I Mercati vanno Giù! Il Paradosso del Premio al Rischio
Ma è proprio vero che le azioni rendono sempre più delle obbligazioni? Rischiare di più implica sempre il fatto di guadagnare di più? Oppure esiste il rischio che proprio correndo più rischio non ottenga i risultati sperati? Prendendo spunto da un po' di turbolenza sui mercati in questo mese di Aprile, cerchiamo di capire il Paradosso del Premio al Rischio delle Azioni.

99. I Mercati vanno Giù! Il Paradosso del Premio al Rischio
Risorse
Punti Chiave
Il Premio al Rischio (rendimento azioni - rendimento bond) è la remunerazione per il rischio azionario.
Inflazione e incertezza Fed lo stanno riducendo, portando al paradosso che deve esistere il rischio di non sovraperformare affinché il premio si realizzi.
Trascrizione Episodio
Bentornati a THE BULL – Il tuo podcast di finanza personale
Ormai ci siamo quasi, care amiche e cari amici che mi state seguendo con un’inspiegabile passione e affetto da svariati mesi.
99° episodio oggi, l’ultimo a 2 cifre prima di raggiungere il traguardo psicologico delle 100 puntate.
E c’era chi sosteneva che dopo le prime 10 non avrei avuto altro da dire.
Eh, mai sottovalutare la capacità di impacchettare 4 nozioni di finanza personale dentro un involucro di scemenze partorite nelle ore più improbabili del giorno e della notte, quando il poco ossigeno nel cervello probabilmente agevola la produzione seriale di cazzate.
Nel prossimo episodio avremo un ospito d’eccellenza, per la prima volta qui da noi e che per il momento non vi spoliero, con la speranza che la sua presenza al culmine dei 100 appuntamenti con The Bull sia di buon auspicio ciascuno di noi riesca a fare un giorno quel che il nostro ospite è riuscito a fare tempo fa.
Stay tuned, c’è da aspettare solo fino a mercoledì prossimo.
Chi invece ascolta il podcast in ritardo, beh, basta cliccare sull’episodio successivo a questo naturalmente.
Di che parliamo invece oggi?
Oggi lo spunto viene da un veloce sguardo a quel che sta succedendo sui mercati in questo mese di Aprile decisamente negativo, ci ricolleghiamo velocemente a delle cose che ci ha spiegato Nicola Protasoni la volta scorsa — si lo so, metà di voi non ci ha capito una mazza, ma è giusto così, presto tutto sarà chiaro — dicevo vediamo in concreto delle cose che ci ha raccontato il buon Nick da Zurigo per poi fiondarci nel cuore del tema di oggi, che riguarda il cosiddetto PREMIO AL RISCHIO.
Che è il Premio al Rischio?
Ragazzi 99 episodi di The Bull e non sapete cos’è il premio al rischio?
Se è così faccio proprio cagare come divulgatore.
Allora da dove comincio? Da quello che sta succedendo sul mercato o da che cos’è il premio al rischio?
Premio al rischio dai, partiamo da qua.
Dunque, detta in parole povere, il premio al rischio è la differenza tra il rendimento delle azioni e quello delle obbligazioni, in particolare di solito delle obbligazioni governative, l’asset che per definizione viene definito risk-free, senza rischio.
Perché è importante sta cosa?
È importante perché si presuppone che gli investitori siano razionali, in teoria, e che quindi investano in base al principio del rapporto tra rischio e rendimento e che pertanto se devono investire in qualcosa di più rischioso rispetto a ciò che rischio non ne ha vogliono essere maggiormente remunerati.
Chi non risica non rosica no?
Negli Stati Uniti per definizione si usa come asset risk free di riferimento il Treasury a 10 anni, ossia i titoli di stato emessi dal governo federale con scadenza decennale.
Il Treasury americano è, fino a prova contrario, l’asset più liquido e scambiato del mondo ed è in qualche modo il benchmark per eccellenza all’interno dei mercati finanziari di tutto il mondo.
Infatti quando succede qualcosa al rendimento dei Treasury o quando qualche agenzia di rating mette in discussione la solidità del debito pubblico americano si genera subito un grosso nervosismo sui mercati.
Non è un caso del resto che molto spesso quando i rendimenti dei Treasury salgono il mercato azionario non la prende troppo bene.
Altre volte in realtà ho visto usare i T-Bills come asset di riferimento senza rischio, ossia l’equivalente americano dei nostri BOT, che sono titoli di stato a brevissimo termine, anche se probabilmente il riferimento ai Treasury, che hanno una scadenza più lunga e più in linea all’orizzonte di riferimento dell’investimento azionario, è quello più corretto per il discorso di oggi.
Ora, come si definisce il premio al rischio.
Secondo il Capital Asset Pricing Model, per gli amici CAPeM, che è il modello da manuale per stimare il premio al rischio di un investimento — o in generale per stimare quello di un intero portafoglio o di un certo mercato — questo premio è definito come: Beta moltiplicato per la differenza tra Rendimento del mercato MENO il rendimento dell’asset-risk free.
Beta l’avevamo già incontrato in passato ed è semplicemente un coefficiente che esprime la volatilità di un asset rispetto al suo mercato di riferimento ed in qualche modo il misuratore del rischio sistemico di quell’asset.
Se beta è maggiore di 1 allora quell’asset avrà una volatilità superiore al suo mercato di riferimento — e quindi crescerà di più quando il mercato cresce e scenderà di più quando il mercato scende — mentre beta inferiore a 1 significa esattamente il contrario.
Se Beta è uguale a 1 stiamo parlando del mercato in generale, quindi quando stimiamo il premio al rischio per esempio dell’S&P 500, questo è dato semplicemente dalla differenza tra il rendimento atteso dell’S&P 500 e il rendimento del treasury americano a 10 anni.
Fin qui tutto facile.
Rendimento atteso del mercato azionario MENO rendimento dei bond governativi = PREMIO AL RISCHIO, ossia quanto più sarò remunerato dal mercato per rischiare i mei sudati denari investendoli in azioni invece che in obbligazioni.
Come si stima però il rendimento atteso?
Eh bella domanda!
La matematica finanziaria è bellissima perché è piena di formule dappertutto e se non sai fare le equazioni differenziali non ci capisci niente.
Il problema è che da qualche parte, in ogni singola equazione magica della finanza, c’è sempre un numerino, una piccola variabilina il cui valore è una stima.
Quindi tu metti su tutto un armamentario matematico della madonna per calcolare qualunque cosa, ma poi sta roba serve come il due di picche a briscola perché tutto si basa su una stima che viene fatta … come dire … un po’ così … a sensazione…
In questo caso in particolare il problema del rendimento atteso è … che è ATTESO.
Quindi possiamo fare tutte le stime di questa terra, ma poi lo sappiamo che il mercato è imprevedibile e che per quanto siamo bravi a stimare quel che accadrà nel futuro, poi tutto e il contrario di tutto può sempre succedere.
Comunque ammettiamo che il mercato abbia un comportamento in qualche modo coerente e che i dati del passato siano una base attendibile per stimare il futuro, il rendimento atteso si può calcolare in vari modi ma sempre più o meno tenendo in considerazione la media storica di quel mercato.
Ad esempio un metodo consiste nell’utilizzare l’inverso del rapporto tra prezzi e utili che è, appunto, il rapporto tra utili medi e prezzi medi delle azioni di un indice.
Il rapporto tra Utili degli ultimi 12 mesi e i Prezzi, chiamato Earning Yield, esprime appunto in qualche modo il rendimento atteso dell’indice.
Quando questo rendimento è inferiore al rendimento dei Treasury, allora il premio al rischio stimato diventa negativo e quindi il mercato potrebbe essere considerato sopravvalutato.
Nel momento in cui stiamo parlando, per esempio, l’S&P 500 ha un earning yield inferiore a 4, mentre il rendimento dei Treasury è oltre il 4,5%.
Non è però un indicatore perfettamente affidabile, tanto per cambiare, ma esattamente come il più famoso price/earning ratio, semplicemente dice che tanto più i prezzi delle azioni sono alti tanto meno sarà il rendimento atteso futuro di quel mercato.
Qualche episodio fa avevamo invece ricordato la formula di John Bogle sul rendimento atteso, secondo la quale questo deriva dalla somma tra:
– Rendimento medio da dividendo delle azioni di quel mercato
– Tasso di crescita degli Utili e
– Variazione percentuale del rapporto tra prezzi e utili.
Formuletta che storicamente ha funzionato abbastanza bene.
Per esempio nel decennio 2010-2019 l’S&P 500 ha avuto in media una crescita annua del 2,2% di dividend yield, del 9,2% degli utili e dell’1,4% del rapporto tra prezzi e utili, realizzando in totale un astronomico 12,9% di ritorno medio annuo.
Nel disastroso decennio perduto 2000-2009, invece, l’S&P ha registrato una crescita dell’1,2% di dividend yield, dello 0,8% degli utili e una decrescita del 3,2% del rapporto tra prezzi e utili, motivo per cui il ritorno medio annuo è stato un -1,2% per tutto il decennio.
Se quindi vogliamo stimare il rendimento futuro dell’S&P 500 (o del mercato globale in generale), possiamo tirare a indovinare usando queste tre variabili.
Opinione diffusa nel mercato, anche tra pesi massimi come Ray Dalio, William Bernstein, Robert Shiller e compagnia bella, oltre che da colossi come Vanguard, Blackrock, Schwab e altre società di asset management, è che nel prossimo decennio il mercato americano avrà un ritorno meno generoso del passato soprattutto per via del terzo fattore, quello legato ala crescita del rapporto tra prezzi e utili, essendo già ora a livelli storicamente molto alti.
Se teniamo buono un circa 2% di crescita del rendimento da dividendo e un 5-6% di crescita degli utili nei prossimi anni, piuttosto in linea con la media di lungo termine, abbiamo un 8% circa di rendimento medio annuo.
Da questo però bisogna togliere la componente speculativa, ossia il fatto che il rapporto prezzo utili potrebbe regredire verso la sua media storica cje è intorno a 15-20, ben più sotto dell’attuale 27.
Perché il rapporto medio tra prezzo delle azioni e utile medio per azione delle società americane torni sotto a 20, che cmq sarebbe un livello medio-alto, nel prossimo decennio dovremmo assistere ad una progressiva riduzione dei valori dei rapporti tra prezzi e utili al ritmo di circa un -3% all’anno.
Quindi 8% – 3% fa 5%.
Questo 5% è in effetti un numero ricorrente nelle stime a lungo termine che stanno girando sul rendimento nominale medio dell’S&P 500 da qui al 2034.
C’è da fidarsi?
Come sempre … boh …
Da un lato ha tutto molto senso e sulla carta non farebbe una piega, dall’altro ho letto l’altro giorno un whitepaper di Meb Faber del 2014, il CEO di Cambria e personaggio molto noto nel mondo media finanziario americano, e sulla base del price earning ratio di allora la sua stima sul rendimento dell’azionario americano per i dieci anni successivi sarebbe stato del 3,5%.
Come sappiamo bene, invece, questi ultimi 10 anni hanno riportato rendimenti enormemente superiori in maniera del tutto inattesa.
Quindi ad un certo punto i ritorni dell’azionario potrebbero regredire verso la media e quindi farci vivere magari un decennio intero di sofferenza, ma detto questo teniamo sempre in considerazione che:
– UNO: nessun investitore Italiano, teoricamente, investe 100% nell’azionario americano, ma di solito ha come minimo ha un 30-40% di azionario internazionale extra Stati Uniti, quindi così come le stime attuali dicono che gli Yankees andranno meno bene nei prossimi anni, allo stesso tempo le stime su Europa, Giappone ed Emergenti sono più favorevoli.
– DUE: ricordatevi che al di là del rendimento del mercato, il VOSTRO rendimento reale dipende da quando mettete fisicamente i soldi nel vostro portafoglio, dalla sequenza dei ritorni e così via, come avevamo detto nell’episodio 95.
Pertanto, avendo ben poco da fare per governare i rendimenti futuri, di tutto ciò me ne farei una gran bella ragione e penserei ad altro.
Prediamo un portafoglio 60/40, dove il 60 è fatto a metà di azionario americano e l’altra metà di azionario dei paesi sviluppati extra Stati Uniti.
Sulla base delle proiezioni fatte da Vanguard, per esempio, uno potrebbe stimare un 4-5% di rendimento sulla parte americana, un 7-8% su quella internazionale e un 3-4% sulla parte di bond (la stima sui bond è più alta, ma perché in media le obbligazioni americane rendono di più di quelle europee ed è quindi più facile che nel nostro portafoglio ci siano più bond in euro che in dollari).
Totale?
Facendo la media ponderata viene fuori circa un 5% di ritorno medio annuo.
Non è che sia da strapparsi i capelli dall’entusiasmo, ma 500 euro al mese investiti così dopo dieci anni sono quasi 80.000 rispetto ai 60.000 che ci avreste messo di vostro risparmio.
Certo, diventare ricchi è un’altra roba, ma avere comunque più soldi di quanti ne avresti avuti non investiti è comunque una cosa che fa bene all’umore.
Ok torniamo però al discorso del premio al rischio.
Dicevamo che il premio al rischio è la differenza tra il rendimento delle azioni rispetto a quello delle obbligazioni.
Oggi questo premio al rischio, stando alle stime sulle prospettive future, è praticamente 0, in America perlomeno.
Il primo maggio uscirà l’episodio con il consueto recap sul mese di Aprile, che salvo svolte dell’ultima settimana sarà stato pesantemente negativo, e li faremo qualche ragionamento approfondito.
Ad oggi comunque, Domenica 21 aprile 2024, l’azionario ha fatto dei bei passi indietro per un motivo fondamentale.
Sì c’è stato l’attacco telefonato dell’Iran a Israele, praticamente senza conseguenza, così come un altrettanto limitato contrattacco israeliano all’Iran e tutte queste tensioni non piacciono mai troppo al mercato.
Il motivo vero di questo Aprile negativo, però, è che per il terzo mese di fila l’inflazione americana ha rialzato la testa e quindi ormai inizia a circolare il dubbio che forse la Fed non farà nessun taglio ai tassi di interesse nel 2024, rispetto ai 7 che il mercato aveva previsto a inizio anno.
Tra l’altro sentite cosa aveva detto un tizio a Gennaio che non ne capisce un cazzo e fa pronostici a caso nel suo podcast di finanza personale
CIT. EP. 76
Va beh dai, era facile, serviva uno scenario da migliore dei mondi possibili perché ciò accadesse e il migliore dei mondi possibili, ahimè, non è mai quello in cui viviamo.
Comunque al di là delle autocelebrazioni da due soldi che anche sticazzi, dopo l’ultimo dato pubblicato a metà aprile sull’inflazione americana, al 3,5% su base annua invece del 3,4% atteso, il mercato ha iniziato un po’ a diventare meno ottimista sul breve-medio termine.
Perché?
Perché questa roba innesca una serie di fattori che in un modo o nell’altro fanno andare giù il mercato.
– Primo fattore: se la Fed non taglia i tassi, in generale questa cosa dovrebbe avere un impatto prima o poi sull’economia reale e quindi sui profitti delle società — e questa cosa è un primo motivo per cui le azioni cominciano a scendere perché il mercato inizia a scontare degli utili futuri più bassi di quanto pensato sino ad ora;
– Secondo fattore: se la Fed non taglia i tassi, salgono i rendimenti delle obbligazioni americane (e come noto vanno giù i prezzi, per la solita relazione inversa tra rendimento e prezzi dei bond).
Perché salgono?
Salgono perché i prezzi precedenti i dati sull’inflazione scontavano, ossia: anticipavano, un certo scenario in cui i tassi sarebbero andati giù.
Se invece ora si pensa che i tassi non vadano più giù, si verifica un sell-off di obbligazioni, ossia più investitori si mettono a vendere obbligazioni perché l’aspettativa ora è che i rendimenti futuri saranno più alti e quindi automaticamente i prezzi delle obbligazioni in circolazione scendono e i rendimenti salgono.
Ricordatevi sempre che, in qualche modo, i rendimenti attuali delle obbligazioni devono riflettere l’aspettativa rispetto ai rendimenti delle obbligazioni emesse in futuro in base alla stima del mercato sul futuro andamento dei tassi di interesse.
Se si pensa che i tassi andranno giù, i prezzi delle obbligazioni in circolazione salgono e i rendimenti scendono mentre se si pensa che i tassi andranno su (o che non verranno più tagliati) i prezzi scendono e i rendimenti salgono.
Se succede questa cosa è chiaro che il premio al rischio si assottiglia e quindi tutti quegli investitori che investono con logiche di breve termine, come fondi di investimento, fondi pensione, hedge fund, società di asset management e così via possono valutare di ridurre la loro esposizione azionaria e di investire in obbligazioni o altra roba.
Cioè se la prospettiva e che ci si possa portare a casa il 4,5, forse anche il 5% all’anno se non di più investendo in obbligazioni sicure a prova di bomba, capite che a molti investitori passa proprio la voglia di rischiarsela con le azioni, soprattutto se Vanguard ha ragione e i rendimenti azionari futuri saranno stiracchiati.
Tra l’altro c’era un articolo del Wall Street Journal qualche giorno fa che spiegava come i giganteschi fondi pensione Americani, una roba che in aggregato vale 4 volte il PIL dell’Italia, quest’anno dovrebbero vendere oltre 300 miliardi di azioni per reinvestirli in obbligazioni, private equity e altri asset alternativi, sempre per il motivo per cui non sembra loro più così conveniente sovrappesare le azioni nei loro portafogli rispetto ad altri asset.
300 miliardi di dollari di vendite su un mercato, come quello americano, da oltre 40.000 miliardi non è una tragedia, ma comunque il suo impatto al ribasso sui prezzi ce l’avrà.
– E poi c’è un terzo fattore che accelera l’andamento negativo del mercato, anche se qui andiamo veramente a naso perché è difficilissimo stimarne l’impatto, ed è collegato a ciò di cui ci ha parlato Nick Protasoni la volta scorsa.
Dopo lunghi mesi di torpore, l’indice della paura, il VIX, si è finalmente risvegliato, toccando livelli che non si vedevano dallo scorso Ottobre.
Se vi ricordate, Nick ci aveva raccontato che il VIX è un indice che misura l’aspettativa degli investitori sull’andamento dei prossimi 30 giorni dell’S&P 500.
Per fare questa cosa utilizza una complessa formula matematica, che però in sostanza non fa altro che una media ponderata — attenzione che la sto per dire malissimo e con qualche imprecisione — tra quante opzioni call e opzioni put vengono comprate.
Senza entrare nel tecnicismo, comunque, un’opzione come sappiamo è un contratto derivato che permette, a fronte del pagamento di un premio fisso, di avere un’esposizione sull’andamento futuro del mercato.
Se compro opzioni call scommetto che il mercato andrà su.
Se compro opzioni put scommetto che il mercato andrà giù.
Comprare una put, in particolare, equivale a comprare un’assicurazione che, pagando un certo premio, permette di ottenere un guadagno nel caso in cui il mercato vada giù.
Molti investitori istituzionali, come ad esempio gli hedge fund, se iniziano a snasare che il mercato azionario potrebbe avere un momento negativo si mettono a comprare opzioni put per proteggere i propri investimenti, perché per esempio se ho l’S&P 500 in portafoglio e questo va giù, dall’altra parte l’opzione put mi permette — teoricamente e se ho indovinato il timing, il prezzo e tutte le altre variabili — di compensare le perdite.
Se ci sono più investitori che comprano put che call, il VIX si impenna e questo vuol dire che l’aspettativa del mercato si fa più pessimistica e che si profilano nubi nere all’orizzonte. Sempre in teoria.
Questa cosa però non rimane solo un’ipotesi, ma spesso diventa una profezia che si autoavvera.
Perché se tot investitori comprano put, chi glie le vende?
Possono essere altri investitori convinti che invece il mercato andrà bene oppure, più facilmente, i market maker, che sono quei soggetti autorizzati che hanno il compito di agevolare la liquidità sul mercato facendo da controparte nelle transazioni.
Se tanti investitori comprano put, i market maker devono vendere altrettante put.
Ma il market maker non fa scommesse sul mercato.
Se vende una put sull’S&P 500 (e vendere una put equivale ad avere un’esposizione lunga verso il mercato) allo stesso tempo deve vendere anche quote del sottostante quella put, che appunto è l’S&P 500, per mantenere una posizione equilibrata nel proprio bilancio.
Chiaro?
Ripeto.
L’investitore compra la put per paura che l’S&P vada giù.
Il market maker glie la vende, ma allo stesso tempo vende anche quote dell’S&P 500 per bilanciare la sua posizione.
Il market maker non guadagna facendo scommesse sul mercato, guadagna dagli spread sulle transazioni, quindi lui ha solo l’interesse a garantire liquidità sul mercato, fare da controparte nelle transazioni e mantenere la sua posizione equilibrata.
E la stessa cosa, uguale e contraria, avviene nei confronti di quegli ETF che usano le covered call, come il famoso JEPI di JP Morgan.
Vi ricordate?
Un ETF che usa questa strategia cosa fa?
Come qualunque ETF replica il suo sottostante, sempre per esempio l’S&P 500.
Ma contemporaneamente vende opzioni call su questo sottostante per incassare i premi, dato che l’opzione call dà il diritto ma non l’obbligo di comprare il sottostante ad un prezzo prefissato in una certa data del futuro a fronte del pagamento di un premio fisso.
La furba idea markettara di questi ETF è che così facendo danno all’investitore l’impressione di guadagnare più soldi, dato che questo si vede arrivare ogni mese questi premi, ma in realtà così facendo si limitano anche le possibilità di rialzo dell’ETF, poiché ogni volta che il sottostante va su l’ETF deve vendere una parte del sottostante a chi gli aveva comprato l’opzione.
Ora se l’aspettiva è che il mercato non andrà su, questi ETF tenderanno a vendere più call, dato che vendere una call, così come comprare una put, significa assumere una posizione corta, ossia scommettere che il mercato andrà giù.
Anche qui, chi si compra le call che questi ETF vendono?
Tra gli altri, sempre i market maker.
E allo stesso modo di prima, se i market maker comprano call, il che equivale ad avere un’esposizione LUNGA verso il mercato così come quando vendono put, allora sempre per tenere il proprio bilancio equilibrato devono vendere anche qui quote del sottostante.
Insomma, per farla breve.
Se la previsione futura è che l’S&P 500 peggiorerà, ci saranno investitori che comprano put e vendono call sull’S&P 500 e di conseguenza chi è dall’altra parte di questa compravendita deve vendere parte delle proprie quote sull’S&P 500 per non avere un’esposizione squilibrata.
Tutta sta roba qua, che come avete capito ha come morale della storia il fatto che c’è più gente che vende S&P 500, porta l’S&P 500 ad andare ancora più giù.
Chiaro?
Capite che sta cosa del premio al rischio è molto importante per capire il funzionamento del mercato, perlomeno se sei un investitore professionista, molto meno se come me sei uno che investe a lungo termine, non vende mai e non cerca di prevedere un bel niente.
Però se succedono tutta una serie di cose che vanno a ridurre il premio al rischio, questa cosa diventa una dinamica fondamentale alla base dell’evoluzione futura del mercato.
Capite tutte queste cose, veniamo a quello che ho chiamato il PARADOSSO DEL PREMIO AL RISCHIO.
L’ho chiamato io così eh, non è che su Wikipedia trovate la pagina dedicata.
Questo paradosso consiste nel fatto che, diciamo così, nel lungo termine le azioni rendono più delle obbligazioni perché è possibile che le azioni non rendano più delle obbligazioni.
Non s’è capito un cazzo vero?
Allora ridico in un altro modo, attenzione.
Affinché su orizzonti lunghi le azioni rendano più delle obbligazioni è necessario ammettere la possibilità che le azioni non rendano più delle obbligazioni.
L’ho ridetta in un altro modo ma mentre mi ascoltavo non ero convinto nemmeno io della chiarezza.
Però questo è un tema secondo me fondamentale per settare bene, in maniera non ingenua, le nostre aspettative sul rendimento a lungo termine dei nostri investimenti, quindi cerchiamo di capirla.
Mettiamola così, come investitori avete due macro opzioni di fronte a voi.
Una consiste nel correre un rischio praticamente nullo e investire in obbligazioni governative (o al limite in qualche obbligazione corporate con alto rating) portandovi a casa un rendimento annuo medio del 3-4, forse 5% negli Stati Uniti.
L’altra consiste nel correre un rischio decisamente più elevato e investire in azioni, con l’obiettivo di ottenere in media un rendimento del 7-8%.
La teoria vuole che, al netto di crolli episodici, nel lungo termine le azioni rendano di più perché oltre al rendimento risk-free dei bond incorporano anche un premio per il rischio che l’investitore si assume.
Ma se questo premio al rischio deve appunto … premiare un rischio, allora questo rischio deve esistere realmente.
Cioè se non esistesse in senso assoluto il rischio derivante dal fatto di detenere azioni, se avessimo la certezza che le azioni rendano SEMPRE e SICURAMENTE di più delle obbligazioni, allora il premio al rischio non esisterebbe.
Quindi investire in azioni rende più che investire in obbligazioni perché è possibile che, in determinate circostanze, le azioni NON rendano più delle obbligazioni.
Capito il paradosso?
Ora da una parte abbiamo il conforto della storia che, perlomeno prendendo a modello il mercato azionario americano, ci dice che, preso l’ultimo secolo circa, il rendimento delle azioni ha sempre superato quelle delle obbligazioni.
Il più celebre studio sull’argomento, come ho già detto tante volte, è STOCKS FOR THE LONG RUN di Jeremy Siegel, che per motivi che non riesco a comprendere non mi pare sia tradotto in Italiano ma che se potete e avete il fegato — perché è un bel mattonazzo — vi invito caldamente a leggere.
Nell’ultima edizione aggiornata disponibile, che ha dati che arrivano sino al 2021, Siegel e il suo team hanno fatto i conti sul ritorno di Azioni, Obbligazioni, Buoni del tesoro a breve termine e oro addirittura dal 1802 sino ad oggi.
Ora, è vero che più il campione di dati è ampio, più attendibile e la statistica, ma d’altra parte non sono convintissimo che quanto è successo prima della fine della seconda guerra mondiale possa essere davvero una base di confronto con quel che accade oggi sui mercati, perché è innegabile che stiamo parlando di mondi molto diversi.
Comunque se prendiamo un secolo di dati, in particolare dal 1926 al 2021, Siegel calcola che il rendimento nominale del mercato azionario americano è stato del 10,2%, equivalente ad un 7,2% al netto dell’inflazione.
Nello stesso lasso di tempo i titoli di stato decennali Americani hanno fatto circa il 5,6% all’anno, 2,6% al netto dell’inflazione.
Qui il premio al rischio, su base storica, è stato circa del 4,6%.
Quindi investire in azioni, nel lungo termine, avrebbe dato un rendimento di 4,6 punti percentuali maggiore ogni anno in media.
Se uno sa sta roba, basta potrebbe pensare.
Le azioni si mangiano vive le obbligazioni.
Quasi investire in obbligazioni non ha senso.
E allora perché oggi abbiamo questo tema del premio al rischio così assottigliato e perché in generale abbiamo sollevato il paradosso di cui sopra?
Beh, perché la cosa non è così semplice come sembra.
E adesso voi direte: “ma cazzo ma ti stiamo ascoltando da 100 episodi quasi, oltre 50 ore della nostra vita, e ci hai sempre detto che le azioni nel lungo termine rendono più delle obbligazioni e che in qualche modo sono l’investimento più sicuro, mo cos’è sta cosa che non è sempre vero?”
Oh quando vi scaldate non le mandate mica a dire eh?
Mazza che carattere…
Comunque, calmi un attimo.
Andiamo con ordine.
Allora qualche mese fa ha fatto abbastanza rumore un paper scritto dal professor Edward Mc Quarry, della Santa Clara University, dal titolo provocatorio: “Stocks for the Long Run? Sometimes Yes, Sometimes No”.
In pratica questo tizio si è preso la briga di andare a rianalizzare tuuuuuutti i dati alla base dell’opera di Siegel, arrivando addirittura alla fine del settecento, e in pratica pare che ad una più attenta analisi storica non sia proprio vero che le azioni abbiano SEMPRE avuto un rendimento superiore alle obbligazioni.
Per farla breve, anche attingendo ad un precedente articolo sempre di McQuarry il quale a quanto pare deve avercela a morte con l’investimento in azioni perché sembra ossessionato dall’argomento, le azioni avrebbero avuto questo premio al rischio così alto rispetto alle obbligazioni solo nel periodo dalla fine della Seconda guerra mondiale al 1981, mentre invece prima della guerra e negli ultimi 40 anni la differenza di rendimento tra azioni e obbligazioni governative è meno marcata.
I dati comunque arrivano fino al 2019 e credo che una volta che tieni conto anche del tracollo dei bond del 2022 a causa del più rapido rialzo mai visto dei tassi di interesse da parte della Fed, il gap di rendimento tra azioni e bond si sia nuovamente dilatato.
Comunque, secondo McQuarry, la nota probabilità che tende al 100% che nel lungo termine le azioni sovraperformino i titoli di stato è in realtà più nell’ordine dei 68%, quindi 2 probabilità su 3.
Cioè McQuarry dice, su orizzonti di investimento intorno ai 30 anni, la probabilità di un investitore americano di ottenere un premio al rischio investendo in azioni è di circa il 68%.
Il 100% di probabilità si ottiene prendendo i dati dal 1946 ad oggi, mentre invece se si va indietro fino al 1792 la supremazia delle azioni è meno evidente.
Boh.
Questo è un professore emerito eh, mica l’ultima pirla che passa per strada.
Io però, da vero ultimo pirla, più leggo questo paper più l’idea di prendere dati su azioni e obbligazioni del diciottesimo secolo, quando ancora si pensava che la forza di gravità si propagasse attraverso una sorta di fluido magico chiamato etere, mi sembra un po’ una forzatura…
Se vogliamo la cosa interessante di McQuarry è che ancor auna volta fa emergere l’eccezionalità del mercato americano.
In pratica se togliamo gli Stati Uniti, il rendimento sia di azioni che obbligazioni nei paesi sviluppati nel mezzo secolo che va dal 1970 al 2019 tende a convergere verso un 5% di media all’anno.
Solo negli Stati Uniti si è avuto questo rendimento astronomico delle azioni che ha battuto le obbligazioni di oltre 4 punti percentuali all’anno.
Ad ogni modo ciò che emerge dallo studio di questo signore è che la sovraperformance delle azioni è tutt’altro che un fatto scontato e che tende ad essere più la conseguenza di una certa configurazione storica, anche di lunghissimo periodo, che non un dato di fatto matematicamente dimostrabile.
Ma d’altra parte il paradosso del premio al rischio è proprio questo.
Quindi giusti o sbagliati i calcoli di McQuarry, alla fine probabilmente solleva semplicemente la sacrosanta verità che le cose sono sempre andate così bene nel passato perché nessuno ha mai avuto la certezza che le cose sarebbe andate DAVVERO bene e si è rischiato i propri soldi.
Se così non fosse, se non ci fosse il rischio che investire in azioni possa produrre un rendimento inferiore a quello delle obbligazioni governative, beh non ci sarebbe nemmeno il premio.
Quindi perché le azioni possano produrre il maggior rendimento che ci aspettiamo, dobbiamo incorporare l’idea che questo maggior rendimento sia connesso ad un rischio di non realizzarsi.
Bisogna dire, in effetti, che rispetto al passato l’investimento azionario è diventato, teoricamente, molto meno rischioso — e questa cosa potrebbe ridurre anche l’aspettativa sui rendimenti futuri.
Per esempio, la Federal Reserve e la Banca Centrale qui in Europa, non sono sempre esistite.
Quella pratica per cui quando le cose vanno male la Fed e la BCE tagliano i tassi per far risalire i mercati e far ripartire l’economia non è sempre esistita.
Inoltre neanche le autorità di regolamentazione come la SEC non sono sempre esistite.
Allo stesso tempo investire in azioni non è mai stato tanto economico quanto ultimamente.
Certo, a meno che non investiate in qualche fondo comune o polizza con un TER del 2-3% all’anno.
Se ve la cavate da soli, sapete benissimo che si possono investire anche grandi cifre per pochi euro e con una semplicità estrema.
Quando non esistevano le app di trading e per investire dovevi andare in banca, compilare moduli e via dicendo, era tutt’altra faccenda.
Oggi se mi girano le palle di essere un investitore faccio tre click e un minuto dopo mi trovo tutti i miei soldi nel conto del mio broker.
Un tempo non era così.
Inoltre è ormai quasi un secolo che non c’è una guerra mondiale e, checché se ne pensi, il mondo di oggi è meno bellicoso di quel che è sempre stato in passato, oltre al fatto che tutte le più grandi economie del mondo tendono più a cooperare che a scannarsi sapendo che mercati integrati sono un bene per tutti.
Tutte queste cose rendono l’investimento azionario meno rischioso.
Se questo è percepito come meno rischioso, più investitori vi ci si buttano.
Fino ad una certa questa cosa porta le valutazioni delle azioni a salire — e quindi il mercato a crescere — ma poi arriverà il momento in cui valutazioni molto alte prospetteranno rendimenti inferiori, dato che le valutazioni non possono crescere per sempre e quindi ad un certo punto investire in azioni enormemente sopravvalutate non apparirà più conveniente.
Ma a quel punto se viene meno il premio al rischio si assiste al fenomeno inverso, con le valutazioni che vanno giù perché gli investitori preferiranno ottenere lo stesso risultato investendo in bond governativi super sicuri piuttosto che in azioni.
Finché poi, di nuovo, le basse valutazioni e una rinnovata percezione di rischiosità delle azioni potrebbero renderle nuovamente attrattive e pagare un premio al rischio interessante, invertendo ancora una volta il ciclo.
Insomma: dipende un po’ dal macrociclo economico in cui vi trovate ad investire e francamente è difficile dire dove siamo oggi.
E su questa cosa, purtroppo, non ci si può far nulla.
Quindi avere un portafoglio diversificato, sia geograficamente che tra asset class, è forse l’unica cosa dotata di senso che un investitore di lungo termine può fare.
La cosa importante, però, è non avere un approccio ingenuo e comprendere bene il motivo per cui le azioni tendono ad essere l’asset class più performante dei mercati e impostare di conseguenza il proprio portafoglio in base a obiettivi e pianificazione personale.
Le azioni hanno l’aspettativa di rendimento più alta delle obbligazioni perché questo più alto rendimento atteso potrebbero non realizzarlo.
E il rischio che non lo realizzano è esattamente il motivo per cui un premio al rischio esiste.
Se McQuarry ha ragione, abbiamo tutti 2 possibilità su 3 di portarcelo a casa.
E se siamo un po’ più sfigati, amen, un portafoglio diversificato farà il suo
Anche se un po’ di dubbi sull’utilità di dati del 1792 continuano a rimanermi.
Questo viaggio che abbiamo fatto oggi, per comprendere il fondamentale concetto di premio al rischio e la sua natura paradossale, ci serve perché nel prossimo futuro faremo alcuni episodi in cui andremo a vedere una serie di nuovi approcci di investimento che, come dire, mettono in discussione il conventional wisdom, ossia il buon senso comune secondo il quale il classico portafoglio 60/40 rappresenti l’asset allocation ideale per l’investitore medio.
Stay tuned e ne sentiremo delle belle.
Dopodiché ciascuno sarà libero di fare quel che meglio crede per il proprio portafoglio, sapendo comunque, come abbiamo detto un po’ di episodi fa, che la differenza tra il rendimento del mercato e quello che realmente ci portiamo a casa, noi investitori che mettiamo un po’ di soldi per volta nel nostro portafoglio, può essere molto significativa in negativo e in positivo.
Ma detto questo, finché nessuno metterà in discussione il fatto che investire in un portafoglio diversificato almeno tra azioni e obbligazioni porti nel lungo termine ad avere più soldi che non tenendoli sul conto in banca, di tutte ste pippe accademiche ce ne faremo una ragione.
Anzi — se posso esprimere un sentimento personale — spero sinceramente che dopo queste sberle di Aprile il mercato continui ad andare male per un po’ così la gente si caga sotto, le valutazioni scendono, la percezione del rischio aumenta e quindi investire in azioni si farà ancora più allettante, che oggi la sola idea di comprare una quota di un ETF sull’S&P 500 ai prezzi a cui è arrivato mi piange il cuore.
Bene, care amiche e cari amici di questo podcast, fine anche di questo novantanovesimo episodio.
Spero vi sia piaciuto e soprattutto che sarete di nuovo qui per festeggiare tutti assieme il centesimo appuntamento di questo podcast e per l’occasione avremo un ospite specialissimo, l’ospite che proprio non poteva mancare.
Non vi dico niente, mettetevi però un bel reminder per mercoledì 24 aprile 2024, almeno per chi ascolta più o meno in diretta il podcast, per questa imperdibile centesima puntata.
Un modo sicuro per non perderselo è mettere segui e attivare le notifiche su Spotify, Apple Podcast, o dove ci seguite e già che ci siete avrete tutta la mia stima se lascerete una recensione a 5 stelle per supportarci e permetterci di continuare a produrre contenuti che vi spiegano cose come il premio al rischio dell’investimento azionario dicendovi che c’è solo perché potrebbe non esserci sempre nuovi.
Per questo episodio è davvero tutto e noi ci rivediamo per la centesima volta in compagnia di un ospite straordinario mercoledì prossimo, sempre qui, naturalmente, con The Bull — Il tuo podcast di finanza personale.
Bentornati a THE BULL – Il tuo podcast di finanza personale
Ormai ci siamo quasi, care amiche e cari amici che mi state seguendo con un’inspiegabile passione e affetto da svariati mesi.
99° episodio oggi, l’ultimo a 2 cifre prima di raggiungere il traguardo psicologico delle 100 puntate.
E c’era chi sosteneva che dopo le prime 10 non avrei avuto altro da dire.
Eh, mai sottovalutare la capacità di impacchettare 4 nozioni di finanza personale dentro un involucro di scemenze partorite nelle ore più improbabili del giorno e della notte, quando il poco ossigeno nel cervello probabilmente agevola la produzione seriale di cazzate.
Nel prossimo episodio avremo un ospito d’eccellenza, per la prima volta qui da noi e che per il momento non vi spoliero, con la speranza che la sua presenza al culmine dei 100 appuntamenti con The Bull sia di buon auspicio ciascuno di noi riesca a fare un giorno quel che il nostro ospite è riuscito a fare tempo fa.
Stay tuned, c’è da aspettare solo fino a mercoledì prossimo.
Chi invece ascolta il podcast in ritardo, beh, basta cliccare sull’episodio successivo a questo naturalmente.
Di che parliamo invece oggi?
Oggi lo spunto viene da un veloce sguardo a quel che sta succedendo sui mercati in questo mese di Aprile decisamente negativo, ci ricolleghiamo velocemente a delle cose che ci ha spiegato Nicola Protasoni la volta scorsa — si lo so, metà di voi non ci ha capito una mazza, ma è giusto così, presto tutto sarà chiaro — dicevo vediamo in concreto delle cose che ci ha raccontato il buon Nick da Zurigo per poi fiondarci nel cuore del tema di oggi, che riguarda il cosiddetto PREMIO AL RISCHIO.
Che è il Premio al Rischio?
Ragazzi 99 episodi di The Bull e non sapete cos’è il premio al rischio?
Se è così faccio proprio cagare come divulgatore.
Allora da dove comincio? Da quello che sta succedendo sul mercato o da che cos’è il premio al rischio?
Premio al rischio dai, partiamo da qua.
Dunque, detta in parole povere, il premio al rischio è la differenza tra il rendimento delle azioni e quello delle obbligazioni, in particolare di solito delle obbligazioni governative, l’asset che per definizione viene definito risk-free, senza rischio.
Perché è importante sta cosa?
È importante perché si presuppone che gli investitori siano razionali, in teoria, e che quindi investano in base al principio del rapporto tra rischio e rendimento e che pertanto se devono investire in qualcosa di più rischioso rispetto a ciò che rischio non ne ha vogliono essere maggiormente remunerati.
Chi non risica non rosica no?
Negli Stati Uniti per definizione si usa come asset risk free di riferimento il Treasury a 10 anni, ossia i titoli di stato emessi dal governo federale con scadenza decennale.
Il Treasury americano è, fino a prova contrario, l’asset più liquido e scambiato del mondo ed è in qualche modo il benchmark per eccellenza all’interno dei mercati finanziari di tutto il mondo.
Infatti quando succede qualcosa al rendimento dei Treasury o quando qualche agenzia di rating mette in discussione la solidità del debito pubblico americano si genera subito un grosso nervosismo sui mercati.
Non è un caso del resto che molto spesso quando i rendimenti dei Treasury salgono il mercato azionario non la prende troppo bene.
Altre volte in realtà ho visto usare i T-Bills come asset di riferimento senza rischio, ossia l’equivalente americano dei nostri BOT, che sono titoli di stato a brevissimo termine, anche se probabilmente il riferimento ai Treasury, che hanno una scadenza più lunga e più in linea all’orizzonte di riferimento dell’investimento azionario, è quello più corretto per il discorso di oggi.
Ora, come si definisce il premio al rischio.
Secondo il Capital Asset Pricing Model, per gli amici CAPeM, che è il modello da manuale per stimare il premio al rischio di un investimento — o in generale per stimare quello di un intero portafoglio o di un certo mercato — questo premio è definito come: Beta moltiplicato per la differenza tra Rendimento del mercato MENO il rendimento dell’asset-risk free.
Beta l’avevamo già incontrato in passato ed è semplicemente un coefficiente che esprime la volatilità di un asset rispetto al suo mercato di riferimento ed in qualche modo il misuratore del rischio sistemico di quell’asset.
Se beta è maggiore di 1 allora quell’asset avrà una volatilità superiore al suo mercato di riferimento — e quindi crescerà di più quando il mercato cresce e scenderà di più quando il mercato scende — mentre beta inferiore a 1 significa esattamente il contrario.
Se Beta è uguale a 1 stiamo parlando del mercato in generale, quindi quando stimiamo il premio al rischio per esempio dell’S&P 500, questo è dato semplicemente dalla differenza tra il rendimento atteso dell’S&P 500 e il rendimento del treasury americano a 10 anni.
Fin qui tutto facile.
Rendimento atteso del mercato azionario MENO rendimento dei bond governativi = PREMIO AL RISCHIO, ossia quanto più sarò remunerato dal mercato per rischiare i mei sudati denari investendoli in azioni invece che in obbligazioni.
Come si stima però il rendimento atteso?
Eh bella domanda!
La matematica finanziaria è bellissima perché è piena di formule dappertutto e se non sai fare le equazioni differenziali non ci capisci niente.
Il problema è che da qualche parte, in ogni singola equazione magica della finanza, c’è sempre un numerino, una piccola variabilina il cui valore è una stima.
Quindi tu metti su tutto un armamentario matematico della madonna per calcolare qualunque cosa, ma poi sta roba serve come il due di picche a briscola perché tutto si basa su una stima che viene fatta … come dire … un po’ così … a sensazione…
In questo caso in particolare il problema del rendimento atteso è … che è ATTESO.
Quindi possiamo fare tutte le stime di questa terra, ma poi lo sappiamo che il mercato è imprevedibile e che per quanto siamo bravi a stimare quel che accadrà nel futuro, poi tutto e il contrario di tutto può sempre succedere.
Comunque ammettiamo che il mercato abbia un comportamento in qualche modo coerente e che i dati del passato siano una base attendibile per stimare il futuro, il rendimento atteso si può calcolare in vari modi ma sempre più o meno tenendo in considerazione la media storica di quel mercato.
Ad esempio un metodo consiste nell’utilizzare l’inverso del rapporto tra prezzi e utili che è, appunto, il rapporto tra utili medi e prezzi medi delle azioni di un indice.
Il rapporto tra Utili degli ultimi 12 mesi e i Prezzi, chiamato Earning Yield, esprime appunto in qualche modo il rendimento atteso dell’indice.
Quando questo rendimento è inferiore al rendimento dei Treasury, allora il premio al rischio stimato diventa negativo e quindi il mercato potrebbe essere considerato sopravvalutato.
Nel momento in cui stiamo parlando, per esempio, l’S&P 500 ha un earning yield inferiore a 4, mentre il rendimento dei Treasury è oltre il 4,5%.
Non è però un indicatore perfettamente affidabile, tanto per cambiare, ma esattamente come il più famoso price/earning ratio, semplicemente dice che tanto più i prezzi delle azioni sono alti tanto meno sarà il rendimento atteso futuro di quel mercato.
Qualche episodio fa avevamo invece ricordato la formula di John Bogle sul rendimento atteso, secondo la quale questo deriva dalla somma tra:
– Rendimento medio da dividendo delle azioni di quel mercato
– Tasso di crescita degli Utili e
– Variazione percentuale del rapporto tra prezzi e utili.
Formuletta che storicamente ha funzionato abbastanza bene.
Per esempio nel decennio 2010-2019 l’S&P 500 ha avuto in media una crescita annua del 2,2% di dividend yield, del 9,2% degli utili e dell’1,4% del rapporto tra prezzi e utili, realizzando in totale un astronomico 12,9% di ritorno medio annuo.
Nel disastroso decennio perduto 2000-2009, invece, l’S&P ha registrato una crescita dell’1,2% di dividend yield, dello 0,8% degli utili e una decrescita del 3,2% del rapporto tra prezzi e utili, motivo per cui il ritorno medio annuo è stato un -1,2% per tutto il decennio.
Se quindi vogliamo stimare il rendimento futuro dell’S&P 500 (o del mercato globale in generale), possiamo tirare a indovinare usando queste tre variabili.
Opinione diffusa nel mercato, anche tra pesi massimi come Ray Dalio, William Bernstein, Robert Shiller e compagnia bella, oltre che da colossi come Vanguard, Blackrock, Schwab e altre società di asset management, è che nel prossimo decennio il mercato americano avrà un ritorno meno generoso del passato soprattutto per via del terzo fattore, quello legato ala crescita del rapporto tra prezzi e utili, essendo già ora a livelli storicamente molto alti.
Se teniamo buono un circa 2% di crescita del rendimento da dividendo e un 5-6% di crescita degli utili nei prossimi anni, piuttosto in linea con la media di lungo termine, abbiamo un 8% circa di rendimento medio annuo.
Da questo però bisogna togliere la componente speculativa, ossia il fatto che il rapporto prezzo utili potrebbe regredire verso la sua media storica cje è intorno a 15-20, ben più sotto dell’attuale 27.
Perché il rapporto medio tra prezzo delle azioni e utile medio per azione delle società americane torni sotto a 20, che cmq sarebbe un livello medio-alto, nel prossimo decennio dovremmo assistere ad una progressiva riduzione dei valori dei rapporti tra prezzi e utili al ritmo di circa un -3% all’anno.
Quindi 8% – 3% fa 5%.
Questo 5% è in effetti un numero ricorrente nelle stime a lungo termine che stanno girando sul rendimento nominale medio dell’S&P 500 da qui al 2034.
C’è da fidarsi?
Come sempre … boh …
Da un lato ha tutto molto senso e sulla carta non farebbe una piega, dall’altro ho letto l’altro giorno un whitepaper di Meb Faber del 2014, il CEO di Cambria e personaggio molto noto nel mondo media finanziario americano, e sulla base del price earning ratio di allora la sua stima sul rendimento dell’azionario americano per i dieci anni successivi sarebbe stato del 3,5%.
Come sappiamo bene, invece, questi ultimi 10 anni hanno riportato rendimenti enormemente superiori in maniera del tutto inattesa.
Quindi ad un certo punto i ritorni dell’azionario potrebbero regredire verso la media e quindi farci vivere magari un decennio intero di sofferenza, ma detto questo teniamo sempre in considerazione che:
– UNO: nessun investitore Italiano, teoricamente, investe 100% nell’azionario americano, ma di solito ha come minimo ha un 30-40% di azionario internazionale extra Stati Uniti, quindi così come le stime attuali dicono che gli Yankees andranno meno bene nei prossimi anni, allo stesso tempo le stime su Europa, Giappone ed Emergenti sono più favorevoli.
– DUE: ricordatevi che al di là del rendimento del mercato, il VOSTRO rendimento reale dipende da quando mettete fisicamente i soldi nel vostro portafoglio, dalla sequenza dei ritorni e così via, come avevamo detto nell’episodio 95.
Pertanto, avendo ben poco da fare per governare i rendimenti futuri, di tutto ciò me ne farei una gran bella ragione e penserei ad altro.
Prediamo un portafoglio 60/40, dove il 60 è fatto a metà di azionario americano e l’altra metà di azionario dei paesi sviluppati extra Stati Uniti.
Sulla base delle proiezioni fatte da Vanguard, per esempio, uno potrebbe stimare un 4-5% di rendimento sulla parte americana, un 7-8% su quella internazionale e un 3-4% sulla parte di bond (la stima sui bond è più alta, ma perché in media le obbligazioni americane rendono di più di quelle europee ed è quindi più facile che nel nostro portafoglio ci siano più bond in euro che in dollari).
Totale?
Facendo la media ponderata viene fuori circa un 5% di ritorno medio annuo.
Non è che sia da strapparsi i capelli dall’entusiasmo, ma 500 euro al mese investiti così dopo dieci anni sono quasi 80.000 rispetto ai 60.000 che ci avreste messo di vostro risparmio.
Certo, diventare ricchi è un’altra roba, ma avere comunque più soldi di quanti ne avresti avuti non investiti è comunque una cosa che fa bene all’umore.
Ok torniamo però al discorso del premio al rischio.
Dicevamo che il premio al rischio è la differenza tra il rendimento delle azioni rispetto a quello delle obbligazioni.
Oggi questo premio al rischio, stando alle stime sulle prospettive future, è praticamente 0, in America perlomeno.
Il primo maggio uscirà l’episodio con il consueto recap sul mese di Aprile, che salvo svolte dell’ultima settimana sarà stato pesantemente negativo, e li faremo qualche ragionamento approfondito.
Ad oggi comunque, Domenica 21 aprile 2024, l’azionario ha fatto dei bei passi indietro per un motivo fondamentale.
Sì c’è stato l’attacco telefonato dell’Iran a Israele, praticamente senza conseguenza, così come un altrettanto limitato contrattacco israeliano all’Iran e tutte queste tensioni non piacciono mai troppo al mercato.
Il motivo vero di questo Aprile negativo, però, è che per il terzo mese di fila l’inflazione americana ha rialzato la testa e quindi ormai inizia a circolare il dubbio che forse la Fed non farà nessun taglio ai tassi di interesse nel 2024, rispetto ai 7 che il mercato aveva previsto a inizio anno.
Tra l’altro sentite cosa aveva detto un tizio a Gennaio che non ne capisce un cazzo e fa pronostici a caso nel suo podcast di finanza personale
CIT. EP. 76
Va beh dai, era facile, serviva uno scenario da migliore dei mondi possibili perché ciò accadesse e il migliore dei mondi possibili, ahimè, non è mai quello in cui viviamo.
Comunque al di là delle autocelebrazioni da due soldi che anche sticazzi, dopo l’ultimo dato pubblicato a metà aprile sull’inflazione americana, al 3,5% su base annua invece del 3,4% atteso, il mercato ha iniziato un po’ a diventare meno ottimista sul breve-medio termine.
Perché?
Perché questa roba innesca una serie di fattori che in un modo o nell’altro fanno andare giù il mercato.
– Primo fattore: se la Fed non taglia i tassi, in generale questa cosa dovrebbe avere un impatto prima o poi sull’economia reale e quindi sui profitti delle società — e questa cosa è un primo motivo per cui le azioni cominciano a scendere perché il mercato inizia a scontare degli utili futuri più bassi di quanto pensato sino ad ora;
– Secondo fattore: se la Fed non taglia i tassi, salgono i rendimenti delle obbligazioni americane (e come noto vanno giù i prezzi, per la solita relazione inversa tra rendimento e prezzi dei bond).
Perché salgono?
Salgono perché i prezzi precedenti i dati sull’inflazione scontavano, ossia: anticipavano, un certo scenario in cui i tassi sarebbero andati giù.
Se invece ora si pensa che i tassi non vadano più giù, si verifica un sell-off di obbligazioni, ossia più investitori si mettono a vendere obbligazioni perché l’aspettativa ora è che i rendimenti futuri saranno più alti e quindi automaticamente i prezzi delle obbligazioni in circolazione scendono e i rendimenti salgono.
Ricordatevi sempre che, in qualche modo, i rendimenti attuali delle obbligazioni devono riflettere l’aspettativa rispetto ai rendimenti delle obbligazioni emesse in futuro in base alla stima del mercato sul futuro andamento dei tassi di interesse.
Se si pensa che i tassi andranno giù, i prezzi delle obbligazioni in circolazione salgono e i rendimenti scendono mentre se si pensa che i tassi andranno su (o che non verranno più tagliati) i prezzi scendono e i rendimenti salgono.
Se succede questa cosa è chiaro che il premio al rischio si assottiglia e quindi tutti quegli investitori che investono con logiche di breve termine, come fondi di investimento, fondi pensione, hedge fund, società di asset management e così via possono valutare di ridurre la loro esposizione azionaria e di investire in obbligazioni o altra roba.
Cioè se la prospettiva e che ci si possa portare a casa il 4,5, forse anche il 5% all’anno se non di più investendo in obbligazioni sicure a prova di bomba, capite che a molti investitori passa proprio la voglia di rischiarsela con le azioni, soprattutto se Vanguard ha ragione e i rendimenti azionari futuri saranno stiracchiati.
Tra l’altro c’era un articolo del Wall Street Journal qualche giorno fa che spiegava come i giganteschi fondi pensione Americani, una roba che in aggregato vale 4 volte il PIL dell’Italia, quest’anno dovrebbero vendere oltre 300 miliardi di azioni per reinvestirli in obbligazioni, private equity e altri asset alternativi, sempre per il motivo per cui non sembra loro più così conveniente sovrappesare le azioni nei loro portafogli rispetto ad altri asset.
300 miliardi di dollari di vendite su un mercato, come quello americano, da oltre 40.000 miliardi non è una tragedia, ma comunque il suo impatto al ribasso sui prezzi ce l’avrà.
– E poi c’è un terzo fattore che accelera l’andamento negativo del mercato, anche se qui andiamo veramente a naso perché è difficilissimo stimarne l’impatto, ed è collegato a ciò di cui ci ha parlato Nick Protasoni la volta scorsa.
Dopo lunghi mesi di torpore, l’indice della paura, il VIX, si è finalmente risvegliato, toccando livelli che non si vedevano dallo scorso Ottobre.
Se vi ricordate, Nick ci aveva raccontato che il VIX è un indice che misura l’aspettativa degli investitori sull’andamento dei prossimi 30 giorni dell’S&P 500.
Per fare questa cosa utilizza una complessa formula matematica, che però in sostanza non fa altro che una media ponderata — attenzione che la sto per dire malissimo e con qualche imprecisione — tra quante opzioni call e opzioni put vengono comprate.
Senza entrare nel tecnicismo, comunque, un’opzione come sappiamo è un contratto derivato che permette, a fronte del pagamento di un premio fisso, di avere un’esposizione sull’andamento futuro del mercato.
Se compro opzioni call scommetto che il mercato andrà su.
Se compro opzioni put scommetto che il mercato andrà giù.
Comprare una put, in particolare, equivale a comprare un’assicurazione che, pagando un certo premio, permette di ottenere un guadagno nel caso in cui il mercato vada giù.
Molti investitori istituzionali, come ad esempio gli hedge fund, se iniziano a snasare che il mercato azionario potrebbe avere un momento negativo si mettono a comprare opzioni put per proteggere i propri investimenti, perché per esempio se ho l’S&P 500 in portafoglio e questo va giù, dall’altra parte l’opzione put mi permette — teoricamente e se ho indovinato il timing, il prezzo e tutte le altre variabili — di compensare le perdite.
Se ci sono più investitori che comprano put che call, il VIX si impenna e questo vuol dire che l’aspettativa del mercato si fa più pessimistica e che si profilano nubi nere all’orizzonte. Sempre in teoria.
Questa cosa però non rimane solo un’ipotesi, ma spesso diventa una profezia che si autoavvera.
Perché se tot investitori comprano put, chi glie le vende?
Possono essere altri investitori convinti che invece il mercato andrà bene oppure, più facilmente, i market maker, che sono quei soggetti autorizzati che hanno il compito di agevolare la liquidità sul mercato facendo da controparte nelle transazioni.
Se tanti investitori comprano put, i market maker devono vendere altrettante put.
Ma il market maker non fa scommesse sul mercato.
Se vende una put sull’S&P 500 (e vendere una put equivale ad avere un’esposizione lunga verso il mercato) allo stesso tempo deve vendere anche quote del sottostante quella put, che appunto è l’S&P 500, per mantenere una posizione equilibrata nel proprio bilancio.
Chiaro?
Ripeto.
L’investitore compra la put per paura che l’S&P vada giù.
Il market maker glie la vende, ma allo stesso tempo vende anche quote dell’S&P 500 per bilanciare la sua posizione.
Il market maker non guadagna facendo scommesse sul mercato, guadagna dagli spread sulle transazioni, quindi lui ha solo l’interesse a garantire liquidità sul mercato, fare da controparte nelle transazioni e mantenere la sua posizione equilibrata.
E la stessa cosa, uguale e contraria, avviene nei confronti di quegli ETF che usano le covered call, come il famoso JEPI di JP Morgan.
Vi ricordate?
Un ETF che usa questa strategia cosa fa?
Come qualunque ETF replica il suo sottostante, sempre per esempio l’S&P 500.
Ma contemporaneamente vende opzioni call su questo sottostante per incassare i premi, dato che l’opzione call dà il diritto ma non l’obbligo di comprare il sottostante ad un prezzo prefissato in una certa data del futuro a fronte del pagamento di un premio fisso.
La furba idea markettara di questi ETF è che così facendo danno all’investitore l’impressione di guadagnare più soldi, dato che questo si vede arrivare ogni mese questi premi, ma in realtà così facendo si limitano anche le possibilità di rialzo dell’ETF, poiché ogni volta che il sottostante va su l’ETF deve vendere una parte del sottostante a chi gli aveva comprato l’opzione.
Ora se l’aspettiva è che il mercato non andrà su, questi ETF tenderanno a vendere più call, dato che vendere una call, così come comprare una put, significa assumere una posizione corta, ossia scommettere che il mercato andrà giù.
Anche qui, chi si compra le call che questi ETF vendono?
Tra gli altri, sempre i market maker.
E allo stesso modo di prima, se i market maker comprano call, il che equivale ad avere un’esposizione LUNGA verso il mercato così come quando vendono put, allora sempre per tenere il proprio bilancio equilibrato devono vendere anche qui quote del sottostante.
Insomma, per farla breve.
Se la previsione futura è che l’S&P 500 peggiorerà, ci saranno investitori che comprano put e vendono call sull’S&P 500 e di conseguenza chi è dall’altra parte di questa compravendita deve vendere parte delle proprie quote sull’S&P 500 per non avere un’esposizione squilibrata.
Tutta sta roba qua, che come avete capito ha come morale della storia il fatto che c’è più gente che vende S&P 500, porta l’S&P 500 ad andare ancora più giù.
Chiaro?
Capite che sta cosa del premio al rischio è molto importante per capire il funzionamento del mercato, perlomeno se sei un investitore professionista, molto meno se come me sei uno che investe a lungo termine, non vende mai e non cerca di prevedere un bel niente.
Però se succedono tutta una serie di cose che vanno a ridurre il premio al rischio, questa cosa diventa una dinamica fondamentale alla base dell’evoluzione futura del mercato.
Capite tutte queste cose, veniamo a quello che ho chiamato il PARADOSSO DEL PREMIO AL RISCHIO.
L’ho chiamato io così eh, non è che su Wikipedia trovate la pagina dedicata.
Questo paradosso consiste nel fatto che, diciamo così, nel lungo termine le azioni rendono più delle obbligazioni perché è possibile che le azioni non rendano più delle obbligazioni.
Non s’è capito un cazzo vero?
Allora ridico in un altro modo, attenzione.
Affinché su orizzonti lunghi le azioni rendano più delle obbligazioni è necessario ammettere la possibilità che le azioni non rendano più delle obbligazioni.
L’ho ridetta in un altro modo ma mentre mi ascoltavo non ero convinto nemmeno io della chiarezza.
Però questo è un tema secondo me fondamentale per settare bene, in maniera non ingenua, le nostre aspettative sul rendimento a lungo termine dei nostri investimenti, quindi cerchiamo di capirla.
Mettiamola così, come investitori avete due macro opzioni di fronte a voi.
Una consiste nel correre un rischio praticamente nullo e investire in obbligazioni governative (o al limite in qualche obbligazione corporate con alto rating) portandovi a casa un rendimento annuo medio del 3-4, forse 5% negli Stati Uniti.
L’altra consiste nel correre un rischio decisamente più elevato e investire in azioni, con l’obiettivo di ottenere in media un rendimento del 7-8%.
La teoria vuole che, al netto di crolli episodici, nel lungo termine le azioni rendano di più perché oltre al rendimento risk-free dei bond incorporano anche un premio per il rischio che l’investitore si assume.
Ma se questo premio al rischio deve appunto … premiare un rischio, allora questo rischio deve esistere realmente.
Cioè se non esistesse in senso assoluto il rischio derivante dal fatto di detenere azioni, se avessimo la certezza che le azioni rendano SEMPRE e SICURAMENTE di più delle obbligazioni, allora il premio al rischio non esisterebbe.
Quindi investire in azioni rende più che investire in obbligazioni perché è possibile che, in determinate circostanze, le azioni NON rendano più delle obbligazioni.
Capito il paradosso?
Ora da una parte abbiamo il conforto della storia che, perlomeno prendendo a modello il mercato azionario americano, ci dice che, preso l’ultimo secolo circa, il rendimento delle azioni ha sempre superato quelle delle obbligazioni.
Il più celebre studio sull’argomento, come ho già detto tante volte, è STOCKS FOR THE LONG RUN di Jeremy Siegel, che per motivi che non riesco a comprendere non mi pare sia tradotto in Italiano ma che se potete e avete il fegato — perché è un bel mattonazzo — vi invito caldamente a leggere.
Nell’ultima edizione aggiornata disponibile, che ha dati che arrivano sino al 2021, Siegel e il suo team hanno fatto i conti sul ritorno di Azioni, Obbligazioni, Buoni del tesoro a breve termine e oro addirittura dal 1802 sino ad oggi.
Ora, è vero che più il campione di dati è ampio, più attendibile e la statistica, ma d’altra parte non sono convintissimo che quanto è successo prima della fine della seconda guerra mondiale possa essere davvero una base di confronto con quel che accade oggi sui mercati, perché è innegabile che stiamo parlando di mondi molto diversi.
Comunque se prendiamo un secolo di dati, in particolare dal 1926 al 2021, Siegel calcola che il rendimento nominale del mercato azionario americano è stato del 10,2%, equivalente ad un 7,2% al netto dell’inflazione.
Nello stesso lasso di tempo i titoli di stato decennali Americani hanno fatto circa il 5,6% all’anno, 2,6% al netto dell’inflazione.
Qui il premio al rischio, su base storica, è stato circa del 4,6%.
Quindi investire in azioni, nel lungo termine, avrebbe dato un rendimento di 4,6 punti percentuali maggiore ogni anno in media.
Se uno sa sta roba, basta potrebbe pensare.
Le azioni si mangiano vive le obbligazioni.
Quasi investire in obbligazioni non ha senso.
E allora perché oggi abbiamo questo tema del premio al rischio così assottigliato e perché in generale abbiamo sollevato il paradosso di cui sopra?
Beh, perché la cosa non è così semplice come sembra.
E adesso voi direte: “ma cazzo ma ti stiamo ascoltando da 100 episodi quasi, oltre 50 ore della nostra vita, e ci hai sempre detto che le azioni nel lungo termine rendono più delle obbligazioni e che in qualche modo sono l’investimento più sicuro, mo cos’è sta cosa che non è sempre vero?”
Oh quando vi scaldate non le mandate mica a dire eh?
Mazza che carattere…
Comunque, calmi un attimo.
Andiamo con ordine.
Allora qualche mese fa ha fatto abbastanza rumore un paper scritto dal professor Edward Mc Quarry, della Santa Clara University, dal titolo provocatorio: “Stocks for the Long Run? Sometimes Yes, Sometimes No”.
In pratica questo tizio si è preso la briga di andare a rianalizzare tuuuuuutti i dati alla base dell’opera di Siegel, arrivando addirittura alla fine del settecento, e in pratica pare che ad una più attenta analisi storica non sia proprio vero che le azioni abbiano SEMPRE avuto un rendimento superiore alle obbligazioni.
Per farla breve, anche attingendo ad un precedente articolo sempre di McQuarry il quale a quanto pare deve avercela a morte con l’investimento in azioni perché sembra ossessionato dall’argomento, le azioni avrebbero avuto questo premio al rischio così alto rispetto alle obbligazioni solo nel periodo dalla fine della Seconda guerra mondiale al 1981, mentre invece prima della guerra e negli ultimi 40 anni la differenza di rendimento tra azioni e obbligazioni governative è meno marcata.
I dati comunque arrivano fino al 2019 e credo che una volta che tieni conto anche del tracollo dei bond del 2022 a causa del più rapido rialzo mai visto dei tassi di interesse da parte della Fed, il gap di rendimento tra azioni e bond si sia nuovamente dilatato.
Comunque, secondo McQuarry, la nota probabilità che tende al 100% che nel lungo termine le azioni sovraperformino i titoli di stato è in realtà più nell’ordine dei 68%, quindi 2 probabilità su 3.
Cioè McQuarry dice, su orizzonti di investimento intorno ai 30 anni, la probabilità di un investitore americano di ottenere un premio al rischio investendo in azioni è di circa il 68%.
Il 100% di probabilità si ottiene prendendo i dati dal 1946 ad oggi, mentre invece se si va indietro fino al 1792 la supremazia delle azioni è meno evidente.
Boh.
Questo è un professore emerito eh, mica l’ultima pirla che passa per strada.
Io però, da vero ultimo pirla, più leggo questo paper più l’idea di prendere dati su azioni e obbligazioni del diciottesimo secolo, quando ancora si pensava che la forza di gravità si propagasse attraverso una sorta di fluido magico chiamato etere, mi sembra un po’ una forzatura…
Se vogliamo la cosa interessante di McQuarry è che ancor auna volta fa emergere l’eccezionalità del mercato americano.
In pratica se togliamo gli Stati Uniti, il rendimento sia di azioni che obbligazioni nei paesi sviluppati nel mezzo secolo che va dal 1970 al 2019 tende a convergere verso un 5% di media all’anno.
Solo negli Stati Uniti si è avuto questo rendimento astronomico delle azioni che ha battuto le obbligazioni di oltre 4 punti percentuali all’anno.
Ad ogni modo ciò che emerge dallo studio di questo signore è che la sovraperformance delle azioni è tutt’altro che un fatto scontato e che tende ad essere più la conseguenza di una certa configurazione storica, anche di lunghissimo periodo, che non un dato di fatto matematicamente dimostrabile.
Ma d’altra parte il paradosso del premio al rischio è proprio questo.
Quindi giusti o sbagliati i calcoli di McQuarry, alla fine probabilmente solleva semplicemente la sacrosanta verità che le cose sono sempre andate così bene nel passato perché nessuno ha mai avuto la certezza che le cose sarebbe andate DAVVERO bene e si è rischiato i propri soldi.
Se così non fosse, se non ci fosse il rischio che investire in azioni possa produrre un rendimento inferiore a quello delle obbligazioni governative, beh non ci sarebbe nemmeno il premio.
Quindi perché le azioni possano produrre il maggior rendimento che ci aspettiamo, dobbiamo incorporare l’idea che questo maggior rendimento sia connesso ad un rischio di non realizzarsi.
Bisogna dire, in effetti, che rispetto al passato l’investimento azionario è diventato, teoricamente, molto meno rischioso — e questa cosa potrebbe ridurre anche l’aspettativa sui rendimenti futuri.
Per esempio, la Federal Reserve e la Banca Centrale qui in Europa, non sono sempre esistite.
Quella pratica per cui quando le cose vanno male la Fed e la BCE tagliano i tassi per far risalire i mercati e far ripartire l’economia non è sempre esistita.
Inoltre neanche le autorità di regolamentazione come la SEC non sono sempre esistite.
Allo stesso tempo investire in azioni non è mai stato tanto economico quanto ultimamente.
Certo, a meno che non investiate in qualche fondo comune o polizza con un TER del 2-3% all’anno.
Se ve la cavate da soli, sapete benissimo che si possono investire anche grandi cifre per pochi euro e con una semplicità estrema.
Quando non esistevano le app di trading e per investire dovevi andare in banca, compilare moduli e via dicendo, era tutt’altra faccenda.
Oggi se mi girano le palle di essere un investitore faccio tre click e un minuto dopo mi trovo tutti i miei soldi nel conto del mio broker.
Un tempo non era così.
Inoltre è ormai quasi un secolo che non c’è una guerra mondiale e, checché se ne pensi, il mondo di oggi è meno bellicoso di quel che è sempre stato in passato, oltre al fatto che tutte le più grandi economie del mondo tendono più a cooperare che a scannarsi sapendo che mercati integrati sono un bene per tutti.
Tutte queste cose rendono l’investimento azionario meno rischioso.
Se questo è percepito come meno rischioso, più investitori vi ci si buttano.
Fino ad una certa questa cosa porta le valutazioni delle azioni a salire — e quindi il mercato a crescere — ma poi arriverà il momento in cui valutazioni molto alte prospetteranno rendimenti inferiori, dato che le valutazioni non possono crescere per sempre e quindi ad un certo punto investire in azioni enormemente sopravvalutate non apparirà più conveniente.
Ma a quel punto se viene meno il premio al rischio si assiste al fenomeno inverso, con le valutazioni che vanno giù perché gli investitori preferiranno ottenere lo stesso risultato investendo in bond governativi super sicuri piuttosto che in azioni.
Finché poi, di nuovo, le basse valutazioni e una rinnovata percezione di rischiosità delle azioni potrebbero renderle nuovamente attrattive e pagare un premio al rischio interessante, invertendo ancora una volta il ciclo.
Insomma: dipende un po’ dal macrociclo economico in cui vi trovate ad investire e francamente è difficile dire dove siamo oggi.
E su questa cosa, purtroppo, non ci si può far nulla.
Quindi avere un portafoglio diversificato, sia geograficamente che tra asset class, è forse l’unica cosa dotata di senso che un investitore di lungo termine può fare.
La cosa importante, però, è non avere un approccio ingenuo e comprendere bene il motivo per cui le azioni tendono ad essere l’asset class più performante dei mercati e impostare di conseguenza il proprio portafoglio in base a obiettivi e pianificazione personale.
Le azioni hanno l’aspettativa di rendimento più alta delle obbligazioni perché questo più alto rendimento atteso potrebbero non realizzarlo.
E il rischio che non lo realizzano è esattamente il motivo per cui un premio al rischio esiste.
Se McQuarry ha ragione, abbiamo tutti 2 possibilità su 3 di portarcelo a casa.
E se siamo un po’ più sfigati, amen, un portafoglio diversificato farà il suo
Anche se un po’ di dubbi sull’utilità di dati del 1792 continuano a rimanermi.
Questo viaggio che abbiamo fatto oggi, per comprendere il fondamentale concetto di premio al rischio e la sua natura paradossale, ci serve perché nel prossimo futuro faremo alcuni episodi in cui andremo a vedere una serie di nuovi approcci di investimento che, come dire, mettono in discussione il conventional wisdom, ossia il buon senso comune secondo il quale il classico portafoglio 60/40 rappresenti l’asset allocation ideale per l’investitore medio.
Stay tuned e ne sentiremo delle belle.
Dopodiché ciascuno sarà libero di fare quel che meglio crede per il proprio portafoglio, sapendo comunque, come abbiamo detto un po’ di episodi fa, che la differenza tra il rendimento del mercato e quello che realmente ci portiamo a casa, noi investitori che mettiamo un po’ di soldi per volta nel nostro portafoglio, può essere molto significativa in negativo e in positivo.
Ma detto questo, finché nessuno metterà in discussione il fatto che investire in un portafoglio diversificato almeno tra azioni e obbligazioni porti nel lungo termine ad avere più soldi che non tenendoli sul conto in banca, di tutte ste pippe accademiche ce ne faremo una ragione.
Anzi — se posso esprimere un sentimento personale — spero sinceramente che dopo queste sberle di Aprile il mercato continui ad andare male per un po’ così la gente si caga sotto, le valutazioni scendono, la percezione del rischio aumenta e quindi investire in azioni si farà ancora più allettante, che oggi la sola idea di comprare una quota di un ETF sull’S&P 500 ai prezzi a cui è arrivato mi piange il cuore.
Bene, care amiche e cari amici di questo podcast, fine anche di questo novantanovesimo episodio.
Spero vi sia piaciuto e soprattutto che sarete di nuovo qui per festeggiare tutti assieme il centesimo appuntamento di questo podcast e per l’occasione avremo un ospite specialissimo, l’ospite che proprio non poteva mancare.
Non vi dico niente, mettetevi però un bel reminder per mercoledì 24 aprile 2024, almeno per chi ascolta più o meno in diretta il podcast, per questa imperdibile centesima puntata.
Un modo sicuro per non perderselo è mettere segui e attivare le notifiche su Spotify, Apple Podcast, o dove ci seguite e già che ci siete avrete tutta la mia stima se lascerete una recensione a 5 stelle per supportarci e permetterci di continuare a produrre contenuti che vi spiegano cose come il premio al rischio dell’investimento azionario dicendovi che c’è solo perché potrebbe non esserci sempre nuovi.
Per questo episodio è davvero tutto e noi ci rivediamo per la centesima volta in compagnia di un ospite straordinario mercoledì prossimo, sempre qui, naturalmente, con The Bull — Il tuo podcast di finanza personale.
Recensioni
Quando capisci come funziona la finanza… ti viene voglia di raccontarla!
Dovrebbero ascoltarlo buona parte degli italiani e io avrei dovuto scoprirlo con qualche anno in anticipo ma meglio tardi che mai
Matteo C., 3 Set 2025Riccardo mi ha letteralmente cambiato la vita e fatto scoprire che amo la finanza, ho ascoltato il podcast già due volte e non mi stufo mai di ascoltarlo, parla in modo semplice e chiaro
Massimo D., 23 Set 2025Podcast che dà sempre spunti interessanti che personalmente mi ha fatto appassionare alla finanza personale spingendomi ad approfondire in prima persona.
Lorenzo, 13 Mar 2025Non sono solito a mettere recensioni e specialmente non ascolto podcast, ma da quando ho iniziato questo, faccio fatica a staccarmi, e quasi non posso più fare a meno di ascoltare e arricchirmi culturalmente.
Andrea V., 22 Set 2025Veramente interessante, chiaro e conciso. Cambia la vita finanziaria di chiunque.. da ascoltare assolutamente anche per chi di finanza non vuole occuparsi mai
Francesca B., 6 Apr 2024La mia ignoranza in materia mi ha sempre creato dei dubbi, ma grazie a un amico ho iniziato ad ascoltare il podcast. Per fortuna che ho 24 anni e un po' di tempo e soldi da dedicarmi a imparare le varie nozioni per me stesso. Grazie mille!
Luca G. 10 Ott 2025Ho acquistato e letto il suo libro e l' ho trovato. Esprime i concetti economici in modo semplice e chiaro. Sentirlo parlare conferma che è un professionista del settore.
Giulia N., 11 Ago 2025Da quando l'ho scoperto in 15 gg mi sono ascoltato 150 puntate senza fermarmi, ho annullato gli altri podcast per portarmi alla pari ed ascoltare tutte le precedenti puntate, ben fatto, esattamente il livello di informazione che mi serviva
Gianluca G., 11 Set 2025Veramente veramente raccomandato! la finanza personale riassunta alla perfezione! e spiegata partendo dall'ABC! Ottimo anche da ascoltare a velocita 1,5x!
Giorgia R., 23 Gen 2025