Factor Investing: aumentare il Rendimento atteso del Portafoglio (ma non è per tutti)
Investire in base a determinati fattori (Value, Momentum, Quality, ecc.) può migliorare il rendimento atteso del portafoglio. Pro e contro di questo approccio e l'idea di investire "stando dall'altra parte".

205. Factor Investing: aumentare il Rendimento atteso del Portafoglio (ma non è per tutti)
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Punti Chiave
Il Factor Investing mira a rendimenti superiori rispetto al mercato passivo tramite esposizione sistematica a fattori (Value, Momentum, Small Cap).
Non è gratis: comporta maggiori rischi e periodi di sottoperformance, richiedendo consapevolezza degli svantaggi.
È una scelta soggettiva.
Trascrizione Episodio
Bentornati a The Bull, il tuo podcast di finanza personale.
Chissà quale altro casino salterà fuori tra quando avrò iniziato a scrivere quest’episodio e quando verrà pubblicato.
Ormai nemmeno a mercati chiusi puoi stare tranquillo.
Venerdì sera sembrava che avessero escluso smartphone, laptop e compagnia bella dai super dazi cinesi, con sentiti ringraziamenti da parte da Apple e di tutta la combriccola tech della west coast.
Poi qualcuno deve aver fatto notare a Trump che in questo modo una batteria made in China da mettere in uno smartphone o in un laptop americani sarebbe stata soggetta a dazi del 145%, mentre comprare un laptop completamente made in China sarebbe stato quasi tariff-free. In pratica tutto sto macello dei dazi congegniato, secondo il suo contorto pensiero, per mettere in ginocchio la Cina soprattutto sui settori più competitivi avrebbe finito per agevolare proprio la Cina.
Certo, sicuramente gli Stati Uniti avranno un grande glorioso futuro quando potranno finalmente rimettersi a cucire t-shirt e sneakers a casa loro.
Solo nessuno ha ancora capito come sarà sostenibile pagare magari 50-60.000 in quel fondo, alla fine dell’anno te ne ritrovavi oltre 4 milioni.
Se tu caro il mio consulente dei miracoli, è dal 99 che non sbagli un colpo perché le avevi previste tutte, a furia di portare a casa rendimenti astronomici di questo tipo dovresti aver un portafoglio più grande del PIL globale.
Eppure fai il consulente per una nota banca BARRA assicurazione.
Lo fai per passione quindi? Perché ti annoiavi a contare i soldi sul tuo yacht ai caraibi e ti piaceva l’idea di avere un buon motivo per mettere giacca e cravatta ogni giorno, giusto?
Ecco, al prossimo post affetto da “iolavevodettismo” o “eratuttofacilmenteprevedibilismo”, guardate il job title e se non c’è scritto qualcosa che vi fa capire che l’autore ha fatto più soldi nella vita di quanti uno ne possa anche solo pensare, ecco, probabilmente sta dicendo cazzate.
Sembra che stia divagando, ma il discorso che ho appena fatto, che è un modo per spiegare come funziona il mio bullshit detector, ci introduce all’argomento di oggi, ossia: è possibile DAVVERO ottenere un rendimento maggiore di quello che ci dà il mercato investendo passivamente?
La risposta è: assolutamente sì.
Ma, mettiamola così, non è una questione di alfa — è una questione di beta.
Adesso rispieghiamo bene cosa significa parlando più in generale dell’investimento fattoriale e perché, se uno supera la fase iniziale della sua vita da investitore e vuole qualcosa in più di un “piglia un etf, copia il mercato e stai buono”, quella dell’investimento fattoriale è probabilmente la migliore idea a cui affidarsi.
Ora, non è la prima volta che ne parliamo, per esempio per chi vuole ci sono gli episodi 113, 124 e 127.
Oggi però cerchiamo di parlarne in maniera un po’ più evoluta, tanto più in un momento in cui molti tra voi magari sentono l’esigenza di voler andare oltre ad una gestione puramente passiva dei propri investimenti e applicare in maniera consapevole delle strategie che hanno in effetti un rendimento atteso superiore (benché, questo extrarendimento, naturalmente, non è gratis come vedremo… come niente lo è in finanza e oserei dire nella vita in generale).
Sapete però cos’è quasi gratis?
Un abbonamento a NordVPN, che in pratica fa sul web quello che il bullshit detector fa con i ciarlatani sedicenti geni del mercato: appena sente odore di fuffa, si attiva subito e vi mette al riparo dalle conseguenze disastrose se gli prestate troppa attenzione. Solo che NordVPN lo fa con i siti fraudolenti, con la pubblicità ingannevole, con i malware e con ogni altra forma di virus che potrebbe compromettere l’integrità della vostra navigazione, mentre voi navigate tranquilli e sereni in maniera completamente riservata, al riparo da fughe di dati e senza pericoli soprattutto se vi attaccate a wifi pubblici.
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Bene, cominciamo con 5 minuti di recap della parte teorica che ci serve per capire il discorso sull’investimento fattoriale — e lo facciamo ripercorrendo i 3 step principali.
STEP NUMERO UNO: Nel 1952 Harry Markowitz scrive un paper epocale dal titolo Portoflio Selection e di fatto inventa il Portfolio Management.
Per farla breve, i punti fondamentali delle intuizioni di Markowitz sono:
– Uno: noi esseri umani preferiamo razionalmente assumerci meno rischio piuttosto che più rischio, a parità di risultato atteso;
– Due: il rischio specifico di un investimento lo posso in buona parte cancellare con la diversificazione;
– Tre: fatto questo, sceglierò il livello di rischio sistematico a cui mi voglio esporre, quindi semplificando al massimo, sceglierò che % di asset rischiosi (Azioni soprattutto) e che % di asset risk free (come Titoli di stato) voglio aver nel mio portafoglio. Teoricamente tutti questi portafogli efficienti, senza rischio specifico e ottimizzati hanno lo stesso risk-adjusted return ma sarò poi a decidere se voglio minor rischio e minor rendimento o maggior rischio e maggior rendimento.
STEP NUMERO DUE: Negli anni ’60 William Sharpe mette insieme la prima grande teoria di capital asset pricing, nota come CAPM, Capital Asset Pricing Model, che fondamentalmente spiega due cose:
– La prima è che il rendimento del mercato può essere scomposto come rendimento dell’asset risk free (quello dei soliti titoli di stato senza rischio di credito) PIU’ il premio al rischio, ossia il ritorno in eccesso dell’asset rischioso, che è in eccesso proprio perché *è più rischioso* di investire per esempio in US Treasury;
– La seconda cosa è che il rendimento atteso di un certo portafoglio si può stimare come rendimento risk free PIU’ rendimento in eccesso del mercato di riferimento IL TUTTO moltiplicato per Beta, che è un valore che esprime la sensibilità di quell’investimento ai movimenti del mercato di cui fa parte. Quindi, in sostanza, siccome Beta è una misura del rischio di quell’investimento rispetto al mercato, il rendimento atteso sarà una funzione del rischio di mercato, più o meno amplificato a seconda del fatto che quell’asset sia più o meno sensibile alle variazioni del mercato.
Cosa vuol dire: vuol dire che se investo in un’azione “high beta”, cioè con un Beta maggiore di uno — non so: un’azione tech growth — allora tenderà a crescere di più quando il mercato cresce e ad andare giù di più quando il mercato scende.
Viceversa, un’azione “low beta” tenderà a muoversi meno del mercato, in entrambe le direzioni.
Secondo quel che prevede il modello del CAPM, la prima è più rischiosa e quindi dovrebbe avere rendimento atteso maggiore della seconda.
STEP NUMERO TRE: sempre negli anni ’60 il nostro eroe Eugene Fama formula l’ipotesi dei mercati efficienti e spiega che in larghissima parte i prezzi degli asset quotati su mercati sufficientemente ampi e liquidi incorporano tutte le informazioni disponibili. Di conseguenza, non è possibile trarre conclusioni sull’andamento futuro dei prezzi degli asset quotati a partire dai prezzi attuali. I prezzi si adattano immediatamente alle nuove informazioni e riflettono immediatamente la percezione del rapporto tra rischio e rendimento di ciascun asset.
Come aveva detto qua da noi, alla luce di questa cosa è quasi impossibile battere il mercato in maniera continuativa, perché il mercato non offre informazioni privilegiate che un investitore può sfruttare per ottenere un vantaggio competitivo.
Ricordiamoci che “efficiente” non vuol dire che i prezzi sono sempre perfettamente corretti — anche con il senno di poi.
Significa solo che il mercato è “rapido” a incorporare le nuove informazioni.
Quindi, delle inefficienze ci sono, sì, ma il punto è che sfruttarle è difficilissimo e farlo su base continuativa è quasi impossibile.
Certo, a meno che uno non tenga gli occhi aperti… Allora in quel caso cambia tutto!
Però alla teoria “keep your eyes open” nessun premio nobel c’è ancora arrivato.
Messe insieme queste tre cose abbiamo il fondamento teorico del perché comprare uno strumento a basso costo che replica, per esempio, l’intero mercato azionario globale, è un modo per ottenere un rendimento atteso superiore alla stragrande maggioranza di qualunque altro portafoglio costruito in maniera discrezionale.
E fin qua, sapevamo già tutti tutto quanto, dato che sono due anni che parliamo di ETF e passive investing due volte a settimana.
Tuttavia… c’è un però.
Un grandissimo PERO’
Il modello del CAPM funziona benissimo per spiegare circa due terzi del rendimento azionario, sia per quanto riguarda quello americano che quello globale, che negli anni hanno mostrato di avere dinamiche molto simili.
Cioè, il discorso del *Beta*, ossia il fatto che un portafoglio rende tanto più o tanto meno a seconda di quanto è più o meno sensibile alle variazioni del suo mercato di riferimento, non era sufficiente a spiegare circa un terzo del rendimento di altri portafogli che invece sembravano avere dei comportamenti poco coerenti con questo modello.
Detto in un altro modo: a partire dagli anni ’80 si è visto che portafogli che presentavano certe caratteristiche tendevano a generare dei rendimenti supplementari rispetto a quello che il CAPM avrebbe previsto facendo unicamente riferimento rischio di mercato.
Queste caratteristiche sono diventate note come *fattori*.
Negli anni ’90 sempre Eugene Fama e Ken French formularono il 3 factor model, che in pratica era un’espansione del CAPM, ossia cercarono — con successo — di spiegare da dove arrivassero quei rendimenti che non sembravano direttamente riconducibili al Beta, alla sensibilità rispetto al rischio del mercato.
Lo dico in un altro modo perché mentre sto parlando nemmeno io ho capito cosa ho detto.
Il CAPM dice:
– Se investi in un ETF sull’S&P 500 hai Beta = 1 e quindi il tuo rendimento e il tuo rischio è quello dell’S&P 500 no? — e questa è la scoperta dell’acqua calda.
– Se invece investi in un sottoinsieme sufficientemente diversificato di azioni dell’S&P 500 più volatili, teoricamente dovresti avere un rendimento atteso maggiore perché maggiore è il Beta di questo portafoglio, ossia la sensibilità di questo portafoglio alle variazioni del mercato; detta in un altro modo: questo portafoglio avrebbe rendimento atteso maggiore perché un beta più alto *amplifica* il rischio di mercato.
Però appunto dicevamo che diversi paper negli anni ’80 avevano cominciato a far vedere che ci sono certi portafogli che non sembravano seguire questa logica alla lettera e non si vedeva questa corrispondenza tra rendimenti maggiori e maggiore sensibilità al rischio di mercato.
Cioè erano sì più rischiosi ma… per altri motivi.
Fama e French hanno preso così una tonnellata di dati e hanno ricostruito quali fossero queste “caratteristiche speciali” che portavano certi portafogli a generare un extra rendimento rispetto al mercato.
Le prime due caratteristiche speciali identificate da Fama e French sono, come noto, size e relative price, che poi vuol dire: azioni Small Cap e azioni Value.
Le società più piccole rendevano in media di più di quelle grandi e le società con un prezzo per azione relativamente basso rispetto al book value, rispetto al valore patrimoniale, rendevano in media di più di quelle con un prezzo alto.
Ecco quindi i tre fattori:
– Il Beta, ossia il rischio di mercato del CAPM;
– La dimensione, cioè le società piccole rendono di più di quelle grandi;
– E il prezzo relativo, cioè le società con un basso price to book value rendono di più di quelle con un alto price to book value.
Questi 3 fattori spiegherebbero circa il 90% dei comportamenti dei portafogli azionari rispetto al mercato.
Negli anni successivi Fama e French introdussero poi altri 2 fattori, noti come profitability e investment.
In pratica scoprirono che le società con profitti elevati, inteso come elevato ritorno sull’equity, e le società che spendevano poco in investimenti sul proprio sviluppo strutturale rendevano di più di società con le caratteristiche opposte.
Come abbiamo già tante altre volte, poi, sempre negli anni ’90 Jeegadesh e Titman scoprirono un altro fattore che invece a Eugene Fama non andò mai giù: il *momentum*. Per Momentum si intende il fatto che le azioni che hanno performato meglio (o peggio) negli ultimi 3-12 mesi tendono in media a performare meglio (o peggio) nei 3-12 mesi successivi. Cioè il mercato tende ad avere un’autocorrelazione che produce dei trend di breve-medio periodo, per cui le società sono cresciute di più tendono a crescere ancora e quelle che invece hanno performato peggio continuano ad andare ancora peggio.
Da lì in poi si è scatenata la caccia ai fattori e si è arrivati a identificarne oltre 300, molti dei quali con dubbia rilevanza statistica.
Come sappiamo, però, oggi probabilmente i 4 fattori più universalmente accettati sono:
– Dimensione, quindi small cap;
– Prezzo relativo, società value;
– Momentum, società cresciute di più negli ultimi 3-12 mesi e infine
– Quality, che è un fattore su cui ha fatto molta ricerca il più noto allievo di Fama, Cliff Asness, e che in qualche modo assorbe alcuni aspetti di profitability e investment, perché in pratica le società “quality” sarebbero quelle con un elevato return on equity, utili crescenti negli ultimi anni e basso indebitamento.
Volendo c’è chi considera anche Low Volatilty e Minimum Volatilty. Non sono esattamente sinonimi, perché Low Volatilty vuol dire azioni con bassa volatilità storica. Minimum Volatitily invece dovrebbe ottimizzare i portafogli con azioni non necessariamente poco volatili ma adeguatamente poco correlate, così che messe insieme creano un portafoglio con una bassa volatilità complessiva.
Cosa significa quindi factor investing?
Significa imprimere una deviazione sistematica — e la parola sistematica è importante — una deviazione sistematica al portafoglio rispetto al mercato di riferimento privilegiando una o più caratteristiche comuni dei sottostanti.
Per brevità, questa deviazione sistematica la chiamiamo *tilt* e usiamo quel brutto inglesismo *”tiltare”* per dire che il mio portafoglio sarà esposto verso un certo fattore invece che essere market cap weighted.
Ora perché dico che “sistematico” è il concetto fondamentale?
Perché qui non si tratta di prendere delle decisioni discrezionali su quali aziende avere o meno in portafoglio, ma si tratta di adottare una regola, un algoritmo, che definisce la composizione del mio portafoglio basandosi unicamente sulle caratteristiche dei componenti.
Se voglio dare un tilt verso size, il mio portafoglio sovrappeserà società a bassa capitalizzazione.
Se voglio dare un tilt verso value, il mio portafoglio sovrappeserà realtà con prezzi relativamente bassi rispetto al book.
Se voglio dare un tilt verso momentum… insomma: ci siamo capiti.
La domanda più interessante a cui rispondere ora, però, è la seguente.
PERCHE’ un portafoglio con un tilt fattoriale dovrebbe avere un rendimento atteso maggiore rispetto al portafoglio di mercato?
E PERCHE’ parliamo di una cosa molto diversa rispetto a chi cerca di ottenere *alfa*, cioè un extrarendimento dato da migliori decisioni di investimento discrezionali?
E qui la cosa divertente è che c’è un accordo più o meno unanime nella comunità finanziaria sul fatto che, effettivamente, l’investimento fattoriale porti dei benefici in termini di rendimento. C’è però totale dissenso sui motivi.
Come sappiamo ci sono due scuole di pensiero principali:
– C’è quella della finanza classica nata a Chicago, quella di Fama insomma, secondo la quale un portafoglio con un tilt fattoriale rende di più perché implica un maggior rischio sistematico; per esempio, Value funzionerebbe perché sovrappesare realtà Value vuol dire investire in società con scarse prospettive di crescita, in business poco innovativi e così via, insomma delle mezze schifezze. Costano quindi poco perché in media il mercato pensa che ottenere un dollaro di utile da loro sia più rischioso che non in una realtà growth che invece ha elevate prospettive di crescita.
– E poi c’è la scuola comportamentale, il cui principale esponente è Richard Thaler, che comunque insegnava sempre a Chicago. Secondo la finanza comportamentale le società Value — giusto per fare l’esempio parallelo — rendono di più non tanto perché il mercato avrebbe scontato razionalmente un maggior rischio sistematico, ma perché irrazionalmente tende a sovrareagire alle brutte notizie: cioè penalizzerebbe eccessivamente le società che sono state colpite da notizie negative e quindi andrebbe a deprimere eccessivamente il prezzo delle loro azioni. Allo stesso modo, gli investitori tenderebbero a peccare di *estrapolazione*. Cioè vedono la Nvidia di turno che cresce del 1000% all’anno e investono convinti che ciò andrà avanti all’infinito, favorendo quindi nel breve un prezzo gonfiato delle società più hot e sfavorendo eccessivamente le società meno glamour.
Ovviamente non c’è una risposta definitiva.
Secondo Fama la finanza comportamentale non esiste proprio e sono tutte cazzate. Non dice proprio così, ma questo è chiaramente quello che pensa.
In realtà la finanza comportamentale è ormai estremamente accreditata e quindi probabilmente un buon modello di asset pricing oggi dovrebbe tener conto di entrambi gli approcci.
Probabilmente gli investitori sono abbastanza ragionevoli da prezzare correttamente il rischio, ma ci sono aree in cui non sono perfettamente razionali creando delle inefficienze perché sovrareagiscono e prezzano troppo o troppo poco alcune azioni.
Il motivo è interessante fino a un certo punto. Quel che conta è che l’extra rendimento fattoriale è evidente nei dati.
È un fatto che sia Dimensional Fund Advisor, la società di asset management fondata da un allievo di Fama, David Booth, e di cui Fama è un board member, e quella di Thaler, Fuller and Thaler, hanno fatto tonnellate di soldi sfruttando il factor investing, anche se basandosi su motivazioni di fondo diverse.
Ora, è molto importante capire una cosa, che spesso è una delle ovvietà della finanza più fraintese e sottovalutate.
La dico in due mosse.
– Prima mossa: esiste un solo portafoglio in cui possono investire TUTTI gli investitori simultaneamente, che è il market portfolio, il portafoglio di mercato pesato per capitalizzazione. Questo è l’unico portafoglio che possiamo avere tutti contemporaneamente.
– Seconda mossa: qualunque portafoglio che devii dal market portfolio richiede almeno due investitori che abbiano opinioni diverse: quello che compra e quello che vende.
Facciamo un esempio, usando sempre Value.
Non sarebbe possibile che tutti quanti investissimo in un portafoglio Value, perché altrimenti andremmo a far salire il prezzo delle realtà che oggi consideriamo Value, fino al punto in cui non sarebbero più Value.
Se tutti investissimo in Value, allora di fatto torneremmo tutti ad avere il market portfolio.
Chiaro?
Invece se io investo in Value, cioè in società che il mercato non sta premiando, allora mi serve dall’altra parte qualcuno che voglia vendere realtà value per i motivi opposti a quelli per cui io voglio comprare.
Se io voglio sovrappesare azioni economiche, serve uno che voglia sovrappesare azioni costose.
Se io voglio sovrappesare le small cap, serve uno che voglia sovrappesare le large cap.
Se io voglio sovrappesare le società che sono cresciute di più di recente, serve chi vuole sovrappesare le realtà che sono cresciute di meno di recente.
E così via.
Il concetto fondamentale da capire qui è: “chi c’è dall’altra parte?”.
Quando noi compriamo un qualunque asset, serve dall’altra parte qualcuno che vende.
Quando noi vendiamo un qualunque asset, serve dall’altra parte qualcuno che compra.
Per chi vuole, su tutto questa tema del “chi si prende l’altro lato del trade nei fattoriali” vi lascio in descrizione un paper, come sempre fantastico anche se non proprio digeribilissimo, di AQR.
Perché questa cosa è importante?
Perché secondo me aiuta a comprendere una differenza fondamentale tra *alfa*, cioè la sovraperformance ottenuta da un investitore tramite scelte discrezionali (il gestore che indovina il portafoglio, il trader, quello che aveva visto il Covid in anticipo e così via) e *beta*, cioè la sovraperformance ottenuta tramite regole sistematiche.
Perché diciamo sempre che i corsi di trading o i “segreti” per ottenere rendimenti certi o altre cose del genere sono quasi sempre stronzate?
Ovviamente il motivo è che l’*alfa*, che è già di per sé qualcosa di rarissimo sul mercato, non va condiviso, perché altrimenti viene arbitraggiato.
Cioè se si sapesse che fare *a*, *b* e *c* garantisce un certo extra rendimento e — cosa più importante — senza ulteriore rischio, allora lo farebbero tutti, i prezzi si adatterebbero immediatamente e l’extra rendimento verrebbe piallato via.
Nel caso dell’extra rendimento fattoriale, invece, il discorso è diverso, perché quest’extra rendimento non è gratis, ma richiede di mettersi dall’altro lato e di accettare, per esempio, di prendersi un rischio maggiore rispetto all’altro investitore che vuole un rischio minore. E questa è la tesi risk-based alla Fama.
Oppure la versione comportamentale sarebbe: un tilt fattoriale richiede di investire in modo opposto al nostro istinto e fare il contrario di altri che invece sovrareagiscono a certe notizie.
Il discorso di “chi c’è dall’altra parte”, a prescindere dall’interpretazione che diamo al motivo dell’extrarendimento, è forse il fondamento principale della validità del factor investing.
Dico sempre che investire richiede comportamenti controintuitivi.
L’investimento fattoriale richiede però comportamenti controintuitivi al quadrato e quindi è la norma che ci sia qualcuno dall’altra parte che non voglia fiondarsi nella stessa direzione.
E questa cosa ha a che fare con la cattiva notivia del factor investing.
Se quella buona è che è fatto per portare un rendimento sistematico supplementare al portafoglio, quella meno buona che non è a costo zero, per almeno due motivi:
– MOTIVO NUMERO UNO: può esporre a lunghissimi periodi di sottoperformance. Il fatto di sapere che Small Cap, o Value o chi per essere storicamente hanno fatto meglio del mercato preso per capitalizzazione, non significa che ogni singolo anno vada così. Anzi. Per esempio, è dal 2007 che Value sottoperforma il mercato in maniera spaventosa.
Su lunghi periodi di tempo c’è una sovraperformance evidente di Value, ma ciò non esclude anche decenni interi di sottoperformance.
Quindi il primo aspetto negativo è che si possono attraversare lunghi periodi di sofferenza prima che la strategia paghi.
– MOTIVO NUMERO DUE — e questo è un mio grande cavallo di battaglia, che però devo declinare nella versione Fama risk-based e in quella Thaler behavioral finance.
– Versione Fama: se il factor investing ha maggior rendimento atteso è perché implica maggiore rischio. Ma se implica maggiore rischio, ciò significa che anche il fatto di ottenere quel rendimento non è per niente garantito. Quindi potrei assumermi più rischio senza niente in cambio. E questa non è altro che un’estensione del solito ragionamento che facciamo sul premio al rischio dell’azionario: c’è perché nessuno ti garantisce che c’è.
– La versione Thaler invece sarebbe: il factor investing ha maggior rendimento atteso perché comportamenti irrazionali creano dei misprincing, degli errori nei prezzi. Ma come sappiamo bene the market can stay irrational longer than we can stay solvent, l’irrazionalità, vera o presunta tale, potrebbe rimanere in piedi molto più a lungo di quando non siamo disposti a sopportare e magari non correggersi per niente. O magari ancora, a volte gli investitori non sovrareagiscono; a volte hanno semplicemente ragione.
Quindi investire con un factor tilt non è per tutti.
È per chi è disposto ad assumersi una quantità di rischio maggiore rispetto a quella che si assumerebbe con un portafoglio market-cap-weighted.
Ora, posto che il vantaggio principale è un potenziale extrarendimento e lo svantaggio principale e che i fattori comportano una dose aggiuntiva di rischio, ci sono dei benefici oggettivi ad un tilt fattoriale?
Ne vedo uno in particolare, che è quello di fornire un approccio sistematico alla diversificazione azionaria.
Lo sappiamo, un ETF nasce con l’idea di essere diversificato, ma oggi un ETF su MSCI World ha il 70% di Stati Uniti e le prime 10 società pesano un quinto del totale.
Possiamo parlare all’infinito del fatto se la concentrazione sia o no un problema di per sé, cosa che abbiamo fatto numerose volte nel passato.
È tuttavia un fatto che, soprattutto se uno teme grandi sconvolgimenti globali, per non sapere né leggere né scrivere maggiore diversificazione è probabilmente una forma di tutela maggiore che una maggior concentrazione.
I fattori sono quindi un modo per diversificare in maniera sistematica affidandosi ad una regola ben precisa e limitando la componente discrezionale, che riguarderà solo “quanto voglio che il mio portafoglio abbia un tilt fattoriale”.
Un portafoglio multifattore quindi potrebbe essere un modo per ottenere una certa diversificazione fattoriale tagliando una parte delle “code” cioè una parte degli effetti estremi dei fattori.
Sempre nel paper di AQR, per esempio, c’è un esempio paradigmatico: la coppia Value e Momentum.
Teoricamente i due sono proprio dei fattori antitetici.
Value ha una “skewness”, un’asimmetria, positiva; Momentum una “skewness” negativa. Cosa vuol dire?
Vuol dire — detta male — che un portafoglio Value tende ad andare prevalentemente malino la maggior parte del tempo, con degli episodici picchi positivi che sovracompensano quelli negativi (o almeno così è stato nel passato); un portafoglio Momentum invece tende ad andare prevalentemente benino la maggior parte del tempo, con degli episodici crolli.
Avere in portafogli entrambi potrebbe essere un modo per avere una diversificazione su entrambi i fronti, mitigando i potenziali effetti negativi.
Ovviamente vale anche il contrario, anche l’extra rendimento verrà limato, come è normale che sia quando diversifico.
Però attenzione a una cosa: Value e Momentum, così come gli altri fattori, non sono molto correlati tra loro, ma non hanno neanche una correlazione negativa e questo ha due conseguenze:
– La prima è che non sono un *hedge* reciproco, cioè può succedere benissimo che entrambi vadano giù, come peraltro è successo nello sconquasso di questi giorni; e questa è una regola di carattere generale, visto che tanti mi state chiedendo perché per esempio le obbligazioni non stanno compensando per niente il calo delle azioni. Ci sono momenti in cui tutto va giù (e anche in cui tutto va su). La diversificazione va misurata nel tempo, non in ogni singolo momento.
– La seconda cosa è che il fatto che non siano del tutto decorrelati e quindi non si proteggano del tutto a vicenda significa che anche messi insieme possiamo aspettarci un potenziale extra rendimento dalla loro adozione.
Per esempio se confronto MSCI World con un portafoglio fatto al 70% da MSCI World e al 30% diviso in parti uguali tra Momentum e Value, quest’ultimo avrebbe prodotto un risultato leggermente migliore sia in termini assoluti che di risk-adjusted return.
Detto questo, la domanda che ci si potrebbe porre è: ma scusa, ma se sappiamo che certi fattori funzionano meglio in certi periodi, non è meglio farli ruotare?
In teoria sì.
In pratica no.
Vediamo la teoria.
Teoricamente:
– Value e Small Caps tendono ad andare bene nelle fasi di recovery, quindi all’inizio dei bull market dopo una recessione;
– Momentum tende a dare il meglio durante le fasi di espansione;
– Quality invece è un fattore più difensivo, che dovrebbe funzionare meglio durante le contrazioni (come anche altri fattori, tipo Minimum Volatility).
Come sempre quando si parla di market timing, però, anche in questo caso abbiamo i soldi due problemi:
– Il primo problema è che è molto difficile individuare il regime macroeconomico in cui ci troviamo.
– Il secondo problema è che è ancora e ancora più difficile è anticipare i cambi di regime e quindi c’è sempre il rischio di switchare troppo tardi o troppo presto, senza considerare poi costi e tasse ogni volta che metti mano al portafoglio.
In generale, anche fosse possibile prevedere le diverse fasi dei cicli economici, non c’è un’evidenza forte che colleghi con certezza condizioni macro e comportamento di fattori. Cercare di combinare stagioni economiche ed esposizioni fattoriale è altamente problematico.
Alla luce di tutto quello che abbiamo detto, quindi, probabilmente per la maggior parte degli investitori la decisione più sensata — ammesso e non concesso che uno voglia dare un tilt fattoriale al portafoglio — è costruire un portafoglio con l’esposizione fattoriale desiderata, ribilanciarlo e mantenerlo a lungo termine.
Probabilmente in questo modo è più sostenibile, con meno comportamenti estremi e maggiormente diversificato.
Sappiamo che nel breve termine singoli fattori possono dominare e altri avere performance disastrose, mentre la performance di lungo termine sarà più probabilmente guidata da una combinazione equilibrata tra più fattori.
Un’ultima cosa sulla diversificazione.
Non è che abbiamo un’infinità di dati al riguardo, ma la diversificazione fattoriale sembra funzionare soprattutto nei momenti in cui serve di più.
Facciamo un esempio tornando ai nostri backtest di prima usando l’MSCI World e le sue versioni fattoriali.
Dal marzo 2015 al marzo 2025, quindi prima che Trump decidesse che il mondo così come l’ha trovato era troppo tranquillo e noioso e ha deciso di scatenare un putiferio, non ci sarebbe stato alcun particolare beneficio in un portafoglio multifattoriale.
Un semplice MSCI World avrebbe fatto leggermente meglio di uno con un mix di Value e Momentum o di uno composto solo da fattoriali in equal misura.
Perché?
Perché dal 2015 al 2025, con poche eccezioni come il 2018, il marzo aprile 2020 e il 2022, il mercato è andato su fondamentalmente in linea retta trainato dalle Magnificient 7.
Nei 10 anni prima, invece, la diversificazione sarebbe servita eccome.
Un portafoglio composto da MSCI World con un 30% diviso tra Value e Momentum avrebbe performato nettamente meglio del solo MSCI World, con circa 0,8 punti percentuali in più all’anno.
Ancora più evidente sarebbe stato durante il decennio perduto.
Nei primi 10 anni di questo millennio l’MSCI World avrebbe perso quasi il 4% all’anno.
Con un tilt del 30% su Value e Momentum avrebbe perso praticamente la metà.
Questo ovviamente non prova nulla e non è una garanzia di efficacia per il futuro.
Però è un segnale indicativo del fatto che la diversificazione fattoriale può avere la sua ragion d’essere nei momenti in cui il mercato intraprende delle discese significative.
Quest’anno, ad esempio, niente è sopravvissuto alla mattanza del 3 e 4 aprile, ma da inizio anno un portafoglio con un tilt verso momentum e value avrebbe perso circa 3 punti percentuali in meno dell’MSCI World.
Per ora almeno.
Tiriamo un po’ le somme di questo episodio:
– NUMERO UNO: un portafoglio multifattoriale è superiore ad uno puramente market cap weighted? probabilmente sì, almeno in termini di rendimento atteso.
– DUE: questa cosa non è gratis è non è alfa senza risch
Bentornati a The Bull, il tuo podcast di finanza personale.
Chissà quale altro casino salterà fuori tra quando avrò iniziato a scrivere quest’episodio e quando verrà pubblicato.
Ormai nemmeno a mercati chiusi puoi stare tranquillo.
Venerdì sera sembrava che avessero escluso smartphone, laptop e compagnia bella dai super dazi cinesi, con sentiti ringraziamenti da parte da Apple e di tutta la combriccola tech della west coast.
Poi qualcuno deve aver fatto notare a Trump che in questo modo una batteria made in China da mettere in uno smartphone o in un laptop americani sarebbe stata soggetta a dazi del 145%, mentre comprare un laptop completamente made in China sarebbe stato quasi tariff-free. In pratica tutto sto macello dei dazi congegniato, secondo il suo contorto pensiero, per mettere in ginocchio la Cina soprattutto sui settori più competitivi avrebbe finito per agevolare proprio la Cina.
Certo, sicuramente gli Stati Uniti avranno un grande glorioso futuro quando potranno finalmente rimettersi a cucire t-shirt e sneakers a casa loro.
Solo nessuno ha ancora capito come sarà sostenibile pagare magari 50-60.000 in quel fondo, alla fine dell’anno te ne ritrovavi oltre 4 milioni.
Se tu caro il mio consulente dei miracoli, è dal 99 che non sbagli un colpo perché le avevi previste tutte, a furia di portare a casa rendimenti astronomici di questo tipo dovresti aver un portafoglio più grande del PIL globale.
Eppure fai il consulente per una nota banca BARRA assicurazione.
Lo fai per passione quindi? Perché ti annoiavi a contare i soldi sul tuo yacht ai caraibi e ti piaceva l’idea di avere un buon motivo per mettere giacca e cravatta ogni giorno, giusto?
Ecco, al prossimo post affetto da “iolavevodettismo” o “eratuttofacilmenteprevedibilismo”, guardate il job title e se non c’è scritto qualcosa che vi fa capire che l’autore ha fatto più soldi nella vita di quanti uno ne possa anche solo pensare, ecco, probabilmente sta dicendo cazzate.
Sembra che stia divagando, ma il discorso che ho appena fatto, che è un modo per spiegare come funziona il mio bullshit detector, ci introduce all’argomento di oggi, ossia: è possibile DAVVERO ottenere un rendimento maggiore di quello che ci dà il mercato investendo passivamente?
La risposta è: assolutamente sì.
Ma, mettiamola così, non è una questione di alfa — è una questione di beta.
Adesso rispieghiamo bene cosa significa parlando più in generale dell’investimento fattoriale e perché, se uno supera la fase iniziale della sua vita da investitore e vuole qualcosa in più di un “piglia un etf, copia il mercato e stai buono”, quella dell’investimento fattoriale è probabilmente la migliore idea a cui affidarsi.
Ora, non è la prima volta che ne parliamo, per esempio per chi vuole ci sono gli episodi 113, 124 e 127.
Oggi però cerchiamo di parlarne in maniera un po’ più evoluta, tanto più in un momento in cui molti tra voi magari sentono l’esigenza di voler andare oltre ad una gestione puramente passiva dei propri investimenti e applicare in maniera consapevole delle strategie che hanno in effetti un rendimento atteso superiore (benché, questo extrarendimento, naturalmente, non è gratis come vedremo… come niente lo è in finanza e oserei dire nella vita in generale).
Sapete però cos’è quasi gratis?
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Bene, cominciamo con 5 minuti di recap della parte teorica che ci serve per capire il discorso sull’investimento fattoriale — e lo facciamo ripercorrendo i 3 step principali.
STEP NUMERO UNO: Nel 1952 Harry Markowitz scrive un paper epocale dal titolo Portoflio Selection e di fatto inventa il Portfolio Management.
Per farla breve, i punti fondamentali delle intuizioni di Markowitz sono:
– Uno: noi esseri umani preferiamo razionalmente assumerci meno rischio piuttosto che più rischio, a parità di risultato atteso;
– Due: il rischio specifico di un investimento lo posso in buona parte cancellare con la diversificazione;
– Tre: fatto questo, sceglierò il livello di rischio sistematico a cui mi voglio esporre, quindi semplificando al massimo, sceglierò che % di asset rischiosi (Azioni soprattutto) e che % di asset risk free (come Titoli di stato) voglio aver nel mio portafoglio. Teoricamente tutti questi portafogli efficienti, senza rischio specifico e ottimizzati hanno lo stesso risk-adjusted return ma sarò poi a decidere se voglio minor rischio e minor rendimento o maggior rischio e maggior rendimento.
STEP NUMERO DUE: Negli anni ’60 William Sharpe mette insieme la prima grande teoria di capital asset pricing, nota come CAPM, Capital Asset Pricing Model, che fondamentalmente spiega due cose:
– La prima è che il rendimento del mercato può essere scomposto come rendimento dell’asset risk free (quello dei soliti titoli di stato senza rischio di credito) PIU’ il premio al rischio, ossia il ritorno in eccesso dell’asset rischioso, che è in eccesso proprio perché *è più rischioso* di investire per esempio in US Treasury;
– La seconda cosa è che il rendimento atteso di un certo portafoglio si può stimare come rendimento risk free PIU’ rendimento in eccesso del mercato di riferimento IL TUTTO moltiplicato per Beta, che è un valore che esprime la sensibilità di quell’investimento ai movimenti del mercato di cui fa parte. Quindi, in sostanza, siccome Beta è una misura del rischio di quell’investimento rispetto al mercato, il rendimento atteso sarà una funzione del rischio di mercato, più o meno amplificato a seconda del fatto che quell’asset sia più o meno sensibile alle variazioni del mercato.
Cosa vuol dire: vuol dire che se investo in un’azione “high beta”, cioè con un Beta maggiore di uno — non so: un’azione tech growth — allora tenderà a crescere di più quando il mercato cresce e ad andare giù di più quando il mercato scende.
Viceversa, un’azione “low beta” tenderà a muoversi meno del mercato, in entrambe le direzioni.
Secondo quel che prevede il modello del CAPM, la prima è più rischiosa e quindi dovrebbe avere rendimento atteso maggiore della seconda.
STEP NUMERO TRE: sempre negli anni ’60 il nostro eroe Eugene Fama formula l’ipotesi dei mercati efficienti e spiega che in larghissima parte i prezzi degli asset quotati su mercati sufficientemente ampi e liquidi incorporano tutte le informazioni disponibili. Di conseguenza, non è possibile trarre conclusioni sull’andamento futuro dei prezzi degli asset quotati a partire dai prezzi attuali. I prezzi si adattano immediatamente alle nuove informazioni e riflettono immediatamente la percezione del rapporto tra rischio e rendimento di ciascun asset.
Come aveva detto qua da noi, alla luce di questa cosa è quasi impossibile battere il mercato in maniera continuativa, perché il mercato non offre informazioni privilegiate che un investitore può sfruttare per ottenere un vantaggio competitivo.
Ricordiamoci che “efficiente” non vuol dire che i prezzi sono sempre perfettamente corretti — anche con il senno di poi.
Significa solo che il mercato è “rapido” a incorporare le nuove informazioni.
Quindi, delle inefficienze ci sono, sì, ma il punto è che sfruttarle è difficilissimo e farlo su base continuativa è quasi impossibile.
Certo, a meno che uno non tenga gli occhi aperti… Allora in quel caso cambia tutto!
Però alla teoria “keep your eyes open” nessun premio nobel c’è ancora arrivato.
Messe insieme queste tre cose abbiamo il fondamento teorico del perché comprare uno strumento a basso costo che replica, per esempio, l’intero mercato azionario globale, è un modo per ottenere un rendimento atteso superiore alla stragrande maggioranza di qualunque altro portafoglio costruito in maniera discrezionale.
E fin qua, sapevamo già tutti tutto quanto, dato che sono due anni che parliamo di ETF e passive investing due volte a settimana.
Tuttavia… c’è un però.
Un grandissimo PERO’
Il modello del CAPM funziona benissimo per spiegare circa due terzi del rendimento azionario, sia per quanto riguarda quello americano che quello globale, che negli anni hanno mostrato di avere dinamiche molto simili.
Cioè, il discorso del *Beta*, ossia il fatto che un portafoglio rende tanto più o tanto meno a seconda di quanto è più o meno sensibile alle variazioni del suo mercato di riferimento, non era sufficiente a spiegare circa un terzo del rendimento di altri portafogli che invece sembravano avere dei comportamenti poco coerenti con questo modello.
Detto in un altro modo: a partire dagli anni ’80 si è visto che portafogli che presentavano certe caratteristiche tendevano a generare dei rendimenti supplementari rispetto a quello che il CAPM avrebbe previsto facendo unicamente riferimento rischio di mercato.
Queste caratteristiche sono diventate note come *fattori*.
Negli anni ’90 sempre Eugene Fama e Ken French formularono il 3 factor model, che in pratica era un’espansione del CAPM, ossia cercarono — con successo — di spiegare da dove arrivassero quei rendimenti che non sembravano direttamente riconducibili al Beta, alla sensibilità rispetto al rischio del mercato.
Lo dico in un altro modo perché mentre sto parlando nemmeno io ho capito cosa ho detto.
Il CAPM dice:
– Se investi in un ETF sull’S&P 500 hai Beta = 1 e quindi il tuo rendimento e il tuo rischio è quello dell’S&P 500 no? — e questa è la scoperta dell’acqua calda.
– Se invece investi in un sottoinsieme sufficientemente diversificato di azioni dell’S&P 500 più volatili, teoricamente dovresti avere un rendimento atteso maggiore perché maggiore è il Beta di questo portafoglio, ossia la sensibilità di questo portafoglio alle variazioni del mercato; detta in un altro modo: questo portafoglio avrebbe rendimento atteso maggiore perché un beta più alto *amplifica* il rischio di mercato.
Però appunto dicevamo che diversi paper negli anni ’80 avevano cominciato a far vedere che ci sono certi portafogli che non sembravano seguire questa logica alla lettera e non si vedeva questa corrispondenza tra rendimenti maggiori e maggiore sensibilità al rischio di mercato.
Cioè erano sì più rischiosi ma… per altri motivi.
Fama e French hanno preso così una tonnellata di dati e hanno ricostruito quali fossero queste “caratteristiche speciali” che portavano certi portafogli a generare un extra rendimento rispetto al mercato.
Le prime due caratteristiche speciali identificate da Fama e French sono, come noto, size e relative price, che poi vuol dire: azioni Small Cap e azioni Value.
Le società più piccole rendevano in media di più di quelle grandi e le società con un prezzo per azione relativamente basso rispetto al book value, rispetto al valore patrimoniale, rendevano in media di più di quelle con un prezzo alto.
Ecco quindi i tre fattori:
– Il Beta, ossia il rischio di mercato del CAPM;
– La dimensione, cioè le società piccole rendono di più di quelle grandi;
– E il prezzo relativo, cioè le società con un basso price to book value rendono di più di quelle con un alto price to book value.
Questi 3 fattori spiegherebbero circa il 90% dei comportamenti dei portafogli azionari rispetto al mercato.
Negli anni successivi Fama e French introdussero poi altri 2 fattori, noti come profitability e investment.
In pratica scoprirono che le società con profitti elevati, inteso come elevato ritorno sull’equity, e le società che spendevano poco in investimenti sul proprio sviluppo strutturale rendevano di più di società con le caratteristiche opposte.
Come abbiamo già tante altre volte, poi, sempre negli anni ’90 Jeegadesh e Titman scoprirono un altro fattore che invece a Eugene Fama non andò mai giù: il *momentum*. Per Momentum si intende il fatto che le azioni che hanno performato meglio (o peggio) negli ultimi 3-12 mesi tendono in media a performare meglio (o peggio) nei 3-12 mesi successivi. Cioè il mercato tende ad avere un’autocorrelazione che produce dei trend di breve-medio periodo, per cui le società sono cresciute di più tendono a crescere ancora e quelle che invece hanno performato peggio continuano ad andare ancora peggio.
Da lì in poi si è scatenata la caccia ai fattori e si è arrivati a identificarne oltre 300, molti dei quali con dubbia rilevanza statistica.
Come sappiamo, però, oggi probabilmente i 4 fattori più universalmente accettati sono:
– Dimensione, quindi small cap;
– Prezzo relativo, società value;
– Momentum, società cresciute di più negli ultimi 3-12 mesi e infine
– Quality, che è un fattore su cui ha fatto molta ricerca il più noto allievo di Fama, Cliff Asness, e che in qualche modo assorbe alcuni aspetti di profitability e investment, perché in pratica le società “quality” sarebbero quelle con un elevato return on equity, utili crescenti negli ultimi anni e basso indebitamento.
Volendo c’è chi considera anche Low Volatilty e Minimum Volatilty. Non sono esattamente sinonimi, perché Low Volatilty vuol dire azioni con bassa volatilità storica. Minimum Volatitily invece dovrebbe ottimizzare i portafogli con azioni non necessariamente poco volatili ma adeguatamente poco correlate, così che messe insieme creano un portafoglio con una bassa volatilità complessiva.
Cosa significa quindi factor investing?
Significa imprimere una deviazione sistematica — e la parola sistematica è importante — una deviazione sistematica al portafoglio rispetto al mercato di riferimento privilegiando una o più caratteristiche comuni dei sottostanti.
Per brevità, questa deviazione sistematica la chiamiamo *tilt* e usiamo quel brutto inglesismo *”tiltare”* per dire che il mio portafoglio sarà esposto verso un certo fattore invece che essere market cap weighted.
Ora perché dico che “sistematico” è il concetto fondamentale?
Perché qui non si tratta di prendere delle decisioni discrezionali su quali aziende avere o meno in portafoglio, ma si tratta di adottare una regola, un algoritmo, che definisce la composizione del mio portafoglio basandosi unicamente sulle caratteristiche dei componenti.
Se voglio dare un tilt verso size, il mio portafoglio sovrappeserà società a bassa capitalizzazione.
Se voglio dare un tilt verso value, il mio portafoglio sovrappeserà realtà con prezzi relativamente bassi rispetto al book.
Se voglio dare un tilt verso momentum… insomma: ci siamo capiti.
La domanda più interessante a cui rispondere ora, però, è la seguente.
PERCHE’ un portafoglio con un tilt fattoriale dovrebbe avere un rendimento atteso maggiore rispetto al portafoglio di mercato?
E PERCHE’ parliamo di una cosa molto diversa rispetto a chi cerca di ottenere *alfa*, cioè un extrarendimento dato da migliori decisioni di investimento discrezionali?
E qui la cosa divertente è che c’è un accordo più o meno unanime nella comunità finanziaria sul fatto che, effettivamente, l’investimento fattoriale porti dei benefici in termini di rendimento. C’è però totale dissenso sui motivi.
Come sappiamo ci sono due scuole di pensiero principali:
– C’è quella della finanza classica nata a Chicago, quella di Fama insomma, secondo la quale un portafoglio con un tilt fattoriale rende di più perché implica un maggior rischio sistematico; per esempio, Value funzionerebbe perché sovrappesare realtà Value vuol dire investire in società con scarse prospettive di crescita, in business poco innovativi e così via, insomma delle mezze schifezze. Costano quindi poco perché in media il mercato pensa che ottenere un dollaro di utile da loro sia più rischioso che non in una realtà growth che invece ha elevate prospettive di crescita.
– E poi c’è la scuola comportamentale, il cui principale esponente è Richard Thaler, che comunque insegnava sempre a Chicago. Secondo la finanza comportamentale le società Value — giusto per fare l’esempio parallelo — rendono di più non tanto perché il mercato avrebbe scontato razionalmente un maggior rischio sistematico, ma perché irrazionalmente tende a sovrareagire alle brutte notizie: cioè penalizzerebbe eccessivamente le società che sono state colpite da notizie negative e quindi andrebbe a deprimere eccessivamente il prezzo delle loro azioni. Allo stesso modo, gli investitori tenderebbero a peccare di *estrapolazione*. Cioè vedono la Nvidia di turno che cresce del 1000% all’anno e investono convinti che ciò andrà avanti all’infinito, favorendo quindi nel breve un prezzo gonfiato delle società più hot e sfavorendo eccessivamente le società meno glamour.
Ovviamente non c’è una risposta definitiva.
Secondo Fama la finanza comportamentale non esiste proprio e sono tutte cazzate. Non dice proprio così, ma questo è chiaramente quello che pensa.
In realtà la finanza comportamentale è ormai estremamente accreditata e quindi probabilmente un buon modello di asset pricing oggi dovrebbe tener conto di entrambi gli approcci.
Probabilmente gli investitori sono abbastanza ragionevoli da prezzare correttamente il rischio, ma ci sono aree in cui non sono perfettamente razionali creando delle inefficienze perché sovrareagiscono e prezzano troppo o troppo poco alcune azioni.
Il motivo è interessante fino a un certo punto. Quel che conta è che l’extra rendimento fattoriale è evidente nei dati.
È un fatto che sia Dimensional Fund Advisor, la società di asset management fondata da un allievo di Fama, David Booth, e di cui Fama è un board member, e quella di Thaler, Fuller and Thaler, hanno fatto tonnellate di soldi sfruttando il factor investing, anche se basandosi su motivazioni di fondo diverse.
Ora, è molto importante capire una cosa, che spesso è una delle ovvietà della finanza più fraintese e sottovalutate.
La dico in due mosse.
– Prima mossa: esiste un solo portafoglio in cui possono investire TUTTI gli investitori simultaneamente, che è il market portfolio, il portafoglio di mercato pesato per capitalizzazione. Questo è l’unico portafoglio che possiamo avere tutti contemporaneamente.
– Seconda mossa: qualunque portafoglio che devii dal market portfolio richiede almeno due investitori che abbiano opinioni diverse: quello che compra e quello che vende.
Facciamo un esempio, usando sempre Value.
Non sarebbe possibile che tutti quanti investissimo in un portafoglio Value, perché altrimenti andremmo a far salire il prezzo delle realtà che oggi consideriamo Value, fino al punto in cui non sarebbero più Value.
Se tutti investissimo in Value, allora di fatto torneremmo tutti ad avere il market portfolio.
Chiaro?
Invece se io investo in Value, cioè in società che il mercato non sta premiando, allora mi serve dall’altra parte qualcuno che voglia vendere realtà value per i motivi opposti a quelli per cui io voglio comprare.
Se io voglio sovrappesare azioni economiche, serve uno che voglia sovrappesare azioni costose.
Se io voglio sovrappesare le small cap, serve uno che voglia sovrappesare le large cap.
Se io voglio sovrappesare le società che sono cresciute di più di recente, serve chi vuole sovrappesare le realtà che sono cresciute di meno di recente.
E così via.
Il concetto fondamentale da capire qui è: “chi c’è dall’altra parte?”.
Quando noi compriamo un qualunque asset, serve dall’altra parte qualcuno che vende.
Quando noi vendiamo un qualunque asset, serve dall’altra parte qualcuno che compra.
Per chi vuole, su tutto questa tema del “chi si prende l’altro lato del trade nei fattoriali” vi lascio in descrizione un paper, come sempre fantastico anche se non proprio digeribilissimo, di AQR.
Perché questa cosa è importante?
Perché secondo me aiuta a comprendere una differenza fondamentale tra *alfa*, cioè la sovraperformance ottenuta da un investitore tramite scelte discrezionali (il gestore che indovina il portafoglio, il trader, quello che aveva visto il Covid in anticipo e così via) e *beta*, cioè la sovraperformance ottenuta tramite regole sistematiche.
Perché diciamo sempre che i corsi di trading o i “segreti” per ottenere rendimenti certi o altre cose del genere sono quasi sempre stronzate?
Ovviamente il motivo è che l’*alfa*, che è già di per sé qualcosa di rarissimo sul mercato, non va condiviso, perché altrimenti viene arbitraggiato.
Cioè se si sapesse che fare *a*, *b* e *c* garantisce un certo extra rendimento e — cosa più importante — senza ulteriore rischio, allora lo farebbero tutti, i prezzi si adatterebbero immediatamente e l’extra rendimento verrebbe piallato via.
Nel caso dell’extra rendimento fattoriale, invece, il discorso è diverso, perché quest’extra rendimento non è gratis, ma richiede di mettersi dall’altro lato e di accettare, per esempio, di prendersi un rischio maggiore rispetto all’altro investitore che vuole un rischio minore. E questa è la tesi risk-based alla Fama.
Oppure la versione comportamentale sarebbe: un tilt fattoriale richiede di investire in modo opposto al nostro istinto e fare il contrario di altri che invece sovrareagiscono a certe notizie.
Il discorso di “chi c’è dall’altra parte”, a prescindere dall’interpretazione che diamo al motivo dell’extrarendimento, è forse il fondamento principale della validità del factor investing.
Dico sempre che investire richiede comportamenti controintuitivi.
L’investimento fattoriale richiede però comportamenti controintuitivi al quadrato e quindi è la norma che ci sia qualcuno dall’altra parte che non voglia fiondarsi nella stessa direzione.
E questa cosa ha a che fare con la cattiva notivia del factor investing.
Se quella buona è che è fatto per portare un rendimento sistematico supplementare al portafoglio, quella meno buona che non è a costo zero, per almeno due motivi:
– MOTIVO NUMERO UNO: può esporre a lunghissimi periodi di sottoperformance. Il fatto di sapere che Small Cap, o Value o chi per essere storicamente hanno fatto meglio del mercato preso per capitalizzazione, non significa che ogni singolo anno vada così. Anzi. Per esempio, è dal 2007 che Value sottoperforma il mercato in maniera spaventosa.
Su lunghi periodi di tempo c’è una sovraperformance evidente di Value, ma ciò non esclude anche decenni interi di sottoperformance.
Quindi il primo aspetto negativo è che si possono attraversare lunghi periodi di sofferenza prima che la strategia paghi.
– MOTIVO NUMERO DUE — e questo è un mio grande cavallo di battaglia, che però devo declinare nella versione Fama risk-based e in quella Thaler behavioral finance.
– Versione Fama: se il factor investing ha maggior rendimento atteso è perché implica maggiore rischio. Ma se implica maggiore rischio, ciò significa che anche il fatto di ottenere quel rendimento non è per niente garantito. Quindi potrei assumermi più rischio senza niente in cambio. E questa non è altro che un’estensione del solito ragionamento che facciamo sul premio al rischio dell’azionario: c’è perché nessuno ti garantisce che c’è.
– La versione Thaler invece sarebbe: il factor investing ha maggior rendimento atteso perché comportamenti irrazionali creano dei misprincing, degli errori nei prezzi. Ma come sappiamo bene the market can stay irrational longer than we can stay solvent, l’irrazionalità, vera o presunta tale, potrebbe rimanere in piedi molto più a lungo di quando non siamo disposti a sopportare e magari non correggersi per niente. O magari ancora, a volte gli investitori non sovrareagiscono; a volte hanno semplicemente ragione.
Quindi investire con un factor tilt non è per tutti.
È per chi è disposto ad assumersi una quantità di rischio maggiore rispetto a quella che si assumerebbe con un portafoglio market-cap-weighted.
Ora, posto che il vantaggio principale è un potenziale extrarendimento e lo svantaggio principale e che i fattori comportano una dose aggiuntiva di rischio, ci sono dei benefici oggettivi ad un tilt fattoriale?
Ne vedo uno in particolare, che è quello di fornire un approccio sistematico alla diversificazione azionaria.
Lo sappiamo, un ETF nasce con l’idea di essere diversificato, ma oggi un ETF su MSCI World ha il 70% di Stati Uniti e le prime 10 società pesano un quinto del totale.
Possiamo parlare all’infinito del fatto se la concentrazione sia o no un problema di per sé, cosa che abbiamo fatto numerose volte nel passato.
È tuttavia un fatto che, soprattutto se uno teme grandi sconvolgimenti globali, per non sapere né leggere né scrivere maggiore diversificazione è probabilmente una forma di tutela maggiore che una maggior concentrazione.
I fattori sono quindi un modo per diversificare in maniera sistematica affidandosi ad una regola ben precisa e limitando la componente discrezionale, che riguarderà solo “quanto voglio che il mio portafoglio abbia un tilt fattoriale”.
Un portafoglio multifattore quindi potrebbe essere un modo per ottenere una certa diversificazione fattoriale tagliando una parte delle “code” cioè una parte degli effetti estremi dei fattori.
Sempre nel paper di AQR, per esempio, c’è un esempio paradigmatico: la coppia Value e Momentum.
Teoricamente i due sono proprio dei fattori antitetici.
Value ha una “skewness”, un’asimmetria, positiva; Momentum una “skewness” negativa. Cosa vuol dire?
Vuol dire — detta male — che un portafoglio Value tende ad andare prevalentemente malino la maggior parte del tempo, con degli episodici picchi positivi che sovracompensano quelli negativi (o almeno così è stato nel passato); un portafoglio Momentum invece tende ad andare prevalentemente benino la maggior parte del tempo, con degli episodici crolli.
Avere in portafogli entrambi potrebbe essere un modo per avere una diversificazione su entrambi i fronti, mitigando i potenziali effetti negativi.
Ovviamente vale anche il contrario, anche l’extra rendimento verrà limato, come è normale che sia quando diversifico.
Però attenzione a una cosa: Value e Momentum, così come gli altri fattori, non sono molto correlati tra loro, ma non hanno neanche una correlazione negativa e questo ha due conseguenze:
– La prima è che non sono un *hedge* reciproco, cioè può succedere benissimo che entrambi vadano giù, come peraltro è successo nello sconquasso di questi giorni; e questa è una regola di carattere generale, visto che tanti mi state chiedendo perché per esempio le obbligazioni non stanno compensando per niente il calo delle azioni. Ci sono momenti in cui tutto va giù (e anche in cui tutto va su). La diversificazione va misurata nel tempo, non in ogni singolo momento.
– La seconda cosa è che il fatto che non siano del tutto decorrelati e quindi non si proteggano del tutto a vicenda significa che anche messi insieme possiamo aspettarci un potenziale extra rendimento dalla loro adozione.
Per esempio se confronto MSCI World con un portafoglio fatto al 70% da MSCI World e al 30% diviso in parti uguali tra Momentum e Value, quest’ultimo avrebbe prodotto un risultato leggermente migliore sia in termini assoluti che di risk-adjusted return.
Detto questo, la domanda che ci si potrebbe porre è: ma scusa, ma se sappiamo che certi fattori funzionano meglio in certi periodi, non è meglio farli ruotare?
In teoria sì.
In pratica no.
Vediamo la teoria.
Teoricamente:
– Value e Small Caps tendono ad andare bene nelle fasi di recovery, quindi all’inizio dei bull market dopo una recessione;
– Momentum tende a dare il meglio durante le fasi di espansione;
– Quality invece è un fattore più difensivo, che dovrebbe funzionare meglio durante le contrazioni (come anche altri fattori, tipo Minimum Volatility).
Come sempre quando si parla di market timing, però, anche in questo caso abbiamo i soldi due problemi:
– Il primo problema è che è molto difficile individuare il regime macroeconomico in cui ci troviamo.
– Il secondo problema è che è ancora e ancora più difficile è anticipare i cambi di regime e quindi c’è sempre il rischio di switchare troppo tardi o troppo presto, senza considerare poi costi e tasse ogni volta che metti mano al portafoglio.
In generale, anche fosse possibile prevedere le diverse fasi dei cicli economici, non c’è un’evidenza forte che colleghi con certezza condizioni macro e comportamento di fattori. Cercare di combinare stagioni economiche ed esposizioni fattoriale è altamente problematico.
Alla luce di tutto quello che abbiamo detto, quindi, probabilmente per la maggior parte degli investitori la decisione più sensata — ammesso e non concesso che uno voglia dare un tilt fattoriale al portafoglio — è costruire un portafoglio con l’esposizione fattoriale desiderata, ribilanciarlo e mantenerlo a lungo termine.
Probabilmente in questo modo è più sostenibile, con meno comportamenti estremi e maggiormente diversificato.
Sappiamo che nel breve termine singoli fattori possono dominare e altri avere performance disastrose, mentre la performance di lungo termine sarà più probabilmente guidata da una combinazione equilibrata tra più fattori.
Un’ultima cosa sulla diversificazione.
Non è che abbiamo un’infinità di dati al riguardo, ma la diversificazione fattoriale sembra funzionare soprattutto nei momenti in cui serve di più.
Facciamo un esempio tornando ai nostri backtest di prima usando l’MSCI World e le sue versioni fattoriali.
Dal marzo 2015 al marzo 2025, quindi prima che Trump decidesse che il mondo così come l’ha trovato era troppo tranquillo e noioso e ha deciso di scatenare un putiferio, non ci sarebbe stato alcun particolare beneficio in un portafoglio multifattoriale.
Un semplice MSCI World avrebbe fatto leggermente meglio di uno con un mix di Value e Momentum o di uno composto solo da fattoriali in equal misura.
Perché?
Perché dal 2015 al 2025, con poche eccezioni come il 2018, il marzo aprile 2020 e il 2022, il mercato è andato su fondamentalmente in linea retta trainato dalle Magnificient 7.
Nei 10 anni prima, invece, la diversificazione sarebbe servita eccome.
Un portafoglio composto da MSCI World con un 30% diviso tra Value e Momentum avrebbe performato nettamente meglio del solo MSCI World, con circa 0,8 punti percentuali in più all’anno.
Ancora più evidente sarebbe stato durante il decennio perduto.
Nei primi 10 anni di questo millennio l’MSCI World avrebbe perso quasi il 4% all’anno.
Con un tilt del 30% su Value e Momentum avrebbe perso praticamente la metà.
Questo ovviamente non prova nulla e non è una garanzia di efficacia per il futuro.
Però è un segnale indicativo del fatto che la diversificazione fattoriale può avere la sua ragion d’essere nei momenti in cui il mercato intraprende delle discese significative.
Quest’anno, ad esempio, niente è sopravvissuto alla mattanza del 3 e 4 aprile, ma da inizio anno un portafoglio con un tilt verso momentum e value avrebbe perso circa 3 punti percentuali in meno dell’MSCI World.
Per ora almeno.
Tiriamo un po’ le somme di questo episodio:
– NUMERO UNO: un portafoglio multifattoriale è superiore ad uno puramente market cap weighted? probabilmente sì, almeno in termini di rendimento atteso.
– DUE: questa cosa non è gratis è non è alfa senza risch
Recensioni
Quando capisci come funziona la finanza… ti viene voglia di raccontarla!
Non sono solito a mettere recensioni e specialmente non ascolto podcast, ma da quando ho iniziato questo, faccio fatica a staccarmi, e quasi non posso più fare a meno di ascoltare e arricchirmi culturalmente.
Andrea V., 22 Set 2025Ho seguito tutte le puntate! Grazie veramente
Amalia A., 17 Set 2025Veramente interessante, chiaro e conciso. Cambia la vita finanziaria di chiunque.. da ascoltare assolutamente anche per chi di finanza non vuole occuparsi mai
Francesca B., 6 Apr 2024Riccardo mi ha letteralmente cambiato la vita e fatto scoprire che amo la finanza, ho ascoltato il podcast già due volte e non mi stufo mai di ascoltarlo, parla in modo semplice e chiaro
Massimo D., 23 Set 2025Dovrebbero ascoltarlo buona parte degli italiani e io avrei dovuto scoprirlo con qualche anno in anticipo ma meglio tardi che mai
Matteo C., 3 Set 2025Podcast che dà sempre spunti interessanti che personalmente mi ha fatto appassionare alla finanza personale spingendomi ad approfondire in prima persona.
Lorenzo, 13 Mar 2025Da quando l'ho scoperto in 15 gg mi sono ascoltato 150 puntate senza fermarmi, ho annullato gli altri podcast per portarmi alla pari ed ascoltare tutte le precedenti puntate, ben fatto, esattamente il livello di informazione che mi serviva
Gianluca G., 11 Set 2025Ho acquistato e letto il suo libro e l' ho trovato. Esprime i concetti economici in modo semplice e chiaro. Sentirlo parlare conferma che è un professionista del settore.
Giulia N., 11 Ago 2025Veramente veramente raccomandato! la finanza personale riassunta alla perfezione! e spiegata partendo dall'ABC! Ottimo anche da ascoltare a velocita 1,5x!
Giorgia R., 23 Gen 2025