Gli ETF rendono il Mercato inefficiente, concentrato e costoso? Ipotesi e falsi miti

L'investimento passivo rende il mercato meno efficiente, alimenta la concentrazione in poche mega società e fa gonfiare le valutazioni. E' vero o sono solo ipotesi. E se il mercato è concentrato e costoso, come bisogna comportarsi?

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Gli ETF rendono il Mercato inefficiente, concentrato e costoso? Ipotesi e falsi miti
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179. Gli ETF rendono il Mercato inefficiente, concentrato e costoso? Ipotesi e falsi miti

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Punti Chiave

Le teorie sugli ETF che causano distorsioni e instabilità non sono supportate da prove empiriche; i benefici del passivo sono innegabili.

La concentrazione di mercato non è un problema, ma le elevate valutazioni azionarie potrebbero indicare rendimenti futuri inferiori.

Trascrizione Episodio

Bentornati a The Bull — il tuo podcast di finanza personale.

Dunque, alla fine dello scorso episodio avevo anticipato che avrei fatto un episodio sulle potenziali distorsioni degli ETF e sul perché alcune cose sono più presunte che vere… forse.

Poi mi sono imbattuto in alcuni ragionamenti molto interessanti sul tema che assilla gli animi di molti e che spesso mi fa litigare su LinkedIn, cioè che il mercato è concentrato, 7 società pesano per un terzo dell’S&P 500 e un quarto dell’MSCI World, bla bla bla, le solite cose.

E quindi ho passato il weekend indeciso sul da farsi, per poi rendermi conto che in realtà si trattano di temi interconnessi e che forse sono semplicemente dei modi diversi di raccontare la stessa storia.

Allora è vero che io dico sempre che bisogna guardare al lungo termine e non bisogna mai farsi troppo condizionare da quel che succede per prendere decisioni tattiche sul portafoglio.

Però è anche vero che sto parlando con centinaia di migliaia di persone che si sono sparate quasi 180 episodi e quindi forse hanno un livello di consapevolezza finanziaria che va al di là dell’investitore medio.

Questo non fa di nessuno di noi degli investitori con qualche vantaggio competitivo per fare meglio degli altri.

Però forse abbiamo qualche vantaggio per fare meno peggio degli altri, cioè per evitare alcuni errori grossolani.

E come sempre non sono errori nel senso che il nostro portafoglio rende meno del nostro benchmark.

Sono sempre errori rispetto a due cose: la nostra pianificazione e il nostro risk management.

Per dirla con le parole dello scorso episodio sono errori quanto al tipo di portafoglio e di allocation che andiamo a costruire rispetto ai rischi che vogliamo, possiamo e dobbiamo assumerci.

Lo scopo di quest’episodio è comprendere il contesto di mercato in cui ci troviamo, capire cosa la crescita dell’investimento passivo stia davvero causando e cosa ciò possa comportare sulle nostre decisioni di investimento.
Come sempre l’obiettivo non è indovinare la strategia per battere il mercato.

L’obiettivo è assegnare ai vari rischi che abbiamo di fronte i giusti pesi rispetto alla nostra pianificazione finanziaria.

Allora, andiamo con ordine perché ho un bel po’ di cose da dire.

Anzi facciamo così, faccio prima una veloce guida concettuale dei temi di oggi, così da rendere più semplice l’ascolto dell’episodio e non perdere nessuno per strada, me per primo.

– UNO: partiamo dalle principali critiche vengono mosse, ogni giorno sempre di più all’investimento passivo. Fondamentalmente queste sostengono che l’investimento passivo rende il mercato meno efficiente, riduce l’elasticità dei prezzi, gonfia i prezzi delle azioni, ha creato le Magnifiche 7 perché le aziende più grandi diventano sempre più grandi per via dei flussi di denaro degli ETF e insomma … si stanno preparando le premesse per l’apocalisse finanziaria definitiva, per la madre di tutte le bolle.

Vediamo questi punti, chi li sostiene e chi non è troppo d’accordo.

Da qui andiamo al punto

– DUE: cioè cerchiamo di capire se l’investimento passivo abbia contribuito alla grande concentrazione del mercato in poche mega aziende e se in generale questa concentrazione sia un problema.

– TRE: cerchiamo di capire se c’è una ripercussione sulle valutazioni, cioè se l’investimento passivo effettivamente ha spinto su i prezzi delle azioni, perlomeno di alcune azioni, e anche qui se questa cosa sia un problema o meno.

Fatto questo poi proviamo a tirare qualche conclusione pratica.

Qualunque sia il punto di vista in cui vi ritroverete, qualunque siano le decisioni che ciò vi porterà a prendere con i vostri portafogli, qualunque sia la strada che ciascuno di voi intraprenderà, se si vuole viaggiare in prima classe non posso non pensare alla banca con cui investo ormai da diversi anni e che da 25 è il leader in Italia nell’investimento online, ossia Fineco, che è sponsor di questo podcast.

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Veniamo a noi, anche se prima devo fare una premessa.

Prima di fare quest’episodio ho scartabellato diverse centinaia di articoli e paper, oltre a tutto quello che avevo già digerito nel tempo sull’argomento.

Da una parte ho cercato di essere oggettivo.

Dall’altra, tenete in considerazione che potrebbe esserci del confirmation bias in quello che dirò.

Cioè io voglio che non sia vero che l’investimento passivo danneggia il mercato.

Voglio che sia virtuoso e non alimenti distorsioni.

Voglio che continui a rimanere anche in futuro quello che ci è sembrato fino ad oggi, ossia la più grande innovazione della storia per gli investitori retail.

Ma siccome voglio queste cose, è possibile che accetterò più facilmente le tesi a favore dell’investimento passivo, rispetto a quelle contro.

Altra premessa.

Investimento passivo NON COINCIDE con investimento in ETF.

Se considerassimo gli ETF, parleremmo di qualcosa che sì ha raggiunto volumi impressionanti ormai, ma che resta pur sempre una frazione piuttosto piccola del mercato in generale — e non ci sarebbe alcuna discussione in merito probabilmente.

Inoltre gli ETF non sono tutti passivi.

Quelli che replicano l’S&P 500, l’MSCI world o il FTSE All World sono, al netto di alcune decisioni di chi fa gli indici, passivi.

Ma poi c’è tutta la selva di ETF settoriali, fattoriali, tematici, esg, con i buffer, con le covered call, a leva, short e via dicendo che decisamente si discostano dall’idea originaria con cui è nato l’investimento passivo, ossia quella di possedere tutto il mercato azionario.

Quando parliamo di investimento passivo parliamo di un mix composto di:

– ETF

– Index Fund

– Target Date Fund e tutti gli strumenti orientati alla pensione che ci sono soprattutto in America e nel Regno Unito e poi

– C’è tutta un’infinità di fondi che tecnicamente non sarebbero né ETF né index fund, ma che fanno direct indexing, cioè replicano direttamente un certo benchmark.

C’è un famoso paper di Chinco e Sammons del 2023, poi aggiornato l’anno scorso, dall’eloquente titolo “The Passive Ownership Share Is Double What You Think It Is”, che basandosi sui dati del 2021 sostengono che mentre la quota ufficiale di investimento passivo negli Stati Uniti sia intorno al 16%, in realtà, considerato anche chi è attivo sulla carta ma passivo nella sostanza, andiamo più verso il 33%. Quindi un terzo del mercato sarebbe soggetto alle logiche dell’investimento passivo.
E c’è chi sostiene che questo numero possa essere ancora superiore.

Nell’episodio di oggi magari mi capiterà di parlare solo di ETF per semplicità, ma ricordate che generalmente mi riferisco a tutto l’universo passivo.

Allora

CAPITOLO UNO: chi ha paura degli investimenti brutti e passivi, anticamera del marxismo e gonfiatori di bolle a più non posso?

Parole non scelte a caso perché in effetti nel 2016 uscì un famoso articolo di Alliance Bernstein dal titolo The Silent Road to Serfdom: Why Passive Investing Is Worse Than Marxism, sostenendo appunto che index fund e Etf fossero l’equivalente finanziario del comunismo, mentre il vero americano beve birra, guarda il football, ha una pistola e investe attivamente.

No in realtà questa cosa è stata una mia interpretazione, me di scemenze in quel celebre articolo ce n’erano.

Sempre nel 2016 il grande Cliff Asness smontò punto per punto quell’articolo nel suo Indexing is capitalism at its best, giusto per darvi un’idea di quanto consensus ci sia sull’argomento.

Come noto, il più grande nemico super cattivo che vede l’investimento passivo come il fumo negli occhi è Michael Green, che ha fatto di questa crociata contro l’investimento indicizzato la sua ragione di vita.

Cercatelo su Youtube, troverete mille video dappertutto in cui parla solo di questo.

Ed è uno a cui è veramente difficile dare torto, perché ha una preparazione da cintura nera e una capacità argomentativa fuori dal comune.

Certo, deve aiutare la sua autostima il fatto di aver guadagnato centinaia di milioni riconoscendo in anticipo il comportamento distorto di una massa di investitori che nel 2017 ha alimentato la piccola bolla del Volmageddon di cui avevamo già parlato. Lui scommise contro e sbancò.

Altro Michael, altro critico, è Michael Burry, mr Big Short, colui che vide la crisi dei mutui subprime arrivare nel 2007 e che nel 2009 rischiò tutto ma alla fine ebbe ragione e fece un fantastiliardo di dollari.

Anche lui fa il confronto tra gli ETF e i CDO del tempo e rileva lo stesso pattern: se tutti gli investitori si buttano alla cieca in una direzione sola, presto o tardi l’esito è sempre il disastro.

Mi chiedo quindi se le esperienze personali — o i successi professionali come in questo caso — non abbiano a loro volta un peso nel condizionare la visione che ciascuno di noi ha rispetto a determinati temi.

Detto questo, le principali critiche che solitamente vengono mosse all’investimento passivo sono più o meno tre, come ha riassunto perfettamente Nick Maggiulli nel penultimo articolo del suo meraviglioso blog of dollars and data.

Nick ha scritto un articolo molto ben ponderato in cui in sostanza dice, le critiche di Green, Burry, David Einhorn e altri si raccolgono intorno alle seguenti tre questioni:

– Numero Uno: PRICE DISTORTION, cioè in qualche modo gli ETF creano nelle distorsioni nei prezzi, dove distorsione significa che si crea uno scollamento tra i prezzi e i valori fondamentali che dovrebbero esserci sotto. In altri termini, rendono il mercato meno efficiente e alimentano delle bolle.

– Numero Due: MARKET INSTABILITY, ossia gli investimenti passivi causerebbero una maggiore volatilità perché amplificherebbero i movimenti dei prezzi in entrambe le direzioni. Cioè, dato che gli ETF comprano tutto l’indice indiscriminatamente ogni volta che ricevono soldi dall’investitore, oppure vendono tutto l’indice quando gli investitori li rivogliono indietro, allora questa dinamica amplificherebbe sia le crescite che i crolli del mercato. Finché tutto va bene tutti comprano e tutto va su, appena qualcosa va male tutti vendono e tutto viene giù fragorosamente.

– Numero Tre: CORPORATE GOVERNANCE, cioè dato che Blackrock, Vanguard e State Street sono i più grandi emittenti di fondi passivi al mondo, di fatto sono diventati anche i più grandi azionisti del mondo e quindi hanno un peso decisionale abnorme nel consiglio di amministrazione di praticamente ogni azienda.

Di solito il primo punto è quello più dibattuto.

L’idea sarebbe che l’investimento passivo farebbe venire meno la funzione di allocazione efficiente del capitale propria del mercato, perché viene meno l’attività — si dice — di price discovery da parte degli investitori, che quindi non investono più in questo o in quell’azione in base ai fondamentali — cioè in base al fatto che una società abbia buoni utili, o buoni prodotti, o quant’altro — ma in maniera automatica.

Uno fa il suo bel pac sull’S&P 500 e ogni mese Vanguard o iShares gli comprano quote proporzionali di tutte le azioni dell’indice a prescindere dai valori fondamentali.

Tu dai 1.000 $ a Vanguard e questo mette 70 dollari in Apple, il 66 in Nvidia, il 61 in Microsoft e così via.

Cioè non funziona proprio così, però a livello aggregato è una buona approssimazione.

E questa cosa sarebbe un problema perché così facendo i flussi di denaro che vanno negli ETF alimentano artificiosamente il prezzo delle azioni che questi vanno a comprare, gonfiano bolle e poi queste prima o poi inevitabilmente devono scoppiare.

Inoltre, dato che gli index fund e etf più grandi sono market cap weighted, si crea un feedback loop per cui le società più grosse ricevono più capitali e quindi a loro volta diventano sempre più grosse e ricevono ancora più capitali e così via — ed ecco spiegato il motivo per cui le Magnificient 7 sarebbero diventate così grandi e il mercato sarebbe ad un livello di concentrazione quasi mai visto nella storia.

Questa teoria sembra sulla carta molto convincente e di buon senso.

In realtà ci sono diverse falle.

Intanto, c’è un generale fraintendimento su come funziona un ETF o un fondo indicizzato.

Gli strumenti passivi, come abbiamo detto anche in passato, sono price taker, non price maker.

Cioè non contribuiscono alla formazione del prezzo, ma si prendono qualunque prezzo gli investitori attivi e informati sul mercato settano.

Cioè è la componente attiva di chi scambia le singole azioni sul mercato a fare i prezzi.

Gli ETF riflettono unicamente quello che succede sul mercato.

Se fosse vera che gli ETF fanno crescere i prezzi si dovrebbe poter misurare l’effetto tra quelle azioni che hanno una quota maggiore di “passive ownership”, cioè le società che sono maggiormente incluse in index fund e ETF dovrebbero godere di una crescita maggiore delle proprie valutazioni.

Invece uno studio di Goldman Sachs dell’anno scorso ha mostrato che, se mai ci fosse, quest’effetto sarebbe marginale, mentre invece pesano molto di più nella variazione delle valutazioni cose come l’aspettativa futura di crescita, gli utili, i valori di bilancio e così via.

Cioè non c’è evidenza nei dati che i prezzi delle azioni crescano di più se queste azioni sono più o meno presenti dentro strumenti di investimento passivo.

Allo stesso modo, anche le performance azionarie non sembrano dipendere da questa cosa.

Il fatto che ci sia una più o meno elevata “passive ownership”, ossia che sia più o meno elevata la quota di strumenti passivi che detengono una certa azione, non è correlato con il rendimento di quell’azione.

E sul discorso delle Magnificient 7 questa cosa diventa macroscopica perché, contrariamente a quel che si può pensare, le loro azioni hanno una passive ownership inferiore alla media dell’S&P.

Cosa significa?

Significa che mentre per esempio il 25% delle altre 493 società è in mano a fondi passivi, solo il 22% delle azioni delle Mag 7 lo è.

È comprensibile.

Sono le azioni che comprano tutti e che vengono maggiormente scambiate singolarmente.

Quindi non solo non c’è evidenza del fatto in generale che gli strumenti passivi gonfino i prezzi e favoriscano le società più grandi, ma le società più grandi sono pure quelle che hanno in proporzione una passive ownership inferiore alla media.

L’anno scorso sempre Cliff Asness scrisse un articolo dal titolo “The Less Efficient Market Hypothesis”, in cui in effetti il vecchio allievo di Eugene Fama rilevava che negli ultimi trent’anni il mercato fosse diventato meno efficiente.

Cosa intende Asness?

Secondo lui i prezzi delle azioni hanno cominciato a discostarsi di più e più a lungo dai loro valori intrinseci, basati sui fondamentali.

In particolare lo spread tra costose azioni growth e azioni value economiche si sarebbe allargato.

I critici dell’investimento passivo parlano spesso di questo, ossia del fatto che gli ETF avrebbero portato il mercato a seguire più i flussi di denaro che non i valori intrinseci e in questo modo si sarebbe creato un disaccoppiamento crescente tra prezzi e sottostanti.

Però Asness in realtà non crede che sia colpa dell’investimento passivo.

O meglio, secondo lui ci sono altre due cause ancora più impattanti.

Una è stata il lungo declino dei tassi di interesse, fino al periodo di tassi quasi a zero tra il 2008 e il 2021.

L’altra, per lui la più pervasiva, è stata l’esplosione dei social media da una parte e della gamification del trading dall’altra, che in qualche modo avrebbero contribuito a rendere l’informazione che viene incorporata nel mercato meno efficiente, più sporca, più soggetta a bias e così via.

Sul team degli ETF però Asness è d’accordo che, se un effetto c’è stato, benché sia impossibile definirne la misura, questo può riguardare la minore elasticità dei prezzi.

Un mercato perfettamente elastico è un mercato in cui se introduco un dollaro, questo produce un movimento di un dollaro nelle valutazioni.

Un mercato inelastico è invece quando un dollaro introdotto genera movimento più ampio nei prezzi.

Ci sono diversi studi che hanno riscontrato una crescente inelasticità nei prezzi, cioè dato che ci sono molti investitori passivi e relativamente pochi attivi, di conseguenza ci sarebbe meno liquidità e quindi ogni singola operazione di compravendita sul mercato avrebbe un effetto amplificato.

In pratica i prezzi tendono a muoversi di più rispetto a prima.

Questo potrebbe anche essere vero, benché sia difficile capire se ci sia solo correlazione o un nesso causale con la crescita dell’investimento passivo o se come dice Asness ci sono una serie di fattori che possono aver contribuito alla minor efficienza del mercato.

In realtà, quando era stato da noi, Fama disse che non vede evidenza nei dati nemmeno di questa minor efficienza.

È possibile che ci sia, come è possibile che sia un effetto temporaneo.

Comunque tutta la discussione sugli ETF che rendono il mercato poco efficiente in realtà manca il concetto fondamentale, ossia che la crescita dell’investimento passivo in sé e per sé è abbastanza irrilevante rispetto all’effettiva efficienza informativa del mercato.

Quello che conta davvero è il numero di investitori attivi che settano i prezzi.

Come ha brillantemente scritto l’anno scorso il grande Owen Lamont, ex professore di Chicago, Harvard, MIT e oggi partner di Acadian, quello che davvero fa la differenza è chi resta — come dice lui — a “fare i compiti”.

Ad esempio se il mercato fosse fatto solo di 100 investitori e 50 di essi decidessero di non investire attivamente ma investire solo con ETF market-cap-weighted, potrebbero succedere tre cose:

– Scenario uno: se questi 50 sono un mix casuale composto tanto da investitori informati quanto da investitori della domenica che cazzeggiano con qualche app di trading, allora l’efficienza del mercato non cambia né in positivo né in negativo;

– Scenario due: se questi 50 sono i migliori investitori attivi del mercato, allora l’efficienza del mercato tracolla, perché restano solo gli altri 50 scemi a prezzare a caso le azioni con le loro transazioni scellerate.

– Scenario tre: se questi 50 sono i peggiori investitori retail che capiscono che comprare un ETF è meglio per tutti e che il lavoro di price discovery è meglio farlo fare a chi ha preso MBA e PhD a Chicago, Wharton e MIT, ecco che allora gli ETF hanno reso il mercato più efficiente, perché i prezzi incorporeranno solo le informazioni ponderate degli investitori informati e competenti e non le distorsioni che derivano da investitori improvvisati che comprano per FOMO e vendono per FEAR.

Lamont cita anche una serie di paper dove fa vedere che la ricerca accademica sull’argomento naviga nel più totale buio.

C’è chi dimostra che l’investimento passivo riduce l’efficienza del mercato sballando tutti i prezzi.

Chi dimostra che ha un effetto neutro.

Chi dimostra che migliora l’efficienza del mercato.

Insomma, in base all’opinione che avete da difendere sull’argomento, troverete un paper adatto che farà al caso vostro per supportare il vostro punto di vista.

Ad ogni modo, se sul discorso inefficienza non sembra che l’investimento passivo, per ora almeno, abbia raggiunto volumi tali da avere un impatto misurabile, è possibile che la minore elasticità dei prezzi possa contribuire ad una maggiore instabilità del mercato — e questa come dicevamo prima è la seconda critica classica agli ETF and company.

Se in media i prezzi si adattano meno gradualmente alle variazioni dei valori sottostanti, questo è perché tutti coloro che investono in ETF comprerebbero indiscriminatamente durante i bull market e poi venderebbero altrettanto indiscriminatamente durante i bear market, riducendo la liquidità del mercato e facendo oscillare molto di più i prezzi.

In realtà, anche qui, non c’è evidenza empirica di questa cosa.

Maggiulli cita uno studio di Vanguard che fa vedere come durante i mesi del Covid, in cui vi ricordo che l’S&P 500 aveva perso il 30% in un mese, solo il 10% di tutti gli asset di Vanguard sono stati oggetto di compravendita sul mercato, un leggero aumento rispetto all’8% dell’anno prima.

Cioè c’è stata una piccola variazione nelle attività di trading nonostante il disastro epocale che si stava consumando.

La tesi degli Anti ETF è che ad un certo punto si verificherà un massiccio sell-off tutto di colpo e il mercato crollerà in verticale.

Quello che però non compare in questa teoria è che l’investimento passivo è fatto anche da tutta una serie di strumenti che per loro struttura o non partecipano ai sell-off o addirittura se c’è un sell-off fanno il contrario e comprano automaticamente.

Per esempio tutti gli enormi strumenti pensionistici americani come i Target Date Funds hanno delle allocation fisse.

Se un fondo di Vanguard o di Fidelity deve avere allocation 80/20 e si verifica una vendita massiccia durante un periodo di panico cosa succede?

Il fondo automaticamente compra perché deve ribilanciare e riportare l’allocation a 80/20.

Quindi paradossalmente è possibile ipotizzare che se c’è un grosso volume di capitali allocati passivamente che devono seguire determinate regole di lungo termine, ciò dia un contributo positivo sia alla liquidità che alla stabilità del mercato, invece del contrario.

Anche qui, sia la tesi che la controtesi sono molto difficili da dimostrare, però in effetti ci sono dei dati rassicuranti che vengono proprio dall’ultimo periodo estremo che abbiamo vissuto che è stato quello del Covid.

Oltre al dato di Vanguard, che è una prova del fatto che questa svendita verticale non è detto che si verifichi, è noto che anche gli ETF obbligazionari sono stati utili durante il covid perché hanno fornito tutta quella liquidità che le singole obbligazioni non riuscivano a fornire.

Non è quindi difficile capire perché sempre Nick Maggiulli ritenga che la paura di spirali negative innescate dall’investimento passivo siano, almeno per ora, “overblown”, siano esagerate.

Bisogna invece dire che fenomeni di panic selling ci sono sempre stati, ben prima che venisse inventato il primo ETF.

Se tutti si mettono a vendere perché succede qualcosa di grave e si scatena un’ondata di panico, questo accade a prescindere dagli strumenti in cui uno investe.

Ad ogni modo, è chiaro che se la quota di passivo arriva a ricoprire, che ne so, l’80% del mercato, questo magari resta pure efficiente, ma la sua volatilità e instabilità potrebbe aumentare.

Ma così fosse, allora probabilmente le opportunità per gli investitori attivi aumenterebbero, e questo in qualche modo potrebbe innescare un nuovo incremento dell’investimento attivo rispetto al passivo fino ad un nuovo punto di equilibrio.

Qui ci stiamo lanciando in voli pindarici sotto LSD, quindi il ragionamento lascia un po’ il tempo che trova.

Portiamoci a casa per ora che delle distorsioni, sì, ci possono essere, ma che tutta questa minaccia apocalittica che aleggia su un mercato sempre più orientato agli investimenti passivi sia come minimo sopravvalutata.

Ora, CAPITOLO DUE: al di là di queste speculazioni, quello che ci interessa è l’impatto pratico che questa cosa può avere, almeno nella misura in cui possiamo prendere decisioni di conseguenza.

I critici dell’investimento passivo oggi rilevano due cose.

Le motivazioni che loro adducono come cause sono ampiamente discutibili come abbiamo visto.

Si tratta però di capire se queste due cose sono a loro volta un problema e come comportarci.

La prima riguarda la tesi: l’investimento passivo ha contribuito alla concentrazione del mercato.

Poche società, le Mag 7 in particolare, hanno raggiunto un peso spropositato.

La seconda riguarda la tesi: l’investimento passivo ha contribuito alla crescita delle valutazioni azionarie, ossia prezzi elevati rispetti agli utili, basso earning yield, rendimenti futuri attesi bassi.

Dall’idea che mi sono fatto facendo la media ponderata tra tutti gli articoli e le opinioni in cui mi sono imbattuto — pur con il mio confirmation bias pro etf — la sensazione è che la causa di questi due fenomeni, cioè di alta concentrazione e alte valutazioni, non siano gli ETF e gli index fund, o forse solo in parte marginale.

Però queste due cose ci sono, qualunque siano le cause.

Ora il punto è: sono un problema?

È un problema che il mercato sia altamente concentrato?

È un problema che le valutazioni siano molto elevate?

La combinazione di queste due cose rappresenta un rischio per i nostri portafogli?

Dipende a chi chiedete.

Se vi ricordate alla fine dell’anno scorso abbiamo parlato spesso dell’outlook di Goldman Sachs che ha gelato Wall Street prospettando un decennio piuttosto avaro di soddisfazioni per il glorioso mercato azionario americano.

Il team guidato da Dave Kostin, lo US Chief Strategist di Goldman, disse: la nostra previsione è che nei prossimi 10 anni l’S&P 500 farà in media il 3% all’anno e la stima tra il 25° e il 75° percentile è compresa tra -1% all’anno, come successe tra il 2000 e il 2009, e il 7%, buono ma comunque non un decennio da ricordare.

E le motivazioni erano state due:

– PRIMA MOTIVAZIONE: mercato azionario molto caro. Multipli alti, cioè prezzi alti rispetto agli utili, uguale rendimenti attesi inferiori, sposando l’idea che nel lungo termine tendenza a regredire verso la media si presenti per riprezzare il mercato.

Solo che se si trattasse unicamente di valutazioni molto alte, la loro stima per i prossimi 10 anni sarebbe stata più nell’ordine del 6-7%, non del 3%.

Il 3% dipende dalla

– SECONDA MOTIVAZIONE: ossia la concentrazione. Siccome il mercato è molto concentrato e appena 26 società pesano da sole metà dell’enorme mercato americano da 45 trilioni di dollari questa cosa riduce l’aspettativa di rendimento del mercato in generale.

Perché secondo Dave Kostin di Goldman Sachs la concentrazione è un problema?

Dice due cose, sulla prima ci sarebbe da ridire, mentre la seconda è abbastanza ineccepibile, almeno sulla carta.

Quella su cui avrei qualcosa da dire, in my humble opinion, riguarda l’idea che le società più grandi abbiano un risk premium negativo. Hanno in media dei prezzi che sono 31 volte gli utili, quindi Kostin fa 1/31 uguale 3,2% e dice: l’earning yield, il rendimento implicito di queste azioni, è inferiore al 4,5% dei titoli di stato decennali, quindi è negativo e negli ultimi vent’anni non si erano mai viste le più grandi azioni americane scambiare ad un equity risk premium negativo.

Quello che mi lascia un po’ boh è quel che dicevamo l’altra volta.

L’earning yield è una proiezione del rendimento reale, mentre il rendimento dei bond è nominale, confronti un po’ le mele con le pere.

Se invece prendi i TIPS, cioè i titoli di stato americani indicizzati all’inflazione, questi rendono 2,2% e teoricamente questo dovrebbe essere un rendimento reale.

Raffrontato a questo, il risk premium è comunque positivo.

L’altra argomentazione invece è più convincente.

Soprattutto le Mag 7 sono, si dice, “priced for perfection”, cioè hanno dei prezzi che presuppongono che tutto vada via liscio e che continuino a crescere come pazze al ritmo del 20% all’anno anche per i prossimi anni.

Ma storicamente non ci sono mai state società che hanno visto i propri profitti crescere del 20% per più di un decennio.

Magari questa sarà la prima volta, però appunto si sta scommettendo più su un’eccezione che su una regola.

Insomma Kostin ritiene che siccome il mercato è concentrato in poche realtà molto grandi che hanno più probabilità di deludere che stupire, l’investitore medio è soggetto ad un rischio crescente, perché se vanno male quelle lì viene giù tutto.

Cioè lui dice: questa concentrazione porta con sé una maggiore volatilità implicita, visto che il movimento di una singola azione sposta molto dell’intero mercato, ma l’investitore non è compensato per questa maggiore assunzione di rischio che si sta assumendo.

In parole povere: ci stiamo tutti prendendo un grande rischio specifico.

Sapete invece chi non è troppo d’accordo con quest’interpretazione?

Sempre Owen Lamont, che a fine dicembre era stato ospite di Kostin in un dibattito in Goldman sull’argomento.

Tra l’altro Lamont ha scritto anche un articolo molto eloquente dal titolo “Higher Stock Market Concentration Does Not Mean Higher Risk”.

È da un bel po’ che parliamo di questa cosa della concentrazione e di tutto ciò che di tragico e devastante comporterebbe.

Però Lamont mi ha fatto riflettere su diverse cose.

Lui spiega che intanto non bisogna confondere due concetti: una cosa è la costruzione di un portafoglio concentrato, il fatto cioè che io scelgo poche azioni da mettere in portafoglio e questo aumenta il rischio; un’altra sono i pesi di portafoglio scelti dal mercato, che non aumentano necessariamente il rischio.

A suo avviso, i rischi derivano da variazioni nei valori fondamentali o quando i prezzi si discostano dai fondamentali, oltre che da altre motivazioni di natura economica.

La concentrazione in sé e per sé invece non è un fattore di rischio.

Ciò che ha portato a questa elevata concentrazione nel mercato americano è stata in primis la concentrazione dei profitti.

Queste società hanno prodotto una barcata di utili senza precedenti e PER QUESTO sono diventate giganti rispetto al mercato.

Quindi c’è una ragione fondamentale dietro questo fenomeno.

Si può star qui a discutere fino a dopo domani se sia tanta o accettabile, ma al di là di questo la concentrazione è stata alimentata nell’ultimo decennio da motivazioni ancorate alla profittabilità e al return on equity che queste società hanno generato, non ad una bizza del mercato.

Quello che lui giustamente dice è che non è tanto la concentrazione il problema, quando la cosiddetta covarianza dei rendimenti.

Cioè il rischio non deriva dai pesi delle singole società del portafoglio, ma dall’interdipendenza dei rendimenti.

Se nell’S&P 500 ci sono 100 società invece che 10 ad occupare il primo 35% del peso dell’indice, non è detto che la situazione sia meno rischiosa.

Dipende dalla correlazione che hanno tra di loro i rendimenti delle varie società.

E qui Lamont fa un ragionamento a cui in effetti non avevo mai pensato.

Se prendiamo le Mag 7 non abbiamo 7 società, abbiamo 7 conglomerati che hanno al loro interno business completamente diversi tra loro.

Amazon è una società di e-commerce b2c, che però fa il grosso del suo profit vendendo cloud alle aziende e produce film, oltre ad avere Whole Foods, Twitch e un altro mezzo milione di cose.

Business diversissimi tra loro.

Google è un motore di ricerca, ma è anche YouTube e Google Cloud.

Microsoft è la suite di Office, Azure, l’Xbox, consulenza e via dicendo.

Persino Tesla non è solo una società che fa e vende auto.

E così via.

Lamont dice, se il governo imponesse di splittare le Magnifiche 7 ciascuna in 7 società distinte, come successe nel 1984 a AT&T perché era diventata un monopolio, il mercato sarebbe meno concentrato con le Magnifiche 49?

Messo in questi termini, in effetti, il tema dell’oligopolio nel mercato americano assume un’altra prospettiva.

Qui però finiscono le buone notizie.

Perché invece Lamont è d’accordo con Kostin, nonché con altri autorevoli grandi saggi di Wall Street, che in effetti l’altro tema sia più un problema: quello delle valutazioni elevate.

Come abbiamo visto Lamont è molto scettico sul fatto che le valutazioni elevate siano una conseguenza degli investimenti passivi.

Ma che siano elevate non ci sono dubbi.

E questo è potenzialmente un problema, almeno in termini di rendimenti attesi, perché il più delle volte c’è una correlazione negativa tra valutazioni di partenza e rendimenti futuri.

E anche su questo la sua ricetta non è molto diversa da quella di Asness, che è favorevole a dare un tilt al portafoglio verso ciò che si potrebbero chiamare realtà quality e value, con elevati valori di profittabilità e un prezzo relativamente basso rispetto al valore patrimoniale.

Per concludere, quindi, cosa ci portiamo a casa.

Direi queste cose:

– PRIMA COSA: le teorie disfattistiche sugli ETF che gonfiano i prezzi, favoriscono le società più grosse e innescano ampi sell-off sono ipotesi che per ora non hanno riscontri empirici. Dato che i benefici sono innegabili mentre gli effetti collaterali sono al più ipotetici, non vedo un buon motivo per comportarsi diversamente. Inoltre, come riconosce il buon Nick Maggiulli, nessuno tra i critici del passive investing è in grado di proporre soluzioni alternative. Quindi il mio portafoglio continuerà ad essere composto quasi esclusivamente di ETF — oltre che da una ridicola percentuale di azioni di Berkshire Hathaway, ma questa più per simpatia che per motivazioni finanziarie.

– SECONDA COSA: la concentrazione c’è ed è evidente, ma non è un buon motivo per cambiare strategia. Il problema del mercato, per gli americani che investono in S&P 500 e per noi che investiamo in MSCI World o FTSE All World, non è necessariamente l’elevata concentrazione in società leader globali in molteplici settori e con profittabilità che la maggior parte delle aziende si può solo sognare.
Il problema, se c’è, è che i prezzi molto sono alti e quindi è POSSIBILE — possibile, non certo e forse nemmeno “probabile” sarebbe un aggettivo corretto — dicevo è possibile che i rendimenti del prossimo ciclo di mercato siano inferiori.
Ma questo non perché ci sono gli ETF. Perché per 40 anni i tassi di interesse si sono gradualmente ridotti e una vasta fetta del rendimento passato dell’azionario americano è da attribuirsi all’espansione dei multipli, non solo alla crescita degli utili.
Ricordiamoci sempre questa cosa. Se gli utili crescono storicamente in media del 6-7% all’anno e l’S&P è cresciuto in media del 10%, quel 3% di differenza significa — la dico male perché matematicamente non è proprio corretto — però insomma in qualche modo significa che le azioni sono diventate più care del 3% all’anno, ponendo le basi per ritorni futuri inferiori.

Solita maledetta regressione verso la media.
E qui veniamo alla

– TERZA COSA: che ce ne facciamo di tutte queste belle considerazioni?
Anche qui, vedo tre strade, come forse avevo già detto una quarantina di episodi fa toccando lo stesso argomento.

– Prima strada: non faccio nulla. Il mio orizzonte temporale è realmente molto lungo, la mia pianificazione è allineata, non ho messo i conto per i miei obiettivi che la mia componente azionaria debba rendere 10% all’anno perché posso stare fresco e quindi tutto ok.
Come suggerì Gene Fama, per quanto riguarda la parte di equity compro il mercato, dentro ho pure un minimo di diversificazione internazionale, porto pazienza e tengo botta lungo tutti i prossimi cicli.
L’importante è appunto essere conservativi sui rendimenti attesi perché è possibile che quelli passati non li rivedremo nel futuro.

– Seconda strada: do un’inclinazione al portafoglio “contrarian”, cioè vado a sottopesare ciò che growth e momentum hanno fatto crescere fino al punto in cui ci troviamo oggi. Alcuni esempi — e naturalmente, ma mi sembra quasi offensivo puntualizzarlo, non sono raccomandazioni di investimento:

– ETF su S&P 500 equal weight, che di fatto equivale a dare un tilt al portafoglio verso società value, società più piccole e società con elevati dividend yield — tutte caratteristiche che non appartengono alle big tech. Oppure

– ETF sui fattori, diciamo così, anticiclici, come Value, Quality, e Minimum Volatilty. Oppure ancora, molto più banalmente,

– Una maggiore esposizione ex US.
Attenzione a non cadere nella trappola: investire oggi in Europa, Regno Unito, Giappone o Mercati Emergenti, dove i prezzi sono molto più bassi che negli Stati Uniti, non vuol dire rischiare di meno. Vuol dire rischiare di più!
Se il mercato è efficiente il risk-adjusted-return è lo stesso ovunque investo, per quello che ne sappiamo oggi almeno.
Quindi investire per esempio in Europa dove il price earning ratio è 13 invece che 23 significa che il rendimento atteso è teoricamente superiore. Se facciamo l’inverso, 1/13 fa 7,7%, mentre 1/23 fa 4,3%, quindi a parità di altre condizioni il mercato prezza un premio per l’investimento in Europa. Ma prezza un premio perché nei prezzi viene incorporata una serie di rischi impliciti: l’Europa non ha aziende tech fighe, i dazi di Trump, la dipendenza energetica, le iperregolamentazioni assurde che ci siamo dati e via dicendo.

Ok, quindi ripeto: se il mercato ha prezzi alti, investire dove i prezzi sono più bassi, dal punto di vista di un mercato generalmente efficiente, è più rischioso, non meno. Di qui il maggior rendimento atteso.

– Terza strada: riduco l’esposizione azionaria e aumento la diversificazione. Bond, oro, materie prime, asset alternativi.
Se per esempio aumento il livello di rischio assoluto del portafoglio sovrappesando asset con un rischio maggiore — che ne so: azioni value o azioni mid-small — posso considerare di ridurre l’esposizione azionaria complessiva per avere teoricamente lo stesso rischio complessivo ma un maggiore rendimento atteso.
Sempre in teoria ovviamente.
Quest’idea si basa su un modello di allocation risk-parity, in cui il rischio viene teoricamente suddiviso equamente tra diverse asset class possibilmente poco correlate così da limitare l’impatto di singoli eventi avversi.

Alcune idee, up to you, ma anche non fare niente ha il suo perché.

Fine cari miei.

Spero che quest’episodio vi abbia confuso abbastanza, ma anche che complessivamente vi abbia dato gli strumenti giusti per ragionare ogni volta che leggerete di ETF brutti e cattivi, di concentrazione e di mercato caro.

Invece a nnuntio vobis gaudium magnum, domenica prossima avremo un episodio con un altro ospite pazzesco, un personaggio che molte volte abbiamo citato qui e al quale abbiamo dedicato ben due episodi.

Sarà con noi, direttamente da Manhattan Beach, California, il fondatore e CIO di Cambria nonché host del fantastico Meb Faber Show, ovviamente, il grandissimo Meb Faber, con cui parleremo … beh … un po’ di tutto e sono certo che dopo l’episodio con lui saremo tutti finanziariamente un po’ più intelligenti.

Nell’attesa vi invito a mettere segui e attivare le notifiche su Spotify, Apple Podcast o dove ci ascoltate e a lasciare una recensione a 5 stelle per supportarci e permetterci di continuare a produrre contenuti che per 180 episodi vi dicono che investire in ETF è una buona idea, poi vi fanno venire il dubbio che non lo sia e poi vi dicono nuovamente che tutto sommato non fanno così male come qualcuno dice, sempre nuovi.

Per questo episodio invece è davvero tutto e noi ci risentiamo domenica prossima con Meb Faber, sempre qui, naturalmente con The Bull, il tuo podcast di finanza personale.

Recensioni

Quando capisci come funziona la finanza… ti viene voglia di raccontarla!

Ho seguito tutte le puntate! Grazie veramente

Amalia A., 17 Set 2025

Non sono solito a mettere recensioni e specialmente non ascolto podcast, ma da quando ho iniziato questo, faccio fatica a staccarmi, e quasi non posso più fare a meno di ascoltare e arricchirmi culturalmente.

Andrea V., 22 Set 2025

Podcast che dà sempre spunti interessanti che personalmente mi ha fatto appassionare alla finanza personale spingendomi ad approfondire in prima persona.

Lorenzo, 13 Mar 2025

Podcast piacevole, scorre veloce ma in modo estremamente chiaro, spiega i concetti chiave per gestire le proprie finanze, fornendo la classica cassetta degli attrezzi. Complimenti, davvero ben fatto!

Massimiliano, 29 Mag 2024

Veramente interessante, chiaro e conciso. Cambia la vita finanziaria di chiunque.. da ascoltare assolutamente anche per chi di finanza non vuole occuparsi mai

Francesca B., 6 Apr 2024

La mia ignoranza in materia mi ha sempre creato dei dubbi, ma grazie a un amico ho iniziato ad ascoltare il podcast. Per fortuna che ho 24 anni e un po' di tempo e soldi da dedicarmi a imparare le varie nozioni per me stesso. Grazie mille!

Luca G. 10 Ott 2025

Riccardo mi ha letteralmente cambiato la vita e fatto scoprire che amo la finanza, ho ascoltato il podcast già due volte e non mi stufo mai di ascoltarlo, parla in modo semplice e chiaro

Massimo D., 23 Set 2025

Da quando l'ho scoperto in 15 gg mi sono ascoltato 150 puntate senza fermarmi, ho annullato gli altri podcast per portarmi alla pari ed ascoltare tutte le precedenti puntate, ben fatto, esattamente il livello di informazione che mi serviva

Gianluca G., 11 Set 2025

Dovrebbero ascoltarlo buona parte degli italiani e io avrei dovuto scoprirlo con qualche anno in anticipo ma meglio tardi che mai

Matteo C., 3 Set 2025
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