E’ il momento di comprare? (e quanto ci mettono i Mercati a recuperare)
Con il mercato americano alle soglie del bear market (-20%) circola una sola domanda: quando è abbastanza "a sconto" per cominciare a comprare e cogliere opportunità per il futuro? Siamo in una di quelle rare occasioni in cui fare "buy-the-dip"? Non proprio.

204. E’ il momento di comprare? (e quanto ci mettono i Mercati a recuperare)
Risorse
Punti Chiave
Reazione dei mercati ai dazi di Trump e l'influenza dei "Bond Vigilantes".
Incertezza negli investimenti: quando fare "buy-the-dip" e l'importanza del ribilanciamento.
Analisi storica dei bear market: tipologie e tempi di recupero.
Trascrizione Episodio
Bentornati a The Bull, il tuo podcast di finanza personale.
Allora mercoledì 9 aprile è stata un’altra giornata di quelle che non ci dimenticheremo molto facilmente. Futures sull’S&P 500 che al mattino viaggiavano in profondo rosso oltre il 2%, puntando dritti all’ormai inevitabile bear market all’apertura alle 15:30 italiane, per poi chiudere alle nostre 22:00 con uno stupefacente +9,52% (e +12,16% per il Nasdaq).
Per ritrovare numeri del genere per l’S&P — e parliamo del terzo miglior giorno della storia — bisogna tornare all’ottobre del 2008, mentre per il Nasdaq addirittura al 2001.
Sì, queste giornate estremamente positive si verificano solo durante le peggiori crisi, perché sono classici rimbalzi appena qualche notizia va un po’ a stemperare il mood nero dei giorni precedenti.
È un po’ come se la tua squadra del cuore in un mese fosse uscita dalla Champions, avesse perso le ultime 3 di campionato, fosse stata pure eliminata in semifinale di Coppa Italia ma poi vince 5-0 il derby. Entusiasmo alle stelle! Per una sera ti sembra di essere tornato al luglio 2006 quando abbiamo vinto i mondiali.
E i mercati spesso bramano a tal punto uno straccio di buona notizia, che al primo minimo segno positivo fanno questi exploit ubriacanti.
Poi arriva il day after e come dopo ogni serata di baldoria che si rispetti, anche l’hangover al mattino è lì pronto ad aspettarti.
Il -3 e fischia percento di giovedì, per noi raddoppiato dalla discesa senza fine del dollaro, non fa infatti pensare che le premesse siano quelle di un rally sostenuto, anzi, sembra che il mercato, nonostante il mal di testa post sbronza, si sia ricordato che il macello è ancora tutto lì e quindi c’è poco da festeggiare.
Se non altro, siamo passati da uno scenario di rapido disastro certo a lento disastro probabile.
Ma andiamo con ordine.
Ok sappiamo tutti perché l’S&P ha fatto più 9,5%.
Trump ha messo in pausa i dazi per 90 giorni, tranne quelli del 10% – che comunque, ricordiamolo, sono una mazzata fotonica sul commercio globale — e tutti hanno tirato un sospiro di sollievo perché è tornata in auge l’interpretazione — che il sottoscritto aveva esposto anche negli episodi passati — che delle negoziazioni ci sarebbero state dopo tutto.
Ora, possono andare tutte in vacca naturalmente, ma all’interpretazione “questi sono i dazi definitivi, non negoziabili” non ci avevano creduto nemmeno i poveri Pinguini delle MacDonald Island che si sono beccati pure loro un 10% sulle esportazioni non si sa bene di cosa.
Dicevo il motivo scatenante è chiaro.
La cosa più interessante è invece l’interpretazione di quel che è accaduto dietro.
Vi ricordate che nell’episodio uscito mercoledì mattina, quello con Robin Wigglesworth, nell’introduzione demenziale Harry Potteriana che avevo fatto dissi che la speranza è che tra i mangiamorte di Lord Voldemort Turmp ce ne fosse almeno uno mandato lì da Silente per salvarci tutti, nella fattispecie, il segretario del Tesoro Scotto Bessent?
Effettivamente sembra che un qualche ruolo ce l’abbia avuto nel guidare l’oscuro presidente immortale a più miti consigli, mettendo in secondo piano quei due clown che finora avevano preso la scena, il segretario al commercio Howard Lutnick e Peter Navarro, il brillante consigliere di Trump sui dazi che Elon Musk ha definito pubblicamente più stupido di un sacco di mattoni.
A metà giornata di mercoledì il mercato era sceso fino ad un pelo del bear market.
E Trump sembrava del tutto disinteressato alla cosa, intento a proclamare tutti i successi che la sua big beautiful idea dei dazi avrebbero garantito in futuro agli americani e a bullarsi del fatto che a quanto pare i leader dei Paesi colpiti dai dazi fossero tutti in fila a — cito testualmente le sue parole — “baciargli il culo” nella speranza di un indulgente sconto di pena.
Però, sempre come dicevamo due episodi fa, occhio che i mercati sono ancora più forti della politica, fino a prova a contraria.
Puoi anche fare il figo per un po’ e fingere che del crollo della ricchezza finanziaria degli americani non ti interessa nulla, ma ricordiamoci che, per quanto ci piaccia tantissimo parlare di azioni, le azioni sono il fratellino minore.
Dopo che il fratellino minore le ha prese dal nostro impavido bullo per una settimana, è arrivato il fratello maggiore.
Avete presente: “ehi bullo, perché non te la prendi con uno della tua taglia”.
Il fratello maggiore si chiama mercato obbligazionario.
Con le azioni si può scherzare, vanno giù, vanno su, è tutto un bellissimo gioco divertentissimo che mi appassiona più di qualunque altra cosa al mondo che non siano mia moglie e mia figlia.
Ma con i bond no e soprattutto non con il più importante asset del mondo: i Titoli di Stato Americani, gli US Treasury.
Perché i Treasury sono il fondamento dell’intero sistema finanziario globale, nonché la colonna vertebrale della più grande economia del mondo che, nonostante i suoi astronomici quasi 30 trilioni di dollari di PIL, si regge su 36 trilioni di dollari di debito pubblico.
IL mercato dei Treasury è un po’ come il noto Cavaliere Nero del leggendario sketch di Gigi Proietti. Anche in questa storia c’è una morale.
E la morale è la stessa del Cavialiere Nero.
Come al Cavaliere nero, così anche al mercato dei Treasury “non je devi cagà r cazzo”.
E infatti è successa l’ultima cosa che Trump voleva succedesse.
Il suo calcolo, se mai ce ne sia stato uno, era:
– Sparo i dazi;
– Scasso un po’ il mercato azionario (anche se forse non pensava così tanto);
– La gente si fionda sui Treasury, Jerome Powell la smette con questa assurda pretesa di non voler fare tutto quello che gli dico, taglia i tassi e tutto il costo dell’indebitamento americano va giù.
– La gente vede la rata del mutuo e delle carte di credito che scendono e sono tutti contenti — e chissene frega se nel frattempo il 60% degli americani, cioè coloro che hanno azioni, hanno 18 trilioni di dollari in meno nei loro portafogli.
Peccato che non sia andata proprio così.
Tra martedì e mercoledì è iniziato un pesante sell-off sui Treasury.
Cioè tanti hanno cominciato a vendere titoli di stato americani con il duplice effetto che il dollaro ha preso un’altra bella batosta e soprattutto il rendimento dei treasury è schizzato oltre il 4,5%.
Noi abbiamo avuto il grandissimo privilegio di avere qui Ed Yardeni.
Già negli anni’70 Ed Yardeni aveva dato un nome preciso a questo fenomeno: Bond Vigilantes.
Per quanto sciagurata possa essere l’amministrazione politica e per quanto inconsistente possa essere l’opposizione di tutto il resto del mondo, alla fine devi fare i conti con i Bond Vigilantes, che ancora una volta si sono pronunciati: questa storia dei dazi non ci piace. Diamoci un taglio e troviamo un’altra soluzione o qua facciamo crollare tutto.
C’è un divertentissimo articolo sul Financial Times di giovedì dal titolo: “An Apology to Bond Vigilantes”, in cui ironicamente si ringraziano i “bond vigilantes” per aver dato la scossa necessaria affinché venisse messo un freno a questa follia.
Ora, non è che i Bond Vigilantes siano delle persone precise.
È il mercato obbligazionario che si adatta a delle interpretazioni future.
Fa la stessa cosa del mercato azionario, ossia sconta (in questo caso tramite le variazioni dei rendimenti) le ipotesi future su recessione e inflazione.
Ma la differenza con l’azionario è che una crisi prolungata dell’asset più importante della Terra, su cui si regge fondamentalmente tutto il debito del mondo, avrebbe effetti sistemici incalcolabili sull’economia mondiale.
Non è chiarissimo, quindi, chi o che cosa ci sia stato dietro questo imponente sell-off.
C’è stato — è intanto questa è la cosa che conta.
E soprattutto continuerà ad esserci finché il mercato non sarà abbastanza rassicurato sul buon senso delle azioni future dell’amministrazione americana.
Ci sono due ipotesi prevalenti — e probabilmente la verità è un mix di esse.
Da una parte è possibile che molti hedge fund e altri investitori istituzionali esposti con un alto livello di leva siano stati costretti a svendere Treasury per chiudere le proprie posizioni.
Classiche strategie di arbitraggio sui Treasury sono il basis trade, l’off-the-run trade e lo swap trade.
Al di là di come funzionano, che sono un po’ complicati da spiegare, il concetto di fondo è che l’hedge fund di turno crea delle posizioni in cui è long, cioè compra, dei Treasury ed è short, cioè vende strumenti collegati a quei Treasury che hanno un prezzo leggermente più alto, nell’aspettativa che i due prezzi, come solitamente succede, vadano a convergere.
Il basis Trade è quando compri un Treasury e vendi un future su quel Treasury.
Oppure puoi comprare un Treasury emesso qualche mese, chiamato off-the-run, e venderne contestualmente uno “on the run”, cioè appena emesso, che ha un prezzo leggermente più alto — che la strategia che ha fatto saltare per aria LTCM nel 1998.
Oppure ancora puoi comprare un Treasury e vendere un interest rate swap su quel treasury.
In tutte queste strategie di arbitraggio sul prezzo dei Treasury, lo schema è il medesimo. Si compra un tot di titoli di stato e si vende allo scoperto uno strumento collegato che ha un prezzo leggermente più alto. I due prezzi, se non ci sono shock, vanno a convergere e io guadagno dalla differenza.
Qual è il problema?
Il problema è siccome la differenza di prezzo è minuscola, per farci soldi veri devi usare moltissima leva.
Ma se inizia ad esserci tensione sui mercati si presenta il solito problema che ha sempre lo stesso nome: margin call.
Perché?
Perché solitamente l’hedge fund usa i Treasury che comprato, quindi la parte long della posizione, come collaterale per avere soldi in prestito da una banca e amplificare le dimensioni del trade.
Ma se il prezzo dei Treasury inizia ad andare già perché il mercato è in subbuglio come in questi giorni, allora il tuo collaterale vale meno e chi ti ha prestato i soldi ti dice: amico mio, o mi dai più soldi, o ti chiudo la posizione.
E allora tu devi andare a vendere in fretta e furia quello che hai per coprire le margin call.
Probabilmente una parte delle svendite sui Treasury sono state amplificate da tanti hedge fund che sono andati a vendere a loro volta titoli americani per raccogliere capitali e chiudere le loro posizioni con super leva.
L’altra ipotesi, molto più spaventosa e che non è necessariamente un’alternativa, è che investitori stranieri, Cina in primis, possano aver deciso di svendere un po’ di titoli americani come ritorsione verso le iniziative di Trump.
L’altro lato della medaglia, invece, è che non è da escludere che comunque qualcuno sia metaforicamente già andato davvero a baciare il culo a Trump, perché l’asta dei Treasury di mercoledì 9 è andata molto bene grazie ad un elevato contributo di investitori stranieri.
Il famoso paper di Steven Miran, in effetti, teorizzava accordi che prevedessero elasticità sui dazi in cambio di impegno dei Paesi alleati di sobbarcarsi debito americano.
Sarà una lunga, lunga, lunghissima telenovela e aspettiamoci ogni giorno una serie di nuovi risvolti.
Se vi ricordate, vi avevo profetizzato tre cose, che in effetti erano tutte previsioni piuttosto facili e finora c’ho preso:
– NUMERO UNO: se uno dice che non intende negoziare, significa che intende negoziare. E così è stato, tanto che dal “kiss my ass” si è passati in un lampo a Trump che ha detto “non voglio danneggiare nessun Paese se non se lo merita”.
– NUMERO DUE: nessuno può ignorare a lungo i mercati. Quelli sono il tuo giudice supremo, non puoi corromperli, non puoi piegarli, non puoi farli andare dove vuoi tu. A loro, in ultima istanza, devi rispondere. E così, sempre per ora, è stato.
– NUMERO TRE: non sarà una soluzione rapida. In poche settimane Trump ha scatenato un putiferio che anche nella migliore delle ipotesi avrà effetti duraturi.
Gli effetti:
– Il mercato, salvo clamorose svolte, non ricomincerà a salire in linea retta e a lasciarsi tutto alle spalle. Lo scenario base è che assisteremo ancora a tanti su e giù per un bel pezzo, finché almeno non iniziano ad arrivare dei chiari — e auspicabilmente soddisfacenti — accordi con i vari Paesi.
– Le ferite si rimarginano. Ma le cicatrici restano. E nessuno si dimenticherà mai facilmente del trattamento riservato da Trump agli alleati, anche se alla fine si trovassero degli accordi. Servirà molto più di una pausa di 90 giorni per ricostruire la fiducia incondizionata che per 80 anni il mondo ha attribuito agli Stati Uniti, che pur con tutte le loro contraddizioni erano considerati l’ultimo indistruttibile baluardo della democrazia, del libero commercio e di un più o meno stabile ordine mondiale. O comunque non fino al 2028. Poi magari ci sarà un Presidente di tutt’altro spessore morale e magari ne riparliamo.
Ah e già che siamo in tema di previsioni azzeccate, in tanti che state ascoltando gli episodi più vecchi mi avete ricordato una cosa che dissi nel lontano febbraio del 2024, quando ancora il mondo era Trump-free e il nostro problema principale era: ma l’S&P 500 crescerà del 10 del 20 o del 30% quest’anno?
Sentite un po’ che duplice profezia pazzesca che avevo imbroccato in un’unica frase?
AUDIO]
Va beh dai anche questa era facile, anche se perfettamente inutile per migliorare il mio portafoglio.
Invece, se potessi chiedere un consiglio ad uno solo tra tutti i più grandi investitori della Terra, da Warren Buffett a Ray Dalio, da Bill Ackman a Stan Druckenmiller, per dire i primi che mi vengono in mente, probilmente mi giocherei la mia unica telefonata con Howard Marks.
Anche a sto giro, la sua saggezza e lucidità di analisi non hanno eguali.
E non solo io la penso così. Nello spazio di tre giorni l’ho trovato da Bloomberg, ha scritto un articolo sul Financial Times e ha pubblicato uno dei suoi consueti Memo, questa volta dal titolo Nobody Knows (Yet Again), facendo eco al memo scritto con quel titolo nel 2008, dopo il fallimento di Lehman.
Ci sono tanti motivi per cui quando Marks parla, la gente ascolta.
Se uno oggi volesse farsi un’idea perfettamente chiara e lineare dei motivi per cui i dazi sono destinati a rivelarsi un grave errore, il peggior errore economico degli ultimi 95 anni l’ha chiamato qualche giorno fa Jeremy Siegel, quello di Stocks for the long run, si legga appunto questo memo, perché i 10 minuti di lettura valgono più di ore e ore a spulciarsi tutti i giornali del mondo in cerca di spiegazioni.
Adesso non torno su questo perché direi che ne abbiamo già parlato in abbondanza.
Lo sappiamo, gli obiettivi di Trump sono singolarmente positivi per gli Stati Uniti (nuovi posti di lavoro nella manifattura, maggiore sicurezza, maggior export, più entrate fiscali e via dicendo) ma quasi impossibili da ottenere tutti, in questa maniera e senza gravi conseguenze negative, in particolare nel breve, che saranno probabilmente molto più rilevanti dei potenziali vantaggi a lungo termine: recessione, inflazione, distruzione della fiducia dei consumatori, rappresaglie degli altri Paesi, minore competitività, minore innovazione.
Oltre a questo, però, ci sono due cose che val la pena considerare dei recenti interventi di Marks ossia:
– UNO: L’unica certezza nei prossimi 4 anni sarà una costante INCERTEZZA:
– DUE: Come lui, in quanto investitore, ragiona in queste crisi.
Prima di vedere questi due punti che poi ci proiettano alla parte pratica dell’episodio di oggi, ossia se appunto sia giunto il momento di smobilitare il cash e comprare in saldo visto che i prezzi azionari sono nettamente più bassi dello scorso 19 febbraio, concedetemi 90 secondi perché, bello parlare di finanza in questo podcast, ma un po’ di cash serve sempre pure a me. Un po’ per valutare se fare buy the dip e un po’ anche per quell’altra mia strategia finanziaria pazza che consiste nell’andare al supermercato, pagare mutuo, bollette, cose così.
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Torniamo a noi.
Uno dei miei temi preferiti, su cui poi tornerò più avanti in un prossimo episodio, è quella sulla differenza tra rischio e incertezza.
Noi parliamo sempre tantissimo di rischio e sappiamo bene che la finanza ha un concetto molto preciso per misurarlo, che è quello di volatilità o deviazione standard.
Benché solo a posteriori, il rischio è in qualche modo quantificabile.
E su lunghi orizzonti temporali, teoricamente possiamo aspettarci che la regressione verso la media delle anomalie ci permetta di avere una rappresentazione stabile e attendibile del rischio effettivo di un certo investimento.
Se io so che l’S&P 500 ha avuto una deviazione standard annualizzata intorno al 19% un rendimento medio annuo aritmetico dell’11%, secondo la statistica e ammettendo che la distribuzione normale sia una buona approssimazione, potrei aspettarmi:
– 2 anni su 3 un rendimento compreso tra il +30% e il -8% e
– 95 anni su 100 un rendimento compreso tra +40% e -27%
– E poi ci sono rari anni con rendimenti superiori al 40% (e in effetti è successo solo un paio di volte, l’ultima nel 1954) o inferiori al -27% (cosa che è successa nel 1931, 1937 e 2008).
Sappiamo anche cose del tipo che la probabilità che un dollaro investito oggi nell’S&P 500 sia meno di un dollaro ad un certo punto nel futuro diminuisce man mano che il tempo passa. Su 10 anni c’è circa il 95% di probabilità di essere in positivo. Oltre i 15 anni, ad oggi, abbiamo praticamente un 100% di probabilità che quel dollaro varrà nominalmente di più.
Tutti questi ragionamenti, però, hanno a che fare con la dimensione quantificabile dell’incognita legata all’investimento finanziario, che appunto chiamiamo rischio.
Poi però c’è l’incertezza, che è ciò che ancora non sappiamo di non conoscere e che in alcuni casi chiamiamo impropriamente cigno nero.
I dazi di Trump non sono un cigno nero, perché lo sapevano anche i sassi che li avrebbe applicati (o che comunque ne avrebbe fatto un tema centrale). Il cigno nero, invece, deve essere imprevedibile.
Ad ogni modo, l’incertezza è quella componente dell’investimento che non possiamo misurare.
Ed è in realtà ciò a cui ci riferiamo il più delle volte quando invece pensiamo che stiamo parlando di rischio.
Invece è proprio l’incertezza che non piace ai mercati, agli investitori e alle persone in generale.
Quell’ansia che ti prende quando non sai cosa il futuro ti aspetta e ti immagini ogni possibile disastro apocalittico.
Ed è questo, l’incertezza non quantificabile, che è alla base del premio al rischio dell’investimento.
Forse, quello dell’investimento azionario non dovrebbe essere chiamato equity risk premium, ma equity uncertainty premium.
Ciò per cui vogliamo essere remunerati come investitori azionari è il fatto di sopportare non il rischio finanziario; ma l’incertezza.
E in questi giorni, stiamo tutti avendo un assaggio esemplare di cosa voglia dire avere i nostri soldi in balia dell’incertezza.
Ora Marks non la mette esattamente in questi termini, però già a Febbraio aveva scelto la parola incertezza come “keyword” dei futuri 4 anni sotto Trump.
E l’incertezza è secondo lui, giustamente, il sottostante ineliminabile di qualunque decisione di investimento.
Il concetto del rischio finanziario nell’investimento azionario c’è chiaro.
Ma tutti quegli altri rischi più infimi e sfumati che non hanno semplicemente a che fare con la volatilità dei rendimenti in un certo tempo t, ecco, tutti questi attengono alla più ampia, oscura e potenzialmente pericolosa sfera dell’incertezza.
E questo discorso non è puramente filosofico, ma ha molto a che fare con un pensiero che è passato nella testa di tutti noi questi giorni: “che faccio? Ora che il mercato è crollato compro? Faccio buy-the-dip così poi guadagno di più?”.
Oh sono due anni che quello di The Bull mi smartella i cosiddetti dicendo che i prezzi sono alti e che invece bisogna investire soprattutto quando il mercato fa i buchi.
E questo il momento giusto?
O no?
Mi avete fatto questa domanda almeno a centinaia e so che a moltissimi devo ancora rispondere abbiate pazienza.
Risposta: Si e no.
Parliamone.
Marks è come sempre straordinario non solo nei contenuti finanziari, ma anche nella formidabile forma con cui plasma in parole i propri pensieri.
Nel memo fa un ovvio paragone con il 2008, quando il mondo sembrava sull’orlo del collasso, allora indotto dalla scelleratezza dell’industria finanziaria americana e dai comportamenti perversi che aveva agevolato nel mercato immobiliare, oggi indotto dalla scelleratezza di un solo 78ettenne grassoccio miliardario con un ego più grande del suo Air Force One.
Questa è mia ovviamente, non di Marks.
Anche allora il disastro è stato man-made, figlio delle deregolamentazioni degli anni ’80 e ’90.
Ma poi la cosa ci è letteralmente esplosa in mano senza che nessuno sapesse davvero fino in fondo cosa stesse accadendo.
Sì, va bene, Taleb, Roubini, Burry, Eisman, qualcuno l’aveva vista arrivare, ma quando ci sono 100.000 economisti/investitori/accademici ecc. che passano le giornate a predire la prossima crisi c’è sempre qualcuno che ci prende.
Non è questo il punto.
Il punto è che allora non è che proprio ce l’eravamo cercata.
Tanto meno con il Covid.
Questa, invece, ce la stiamo proprio andando a cercare.
E’ la prima crisi finanziaria che inizia prima ancora che una qualche crisi reale si verifichi.
Il mercato è talmente sicuro che Trump causerà un bordello senza fine che ha già vissuto tracolli da far tremare i polsi.
Nel 2008 c’era voluto il fallimento di una delle più grandi banche del mondo, assieme al salvataggio pubblico di altri colossi come Bear Sterns, Merril Lynch, Wachowia e AIG.
Comunque, al di là di analogie e differenze con oggi, Marks ritorna con la memoria a quel momento in cui attinse al suo Opportunity Fund, che aveva chiamato così proprio sapendo che sarebbe stato il serbatoio da cui attingere in presenza di una once in a lifetime opportunity, investì pesantemente e i 15 anni successivi furono una corsa dorata.
Anche Buffett, lo sappiamo bene, nell’ottobre del 2008 scrisse un editoriale sul NyT dal titolo, Buy America, I’m.
E se allora era già una leggenda, poi divenne una divinità vivente.
Ma lo scenario in cui Marks e Buffett investirono ERA da incubo.
Non è che c’erano i cartelloni in giro con scritto “oh è arrivato il momento di comprare, dentro tutti!”
Non era solo uno scenario rischioso, erano nel mezzo della più grave apocalissi economico-finanziaria del dopoguerra.
Marks al proposito cita un libro di Walter Deemer, il cui titolo riassume bene il mood dei momenti peggiori di crisi, che teoricamente dovrebbero essere quelli in cui “buy the dip” e “be greedy when others are fearful”: “When the Time Comes to Buy, You Won’t Want To”. Ciò quando arriva il momento di comprare, non vorrai farlo.
Ed è così.
Se vedi il mercato che crolla, ogni report possibile e immaginabile che parla di recessione e inflazione e inizi ad avere la sensazione che il tuo destino è nelle mani di un personaggio leggermente instabile, non è che proprio ti viene tutto quell’ottimismo per dire “ma sai che c’è, secondo me sta per arrivare la fine del mondo, moh prendo tutti i miei risparmi e l’investo nell’asset class quotata più rischiosa che c’è”.
Come ci aveva detto giustamente anche Ben Carlson: noi siamo programmati per scappare dall’altra parte quando vediamo un incendio, non a lanciarci dentro per cogliere delle opportunità.
Però, insomma, lo diciamo, sempre, investire con successo richiede comportamenti controintuitivi. E prenderci rischi e sfidare l’incertezza SONO atteggiamenti contrari a come siamo stati programmati da madre natura.
Quando le crisi divampano — e vedete che divampano in così breve tempo che è anche faticoso riadattarsi mentalmente alla nuova situazione, dato che neanche due mesi eravamo all’ennesimo all time high — tutto intorno a te non fa altro che prefigurarti l’imminente fine del mondo.
Giustamente però Marks dice queste 4 cose, che val la pena imprimersi in testa:
– Non possiamo predire con sicurezza la fine del mondo;
– Nel caso non avremmo alcuna idea di cosa fare se sapessimo che il mondo starebbe per finire;
– E le cose che faremmo per prepararci alla fine del mondo sarebbero disastrose se poi alla fine il mondo non finisse;
– Ma soprattutto, il più delle volte il mondo non finisce.
Questo ricorda l’aneddoto che avevo già citato del giovane Art Cashin a cui davanti alla (Falsa) notizia dei missili lanciati da Cuba sugli Stati Uniti negli anni ’60, gli venne detto che avrebbe dovuto comprare, non vendere, perché se la notizia fosse stata vera sarebbe stato inutile vendere perché sarebbero morti tutti.
Anche Marks si approccia alle crisi armato di questo, chiamiamolo così, ottimismo logico.
Se investo e il mercato recupera, ho stravinto.
Se investe e questa volta è davvero la fine del mondo, beh, non saranno gli investimenti andati male il mio principale problema.
Questo però non è un invito a fare buy-the-dip e considerare quella attuale dei saldi fuori stagione, nonostante lo stesso Marks da Bloomberg disse che, in teoria, vedere l’S&P sotto del 20% è come andare da Bloomingdale e vedere che ci sono i saldi del 20%: se da Bloomingdale sono incentivato a comprare, perché con l’S&P 500 no?
E se ero felice di comprare l’S&P 500 a 6144 punti, perché non dovrei esserlo ancor di più a 5000?
Però, Marks aggiunge anche una cosa importante: nel 2008 e nelle altre crisi in cui ha investito — così come in quella di oggi — non prende decisioni né con sicurezza, né senza trepidazione. Non c’è posto per la certezza nel mondo degli investimenti, e questo è particolarmente vero nei momenti di svolta e di sconvolgimento. Non è mai stato sicuro che le sue decisioni fossero giuste ma appunto, forte di questo ottimismo logico, ha sempre scelto di muoversi in quella direzione.
Perché giustamente rileva anche un altro fatto: stare fermi non vuol dire non decidere. È comunque una decisione.
Quindi, volenti o nolenti, non esiste “wait and see”.
Bisogna sempre decidere cosa fare con il portafoglio. Anche decidere di non fare niente. Ma sapendo che anche questa sarà una decisione.
Ora, al di là del fatto che il mercato mercoledì ha fatto +9,5%, poi è andato di nuovo giù e questo andamento a sega ce lo possiamo aspettare per un bel po’, la domanda da un milione di euro è: è giunto il momento di comprare così da pescare il jackpot come Marks e Buffett hanno fatto nel 2008?
Mia modesta opinione, più no che sì.
Vediamo perché.
PUNTO UNO: ha sicuramente senso considerare di ribilanciare, sempre cum grano salis e non tuffandosi a capofitto.
Esempio il mio portafoglio aveva il 70% di azioni a febbraio?
Oggi è a, boh, 65%? Ok allora posso considerare, se lo ritengo, di riportare gradualmente la mia asset allocation azionaria al 70%, magari modificando il piano di accumulo che avevo oppure usando del cash se ce l’ho a disposizione.
Certo, non è che da 70/30 a 65/35 cambia così tanto.
Però se il mercato riprende ad andare giù pesante potrei magari ritrovarmi con un 55/45.
Allora già sono due portafogli diversi e può essere opportuno comprare azioni a prezzi più bassi e ribilanciare.
Certo è che questa cosa vale anche al contrario.
Durante i bull run, se ero partito 70/30 e poi mi sono ritrovato 80/20 anche allora avrei dovuto fare lo stesso ragionamento e ribilanciare favorendo le stupide e noiose obbligazioni.
Se non l’ho fatto allora è un po’ un controsenso farlo oggi.
Probabilmente la cosa giusta sarebbe farlo entrambe le volte.
Quindi in questo senso, sì, fare un morbido e progressivo buy the dip basato su una regola sistematica, non in base al mio istinto di pancia, ha senso.
Però ricordiamoci anche un’altra cosa.
Nonostante quel che spesso si legge e si sente dire quando la gente non sa di cosa sta scrivendo o parlando, un mercato costoso non è più rischioso di un mercato meno costoso. È il contrario.
Se il mercato oggi costa meno che il 19 febbraio è perché si sono deteriorati dei fondamentali, o almeno così la pensa il mercato.
L’S&P 500 aveva una forward p/e, un rapporto prezzo utili futuri di 23 e oggi sotto 20.
Evviva evviva che costa meno, ma questo vuol dire che le aspettative degli investitori è che gli utili futuri saranno inferiori o comunque che sono disposti a pagare meno per lo stesso dollaro di utile di due mesi fa.
Io posso fare il figo, agire in modo contrarian e comprare a prezzi più bassi per aver un rendimento atteso maggiore in futuro, ma devo sapere che mi sto prendendo più rischio.
Di conseguenza vale anche il contrario.
Se il mercato va giù a rotoli, io potrei anche considerare di NON ribilanciare e INVECE ridurre il livello di rischio del mio portafoglio.
Non è quello che farei io perché se a febbraio mi stava bene avere un tot di azioni, avevo messo in conto anche allora che sarebbero potuti arrivare anni neri, quindi il mio piano va avanti allo stesso modo.
Ma ciascuno deve fare una valutazione soggettiva, riconsiderare il rischio che vuole, può e deve prendersi e assicurarsi che ancora oggi quell’allocation vada bene, altrimenti non è peccato decidere di tenere un portafoglio con un rischio sistematico più basso (cioè con meno azioni).
E questa è la prima roba, ribilanciare: BENE, anche matematicamente ha senso, mentre comprare tanto per comprare: NO.
Seconda cosa.
Il mercato è andato giù? Sì, un bel pezzo, in dollari l’S&P 500 era sceso quasi del 18%, eravamo arrivati ad un’anticchia dal bear market, prima del rimbalzone di mercoledì, parzialmente poi sgonfiato nei giorni successivi.
Però può andare ancora mooolto più giù.
Nel 2022 è sceso fino a -25%.
Nel 2020 fino a -34%.
Nel 2008 fino a -55%.
Chiamare il “bottom”, cioè il punto più basso, è sempre difficilissimo.
Il mercato tende a zigzagare anche per mesi prima di riprendere una direzione precisa.
E non dimentichiamoci che Trump ha sì messo in pausa i dazi, ma siamo comunque in uno scenario spaventoso. 10% su tutti i Paesi più l’incertezza che regna sovrana rischiano comunque di causare un dissesto economico senza precedenti. Non è che è passata la paura.
Quindi, se ho una strategia sistematica, tipo: ribilancio per mantenere sempre il mio 70/30 o quello che è, è un conto. Se invece voglio comprare perché penso che oggi ci siano i saldi, ok, ma mettiamo in conto che questi nuovi euri che metterò dentro — da ovunque arrivino — potrebbero a loro volta accusare delle belle perdite prima di ricominciare, forse, a risalire. E dico forse perché naturalmente non c’è scritto da nessuna parte che i mercati debbano risalire per forza o entro un certo tempo massimo.
Questo è poi un discorso che riguarda le valutazioni relative: prima, non so, l’ETF sull’S&P 500 costava 110 e oggi costa 90. Benissimo, è più economico.
Ma poi c’è anche il discorso sulle valutazioni assolute.
Cioè se il mercato americano scambiava a 23 volte gli utili attesi e oggi a 20, non è che sia comunque economico.
Se non sbaglio, al fondo della crisi del 2008 scambiava a circa 10 volte gli utili attesi.
Quindi il ragionamento classico di comprare il “dip” ha perfettamente senso se il mercato è prezzato ad una valutazione significativamente inferiore alla media, o comunque inferiore alla media degli ultimi anni, così da attendersi una regressione positiva verso la media.
Nel 1998 Campbell e Shiller avevano scritto un paper, da cui poi sarebbe nato lo Shiller Cape Ratio, in cui spiegavano che le azioni hanno questo “volatilty puzzle”, cioè si muovono molto più di quel che dovrebbero se uno guarda alle modeste variazioni dei fondamentali. Il motivo non è chiaro. Qualcuno dirà per overconfidence o loss aversion. Qualcun altro per altri motivi. Non è importante. Il fatto, noto e conclamato, è che i prezzi si muovono troppo.
Il discorso comunque è che lo Shiller Cape ratio è abbastanza predittivo sul lungo periodo, anche se con molte falle, perché quando le valutazioni scendono eccessivamente allora ci si può ragionevolmente attendere una forte risalita per ritornare a valori medi e viceversa se le valutazioni sono diventate eccessivamente alte, allora ci si può aspettare un lungo periodo di bassi rendimenti sempre per ripristinare la media e la coerenza tra i prezzi e i fondamentali che ci stanno sotto.
Quindi uno dovrebbe chiedersi, come spiega molto bene Owen Lamont nel suo ultimo articolo:
– Oggi il mercato è sceso di X?
– I fondamentali del mercato sono scesi meno di X? (cioè posso dire che le prospettive sugli utili o su altre metriche fondamentali non si sono deteriorate così tanto?)
– E prima della discesa il mercato era o non era sopravvalutato?
Se non era sopravvalutato prima, i fondamentali sono scesi meno del prezzo e i prezzi sono andati giù abbassando in maniera significativa il p/e ratio, ALLORA evviva il buy-the-dip.
Altrimenti, boh.
A volte il mercato rimbalza subito, a volte scende ancora molto, a volte ci possono volere lunghissimi periodi di tempo per recuperare, quindi non è sempre giusto dire che appena il mercato va giù, ALLORA devo comprare perché ci sono i saldi.
Se devo ribilanciare ok.
Altrimenti, valutiamo bene.
A proposito di questo discorso dell’imprevedibilità sui tempi di recupero, oltre che sull’impossibilità di dire che un recupero sia CERTO prima o poi, vi do un po’ di numeri interessanti.
Nick Maggiulli ha fatto un po’ di conti sul tempo mediano che ci ha messo storicamente il mercato per andare giù da un massimo al -20, -30, -40 e -50% e poi il tempo necessario a risalire.
Dunque il valore mediano, non medio eh mediano, per fare -20% è poco più di sei mesi, circa 10 mesi per fare -30% e circa un anno e mezzo per fare -40%.
Considerato che il picco è stato il 19 febbraio, sarebbe assolutamente lecito aspettarsi che il mercato possa andare avanti a scendere per i prossimi 6, 12, 18 mesi tranquillamente.
Vedete cmq che non c’è una grandissima differenza tra scendere di -20 o di -40%.
Lo sappiamo, il mercato va giù con l’ascensore.
Ci mette invece tempi molto diversi per recuperare a seconda di quanto è stato profondo il buco.
In caso di -20%, il tempo mediano di recupero è stato circa 4 anni e il mercato deve fare almeno il +25% per tornare in pari.
In caso di -30%, il tempo mediano è invece di 7,3 anni, ed è necessario che il mercato faccia +43%.
In caso di -40%, il tempo mediano è di quasi 9 anni e serve un +67%.
Ovviamente stiamo parlando di situazioni in cui non faccio piani di accumulo.
Se investo progressivamente mentre il mercato va giù, anche il tempo di recupero tende invece ad accorciarsi.
Peter Oppenheimer, Chief Global Equity Strategist di Goldman, ha invece fatto prodotto un report dal titolo Bear Market Anatomy in cui ha messo insieme una serie di informazioni molto interessanti sulle diverse tipologie di Bear Market. Purtroppo, non posso condividerlo perché è riservato, però magari nelle prossime settimane faccio una puntata ad hoc, tanto dubito che per quest’anno sarà l’ultima volta che parlo di bear market.
Comunque vi cito solo la cosa più interessante.
In pratica il punto fondamentale è: non tutti i Bear market sono uguali e lui distingue tre categorie:
– Strutturali, cioè quelli che capitano per gravi motivazioni sistemiche, come quello del 2008;
– Ciclici, cioè quelli legati al classico ciclo economico (prezzi elevati, inflazione, aumento tassi, utili giù, recessione e via dicendo) come nel 2000-2002 e nel 2022; e infine
– Event-driven, come il Covid e — forse — quello in cui forse andremo ora.
Gli strutturali sono i peggiori, il tempo medio di recupero è circa 9 anni.
I ciclici sono una via di mezzo, richiedono circa 4-5 anni per recuperare.
Gli Event-driven, invece, sono teoricamente i più morbidi, perché in media recuperano in un anno.
Quindi, la buona notizia è che se andiamo in bear market, questo è event-driven al 100% e quindi possiamo aspettarci tempi di recupero più rapidi.
La cattiva notizia è che se Lord Dazimort va avanti imperterrito per la sua ottusa strada, il rischio è che diventi ciclico, perché come sappiamo dazi così alto hanno la probabilità di causare una recessione globale più alta di quella che ha il giocatore medio di calcetto del lunedì sera di scassarsi il ginocchio nel corso di una tipica stagione, quindi 99.9%.
Prima di chiudere, però, voglio lasciarvi con un dato che in prospettiva è incoraggiante.
Negli ultimi 40 anni ci sono stati diversi giorni peggiori dello scorso 4 aprile, quando l’S&P ha perso il 6% in una sola seduta.
Se prendiamo i peggiori 4 giorni di ciascuno dei peggiori anni, ossia, il -22% del 19 ottobre 1987, il -12% del 16 marzo del 2020, il -9% del 15 ottobre 2008 e il -7% del 27 ottobre del 1997, possiamo poi vedere cosa ha fatto l’S&P a 1-3-5 anni da lì. [o tra l’altro ricordiamoci quando arriva il prossimo ottobre di toccarci tutti i cosiddetti perché non come vedete non porta benissimo].
La buona notizia è che il mercato ha avuto un ritorno sempre positivo.
Prendiamo il 15 ottobre 2008 per esempio:
– Da lì a un anno l’S&P ha fatto +21%
– Da lì a 3 anni ha fatto il +33%;
– Da lì a 5 anni ha fatto il +84%.
Oppure prendiamo il 19 ottobre 1987:
– +23% nel primo anno;
– Quasi +40% nei primi tre;
– +85% nei primi cinque.
L’unica volta in cui dopo cinque anni il mercato è tornato al punto di partenza è stato nell’ottobre del 1997, perché naturalmente, 5 anni dopo, nell’ottobre del 2002, ci trovavamo alla fine della crisi delle dot-com, ma di lì a poco sarebbe risalito parecchio fino al 2007, prima di schiantarsi di nuovo con la Global Financial Crisis.
Certo, c’è una differenza rispetto ad allora.
In tutti quei casi gli Stati Uniti erano l’indiscussa potenza economica del mondo, il dollaro la valuta suprema, i treasury l’asset di sicurezza per definizione.
Oggi Trump sta riuscendo nell’impresa di sminchiare tutto questo.
Scardinare il sistema imperniato sul dollaro e sui Treasury sarebbe la fine del mondo.
Però è anche vero che anche le altre volte pensavamo, per altri motivi, che fosse la fine del mondo.
Ma per fortuna la fine del mondo non capita così spesso.
E anche quando pensavamo che fosse davvero la fine del mondo, poi non è stata … la fine del mondo.
Quindi cari miei per oggi ci lasciamo qui, in balia di questo mare tumultuoso che un giorno fa +9,5% e il giorno dopo sprofonda di nuovo, ma con la barra dritta, il cuore fiero, lo spirito prudente e le idee chiare su cosa fare in ogni tempesta.
Concludo con un ringraziamento speciale anche per tutti coloro che non mi seguono su Instagram su thebull_finance e che non forse non sanno che abbiamo superato i 100.000 follower su spotify, che sommati a quelli delle altre piattaforme sono ormai oltre 120.000.
Grazie infinite di cuore a tutti voi che siete ancora qua con me, sempre di più, dopo tutto questo tempo.
Per chi non l’avesse ancora fatto, vi ringrazio se vorrete mettere segui e attivare le notifiche su spotify, apple podcast o dove ci ascoltate e mettere una recensione a 5 stelle per supportarci e permetterci di continuare a produrre contenuti che vi raccontano la fine dei bear market prima che ancora inizino sempre nuovi.
Per questo episodio invece è davvero tutto e noi ci rivediamo mercoledì prossimo in cui parleremo di qualcosa che ancora non so perché di sti tempi vai a saperlo ma vi svelerò invece quale super ospite avremo la prossima domenica, sempre qui naturalmente con The Bull il tuo podcast di finanza personale.
Bentornati a The Bull, il tuo podcast di finanza personale.
Allora mercoledì 9 aprile è stata un’altra giornata di quelle che non ci dimenticheremo molto facilmente. Futures sull’S&P 500 che al mattino viaggiavano in profondo rosso oltre il 2%, puntando dritti all’ormai inevitabile bear market all’apertura alle 15:30 italiane, per poi chiudere alle nostre 22:00 con uno stupefacente +9,52% (e +12,16% per il Nasdaq).
Per ritrovare numeri del genere per l’S&P — e parliamo del terzo miglior giorno della storia — bisogna tornare all’ottobre del 2008, mentre per il Nasdaq addirittura al 2001.
Sì, queste giornate estremamente positive si verificano solo durante le peggiori crisi, perché sono classici rimbalzi appena qualche notizia va un po’ a stemperare il mood nero dei giorni precedenti.
È un po’ come se la tua squadra del cuore in un mese fosse uscita dalla Champions, avesse perso le ultime 3 di campionato, fosse stata pure eliminata in semifinale di Coppa Italia ma poi vince 5-0 il derby. Entusiasmo alle stelle! Per una sera ti sembra di essere tornato al luglio 2006 quando abbiamo vinto i mondiali.
E i mercati spesso bramano a tal punto uno straccio di buona notizia, che al primo minimo segno positivo fanno questi exploit ubriacanti.
Poi arriva il day after e come dopo ogni serata di baldoria che si rispetti, anche l’hangover al mattino è lì pronto ad aspettarti.
Il -3 e fischia percento di giovedì, per noi raddoppiato dalla discesa senza fine del dollaro, non fa infatti pensare che le premesse siano quelle di un rally sostenuto, anzi, sembra che il mercato, nonostante il mal di testa post sbronza, si sia ricordato che il macello è ancora tutto lì e quindi c’è poco da festeggiare.
Se non altro, siamo passati da uno scenario di rapido disastro certo a lento disastro probabile.
Ma andiamo con ordine.
Ok sappiamo tutti perché l’S&P ha fatto più 9,5%.
Trump ha messo in pausa i dazi per 90 giorni, tranne quelli del 10% – che comunque, ricordiamolo, sono una mazzata fotonica sul commercio globale — e tutti hanno tirato un sospiro di sollievo perché è tornata in auge l’interpretazione — che il sottoscritto aveva esposto anche negli episodi passati — che delle negoziazioni ci sarebbero state dopo tutto.
Ora, possono andare tutte in vacca naturalmente, ma all’interpretazione “questi sono i dazi definitivi, non negoziabili” non ci avevano creduto nemmeno i poveri Pinguini delle MacDonald Island che si sono beccati pure loro un 10% sulle esportazioni non si sa bene di cosa.
Dicevo il motivo scatenante è chiaro.
La cosa più interessante è invece l’interpretazione di quel che è accaduto dietro.
Vi ricordate che nell’episodio uscito mercoledì mattina, quello con Robin Wigglesworth, nell’introduzione demenziale Harry Potteriana che avevo fatto dissi che la speranza è che tra i mangiamorte di Lord Voldemort Turmp ce ne fosse almeno uno mandato lì da Silente per salvarci tutti, nella fattispecie, il segretario del Tesoro Scotto Bessent?
Effettivamente sembra che un qualche ruolo ce l’abbia avuto nel guidare l’oscuro presidente immortale a più miti consigli, mettendo in secondo piano quei due clown che finora avevano preso la scena, il segretario al commercio Howard Lutnick e Peter Navarro, il brillante consigliere di Trump sui dazi che Elon Musk ha definito pubblicamente più stupido di un sacco di mattoni.
A metà giornata di mercoledì il mercato era sceso fino ad un pelo del bear market.
E Trump sembrava del tutto disinteressato alla cosa, intento a proclamare tutti i successi che la sua big beautiful idea dei dazi avrebbero garantito in futuro agli americani e a bullarsi del fatto che a quanto pare i leader dei Paesi colpiti dai dazi fossero tutti in fila a — cito testualmente le sue parole — “baciargli il culo” nella speranza di un indulgente sconto di pena.
Però, sempre come dicevamo due episodi fa, occhio che i mercati sono ancora più forti della politica, fino a prova a contraria.
Puoi anche fare il figo per un po’ e fingere che del crollo della ricchezza finanziaria degli americani non ti interessa nulla, ma ricordiamoci che, per quanto ci piaccia tantissimo parlare di azioni, le azioni sono il fratellino minore.
Dopo che il fratellino minore le ha prese dal nostro impavido bullo per una settimana, è arrivato il fratello maggiore.
Avete presente: “ehi bullo, perché non te la prendi con uno della tua taglia”.
Il fratello maggiore si chiama mercato obbligazionario.
Con le azioni si può scherzare, vanno giù, vanno su, è tutto un bellissimo gioco divertentissimo che mi appassiona più di qualunque altra cosa al mondo che non siano mia moglie e mia figlia.
Ma con i bond no e soprattutto non con il più importante asset del mondo: i Titoli di Stato Americani, gli US Treasury.
Perché i Treasury sono il fondamento dell’intero sistema finanziario globale, nonché la colonna vertebrale della più grande economia del mondo che, nonostante i suoi astronomici quasi 30 trilioni di dollari di PIL, si regge su 36 trilioni di dollari di debito pubblico.
IL mercato dei Treasury è un po’ come il noto Cavaliere Nero del leggendario sketch di Gigi Proietti. Anche in questa storia c’è una morale.
E la morale è la stessa del Cavialiere Nero.
Come al Cavaliere nero, così anche al mercato dei Treasury “non je devi cagà r cazzo”.
E infatti è successa l’ultima cosa che Trump voleva succedesse.
Il suo calcolo, se mai ce ne sia stato uno, era:
– Sparo i dazi;
– Scasso un po’ il mercato azionario (anche se forse non pensava così tanto);
– La gente si fionda sui Treasury, Jerome Powell la smette con questa assurda pretesa di non voler fare tutto quello che gli dico, taglia i tassi e tutto il costo dell’indebitamento americano va giù.
– La gente vede la rata del mutuo e delle carte di credito che scendono e sono tutti contenti — e chissene frega se nel frattempo il 60% degli americani, cioè coloro che hanno azioni, hanno 18 trilioni di dollari in meno nei loro portafogli.
Peccato che non sia andata proprio così.
Tra martedì e mercoledì è iniziato un pesante sell-off sui Treasury.
Cioè tanti hanno cominciato a vendere titoli di stato americani con il duplice effetto che il dollaro ha preso un’altra bella batosta e soprattutto il rendimento dei treasury è schizzato oltre il 4,5%.
Noi abbiamo avuto il grandissimo privilegio di avere qui Ed Yardeni.
Già negli anni’70 Ed Yardeni aveva dato un nome preciso a questo fenomeno: Bond Vigilantes.
Per quanto sciagurata possa essere l’amministrazione politica e per quanto inconsistente possa essere l’opposizione di tutto il resto del mondo, alla fine devi fare i conti con i Bond Vigilantes, che ancora una volta si sono pronunciati: questa storia dei dazi non ci piace. Diamoci un taglio e troviamo un’altra soluzione o qua facciamo crollare tutto.
C’è un divertentissimo articolo sul Financial Times di giovedì dal titolo: “An Apology to Bond Vigilantes”, in cui ironicamente si ringraziano i “bond vigilantes” per aver dato la scossa necessaria affinché venisse messo un freno a questa follia.
Ora, non è che i Bond Vigilantes siano delle persone precise.
È il mercato obbligazionario che si adatta a delle interpretazioni future.
Fa la stessa cosa del mercato azionario, ossia sconta (in questo caso tramite le variazioni dei rendimenti) le ipotesi future su recessione e inflazione.
Ma la differenza con l’azionario è che una crisi prolungata dell’asset più importante della Terra, su cui si regge fondamentalmente tutto il debito del mondo, avrebbe effetti sistemici incalcolabili sull’economia mondiale.
Non è chiarissimo, quindi, chi o che cosa ci sia stato dietro questo imponente sell-off.
C’è stato — è intanto questa è la cosa che conta.
E soprattutto continuerà ad esserci finché il mercato non sarà abbastanza rassicurato sul buon senso delle azioni future dell’amministrazione americana.
Ci sono due ipotesi prevalenti — e probabilmente la verità è un mix di esse.
Da una parte è possibile che molti hedge fund e altri investitori istituzionali esposti con un alto livello di leva siano stati costretti a svendere Treasury per chiudere le proprie posizioni.
Classiche strategie di arbitraggio sui Treasury sono il basis trade, l’off-the-run trade e lo swap trade.
Al di là di come funzionano, che sono un po’ complicati da spiegare, il concetto di fondo è che l’hedge fund di turno crea delle posizioni in cui è long, cioè compra, dei Treasury ed è short, cioè vende strumenti collegati a quei Treasury che hanno un prezzo leggermente più alto, nell’aspettativa che i due prezzi, come solitamente succede, vadano a convergere.
Il basis Trade è quando compri un Treasury e vendi un future su quel Treasury.
Oppure puoi comprare un Treasury emesso qualche mese, chiamato off-the-run, e venderne contestualmente uno “on the run”, cioè appena emesso, che ha un prezzo leggermente più alto — che la strategia che ha fatto saltare per aria LTCM nel 1998.
Oppure ancora puoi comprare un Treasury e vendere un interest rate swap su quel treasury.
In tutte queste strategie di arbitraggio sul prezzo dei Treasury, lo schema è il medesimo. Si compra un tot di titoli di stato e si vende allo scoperto uno strumento collegato che ha un prezzo leggermente più alto. I due prezzi, se non ci sono shock, vanno a convergere e io guadagno dalla differenza.
Qual è il problema?
Il problema è siccome la differenza di prezzo è minuscola, per farci soldi veri devi usare moltissima leva.
Ma se inizia ad esserci tensione sui mercati si presenta il solito problema che ha sempre lo stesso nome: margin call.
Perché?
Perché solitamente l’hedge fund usa i Treasury che comprato, quindi la parte long della posizione, come collaterale per avere soldi in prestito da una banca e amplificare le dimensioni del trade.
Ma se il prezzo dei Treasury inizia ad andare già perché il mercato è in subbuglio come in questi giorni, allora il tuo collaterale vale meno e chi ti ha prestato i soldi ti dice: amico mio, o mi dai più soldi, o ti chiudo la posizione.
E allora tu devi andare a vendere in fretta e furia quello che hai per coprire le margin call.
Probabilmente una parte delle svendite sui Treasury sono state amplificate da tanti hedge fund che sono andati a vendere a loro volta titoli americani per raccogliere capitali e chiudere le loro posizioni con super leva.
L’altra ipotesi, molto più spaventosa e che non è necessariamente un’alternativa, è che investitori stranieri, Cina in primis, possano aver deciso di svendere un po’ di titoli americani come ritorsione verso le iniziative di Trump.
L’altro lato della medaglia, invece, è che non è da escludere che comunque qualcuno sia metaforicamente già andato davvero a baciare il culo a Trump, perché l’asta dei Treasury di mercoledì 9 è andata molto bene grazie ad un elevato contributo di investitori stranieri.
Il famoso paper di Steven Miran, in effetti, teorizzava accordi che prevedessero elasticità sui dazi in cambio di impegno dei Paesi alleati di sobbarcarsi debito americano.
Sarà una lunga, lunga, lunghissima telenovela e aspettiamoci ogni giorno una serie di nuovi risvolti.
Se vi ricordate, vi avevo profetizzato tre cose, che in effetti erano tutte previsioni piuttosto facili e finora c’ho preso:
– NUMERO UNO: se uno dice che non intende negoziare, significa che intende negoziare. E così è stato, tanto che dal “kiss my ass” si è passati in un lampo a Trump che ha detto “non voglio danneggiare nessun Paese se non se lo merita”.
– NUMERO DUE: nessuno può ignorare a lungo i mercati. Quelli sono il tuo giudice supremo, non puoi corromperli, non puoi piegarli, non puoi farli andare dove vuoi tu. A loro, in ultima istanza, devi rispondere. E così, sempre per ora, è stato.
– NUMERO TRE: non sarà una soluzione rapida. In poche settimane Trump ha scatenato un putiferio che anche nella migliore delle ipotesi avrà effetti duraturi.
Gli effetti:
– Il mercato, salvo clamorose svolte, non ricomincerà a salire in linea retta e a lasciarsi tutto alle spalle. Lo scenario base è che assisteremo ancora a tanti su e giù per un bel pezzo, finché almeno non iniziano ad arrivare dei chiari — e auspicabilmente soddisfacenti — accordi con i vari Paesi.
– Le ferite si rimarginano. Ma le cicatrici restano. E nessuno si dimenticherà mai facilmente del trattamento riservato da Trump agli alleati, anche se alla fine si trovassero degli accordi. Servirà molto più di una pausa di 90 giorni per ricostruire la fiducia incondizionata che per 80 anni il mondo ha attribuito agli Stati Uniti, che pur con tutte le loro contraddizioni erano considerati l’ultimo indistruttibile baluardo della democrazia, del libero commercio e di un più o meno stabile ordine mondiale. O comunque non fino al 2028. Poi magari ci sarà un Presidente di tutt’altro spessore morale e magari ne riparliamo.
Ah e già che siamo in tema di previsioni azzeccate, in tanti che state ascoltando gli episodi più vecchi mi avete ricordato una cosa che dissi nel lontano febbraio del 2024, quando ancora il mondo era Trump-free e il nostro problema principale era: ma l’S&P 500 crescerà del 10 del 20 o del 30% quest’anno?
Sentite un po’ che duplice profezia pazzesca che avevo imbroccato in un’unica frase?
AUDIO]
Va beh dai anche questa era facile, anche se perfettamente inutile per migliorare il mio portafoglio.
Invece, se potessi chiedere un consiglio ad uno solo tra tutti i più grandi investitori della Terra, da Warren Buffett a Ray Dalio, da Bill Ackman a Stan Druckenmiller, per dire i primi che mi vengono in mente, probilmente mi giocherei la mia unica telefonata con Howard Marks.
Anche a sto giro, la sua saggezza e lucidità di analisi non hanno eguali.
E non solo io la penso così. Nello spazio di tre giorni l’ho trovato da Bloomberg, ha scritto un articolo sul Financial Times e ha pubblicato uno dei suoi consueti Memo, questa volta dal titolo Nobody Knows (Yet Again), facendo eco al memo scritto con quel titolo nel 2008, dopo il fallimento di Lehman.
Ci sono tanti motivi per cui quando Marks parla, la gente ascolta.
Se uno oggi volesse farsi un’idea perfettamente chiara e lineare dei motivi per cui i dazi sono destinati a rivelarsi un grave errore, il peggior errore economico degli ultimi 95 anni l’ha chiamato qualche giorno fa Jeremy Siegel, quello di Stocks for the long run, si legga appunto questo memo, perché i 10 minuti di lettura valgono più di ore e ore a spulciarsi tutti i giornali del mondo in cerca di spiegazioni.
Adesso non torno su questo perché direi che ne abbiamo già parlato in abbondanza.
Lo sappiamo, gli obiettivi di Trump sono singolarmente positivi per gli Stati Uniti (nuovi posti di lavoro nella manifattura, maggiore sicurezza, maggior export, più entrate fiscali e via dicendo) ma quasi impossibili da ottenere tutti, in questa maniera e senza gravi conseguenze negative, in particolare nel breve, che saranno probabilmente molto più rilevanti dei potenziali vantaggi a lungo termine: recessione, inflazione, distruzione della fiducia dei consumatori, rappresaglie degli altri Paesi, minore competitività, minore innovazione.
Oltre a questo, però, ci sono due cose che val la pena considerare dei recenti interventi di Marks ossia:
– UNO: L’unica certezza nei prossimi 4 anni sarà una costante INCERTEZZA:
– DUE: Come lui, in quanto investitore, ragiona in queste crisi.
Prima di vedere questi due punti che poi ci proiettano alla parte pratica dell’episodio di oggi, ossia se appunto sia giunto il momento di smobilitare il cash e comprare in saldo visto che i prezzi azionari sono nettamente più bassi dello scorso 19 febbraio, concedetemi 90 secondi perché, bello parlare di finanza in questo podcast, ma un po’ di cash serve sempre pure a me. Un po’ per valutare se fare buy the dip e un po’ anche per quell’altra mia strategia finanziaria pazza che consiste nell’andare al supermercato, pagare mutuo, bollette, cose così.
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Torniamo a noi.
Uno dei miei temi preferiti, su cui poi tornerò più avanti in un prossimo episodio, è quella sulla differenza tra rischio e incertezza.
Noi parliamo sempre tantissimo di rischio e sappiamo bene che la finanza ha un concetto molto preciso per misurarlo, che è quello di volatilità o deviazione standard.
Benché solo a posteriori, il rischio è in qualche modo quantificabile.
E su lunghi orizzonti temporali, teoricamente possiamo aspettarci che la regressione verso la media delle anomalie ci permetta di avere una rappresentazione stabile e attendibile del rischio effettivo di un certo investimento.
Se io so che l’S&P 500 ha avuto una deviazione standard annualizzata intorno al 19% un rendimento medio annuo aritmetico dell’11%, secondo la statistica e ammettendo che la distribuzione normale sia una buona approssimazione, potrei aspettarmi:
– 2 anni su 3 un rendimento compreso tra il +30% e il -8% e
– 95 anni su 100 un rendimento compreso tra +40% e -27%
– E poi ci sono rari anni con rendimenti superiori al 40% (e in effetti è successo solo un paio di volte, l’ultima nel 1954) o inferiori al -27% (cosa che è successa nel 1931, 1937 e 2008).
Sappiamo anche cose del tipo che la probabilità che un dollaro investito oggi nell’S&P 500 sia meno di un dollaro ad un certo punto nel futuro diminuisce man mano che il tempo passa. Su 10 anni c’è circa il 95% di probabilità di essere in positivo. Oltre i 15 anni, ad oggi, abbiamo praticamente un 100% di probabilità che quel dollaro varrà nominalmente di più.
Tutti questi ragionamenti, però, hanno a che fare con la dimensione quantificabile dell’incognita legata all’investimento finanziario, che appunto chiamiamo rischio.
Poi però c’è l’incertezza, che è ciò che ancora non sappiamo di non conoscere e che in alcuni casi chiamiamo impropriamente cigno nero.
I dazi di Trump non sono un cigno nero, perché lo sapevano anche i sassi che li avrebbe applicati (o che comunque ne avrebbe fatto un tema centrale). Il cigno nero, invece, deve essere imprevedibile.
Ad ogni modo, l’incertezza è quella componente dell’investimento che non possiamo misurare.
Ed è in realtà ciò a cui ci riferiamo il più delle volte quando invece pensiamo che stiamo parlando di rischio.
Invece è proprio l’incertezza che non piace ai mercati, agli investitori e alle persone in generale.
Quell’ansia che ti prende quando non sai cosa il futuro ti aspetta e ti immagini ogni possibile disastro apocalittico.
Ed è questo, l’incertezza non quantificabile, che è alla base del premio al rischio dell’investimento.
Forse, quello dell’investimento azionario non dovrebbe essere chiamato equity risk premium, ma equity uncertainty premium.
Ciò per cui vogliamo essere remunerati come investitori azionari è il fatto di sopportare non il rischio finanziario; ma l’incertezza.
E in questi giorni, stiamo tutti avendo un assaggio esemplare di cosa voglia dire avere i nostri soldi in balia dell’incertezza.
Ora Marks non la mette esattamente in questi termini, però già a Febbraio aveva scelto la parola incertezza come “keyword” dei futuri 4 anni sotto Trump.
E l’incertezza è secondo lui, giustamente, il sottostante ineliminabile di qualunque decisione di investimento.
Il concetto del rischio finanziario nell’investimento azionario c’è chiaro.
Ma tutti quegli altri rischi più infimi e sfumati che non hanno semplicemente a che fare con la volatilità dei rendimenti in un certo tempo t, ecco, tutti questi attengono alla più ampia, oscura e potenzialmente pericolosa sfera dell’incertezza.
E questo discorso non è puramente filosofico, ma ha molto a che fare con un pensiero che è passato nella testa di tutti noi questi giorni: “che faccio? Ora che il mercato è crollato compro? Faccio buy-the-dip così poi guadagno di più?”.
Oh sono due anni che quello di The Bull mi smartella i cosiddetti dicendo che i prezzi sono alti e che invece bisogna investire soprattutto quando il mercato fa i buchi.
E questo il momento giusto?
O no?
Mi avete fatto questa domanda almeno a centinaia e so che a moltissimi devo ancora rispondere abbiate pazienza.
Risposta: Si e no.
Parliamone.
Marks è come sempre straordinario non solo nei contenuti finanziari, ma anche nella formidabile forma con cui plasma in parole i propri pensieri.
Nel memo fa un ovvio paragone con il 2008, quando il mondo sembrava sull’orlo del collasso, allora indotto dalla scelleratezza dell’industria finanziaria americana e dai comportamenti perversi che aveva agevolato nel mercato immobiliare, oggi indotto dalla scelleratezza di un solo 78ettenne grassoccio miliardario con un ego più grande del suo Air Force One.
Questa è mia ovviamente, non di Marks.
Anche allora il disastro è stato man-made, figlio delle deregolamentazioni degli anni ’80 e ’90.
Ma poi la cosa ci è letteralmente esplosa in mano senza che nessuno sapesse davvero fino in fondo cosa stesse accadendo.
Sì, va bene, Taleb, Roubini, Burry, Eisman, qualcuno l’aveva vista arrivare, ma quando ci sono 100.000 economisti/investitori/accademici ecc. che passano le giornate a predire la prossima crisi c’è sempre qualcuno che ci prende.
Non è questo il punto.
Il punto è che allora non è che proprio ce l’eravamo cercata.
Tanto meno con il Covid.
Questa, invece, ce la stiamo proprio andando a cercare.
E’ la prima crisi finanziaria che inizia prima ancora che una qualche crisi reale si verifichi.
Il mercato è talmente sicuro che Trump causerà un bordello senza fine che ha già vissuto tracolli da far tremare i polsi.
Nel 2008 c’era voluto il fallimento di una delle più grandi banche del mondo, assieme al salvataggio pubblico di altri colossi come Bear Sterns, Merril Lynch, Wachowia e AIG.
Comunque, al di là di analogie e differenze con oggi, Marks ritorna con la memoria a quel momento in cui attinse al suo Opportunity Fund, che aveva chiamato così proprio sapendo che sarebbe stato il serbatoio da cui attingere in presenza di una once in a lifetime opportunity, investì pesantemente e i 15 anni successivi furono una corsa dorata.
Anche Buffett, lo sappiamo bene, nell’ottobre del 2008 scrisse un editoriale sul NyT dal titolo, Buy America, I’m.
E se allora era già una leggenda, poi divenne una divinità vivente.
Ma lo scenario in cui Marks e Buffett investirono ERA da incubo.
Non è che c’erano i cartelloni in giro con scritto “oh è arrivato il momento di comprare, dentro tutti!”
Non era solo uno scenario rischioso, erano nel mezzo della più grave apocalissi economico-finanziaria del dopoguerra.
Marks al proposito cita un libro di Walter Deemer, il cui titolo riassume bene il mood dei momenti peggiori di crisi, che teoricamente dovrebbero essere quelli in cui “buy the dip” e “be greedy when others are fearful”: “When the Time Comes to Buy, You Won’t Want To”. Ciò quando arriva il momento di comprare, non vorrai farlo.
Ed è così.
Se vedi il mercato che crolla, ogni report possibile e immaginabile che parla di recessione e inflazione e inizi ad avere la sensazione che il tuo destino è nelle mani di un personaggio leggermente instabile, non è che proprio ti viene tutto quell’ottimismo per dire “ma sai che c’è, secondo me sta per arrivare la fine del mondo, moh prendo tutti i miei risparmi e l’investo nell’asset class quotata più rischiosa che c’è”.
Come ci aveva detto giustamente anche Ben Carlson: noi siamo programmati per scappare dall’altra parte quando vediamo un incendio, non a lanciarci dentro per cogliere delle opportunità.
Però, insomma, lo diciamo, sempre, investire con successo richiede comportamenti controintuitivi. E prenderci rischi e sfidare l’incertezza SONO atteggiamenti contrari a come siamo stati programmati da madre natura.
Quando le crisi divampano — e vedete che divampano in così breve tempo che è anche faticoso riadattarsi mentalmente alla nuova situazione, dato che neanche due mesi eravamo all’ennesimo all time high — tutto intorno a te non fa altro che prefigurarti l’imminente fine del mondo.
Giustamente però Marks dice queste 4 cose, che val la pena imprimersi in testa:
– Non possiamo predire con sicurezza la fine del mondo;
– Nel caso non avremmo alcuna idea di cosa fare se sapessimo che il mondo starebbe per finire;
– E le cose che faremmo per prepararci alla fine del mondo sarebbero disastrose se poi alla fine il mondo non finisse;
– Ma soprattutto, il più delle volte il mondo non finisce.
Questo ricorda l’aneddoto che avevo già citato del giovane Art Cashin a cui davanti alla (Falsa) notizia dei missili lanciati da Cuba sugli Stati Uniti negli anni ’60, gli venne detto che avrebbe dovuto comprare, non vendere, perché se la notizia fosse stata vera sarebbe stato inutile vendere perché sarebbero morti tutti.
Anche Marks si approccia alle crisi armato di questo, chiamiamolo così, ottimismo logico.
Se investo e il mercato recupera, ho stravinto.
Se investe e questa volta è davvero la fine del mondo, beh, non saranno gli investimenti andati male il mio principale problema.
Questo però non è un invito a fare buy-the-dip e considerare quella attuale dei saldi fuori stagione, nonostante lo stesso Marks da Bloomberg disse che, in teoria, vedere l’S&P sotto del 20% è come andare da Bloomingdale e vedere che ci sono i saldi del 20%: se da Bloomingdale sono incentivato a comprare, perché con l’S&P 500 no?
E se ero felice di comprare l’S&P 500 a 6144 punti, perché non dovrei esserlo ancor di più a 5000?
Però, Marks aggiunge anche una cosa importante: nel 2008 e nelle altre crisi in cui ha investito — così come in quella di oggi — non prende decisioni né con sicurezza, né senza trepidazione. Non c’è posto per la certezza nel mondo degli investimenti, e questo è particolarmente vero nei momenti di svolta e di sconvolgimento. Non è mai stato sicuro che le sue decisioni fossero giuste ma appunto, forte di questo ottimismo logico, ha sempre scelto di muoversi in quella direzione.
Perché giustamente rileva anche un altro fatto: stare fermi non vuol dire non decidere. È comunque una decisione.
Quindi, volenti o nolenti, non esiste “wait and see”.
Bisogna sempre decidere cosa fare con il portafoglio. Anche decidere di non fare niente. Ma sapendo che anche questa sarà una decisione.
Ora, al di là del fatto che il mercato mercoledì ha fatto +9,5%, poi è andato di nuovo giù e questo andamento a sega ce lo possiamo aspettare per un bel po’, la domanda da un milione di euro è: è giunto il momento di comprare così da pescare il jackpot come Marks e Buffett hanno fatto nel 2008?
Mia modesta opinione, più no che sì.
Vediamo perché.
PUNTO UNO: ha sicuramente senso considerare di ribilanciare, sempre cum grano salis e non tuffandosi a capofitto.
Esempio il mio portafoglio aveva il 70% di azioni a febbraio?
Oggi è a, boh, 65%? Ok allora posso considerare, se lo ritengo, di riportare gradualmente la mia asset allocation azionaria al 70%, magari modificando il piano di accumulo che avevo oppure usando del cash se ce l’ho a disposizione.
Certo, non è che da 70/30 a 65/35 cambia così tanto.
Però se il mercato riprende ad andare giù pesante potrei magari ritrovarmi con un 55/45.
Allora già sono due portafogli diversi e può essere opportuno comprare azioni a prezzi più bassi e ribilanciare.
Certo è che questa cosa vale anche al contrario.
Durante i bull run, se ero partito 70/30 e poi mi sono ritrovato 80/20 anche allora avrei dovuto fare lo stesso ragionamento e ribilanciare favorendo le stupide e noiose obbligazioni.
Se non l’ho fatto allora è un po’ un controsenso farlo oggi.
Probabilmente la cosa giusta sarebbe farlo entrambe le volte.
Quindi in questo senso, sì, fare un morbido e progressivo buy the dip basato su una regola sistematica, non in base al mio istinto di pancia, ha senso.
Però ricordiamoci anche un’altra cosa.
Nonostante quel che spesso si legge e si sente dire quando la gente non sa di cosa sta scrivendo o parlando, un mercato costoso non è più rischioso di un mercato meno costoso. È il contrario.
Se il mercato oggi costa meno che il 19 febbraio è perché si sono deteriorati dei fondamentali, o almeno così la pensa il mercato.
L’S&P 500 aveva una forward p/e, un rapporto prezzo utili futuri di 23 e oggi sotto 20.
Evviva evviva che costa meno, ma questo vuol dire che le aspettative degli investitori è che gli utili futuri saranno inferiori o comunque che sono disposti a pagare meno per lo stesso dollaro di utile di due mesi fa.
Io posso fare il figo, agire in modo contrarian e comprare a prezzi più bassi per aver un rendimento atteso maggiore in futuro, ma devo sapere che mi sto prendendo più rischio.
Di conseguenza vale anche il contrario.
Se il mercato va giù a rotoli, io potrei anche considerare di NON ribilanciare e INVECE ridurre il livello di rischio del mio portafoglio.
Non è quello che farei io perché se a febbraio mi stava bene avere un tot di azioni, avevo messo in conto anche allora che sarebbero potuti arrivare anni neri, quindi il mio piano va avanti allo stesso modo.
Ma ciascuno deve fare una valutazione soggettiva, riconsiderare il rischio che vuole, può e deve prendersi e assicurarsi che ancora oggi quell’allocation vada bene, altrimenti non è peccato decidere di tenere un portafoglio con un rischio sistematico più basso (cioè con meno azioni).
E questa è la prima roba, ribilanciare: BENE, anche matematicamente ha senso, mentre comprare tanto per comprare: NO.
Seconda cosa.
Il mercato è andato giù? Sì, un bel pezzo, in dollari l’S&P 500 era sceso quasi del 18%, eravamo arrivati ad un’anticchia dal bear market, prima del rimbalzone di mercoledì, parzialmente poi sgonfiato nei giorni successivi.
Però può andare ancora mooolto più giù.
Nel 2022 è sceso fino a -25%.
Nel 2020 fino a -34%.
Nel 2008 fino a -55%.
Chiamare il “bottom”, cioè il punto più basso, è sempre difficilissimo.
Il mercato tende a zigzagare anche per mesi prima di riprendere una direzione precisa.
E non dimentichiamoci che Trump ha sì messo in pausa i dazi, ma siamo comunque in uno scenario spaventoso. 10% su tutti i Paesi più l’incertezza che regna sovrana rischiano comunque di causare un dissesto economico senza precedenti. Non è che è passata la paura.
Quindi, se ho una strategia sistematica, tipo: ribilancio per mantenere sempre il mio 70/30 o quello che è, è un conto. Se invece voglio comprare perché penso che oggi ci siano i saldi, ok, ma mettiamo in conto che questi nuovi euri che metterò dentro — da ovunque arrivino — potrebbero a loro volta accusare delle belle perdite prima di ricominciare, forse, a risalire. E dico forse perché naturalmente non c’è scritto da nessuna parte che i mercati debbano risalire per forza o entro un certo tempo massimo.
Questo è poi un discorso che riguarda le valutazioni relative: prima, non so, l’ETF sull’S&P 500 costava 110 e oggi costa 90. Benissimo, è più economico.
Ma poi c’è anche il discorso sulle valutazioni assolute.
Cioè se il mercato americano scambiava a 23 volte gli utili attesi e oggi a 20, non è che sia comunque economico.
Se non sbaglio, al fondo della crisi del 2008 scambiava a circa 10 volte gli utili attesi.
Quindi il ragionamento classico di comprare il “dip” ha perfettamente senso se il mercato è prezzato ad una valutazione significativamente inferiore alla media, o comunque inferiore alla media degli ultimi anni, così da attendersi una regressione positiva verso la media.
Nel 1998 Campbell e Shiller avevano scritto un paper, da cui poi sarebbe nato lo Shiller Cape Ratio, in cui spiegavano che le azioni hanno questo “volatilty puzzle”, cioè si muovono molto più di quel che dovrebbero se uno guarda alle modeste variazioni dei fondamentali. Il motivo non è chiaro. Qualcuno dirà per overconfidence o loss aversion. Qualcun altro per altri motivi. Non è importante. Il fatto, noto e conclamato, è che i prezzi si muovono troppo.
Il discorso comunque è che lo Shiller Cape ratio è abbastanza predittivo sul lungo periodo, anche se con molte falle, perché quando le valutazioni scendono eccessivamente allora ci si può ragionevolmente attendere una forte risalita per ritornare a valori medi e viceversa se le valutazioni sono diventate eccessivamente alte, allora ci si può aspettare un lungo periodo di bassi rendimenti sempre per ripristinare la media e la coerenza tra i prezzi e i fondamentali che ci stanno sotto.
Quindi uno dovrebbe chiedersi, come spiega molto bene Owen Lamont nel suo ultimo articolo:
– Oggi il mercato è sceso di X?
– I fondamentali del mercato sono scesi meno di X? (cioè posso dire che le prospettive sugli utili o su altre metriche fondamentali non si sono deteriorate così tanto?)
– E prima della discesa il mercato era o non era sopravvalutato?
Se non era sopravvalutato prima, i fondamentali sono scesi meno del prezzo e i prezzi sono andati giù abbassando in maniera significativa il p/e ratio, ALLORA evviva il buy-the-dip.
Altrimenti, boh.
A volte il mercato rimbalza subito, a volte scende ancora molto, a volte ci possono volere lunghissimi periodi di tempo per recuperare, quindi non è sempre giusto dire che appena il mercato va giù, ALLORA devo comprare perché ci sono i saldi.
Se devo ribilanciare ok.
Altrimenti, valutiamo bene.
A proposito di questo discorso dell’imprevedibilità sui tempi di recupero, oltre che sull’impossibilità di dire che un recupero sia CERTO prima o poi, vi do un po’ di numeri interessanti.
Nick Maggiulli ha fatto un po’ di conti sul tempo mediano che ci ha messo storicamente il mercato per andare giù da un massimo al -20, -30, -40 e -50% e poi il tempo necessario a risalire.
Dunque il valore mediano, non medio eh mediano, per fare -20% è poco più di sei mesi, circa 10 mesi per fare -30% e circa un anno e mezzo per fare -40%.
Considerato che il picco è stato il 19 febbraio, sarebbe assolutamente lecito aspettarsi che il mercato possa andare avanti a scendere per i prossimi 6, 12, 18 mesi tranquillamente.
Vedete cmq che non c’è una grandissima differenza tra scendere di -20 o di -40%.
Lo sappiamo, il mercato va giù con l’ascensore.
Ci mette invece tempi molto diversi per recuperare a seconda di quanto è stato profondo il buco.
In caso di -20%, il tempo mediano di recupero è stato circa 4 anni e il mercato deve fare almeno il +25% per tornare in pari.
In caso di -30%, il tempo mediano è invece di 7,3 anni, ed è necessario che il mercato faccia +43%.
In caso di -40%, il tempo mediano è di quasi 9 anni e serve un +67%.
Ovviamente stiamo parlando di situazioni in cui non faccio piani di accumulo.
Se investo progressivamente mentre il mercato va giù, anche il tempo di recupero tende invece ad accorciarsi.
Peter Oppenheimer, Chief Global Equity Strategist di Goldman, ha invece fatto prodotto un report dal titolo Bear Market Anatomy in cui ha messo insieme una serie di informazioni molto interessanti sulle diverse tipologie di Bear Market. Purtroppo, non posso condividerlo perché è riservato, però magari nelle prossime settimane faccio una puntata ad hoc, tanto dubito che per quest’anno sarà l’ultima volta che parlo di bear market.
Comunque vi cito solo la cosa più interessante.
In pratica il punto fondamentale è: non tutti i Bear market sono uguali e lui distingue tre categorie:
– Strutturali, cioè quelli che capitano per gravi motivazioni sistemiche, come quello del 2008;
– Ciclici, cioè quelli legati al classico ciclo economico (prezzi elevati, inflazione, aumento tassi, utili giù, recessione e via dicendo) come nel 2000-2002 e nel 2022; e infine
– Event-driven, come il Covid e — forse — quello in cui forse andremo ora.
Gli strutturali sono i peggiori, il tempo medio di recupero è circa 9 anni.
I ciclici sono una via di mezzo, richiedono circa 4-5 anni per recuperare.
Gli Event-driven, invece, sono teoricamente i più morbidi, perché in media recuperano in un anno.
Quindi, la buona notizia è che se andiamo in bear market, questo è event-driven al 100% e quindi possiamo aspettarci tempi di recupero più rapidi.
La cattiva notizia è che se Lord Dazimort va avanti imperterrito per la sua ottusa strada, il rischio è che diventi ciclico, perché come sappiamo dazi così alto hanno la probabilità di causare una recessione globale più alta di quella che ha il giocatore medio di calcetto del lunedì sera di scassarsi il ginocchio nel corso di una tipica stagione, quindi 99.9%.
Prima di chiudere, però, voglio lasciarvi con un dato che in prospettiva è incoraggiante.
Negli ultimi 40 anni ci sono stati diversi giorni peggiori dello scorso 4 aprile, quando l’S&P ha perso il 6% in una sola seduta.
Se prendiamo i peggiori 4 giorni di ciascuno dei peggiori anni, ossia, il -22% del 19 ottobre 1987, il -12% del 16 marzo del 2020, il -9% del 15 ottobre 2008 e il -7% del 27 ottobre del 1997, possiamo poi vedere cosa ha fatto l’S&P a 1-3-5 anni da lì. [o tra l’altro ricordiamoci quando arriva il prossimo ottobre di toccarci tutti i cosiddetti perché non come vedete non porta benissimo].
La buona notizia è che il mercato ha avuto un ritorno sempre positivo.
Prendiamo il 15 ottobre 2008 per esempio:
– Da lì a un anno l’S&P ha fatto +21%
– Da lì a 3 anni ha fatto il +33%;
– Da lì a 5 anni ha fatto il +84%.
Oppure prendiamo il 19 ottobre 1987:
– +23% nel primo anno;
– Quasi +40% nei primi tre;
– +85% nei primi cinque.
L’unica volta in cui dopo cinque anni il mercato è tornato al punto di partenza è stato nell’ottobre del 1997, perché naturalmente, 5 anni dopo, nell’ottobre del 2002, ci trovavamo alla fine della crisi delle dot-com, ma di lì a poco sarebbe risalito parecchio fino al 2007, prima di schiantarsi di nuovo con la Global Financial Crisis.
Certo, c’è una differenza rispetto ad allora.
In tutti quei casi gli Stati Uniti erano l’indiscussa potenza economica del mondo, il dollaro la valuta suprema, i treasury l’asset di sicurezza per definizione.
Oggi Trump sta riuscendo nell’impresa di sminchiare tutto questo.
Scardinare il sistema imperniato sul dollaro e sui Treasury sarebbe la fine del mondo.
Però è anche vero che anche le altre volte pensavamo, per altri motivi, che fosse la fine del mondo.
Ma per fortuna la fine del mondo non capita così spesso.
E anche quando pensavamo che fosse davvero la fine del mondo, poi non è stata … la fine del mondo.
Quindi cari miei per oggi ci lasciamo qui, in balia di questo mare tumultuoso che un giorno fa +9,5% e il giorno dopo sprofonda di nuovo, ma con la barra dritta, il cuore fiero, lo spirito prudente e le idee chiare su cosa fare in ogni tempesta.
Concludo con un ringraziamento speciale anche per tutti coloro che non mi seguono su Instagram su thebull_finance e che non forse non sanno che abbiamo superato i 100.000 follower su spotify, che sommati a quelli delle altre piattaforme sono ormai oltre 120.000.
Grazie infinite di cuore a tutti voi che siete ancora qua con me, sempre di più, dopo tutto questo tempo.
Per chi non l’avesse ancora fatto, vi ringrazio se vorrete mettere segui e attivare le notifiche su spotify, apple podcast o dove ci ascoltate e mettere una recensione a 5 stelle per supportarci e permetterci di continuare a produrre contenuti che vi raccontano la fine dei bear market prima che ancora inizino sempre nuovi.
Per questo episodio invece è davvero tutto e noi ci rivediamo mercoledì prossimo in cui parleremo di qualcosa che ancora non so perché di sti tempi vai a saperlo ma vi svelerò invece quale super ospite avremo la prossima domenica, sempre qui naturalmente con The Bull il tuo podcast di finanza personale.
Recensioni
Quando capisci come funziona la finanza… ti viene voglia di raccontarla!
La mia ignoranza in materia mi ha sempre creato dei dubbi, ma grazie a un amico ho iniziato ad ascoltare il podcast. Per fortuna che ho 24 anni e un po' di tempo e soldi da dedicarmi a imparare le varie nozioni per me stesso. Grazie mille!
Luca G. 10 Ott 2025Ho seguito tutte le puntate! Grazie veramente
Amalia A., 17 Set 2025Riccardo mi ha letteralmente cambiato la vita e fatto scoprire che amo la finanza, ho ascoltato il podcast già due volte e non mi stufo mai di ascoltarlo, parla in modo semplice e chiaro
Massimo D., 23 Set 2025Non sono solito a mettere recensioni e specialmente non ascolto podcast, ma da quando ho iniziato questo, faccio fatica a staccarmi, e quasi non posso più fare a meno di ascoltare e arricchirmi culturalmente.
Andrea V., 22 Set 2025Veramente interessante, chiaro e conciso. Cambia la vita finanziaria di chiunque.. da ascoltare assolutamente anche per chi di finanza non vuole occuparsi mai
Francesca B., 6 Apr 2024Dovrebbero ascoltarlo buona parte degli italiani e io avrei dovuto scoprirlo con qualche anno in anticipo ma meglio tardi che mai
Matteo C., 3 Set 2025Podcast che dà sempre spunti interessanti che personalmente mi ha fatto appassionare alla finanza personale spingendomi ad approfondire in prima persona.
Lorenzo, 13 Mar 2025Ho acquistato e letto il suo libro e l' ho trovato. Esprime i concetti economici in modo semplice e chiaro. Sentirlo parlare conferma che è un professionista del settore.
Giulia N., 11 Ago 2025Podcast piacevole, scorre veloce ma in modo estremamente chiaro, spiega i concetti chiave per gestire le proprie finanze, fornendo la classica cassetta degli attrezzi. Complimenti, davvero ben fatto!
Massimiliano, 29 Mag 2024