattoriali che esistono, perché parliamo di Quality?
Perché di recente ho letto articolo scritto da un tizio che guarda caso fa il responsabile della divisione Factor ETF di Blackrock e che, senza che naturalmente avesse alcuna intenzione di promuovere i prodotti dalla cui vendita deriverà il suo cospicuo bonus di fine anno, ha fatto un’interessante disamina su questo specifico fattore.
La premessa è che nell’ultimo anno negli Stati Uniti oltre 13 miliardi di dollari sono confluiti dentro gli ETF Quality di Blackrock e la tesi è che molti investitori e gestori, che iniziano ad aver un po’ di strizza vedendo il mercato estremamente concentrato in una manciata di poche mega tech, abbiano cominciato a indirizzare un po’ di investimenti verso società definite di alta qualità — e adesso capiamo cosa significa alta qualità.
Questo principalmente perché finora il mercato ha retto bene, ma se il contesto di tassi “higher for longer” dovesse perdurare troppo, prima o poi il mercato presenterà il conto e dato che le valutazioni attuali, come diciamo spesso, sono estremamente elevate, molti percepiscono il rischio di essere in un mercato che sembra andare benissimo ma che in realtà si regge sulla performance di una esigua manciata di società super star.
Ora, come si definisce una società di alta qualità, rispetto ad una di bassa qualità.
Fondamentalmente i criteri sono tre.
– Il PRIMO è la profittabilità definita attraverso il Return on Equity, una metrica di cui avevamo parlato nell’episodio 105.
Return on Equity è il rapporto tra utili per azione degli ultimi 12 mesi e il valore patrimoniale netto per azione.
In pratica esprime quanto profitto la società riesce estrarre dal suo valore contabile.
Maggiore è questo rapporto e maggiore naturalmente è la profittabilità della società.
– Il SECONDO è il rapporto di indebitamento, che si misura facendo Debito a lungo termine diviso valore contabile della società.
Se una società ha 100 miliardi di asset, e 60 miliardi di debiti, allora il suo book value sarà 40 miliardi. 60 diviso 40 fa 1,5 e questo 1,5 è il rapporto di indebitamento.
Non è proprio correttissimo quel che ho detto ma tanto basta per capirci.
L’idea comunque, piuttosto intuitiva, è che una società poco indebitata sia in grado di generare maggiori utili nel tempo e quindi di sostenere la crescita di valore della sua azione.
– Il TERZO è la variabilità degli utili, che tecnicamente è definita come la deviazione standard anno su anno della crescita dell’utile per azioni negli ultimi 5 anni, ossia quanto è stata volatile negli ultimi 5 anni la crescita dell’utile per azione. L’idea qui è che più sia costante la crescita degli utili di una società, migliore dovrebbero essere le performance a lungo termine dell’azione e in particolare meglio dovrebbe comportarsi in contesti di mercato sfavorevoli.
Si capisce da questi tre principi per definire una società di “alta qualità” il motivo per cui in effetti il fattore Quality sia diventato via via più popolare in un momento in cui le valutazioni sono molto alte, i tassi di interessi pure, il mercato è molto concentrato e i permabear non aspettano altro che il mercato vada giù per dire “ve l’avevamo detto!”.
Se lo meritano poverini.
Sono ormai più di 10 anni che lo dicono.
Prima o poi arriverà il loro momento, in fondo anche il proverbiale orologio rotto segna l’ora giusta due volte al giorno.
Comunque, dicevamo, un tilt del portafoglio verso questo fattore potrebbe avere il suo senso e tra poco vediamo in che modo.
Vediamo però gli strumenti innanzitutto.
Ora, qui parliamo quasi esclusivamente di ETF e di gestione passiva, quindi parlando di un ETF che replica il fattore Quality, in realtà stiamo parlando di uno strumento che fa una selezione delle società sottostanti in base ai principi che abbiamo esposto, ma senza la componente short.
Un ETF quindi, al netto di particolari strumenti a gestione attiva, è per definizione long-only.
Al di là di questa specifica tecnica, prendiamo l’ETF più grande disponibile in Europa che replica il fattore qualità a livello globale, che è l’Ishares Edge MSCI World Quality Factor UCITS ETF ad accumulazione. Esiste sia così che nella versione ESG, così come entrambe le versioni sono offerte da Xtrackers.
Quello di Ishares è un ETF bello grosso da oltre 3,6 miliardi di dollari di capitalizzazione.
Come sempre accade per gli ETF fattoriali, i costi non sono proprio bassissimi.
Se guardiamo i costi di gestione viene dichiarato uno 0,3% all’anno.
Di più rispetto a quanto siamo abituati, ma niente di clamoroso rispetto ai soliti 0,1-0,2% all’anno.
Rispetto agli ETF tradizionali, tuttavia, un ETF fattoriale sarà chiamato più spesso a modificare la composizione del portafoglio per catturare l’extra rendimento potenziale che il fattore qualità dovrebbe garantire all’interno del mercato.
Questo si traduce in un maggior impatto in termini di costi di transazione che l’emittente del fondo deve sostenere.
Se andiamo a guardare nel KID, la stima per un periodo di detenzione di 5 anni è dello 0,4% all’anno.
E questo potrebbe essere anche più alto se per qualche il motivo il turnover del portafoglio, ossia il ricambio di titoli al suo interno dovesse aumentare.
Quindi attenzione quando si investe in ETF fattoriali perché è vero che stiamo sempre parlando di cifre contenute, ma quando cominciamo a lasciar per strada lo 0,4-0,5% all’anno di costi non è che sia poca roba.
Se investo 500 € al mese per vent’anni, uno 0,3% di extra costo rispetto al costo di un tradizionale ETF sull’MSCI World mi verrà a costare quasi 10.000 € di rendimento.
Certo, c’è di peggio nella vita, ma anche regalare i soldi non fa piacere a nessuno.
Vediamo intanto come è composto.
A livello geografico, tanto per cambiare stradominio degli Stati Uniti con il 73%.
Al secondo posto abbiamo la Svizzera con il 4,2% e poi a seguire Regno Unito, Olanda, Danimarca, Giappone, Canada, Francia, Spagna, Germania e poi tutti gli altri.
Tra le prime dieci partecipazioni abbiamo — e anche qui, tanti nomi noti:
– Nvidia, con il 5,57%
– Apple, con il 4,7%
– Microsoft, con il 4,5% e poi nell’ordine
– Meta
– Visa
– Novo nordisk
– Eli Lilly
– ASML
– Mastercard e
– Costco
Rispetto al MSCI World generale mancano, almeno tra le prime dieci posizioni, Amazon, Google, Broadcom e JP Morgan.
Ora, su come vengono selezionate le società e sui pesi attribuiti non ci addentriamo, se volete sul sito di MSCI World c’è tutta la metodologia descritta, che è una roba piuttosto tecnica e barbosa.
Volessimo fare un backtest in euro ho trovato i dati fino al 98, perché l’ETF non segue l’indice MSCI Quality, bensì l’MSCI Sector Neutral Quality Index.
La sovraperformance di quality rispetto al mercato dalla fine del 1998 ad oggi è stata piuttosto impressionante: 8,3% all’anno contro 6,7% dell’MSCI World e pure a fronte di una deviazione standard leggermente più bassa.
Anche durante il decennio perduto Quality ha tenuto meglio botta del mercato, perdendo in media l’1,3% all’anno contro il -3,7%.
Negli ultimi 10 anni infine Quality ha fatto meglio dell’MSCI World generale 13,9% all’anno contro 12,7%.
Attenzione, aprite bene le orecchie: il fatto che negli ultimi 26 anni abbia fatto molto bene e che nei singoli sottoperiodi abbia sempre sovraperformato non significa che investire in questo strumento sia una garanzia di extra performance.
Lo strumento esiste dal 2015, abbiamo i dati ricostruiti da MSCI fino al 1998, ma nulla ci dice che i criteri di selezione delle società presenti nell’indice garantiranno extra performance anche nel futuro.
Ora, quali sono gli utilizzi che si possono fare di questo strumento.
Torniamo al nostro amico di Blackrock, capo della divisione factor investing.
Lui propone tre opzioni.
OPZIONE UNO: utilizzo tattico.
Utilizzo tattico significa avere esposizione a società con alta profittabilità e basso indebitamento (quindi 2 dei 3 criteri di cui parlavamo prima) nel contesto attuale caratterizzato da tassi d’interesse più alti e più a lungo, che come noto tendono ad avere un impatto negativo soprattutto su società che hanno bilanci meno solidi.
Inoltre, l’altra ipotesi è che società di alta qualità possano resistere meglio in un contesto di bassa crescita e persino in un eventuale flessione negativa del mercato.
Cioè quindi l’idea tattica è di dare adesso questo tilt al portafoglio per meglio posizionarsi in un contesto di tassi alti a lungo e potenziale deterioramento del quadro economico generale.
OPZIONE DUE: utilizzo strategico.
Utilizzo strategico ha invece più a che fare con l’idea di inserire stabilmente questi strumenti nel portafoglio per fare leva soprattutto sul terzo criterio, ossia potenziale extra rendimento sostenuto da una crescita stabile degli utili.
Come ricorderete il terzo criterio per definire una società di buona qualità era una bassa deviazione standard relativamente alla crescita degli utili per azione degli ultimi 5 anni.
L’inserimento a lungo termine del fattore quality nel portafoglio sarebbe quindi funzionale a catturare questa tendenza stabile alla crescita degli utili di queste società.
Peraltro secondo i dati di Ken French, quello del dinamico duo Fama and French, su singoli anni il fattore quality, definito come Robust Minus Weak Profitability, ossia rendimento di azioni di società con una profittabilità robusta contro quelle con una profittabilità più debole o, detto come fanno quelli bravi, long alta profittabilità e short bassa profittabilità, dicevo in singoli anni il worst scenario è stato anche -37%, ossia è possibile che in singoli anni un portafoglio quality sottoperformi di oltre un terzo un portafoglio non quality.
Su orizzonti di 10 anni, invece, il peggior scenario in base ai dati storici sarebbe stato un -1,7%.
Infine OPZIONE TRE: per diversificare il portafoglio rispetto ad altre inclinazioni fattoriali.
I fattori ad oggi più frequentemente utilizzati sono, oltre a Quality, Size, Value, Momentum, Low Volatility e qualcuno considera anche High Dividend, anche se su quest’ultimo ho trovato spesso pareri discordanti.
Questi 5 (o 6) fattori fanno cose diverse e catturano extra rendimento in base a diversi criteri e in differenti fasi del mercato.
In particolare, Quality, che è considerato un fattore fondamentalmente difensivo, ossia che darebbe il meglio di sé in fasi di rallentamento del mercato, dovrebbe essere un buon contrappeso nei portafogli esposti a Size e Value, dato che sia le Small cap che le società con un basso prezzo rispetto la loro book value tendono invece a crescere soprattutto nelle fasi di ripresa del mercato.
Lui fa poi vedere la solita matrice con la correlazione tra i vari fattori, di cui avevamo già parlato.
Prima però diciamo quale sarebbe il presupposto teorico per cui un portafoglio Quality sarebbe decorrelato in particolare rispetto ad un portafoglio Value.
Il suo ragionamento si basa sul cosiddetto dividend discount model, ossia su un modello piuttosto noto che si utilizza per determinare il fair valute di un’azione.
Proviamo a spiegarlo nel modo più semplice possibile.
Allora premessa: perché uno investe in azioni?
In generale perché si aspetta di ottenere un certo rendimento mettendo il suo capitale a rischio sotto l’auspicio che la società generi degli utili nel tempo, di cui l’azionista godrà per una certa quota.
Ora però una società non distribuisce tutti i suoi utili agli azionisti.
Una parte vengono distribuiti sotto forma di dividendi, mentre un’altra parte resta nella società come retained earnings, che a loro volta possono essere utilizzati per fare nuovi investimenti che continuino a far crescere gli utili della società o più meccanicamente per fare dei buyback, ossia per ricomprarsi le proprie azioni così da far salire i prezzi.
Ad ogni modo, il modello del dividend discount model cerca di definire quale sia il prezzo — tra virgolette — corretto di un’azione come valore presente dei flussi di cassa futuri derivanti dall’investimento in quell’azione.
Detto altrimenti.
Il prezzo di un’azione, sempre che sia correttamente prezzato e che tutte le stime siano giuste, dovrebbe corrispondere al valore presente dei futuri flussi di cassa, intesi sia come dividendi che come utili trattenuti dalla società, attualizzati attraverso un certo tasso di sconto che adesso vi dico.
Intanto la formula dice che il valore di un’azione è uguale al rapporto tra i dividendi per azione attesi e il tasso di sconto netto.
Per tasso di sconto netto si intende la differenza tra il rendimento che mi aspetto dal fatto di investire in quell’azione e il tasso di crescita dei dividendi.
Ok mentre parlo mi sto rendendo conto che non s’è capita una beata fava.
Semplifichiamo partendo da un esempio.
Diciamo che una società paghi un dividendo di 3 dollari per azione e che si aspetti che i dividendi crescano del, boh, 5% all’anno.
Perché dovrebbero crescere mi chiederete voi?
Eh perché per definizione quando un’azienda inizia a ridurre i dividendi tipicamente gli investitori lo prendono come un cattivo segnale e vanno altrove.
Le cosiddette dividend Aristocrats, infatti, sono quelle società che per almeno da 25 anni incrementano ogni anno i dividendi.
Quindi, 5% all’anno.
Ammettiamo inoltre che, per investire in quella specifica società, l’investitore si aspetti di guadagnare almeno il 9% all’anno e questo 10% viene chiamato cost of equity capital, cioè il costo, tra virgolette, che la società deve sostenere per convincere un investitore a dargli i propri soldi.
A questo punto abbiamo tutti i dati per calcolare il fair value dell’azione.
Al numeratore mettiamo 3 dollari aumentati del 5%, perché abbiamo detto che il dividendo atteso crescere del 5% all’anno, quindi 3,15.
Al denominatore mettiamo il tasso netto di sconto che è la differenza tra il rendimento richiesto dall’investitore, 9%, meno il tasso di crescita dei dividendi, 5%, che fa 4%.
3,15 diviso 4% (ossia diviso 0,04) fa 78,75 dollari.
Se ho fatto tutti i conti giusti e se il modello funziona — e tutto ciò è tutt’altro che scontato — allora se il prezzo di mercato dell’azione è superiore a 78,75 dollari potrei considerarla sopravvalutata, viceversa sottovalutata.
Perché vi sto facendo sto pippone atomico?
Eh perché sennò non si capisce per quale motivo secondo questo modello le società quality dovrebbero essere decorrelate rispetto a quelle value.
Le società value sono quelle che avranno un tasso di sconto più alto, perché essendo al denominatore della formula, maggiore è il tasso di sconto, minore sarà la valutazione della società.
Le società quality, invece, avendo degli utili attesi maggiori, avranno valutazioni più alte perché a maggiori utili attesi corrisponderà l’aspettativa di un cash flow superiore e dunque di un numeratore più grande.
Più grande è il numeratore nella formula, maggiore sarà la valutazione dell’azione.
Questo comportamento in qualche modo alternativo tra l’uno e l’altro fa di quality un significativo diversificatore della componente value del portafoglio.
Ora, come si comportanto in generale i vari fattori e dove si inserisce in particolare Quality, potremmo chiederci a valle di tutta sta allegra chiacchierata?
Partiamo dalle correlazioni — e qui ci basiamo sul modello long-short di Fama e French.
Rispetto al mercato in generale, market cap weighted, abbiamo i sequenti rapporti di correlazioni:
– Small Cap: 0,28, quindi c’è una significativa correlazione con il mercato;
– Value; -0,21, quindi la correlazione è leggermente negativa;
– Leggermente negativa è anche per Quality e Momentum, rispettivamente -0,18 e -0,17 e infine
– La massima decorrelazione con il mercato si ha con il fattore minimum volatilty con -0,61.
Ricordiamo che la correlazione è espressa con un valore tra 1 e -1, dove 1 significa perfetta correlazione, -1 perfetta correlazione antitetica, ossia i due asset vanno esattamente in direzioni opposte, mentre 0 significa che hanno un comportamento indipendente l’uno dall’altro.
Se prendiamo il rapporto tra Quality e Small Cap abbiamo -0,35, quindi un livello di decorrelazione piuttosto significativo che fa comprendere come i comportamenti dei due portafogli andrebbero in maniera piuttosto divergente l’uno dall’altro, mentre rispetto a Value c’è una bassa correlazione positiva di 0,09.
Questi valori rispondono alle varie fasi dei mercati in cui i diversi fattori tenderebbero ad esprimere il loro potenziale in termini di extra rendimento.
Vi ricordate le 4 fasi del ciclo economico di cui parliamo spesso?
Abbiamo:
– Una fase di espansione, dove tipicamente è Momentum il fattore dominante;
– Una fase di rallentamento, in cui performerebbero meglio Quality e Low Volatilty;
– Stesso discorso per la fase di contrazione o recessione e infine
– Una fase di recupero, dove invece Small Cap e Value si esprimono al meglio.
In teoria, da quel che abbiamo detto, sembrerebbe che ne derivino queste due conclusioni:
– La PRIMA è che tutti i fattori, tranne Size, sono decorrelati rispetto al mercato azionario generale e quindi dovrebbero essere una valida protezione nei momenti di flessione del mercato;
– La SECONDA è che incorporare i vari fattori nel portafoglio permetterebbe a questo di funzionare bene in ogni fase di mercato eliminando buona parte dei rischi.
Sì, in teoria.
In pratica avrei qualcosa da ridire.
Rispetto al primo punto, non è esattamente vero che quella è la correlazione che noi ci prendiamo investendo in ETF, che sono strumenti che hanno solo la componente long della strategia fattoriale.
Vi linko negli shownote un articolo uscita su Outcast Beta, bello difficilotto e per stomaci forti, che, per farla breve e saltando tutto l’impianto analitico che mi è costato più di un moment per l’emicrania che mi ha provocato, fa vedere che la componente long di una strategia fattoriale ha in effetti un rendimento atteso superiore rispetto al mercato in generale ma durante i bear market, cioè nel momento in cui ci servirebbe di più che i fattori facessero il loro, praticamente non c’è rendimento in eccesso.
Il rendimento in eccesso durante le fasi negative del mercato, e quindi la correlazione negativa della maggior parte di fattori con il mercato in generale, deriva in buona parte dalla componente short della strategia fattoriale, che tuttavia non è presente in un ETF, che di solito si limita solo a concentrare l’investimento in società che esprimono un certo fattore senza shortare quelle che lo esprimono meno.
Ora l’aspetto tecnico di sta roba è interessante fino ad un certo punto.
Diciamo solo che l’investimento fattoriale ha il potenziale a lungo termine per sovraperfomare il mercato ma durante i momenti negativi, mi spiace, ma non c’è da aspettarci che siano di grandissima protezione nei confronti del poratfoglio.
Quando il mercato va male, fattori o mica fattori, se investi in azioni e non hai una strategia che shorta il mercato, ti prendi tutto il male che ne viene. Punto.
Shortare il mercato invece ha tutta una serie di altri problemi e soprattutto costi, di cui però magari ne parleremo un’altra volta.
L’altro punto invece, ossia il fatto che inserire più fattori nel portafoglio risolva tutti i problemi in tutte le stagioni dei mercati, mmhhh, non è proprio detto.
Se costruisco un portafoglio che controbilancia tutti i rischi, quello che ottengo è il rendimento risk-free dei titoli di stato.
Magari è anche vero che in ciascuna delle 4 fasi mi prendo il meglio da ogni fattore, ma ciò funziona, in teoria, se ruoto i fattori, ammesso e non concesso di essere in grado di identificare ogni fase nel momento in cui mi ci trovo (e tendenzialmente con un certo anticipo).
Easier said than done come si dice, più semplice sulla carta che nella realtà.
Se invece mi riempio il portafoglio di fattoriali come se facessi un portafoglio lazy, statico e con il suo bel piano di accumulo mensile, ho qualche dubbio che ciò porti ad un valore aggiunto significativo.
Giusto per fare un esempio, se negli ultimi 10 anni avessimo confrontato un portafoglio al 100% sul MSCI World con un portafoglio in parti uguali composto da Quality, Momentum, Small Caps e Value sempre sull’MSCI world, quello plain vanilla semplice avrebbe ottenuto uno 0,5% di rendimento supplementare all’anno, in buona parte dovuto probabilmente ai maggiori costi degli ETF fattoriali. E lo stesso risultato si ottiene anche investendo una quota fissa mensile.
Negli ultimi 20 anni, invece, il portafoglio multifattoriale avrebbe fatto nettamente meglio, 9,45% contro 8,14%, differenza che però praticamente si annulla se consideriamo un investimento fisso mensile, per via del solito tema del rischio di sequenza. Il motivo probabilmente è dovuto al fatto che il grosso della sovraperformance del portafoglio multifattore è concentrato nei primi 10 anni, mentre invece nella seconda decade, con maggiore capitale investito, pesa di più la crescita impressionante del mercato che viene catturata al meglio con un market cap weighted rispetto ad un portafoglio che incorpora Value e Small caps che da un bel pezzo sottoperformano il mercato.
Conclusioni.
Può essere una buona idea dare un tilt fattoriale verso società di alta qualità nel portafoglio nel momento attuale.
Boh… e che ne so…
Io leggo cose, ve le metto insieme e ve le riporto qua, poi tirate le vostre conclusioni.
Da un lato sì, per tutti i motivi esposti in questa scarsa mezz’ora.
Da un lato boh, perché come tutti gli investimenti in un mercato efficiente maggiori rendimenti comportano potenzialmente maggiori rischi e qui oltre ai maggiori rischi derivanti da un maggiore concentrazione degli asset sottostanti, non bisogna dimenticarsi di costi più alti che a lungo termine hanno senso solo a fronte di una sovraperformance costante, altrimenti possono avere un impatto negativo sulla redditività dell’investimento in generale.
Quindi, boh, fate un po’ quel che vi pare, purché vi sia tutto chiaro e come sempre le vostre decisioni siano consapevoli.
Una bella sventagliata di numeri, analisi e formule matematiche avranno sicuramente rinfrescato la vostra afosa giornata meglio di una granita, lo sapevo che non aspettavate altro in questo torrido luglio se non aggiungere sudore supplementare cercando di capire ciò di cui volevo parlare oggi.
Comunque l’importante è che abbiate capito perché sta girando quest’idea di sovrappesare le società di alta qualità nel portafoglio affinché poi facciate ciò che ritenete più opportuno per i vostri investimenti.
Del resto, lo so per esperienza che dopo un po’ che investite, alla fine un portafoglio tranquillo tranquillo, fatto di due ETF globali senza troppe menate vi annoia, lo so che ora volete capirne di più, fare cose più complicate, provare strategie nuove e via dicendo.
Ecco, con i fattoriali potete davvero divertirvi all’infinito.
Che sia poi una buona idea, beh, chi può dirlo.
Certamente, se fosse dimostrato che un certo rendimento GARANTISCE un miglior risultato, allora tutti vi ci si butterebbero e immediatamente smetterebbe di avere questa caratteristica.
Se l’investimento fattoriale porta un extra rendimento è perché porta con sé anche un extra rischio.
Se vi va di rischiare qualcosa in più e la vostra pianificazione lo consente, ecco, oggi abbiamo buttato giù qualche idea.
Grazie invece come sempre per essere giunti in fondo a quest’ostico episodietto e spero che sia stato utile per aggiungere qualche nuovo tassello all’inifinito puzzle della vostra consapevolezza finanziaria.
Grazie di cuore per essere ancora qui, in questa sgangherata comunità di aspiranti milionari (o plurimilionari, visto che qualche milionario che mi ascolta c’è già) che conta oltre 200.000 persone e che in un annetto ha fatto partire la musichetta iniziale di The Bull oltre 3 milioni di volte.
3 milioni di grazie a tutti voi.
Come sempre a questo punto giunti e prima di congedarci per la 124ma volta vi invito a mettere segui e attivare le notifiche su Spotify, Apple Podcast, Youtube o dove ci ascoltate e a lasciare una recensione a 5 stelle per supportarci e permetterci di continuare a produrre contenuti di qualità, ma così di qualità che per trenta minuti si parla solo di qualità sempre nuovi.
Per questo episodio invece è davvero tutto e noi ci risentiamo domenica prossima con un nuovo capitolo di questa lunghissima poco divina e tanto commedia che stiamo scrivendo tutti assieme sempre qui, naturalmente, con The Bull Il tuo podcast di finanza personale.
Recensioni
Quando capisci come funziona la finanza… ti viene voglia di raccontarla!
La mia ignoranza in materia mi ha sempre creato dei dubbi, ma grazie a un amico ho iniziato ad ascoltare il podcast. Per fortuna che ho 24 anni e un po' di tempo e soldi da dedicarmi a imparare le varie nozioni per me stesso. Grazie mille!
Luca G. 10 Ott 2025Podcast che dà sempre spunti interessanti che personalmente mi ha fatto appassionare alla finanza personale spingendomi ad approfondire in prima persona.
Lorenzo, 13 Mar 2025Non sono solito a mettere recensioni e specialmente non ascolto podcast, ma da quando ho iniziato questo, faccio fatica a staccarmi, e quasi non posso più fare a meno di ascoltare e arricchirmi culturalmente.
Andrea V., 22 Set 2025Da quando l'ho scoperto in 15 gg mi sono ascoltato 150 puntate senza fermarmi, ho annullato gli altri podcast per portarmi alla pari ed ascoltare tutte le precedenti puntate, ben fatto, esattamente il livello di informazione che mi serviva
Gianluca G., 11 Set 2025Veramente veramente raccomandato! la finanza personale riassunta alla perfezione! e spiegata partendo dall'ABC! Ottimo anche da ascoltare a velocita 1,5x!
Giorgia R., 23 Gen 2025Ho seguito tutte le puntate! Grazie veramente
Amalia A., 17 Set 2025Veramente interessante, chiaro e conciso. Cambia la vita finanziaria di chiunque.. da ascoltare assolutamente anche per chi di finanza non vuole occuparsi mai
Francesca B., 6 Apr 2024Dovrebbero ascoltarlo buona parte degli italiani e io avrei dovuto scoprirlo con qualche anno in anticipo ma meglio tardi che mai
Matteo C., 3 Set 2025Podcast piacevole, scorre veloce ma in modo estremamente chiaro, spiega i concetti chiave per gestire le proprie finanze, fornendo la classica cassetta degli attrezzi. Complimenti, davvero ben fatto!
Massimiliano, 29 Mag 2024