Il “NON eccezionalismo” degli Stati Uniti: verso la fine di una corsa epica?
Negli ultimi 15 anni investire nel mercato azionario americano sarebbe stata la migliore decisione di investimento possibile. I numeri, però, indicano che le condizioni che hanno permesso questo dominio non sembra possano ripetersi facilmente in futuro. Fine della corsa o ancora una volta l'S&P 500 metterà tutti gli altri dietro?

Risorse
Punti Chiave
Sovraperformance S&P 500 dovuta a espansione multipli, non solo crescita.
Estrapolare rendimenti passati è rischioso.
Approccio prospettico indica rendimenti attesi inferiori per azionario USA vs ex-US.
Politiche e costi AI creano incertezze per il futuro del mercato USA.
Trascrizione Episodio
Bentornati a The Bull — Il tuo podcast di finanza personale.
Premessa: chi vi parla è cresciuto con il mito degli Stati Uniti e non è particolarmente originale nel ritenere gli Stati Uniti la più grande nazione del mondo sotto svariati punti di vista.
– È la più grande democrazia del mondo occidentale (sì insomma — in teoria…)
– È la più grande economia del mondo
– Ha il primato globale della ricerca e dell’innovazione, con metà dei premi Nobel nella storia o americani o che lavoravano in istituzioni americane
– È ovviamente è il più grande mercato finanziario del mondo
E non potrebbe essere altrimenti.
Lì il capitalismo ha trovato la sua massima espressione.
Insomma, questi sono solo alcuni degli innumerevoli motivi per cui a buon diritto è nato il mito dell’eccezionalismo americano.
E questa cornice dell’eccezionalismo americano sarebbe ciò che ha portato gli Stati Uniti negli ultimi 15 anni a disintegrare qualunque confronto con gli altri mercati azionari.
Dal marzo 2009, il punto più nero della crisi finanziaria post Lehman, al febbraio di quest’anno, l’S&P 500 ha reso il 16% medio composto all’anno.
Detta altrimenti: ogni dollaro investito durante la notte più buia della finanza e dell’economia occidentale, oggi si sarebbe esattamente decuplicato.
Nel 1989 il mercato azionario americano valeva meno di un terzo di quello globale.
Oggi pesa più del doppio, circa 63%.
Ci sono infiniti motivi per spiegare questo successo indiscutibile e su così larga scala:
– Il dominio del dollaro come valuta di riserva globale
– Il ruolo dei Treasury come asset più importante del sistema finanziario
– L’impressionante capacità delle aziende americane di impiegare il capitale ed estrarre un ritorno corposo per gli azionisti
– Lo straordinario spirito imprenditoriale e l’ecosistema di venture capital e start-up che dai garage della California ha creato le più importanti aziende di tutti i tempi.
Ci sta tutto.
È naturale che la destinazione privilegiata negli ultimi decenni per l’investimento di ogni dollaro, euro, sterlina, yen e così via fossero i titoli di stato americani e soprattutto l’S&P 500.
Tutto ciò — e molto altro — ha contribuito a consolidare il mito della strapotenza finanziaria americana.
Questo, giusto per puntualizzare che quanto diremo nell’episodio di oggi, dedicato appunto al “NON-eccezionalismo” americano, non mette minimamente in discussione il valore assoluto degli Stati Uniti come mercato in particolare e come potenza economica in generale.
Ma questo è il passato.
Ora si tratta invece di distogliere lo sguardo dallo specchietto retrovisore e provare a gettare uno sguardo al futuro, per capire quanto dell’eccezionalismo americano sia già più che scontato nelle condizioni di mercato attuali e quanto invece sarà ancora in grado di sorprenderci negli anni a venire.
Ovviamente non potremo fare “previsioni” basate su chissà qualche interpretazione delle dinamiche del presente, come se fosse possibile da qui estrapolare indicazioni attendibili per il futuro.
Questa cosa lascia del tutto il tempo che trova.
Piuttosto ci concentreremo su qualche ragionamento più analitico e statistico — diciamo — per capire quanto questo eccezionalismo (vero o presunto tale) sia sufficiente a giustificare la nostra sovraesposizione al mercato americano, o se invece ci siano altri elementi che sarebbe bene considerare nell’asset allocation del vostro portafoglio.
Qualunque riferimento a chiunque tra voi continua a chiedermi cosa ne penso di portafogli che hanno il 90% della quota azionaria allocata negli Stati Uniti, naturalmente, è del tuuuuuttto casuale.
Lo scopo dell’episodio di oggi però non è dire “l’S&P 500 è improvvisamente diventato una merda dopo che tutti l’abbiamo incensato per due anni, quindi mollate tutto e investite solo nel resto del mondo o equally weighted o via dicendo”. Niente di tutto ciò. Lo scopo è capire cosa ha determinato la mostruosa sovraperformance americana negli ultimi 15 anni e quindi quali sono gli elementi oggettivi che, prevalentemente su base statistica, possono fornirci delle indicazioni utili per la nostra asset allocation.
Partiamo da questo ragionamento.
Ci sono due modi per stimare i rendimenti attesi nel futuro prevedibile:
– Uno è quello ESTRAPOLATIVO: ossia quello basato sull’estrapolazione delle performance dal passato nel futuro. L’assunto di base in questo caso è che i rendimenti medi del passato saranno i rendimenti medi del futuro.
In altri termini: il rendimento medio del mercato azionario resta più o meno stabile nel tempo.
E poi c’è
– Quello PROSPETTICO: ossia quello basato sui rendimenti impliciti nelle valutazioni attuali di oggi o su criteri che considerano i flussi di profitti che gli investitori possono aspettarsi dai propri rendimenti azionari.
Detto questo, per capire bene le cose di cui voglio parlare oggi, credo sia importante fermarci un secondo e capire come è composto il rendimento azionario, perché il peso di ciascun elemento di questa composizione in ogni periodo non è irrilevante sulle aspettative future.
Per esempio, ammettiamo che io investa 10.000 $ nell’S&P 500 — e dico dollari per non considerare il cambio — e che dopo 7,2 anni appunto questi siano diventati 20.000.
Sono dunque cresciuti, in media, del 10% all’anno.
Media geometrica.
Questo 10%, da cosa è fatto?
Da tre cose, in misura variabile:
In primis, dai **dividendi**. Una parte del rendimento azionario è appunto quanto dei propri utili annuali l’azienda paga ai suoi azionisti.
Noi siamo abituati sempre a ragionare in termini di total return, ma in realtà i dividendi sono sempre stata la prima fonte di remunerazione degli azionisti, che fino a 20-30 anni fa erano abituati a considerare le azioni come i bond e quindi a concentrarsi sullo yield, sul rendimento, su quanto tornava loro in tasca sotto forma di cash ogni anno.
Oggi siamo più abituati a pensare in termini di total return.
Il contributo dei dividendi, decennio dopo decennio, si è ridotto per l’S&P 500.
Negli anni ’70, ’80 e ’90 il dividend yield era in media del 3,5/4%, a seconda della fonte dei dati.
Negli anni 2000 è sceso intorno all’1,5%.
Questo per due ragioni:
– La prima è che la composizione settoriale dell’S&P 500 si è gradualmente spostata su aziende tech growth, molto più propense a impiegare il proprio capitale investendolo sulla propria crescita strutturale e per fare buyback, invece che a distribuire i dividendi.
– La seconda è un concetto più “meccanico”: come diremo meglio tra pochissimo, i dividendi sono cresciuti ad una velocità inferiore rispetto al prezzo delle azioni americane — di conseguenza il loro peso sul rendimento complessivo si è ridotto, anche se in valore assoluto sono cresciuti.
Il secondo elemento del rendimento azionario è la **crescita degli utili per azione**.
Una parte di questi utili sono distribuiti come dividendi, un’altra è utilizzata per fare buyback, per ricomprarsi le proprie azioni.
Dal punto di vista del ritorno complessivo, un dividendo o un buyback sono la stessa cosa.
Se la società paga un dividendo aumenta il dividend yield — il primo componente del rendimento totale;
Se invece si ricompra azioni per lo stesso valore, allora riduce il numero di azioni sul mercato e quindi aumenta l’utile per azioni — cioè il secondo componente del rendimento azionario.
Dividendi, buyback e in generale la crescita dei profitti è ciò che costituisce la componente FONDAMENTALE del rendimento complessivo che deriva dall’investimento azionario, cioè quella legata ai fondamenti.
Potremmo chiamarla la componente “OGGETTIVA” del total return.
IL terzo elemento è invece quella “SOGGETTIVA”, cioè quella legata all’interpretazione che il mercato sviluppa, in ogni dato momento, rispetto alle prospettive future di un certo investimento.
Anzi, meglio ancora: rispetto a quanto valore attribuisce, in termini di rischio e rendimento, ad un certo flusso di profitti nel futuro.
La componente soggettiva è chiaramente legata al tasso di sconto, cioè al rendimento richiesto dagli azionisti per rischiare i propri capitali.
Questa componente soggettiva è **la variazione nel rapporto tra prezzi e utili**.
Per esempio nel decennio dal 1970 al 1979 l’S&P 500 ha distribuito circa il 3,5% di dividendi e gli utili sono cresciuti quasi del 10% all’anno.
La somma farebbe circa 13,5%.
Eppure in quel decennio il total return dell’S&P 500 è stato meno del 6% all’anno.
Come è possibile?
Il motivo è che il rapporto tra prezzi e utili si è ridotto lungo il decennio, ossia gli investitori hanno considerato l’investimento azionario via via più rischioso perché nel frattempo l’economia era funestata dalla più grave inflazione di tutti i tempi e la pur corposa crescita nominale degli utili non era in grado di reggere il passo con un’inflazione a doppia cifra.
Al contrario negli anni ’90 l’S&P pagava sempre circa il 3 e mezzo percento di dividendi e gli utili sono cresciuti di circa il 7% all’anno. Il rendimento totale però è stato di quasi il 18% medio all’anno.
Infatti nello stesso periodo il rapporto prezzo/utili è cresciuto di oltre il 7% all’anno per un decennio.
E infatti si è poi arrivati a inizio 2000 con prezzi esorbitanti rispetto agli utili, la bolla è scoppiata ed è iniziato il decennio perduto.
Dicevo che le variazioni nel rapporto tra prezzi e utili sono la componente meno oggettiva, perché sono condizionati dalla prospettiva soggettiva aggregata degli investitori.
Ad esempio oggi gli utili per azione attesi dall’S&P 500 sono 290 dollari e mentre sto scrivendo il prezzo dell’S&P è 6450 circa.
6450 diviso 290, cioè il rapporto tra prezzo e utili attesi, è a poco più di 22.
Questo “22”, però, ci racconta una storia ambigua, in cui ci sono due personaggi principali
– Uno sono appunto i flussi di profitto attesi nel futuro e
– L’altro è il tasso a cui sconto questi flussi di cassa.
Gli investitori solitamente tendono a focalizzarsi sulla crescita degli utili nel futuro e tipicamente sono portati ad estrapolare la crescita passato e a proiettarla negli anni a venire.
Cioè dicono: se nel recente passato le società americane hanno vissuto una cresciuta annuale degli utili significativa, ALLORA anche nel futuro possiamo aspettarci questa crescita.
Il che in realtà è tutt’altro che vero.
Crescite sostenute dei profitti sono più predittive di un rallentamento futuro, non di un mantenimento o addirittura di un’accelerazione di questo trend.
Quello che però si può osservare guardando la storia dei mercati è che la crescita degli utili in realtà varia molto meno dei rendimenti azionari.
Tradotto: il range in cui si è mossa la crescita degli utili anno dopo anno è più ristretto del range in cui si è mosso il rendimento complessivo del mercato anno dopo anno.
Infatti c’è molta più variabilità nei prezzi delle azioni di quello che sarebbe giustificato dalle variazioni dei valori fondamentali sottostanti.
Ciò che cambia di volta in volta, invece, è il rendimento richiesto dagli investitori o il — che è lo stesso — il costo del capitale delle società che emettono azioni.
Il tasso a cui vengono scontati in ogni momento i profitti futuri è esattamente quel valore in cui rendimento richiesto (lato domanda) e costo del capitale (lato offerta) si incontrano — perché naturalmente il mercato deve essere in equilibrio.
Quindi quel 22 di prima, il rapporto tra il prezzo dell’S&P e gli utili attesi, è principalmente legato al tasso di sconto vigente nell’equilibrio di mercato in questo momento.
In questo momento, gli investitori hanno un’elevata propensione al rischio e se il rischio percepito si abbassa, anche il rendimento atteso diminuisce di conseguenza.
Di conseguenza: il rapporto tra prezzo e utili dell’S&P 500 oggi è molto alto non tanto perché ci si aspettano utili futuri molto corposi (dato che questa aspettativa è già scontata nei prezzi di oggi) ma perché è basso il rendimento richiesto dagli investitori.
Affinché il rendimento ottenuto effettivamente realizzato dagli investitori sia alto, è necessario che gli utili crescano di più di quanto già ci si attende.
Torniamo quindi ai due approcci tramite cui si possono stimare i rendimenti futuri: possiamo ESTRAPOLARE DAL PASSATO oppure fare una PROIEZIONE SUL FUTURO a partire dalle valutazioni di oggi o dal total payout, cioè dalla quota di utili che vengono distribuiti agli investitori come dividendi e buyback.
Entrambi i metodi sono imperfetti e quasi perfettamente inutili nel breve termine.
Su cicli più o meno decennali, però, il potere predittivo del metodo basato su ESTRAPOLAZIONE è disastroso. Antti Illmanen di AQR, forse la più illuminata autorità mondiale sul tema rendimenti attesi, ha calcolato che la correlazione tra estrapolazione e rendimenti dei dieci anni successivi è -0,37, quindi vuol dire che le performance passate predicono delle performance future praticamente sempre di segno opposto: a cicli negativi seguono cicli positivi e viceversa.
Invece il metodo PROSPETTICO, come ad esempio quello che parte dall’inverso del rapporto tra prezzi utili o dal rapporto tra dividendi e prezzi, è tutt’altro che infallibile ma ha mostrato una correlazione di 0,5.
Cioè: c’è una correlazione positiva piuttosto significativa tra i rendimenti impliciti di oggi e le performance del mercato azionario dei prossimi 10-15 anni.
A volte ci sono degli errori quantitativi importanti — e io stesso non ho mancato di prendere per il culo più volte le previsioni del 2014 sui successivi dieci anni che vedevano l’S&P rendere 5-6% di media all’anno. Avrebbe poi fatto tipo 12-13%.
Quelle previsioni però non hanno sbagliato il “segno”. Hanno sbagliato l’ordine di grandezza e c’è più di un motivo, se vogliamo, per giustificare quelle previsioni errate: su tutti, il lunghissimo periodo di tassi a zero che è stato un doping per le azioni, i cui prezzi sono cresciuti molto di più di quanto non sono cresciuti gli utili e gli altri fondamentali sottostanti.
Se nel prossimo decennio l’S&P renderà 4-6% nominale all’anno, come oggi prevedono in tanti, allora il track record del metodo PROSPETTICO risulterà complessivamente molto forte.
Ok?
Ci siamo fin qui?
Cosa sto cercando di dire in fondo?
Sto cercando di puntualizzare il fatto che quando si considera il rendimento passato di un’asset class è importante capire se quel rendimento è dovuto a motivazioni FONDAMENTALI OGGETTIVE oppure SOGGETTIVE.
Se noi estrapoliamo dal passato per formulare delle stime sui rendimenti futuri dobbiamo stare molto attenti a capire cosa ha determinato quelle performance passate.
Alla fine degli anni ’80 il rapporto tra prezzi e utili dell’S&P 500 era circa metà rispetto a quello del resto delle azioni dei mercati sviluppati — anche se ciò era dovuto principalmente al peso del Giappone, che all’apice della sua bolla si trovava con un CAPE ratio, cioè prezzo diviso la media degli utili reali dei 10 anni precedenti, di 78, contro l’S&P 500 a 19!
Da quel valore di 19, in questi ultimi 30 anni il CAPE ratio dell’S&P 500 è arrivato a 38.
Cioè: è raddoppiato.
Oggi le azioni americane costano il doppio rispetto a 30 anni fa, almeno secondo questo criterio.
Qui possono partire tutte le giustificazioni del mondo:
– Utili aziendali più solidi
– Meno regolamentazioni
– Politiche fiscali più favorevoli
– Prevalenza di società tech con business scalabili e bassi costi strutturali
– Maggiore partecipazione all’investimento azionario.
Tutto giustissimo e sacrosanto.
Ma se io estrapolo dal rendimento dei 30 anni passati per stimare i rendimenti futuri devo chiedermi: “quanto è probabile che si ripeta quel che abbiamo vissuto, se una parte significativa del rendimento passato dell’S&P 500 è dovuto semplicemente al fatto che le azioni americane sono diventate via via più care?”.
Cioè tra 30 anni, avremo il CAPE ratio dell’S&P 500 raddoppierà un’altra volta e andrà a 76, come il Giappone prima della più grande bolla di tutti i tempi?
Oddio: possibilissimo eh!
Non è che non possa accadere.
Bisogna però capire se l’investitore medio sarà davvero convinto che comprare azioni ad un prezzo 76 volte gli utili generi un qualche rendimento reale e che il rischio valga la candela.
Spero di non aver perso nessuno per strada sino ad ora.
Il punto da portarsi a casa è fondamentalmente questo:
– I ritorni attesi basati sull’approccio prospettico hanno una base oggettiva, cioè i rendimenti impliciti di partenza (in particolare il rapporto tra utili o dividenti e il prezzo). Questi presuppongo che il ritorno azionario siano variabile e hanno un potere maggiormente predittivo.
– I ritorni attesi basati invece su estrapolazione hanno una base soggettiva e sono principalmente guidati da una tendenza a sovrastimare o sottostimare la crescita futura degli utili a partire da quella del passato. Questi presuppongono che il ritorno azionario sia più o meno fisso e hanno un minor potere predittivo.
Poi nello specifico del mercato americano oggi possiamo aggiungere: attenzione ad estrapolare i rendimenti futuri da quelli degli ultimi 30 anni perché praticamente tutta la sovraperformance americana rispetto ai mercati exUS è spiegabile dal fatto che le azioni americane sono diventate via via sempre più costose e il mix di condizioni che l’ha reso possibile non è facilmente replicabile.
Gli Stati Uniti hanno sicuramente dimostrato una superiorità strutturale in termini imprenditoriali, di innovazione, impiego del capitale e nella creazione di un ecosistema quasi ideale per lo sviluppo delle sue aziende.
Ma questa superiorità si è tradotta in una maggior crescita dei profitti nell’ordine di un punto percentuale all’anno in media.
Notevole, sicuramente.
Ci sta dire che — per il solo fatto che un’azienda sia quotata negli Stati Uniti — probabilmente merita un punto percentuale di crescita attesa in più rispetto alla stessa azienda quotata fuori.
Però l’S&P 500 ha battuto l’MSCI exUS negli ultimi 40 anni non di 1 un punto, ma di circa 4 punti percentuali all’anno.
Questo extra rendimento in eccesso è dovuto principalmente al “repricing”, al fatto che a parità di utili, un’azione americana è arrivata a costare sempre di più di una europea o di una giapponese o di una australiana e così via.
L’errore che l’investitore non deve commettere è quindi confondere una sovraperformance basata su prezzi sempre più gonfi con una basata sua una maggiore crescita dei fondamentali.
Questa è la premessa teorica.
Ora veniamo a discorsi più pratici.
Qual è il quadro reale del mercato azionario americano?
Perché io sono il primo che negli ultimi due anni e mezzo ha raccontato della supremazia devastante dell’S&P 500 contro ogni altro grande indice.
Eppure, a guardar bene come sono andate le cose negli ultimi anni, escono fuori delle verità sorprendenti, che effettivamente avevo io stesso preso un po’ sottogamba.
PRIMA COSA: da settembre 2022 a oggi, cioè dal giorno prima che sul mercato esplodesse la bomba Chat GPT, il rapporto tra prezzi e utili attesi è passato da circa 17 a oltre 22, quindi circa un 30% in più, mentre il CAPE ratio è passato da 27 a quasi 38, praticamente 40% in più. Allo stesso tempo però la crescita degli utili viaggia intorno al 5-6%, rispetto al 9% del periodo 2017-2021 (almeno stando ai conti fatti da Acadian).
Cioè cosa vuol dire? Vuol dire che i multipli sono cresciuti al doppio della velocità rispetto ai 5 anni precedenti, mentre la crescita dei profitti si è quasi dimezzata.
Secondo Acadian, partendo dall’MSCI World, un investitore dovrebbe considerare di ridurre l’esposizione agli Stati Uniti di almeno l’8% se pensa che la crescita degli utili media delle società americane non batterà di almeno 2 punti percentuali all’anno quella delle società exUS (ragionamento molto simile a quello di Illmanen, che ha calcolato che affinché l’S&P 500 abbia lo stesso rendimento delle società exUS, i suoi utili dovrebbero battere gli utili delle società exUS di almeno 2,2 punti percentuali ogni anno per 10 anni — oppure i prezzi gonfiarsi ulteriormente).
Se questo concetto non dovesse essere particolarmente chiaro, spieghiamolo con un esempio super semplificato.
Immaginiamo che le società distribuiscano il 100% degli utili come dividendi; quindi, tutto il profitto viene dato agli azionisti.
Se il rapporto tra prezzo è utili dell’S&P fosse esattamente 22, giusto per fare i conti facili, e quello dell’MSCI exUS 15, allora il rendimento dell’S&P 500 sarebbe circa 4,5%, ossia 1 diviso 22, mentre quello dell’MSCI exUS sarebbe 6,7%, 1 diviso 15.
Per compensare il rendimento, alle azioni americane servirebbe una crescita di 2,2 punti percentuali in più per passare da 4,5 a 6,7%.
Ancora più semplicemente: se lo stesso flusso di casso lo acquisti ad un prezzo superiore, il tuo rendimento sarà inferiore.
SECONDA COSA: nel suo articolo, GMO scompone la performance dell’S&P 500 degli ultimi 40 anni in tre fattori:
– La crescita fondamentale, ossia quella legata, come abbiamo detto, a dividendi, buyback e utili;
– La crescita del rapporto tra prezzo e gross profit, che comunque è sempre un modo per misurare la valutazione relativa di un mercato;
– E poi il rafforzamento del dollaro, che chiaramente ha incentivato gli investitori esteri ad acquistare asset in dollari e disincentivato gli americani a comprare asset esteri.
Morale, secondo GMO l’80% della sovraperformance americana rispetto all’MSCI exUS è dovuta a questi 2 fattori, mentre solo il 20% dipende dalla crescita fondamentale.
Peraltro, il grosso di questa crescita fondamentale si è concentrata prima del 2015. Dal 2016 in poi, non c’è stato un’evidente extraperformance dell’S&P 500 rispetto all’MSCI exUS.
Tra l’altro GMO sottolinea una cosa che aveva notato anche Howard Marks nel suo ultimo memo.
Un terzo dell’S&P 500 sono le magnifiche 7, che come noto hanno valutazioni molto elevate ma sono pur sempre dei gioelli assoluti.
Ciò che però deve forse preoccupare di più paradossalmente sono le altre 493, che hanno valutazioni comunque nettamente sopra la media dei Paesi sviluppati, ma al contrario delle magnifiche non hanno generato crescite particolarmente impressionanti.
Infine, così come ChatGPT e la rivoluzione dell’AI hanno messo l’acceleratore alle azioni americane, allo stesso tempo hanno cambiato un po’ la narrativa sui modelli di business.
Nel passato le Big Tech dominavano perché facevano pozzi di profit con bassi costi strutturali.
Oggi invece nella corsa all’AI le big stanno spendendo Trillion, migliaia di migliaia di dollari in capital expenditures.
Prima che i mercati rimbalzassero per il discorso pro taglio dei tassi di Jerom Powell, nei giorni precedenti abbiamo assistito a vendite piuttosto pesanti su tutto il comparto tech, in particolare dopo che l’MIT ha fatto uscire un report in cui sostiene che circa il 95% degli investimenti in AI fatti sinora non sarà profittevole.
Lo stesso Sam Altman, il papà di ChatGPT e CEO di OpenAI, ha detto molto candidamente che pensa che ci sia troppo hype e che molti perderanno molti soldi.
Una rondine non fa primavera, ma il dubbio che ad un certo punto si finisca per sovraspendere per qualunque cosa abbia l’etichetta AI è più che fondato.
Ricordiamo la Legge di Amara, secondo la quale “tendiamo a sovrastimare l’impatto di una tecnologia nel breve termine e a sottostimarlo nel lungo termine”.
Anche sul FT la scorsa settimana è uscito un editoriale che andava in questa direzione è che sostanzialmente diceva: “mettiamo in conto un crash legato all’AI prima di godere davvero dei suoi benefici”.
Magari questa volta non sarà così e l’AI produrrà subito meraviglie.
Ma sarebbe più un’eccezione rarissima, che non la regola quando si tratta di innovazione dirompente.
TERZA COSA — e qui veniamo alle previsioni sul futuro.
GMO dice una cosa molto ovvia e molto vera.
Le politiche di Trump rischiano di esporre l’economia americana ad un supply-shock, cioè ad uno shock lato offerta, per 3 ragioni tutte collegate tra loro, che sono ovviamente:
– L’introduzione dei dazi, che potrebbe alzare i costi, ridurre la competitività dei beni prodotti negli Stati Uniti, perché se limiti i competitor viene meno anche l’incentivo alla qualità e all’innovazione, e ovviamente potrebbe creare inflazione.
– Questo supply-shock riguarda poi l’offerta di lavoro, dato che le politiche antimmigrazione riducono la disponibilità di personale a basso costo per la fascia di manodopera più bassa;
– Abbiamo poi l’incertezza generale, che rende quasi impossibile fare investimenti costosi a lungo termine per un’azienda, non sapendo quanti sono i dazi, su cosa, quanto a lungo, se ci saranno anche dopo Trump e così via;
GMO non è la prima società a notare due cose collegate tra loro:
– La prima è che ciò che per gli Stati Uniti è un supply-shock, lato offerta come abbiamo detto, per gli altri paesi è un demand-shock, lato domanda, dato che gli Stati Uniti sono stati per decenni il consumatore finale di tutto il resto del mondo.
– La seconda cosa, però, è che se è vero che le altre economie che esportano negli Stati Uniti rischiano rallentamento economico e recessione, uno shock lato domanda è più facile da curare: emetti debito pubblico (la Germania può emetterne in quantità industriale e se qualcuno desse retta a San Mario Draghi anche l’Europa tutta potrebbe emettere debito comune a basso costo), tagli i tassi, stimoli la domanda, per soddisfare la domanda dai lavoro a gente disoccupata e metti una pezza all’economia.
Uno shock lato offerta è invece più complicato da gestire, perché rischi di creare stagflazione.
Inoltre è teoricamente più semplice trovare nuovi mercati di sbocco per i tuoi prodotti che non ricostruire intere supply chain.
L’idea che gli americani si mettano ad avvitare gli iPhone a casa propria o a cucire le scarpe della Nike è semplicemente da fuori di testa.
Prima di fiondarci nell’ultima parte dell’episodio, facciamo un brevissimo recap.
Le due cose che abbiamo detto sono:
– UNO: se adottiamo uno sguardo oggettivo PROSPETTICO, i rendimenti attesi per l’S&P 500 da qui al prossimo decennio sembrano decisamente mediocri, soprattutto perché il grosso della sua supremazia passata si fonda su condizioni difficilmente replicabili, come deregolamentazioni, tagli alle tasse, tassi di interesse a zero, spesa pazza da parte del governo federale — tutte cose che non hanno aumentato più di tanto i profitti, ma soprattutto le valutazioni azionarie.
– DUE: ci sono fattori strutturali che sembrano giocare contro, soprattutto l’aumento incontrollato dei costi a fronte di benefici incerti per ciò che dovrebbe essere il deus ex machina definitivo, la cura ad ogni male passato, presente e futuro, l’AI. E poi il supply-shock indotto da Lord Dazimort e dal suo brutto rapporto con il libero commercio.
La naturale conclusione sembra quindi propendere decisamente in un’unica direzione: ridurre l’esposizione agli Stati Uniti in un indice globale e aumentare l’esposizione verso altri Paesi con valutazioni nettamente più basse.
Attenzione che il ragionamento di GMO, di Acadian, di AQR, forse anche di Research Affiliates, non è: Europa, Giappone, Australia, Canada e forse gli emergenti hanno delle economie messe meglio, quindi investiamo lì.
Forse sì, forse no, probabilmente no, ma non è questo il punto.
Il punto è che anche se l’economia e le aziende americane continueranno a fare mediamente meglio di quelle exUS, comunque il rendimento atteso per i mercati exUS resta più elevato, fatta salva una sorpresa al rialzo che porti le prime a crescere di oltre 2-3 punti percentuali ogni anno in più delle seconde.
In tutto ciò, per scrivere quest’episodio sono andato a vedere effettivamente come sono andate le cose negli ultimi anni.
Per mia abitudine faccio sempre backtest molto lunghi nel tempo.
Ma ogni tanto conviene anche andare a vedere i recenti track-record.
Confrontiamo per esempio la performance dal 2010 ad oggi di:
– S&p 500
– MSCI Europe
– Euro Stoxx 50
– DAX (quindi il mercato tedesco) e il nostro
– FTSE MIB
I dati sono espressi dalla prospettiva di un investitore in euro.
Usando i dollari c’è qualche significativa differenza quantitativa, ma non qualitativa.
Trarremmo le stesse conclusioni.
Dal primo agosto 2010 al 31 luglio 2025, 15 anni tondi, i risultati sono questi:
– MSCI Europe: +216%
– Euro Stoxx 50: +212%
– Dax: +250%
– FTSE Mib: +212%
– S&P 500: +722%.
Sì: 722%. Più del triplo della media di tutti gli altri.
Un altro campionato.
Già negli ultimi 5 anni però le cose cambiano:
– MSCI Europe: +78%
– Euro Stoxx 50: +93%
– Dax: +85%
– S&P 500: +105%. Sempre di più ma non così tanto di più.
Da notare poi — e questa cosa mi ha lasciato esterrefatto perché conoscevo il fatto, ma non mi ero accorto dell’entità: il nostro sfigatissimo FTSE Mib ha fatto +170% negli ultimi 5 anni, disintegrando l’S&P 500.
Se andiamo poi a vedere gli ultimi 3 anni abbiamo ancora un’altra storia da raccontare:
– MSCI Europe: +40%
– Euro Stoxx 50: +64%
– Dax: +80%
– FTSE Mib: uno scoppiettante +124% – probabilmente il miglior indice del mondo, la cui impressionante performance si può ricondurre all’enorme peso che i titoli bancari hanno nel paniere di piazza Affari. Con il rialzo dei tassi nel 2022, società come Unicredit, Intesa e BPM sono letteralmente volate, così come tutto il comparto bancario della zona Euro, con l’indice eurostoxx Banks che negli ultimi 3 anni è cresciuto del 270%.
E l’S&P 500?
Beh in dollari sarebbe cresciuto di circa il 60%, mentre in euro di poco meno del 40%.
Il motivo principale di questo cambio di testimone?
Sicuramente non il fatto che qualcuno creda che l’economia europea abbia migliori fondamentali di quella americana.
Nessuno è così pazzo, non scherziamo.
Semplicemente le valutazioni di partenza erano a tal punto depresse che poche buone notizie — o magari l’assenza di notizie troppo brutte — è bastata a far correre i titoli europei.
Ora, detto tutto questo, l’inevitabile conclusione è che sia opportuno sottopesare gli Stati Uniti nei portafogli?
Ho delle motivazioni per il Sì e delle motivazioni per NO.
MOTIVAZIONI PER IL NO:
1. Il punto di partenza è il market portfolio. L’attuale mercato pesato per capitalizzazione è la migliore rappresentazione possibile delle forze in gioco, delle prospettive future e della percezione di rischio e rendimento atteso da parte dell’investitore medio. Ogni deviazione è una scommessa contro il banco.
2. La matematica non dà vantaggi. Le valutazioni sono sotto gli occhi di tutti. Non basta investire nei mercati più economici per ottenere rendimenti maggiori. I rendimenti attesi sono più alti perché gli investitori richiedono un premio maggiore a fronte di un maggior rischio e perché le aziende devono sostenere un maggior costo del capitale. Un conto è il rendimento atteso, un conto è il rendimento effettivamente realizzato. Maggiore è il rischio di partenza, maggiore sarà anche la dispersione dei risultati effettivamente conseguiti dagli investitori.
3. Quel che abbiamo detto nell’episodio di oggi potrebbe essere tutto perfettamente vero ma inutile. Il mercato americano potrebbe andare avanti a gonfiarsi ancora magari per 5 anni, il dollaro ricominciare a salire e in più l’intelligenza artificiale potrebbe davvero fare miracoli che ancora non ci sogniamo. Se il mercato prezza le azioni americane 22 volte gli utili attesi e 15 volte quelle ex US, potrebbe semplicemente avere ragione.
MOTIVAZIONI PER IL Sì:
1. Il mercato attraversa dei cicli. Prima o poi questi finiscono. Abnormi crescite dei profitti nel passato preludono a crescite mediocri nel futuro. Rendimenti sopra la media nel passato, soprattutto se alimentate da espansione dei prezzi e non da ragioni fondamentali, prende in prestito rendimenti dal futuro — quindi è più che lecito aspettarsi ritorni inferiori dall’S&P 500 in un futuro prossimo. Pistola alla tempia, direi che le probabilità sono più contro l’S&P che pro S&P sempre e comunque.
2. Pesare un mercato in base al market cap, cioè al prezzo, è una decisione meno insindacabile di quel che si pensa. È forse la decisione più pratica che si possa prendere per descrivere l’andamento di un indice, ma non sta scritto da nessuna parte che un indice debba essere pesato per market cap. Si tratta di scegliere tra due posizioni alternative:
a. Un indice pesato per market cap tende a premiare le società growth più costose;
b. Un indice pesato per valori fondamentali, come utili, dividendi, freecash flow, debito e così via, tende a premiare le società value più economiche.
È una convenzione piuttosto ragionevole pesare per market cap, ma non è detto che sia l’unico modo giusto o il più giusto.
Sicuramente è meno arbitrari di altri — almeno stando al CAPM.
Ma non necessariamente esente da bias.
Quindi si può considerare di utilizzare altri ragionamenti — e mi ha stupito vedere che prendendo strade diverse si finisce spesso allo stesso punto.
Come sapete il peso dell’S&P 500 nel mio portafoglio azionario è circa 50%, perché questo è il contributo in termini di net profit delle società dell’S&P 500 nell’MSCI ACWI, come calcolato da Verdad, ma anche altri come il Global Fundamental Index di Research Affiliates, Acadian e Victor Haghani, usano metodologie diverse nei propri modelli di asset allocation strategica, per arrivare a conclusioni simili — con l’S&P 500 sottopesato, non in maniera drastica ma significativa.
In ogni caso, non si tratta di relegare gli Stati Uniti in un angolo.
Anzi.
È difficile immaginare che un mercato così grande possa non essere quello con un peso così ampio nel portafoglio.
L’obiettivo dell’episodio di oggi non vuole essere “dimostrare che sia meglio sottopesare gli Stati Uniti”.
Giuro su mia figlia, sinceramente, non lo so cosa sia giusto fare.
Ricordatevi sempre il teorema dell’Ultimo Pirla: io non so niente, non prevedo il futuro, non sono più intelligente della media e non ho alcun vantaggio competitivo.
Nel mio portafoglio gli US pesano 50%.
Ma il mio ragionamento è in parte psicologico:
– Se si rivelerà giusto sottopesarli, felice di averlo fatto;
– Se si rivelerà sbagliato, il danno non sarà grave come se li avessi esclusi dal portafoglio o limitati magari al 10-20%.
In parte è statistico BARRA metodologico:
– Mi convince di più un approccio ESTRAPOLATIVO o PROSPETTICO? Prospettico
– Questo mi dice che i rendimenti futuri saranno più alti negli Stati Uniti o exUS? exUS
– Quanto è probabile che nel prossimo decennio ci saranno ancora: tagli alle tasse, deregolamentazioni, deficit fiscale senza limiti, tassi d’interesse a zero e crescita sotto steroidi del dollaro? Non molto probabile.
Tutte queste cose messe assieme mi portano, come dire a, “talk the talk and walk the walk”.
Se ciò di cui ho parlato oggi e in passato in qualche modo mi convince, devo agire di conseguenza.
Non è però una buona ragiona per chiunque per fare lo stesso.
Ciò che volevo fare oggi era piuttosto proporvi un framework di ragionamento analogo per testare le vostre convinzioni e tradurlo in decisioni di asset allocation.
Magari applicare questo ragionamento alle vostre convinzioni vi porterà a decisioni opposte.
L’importante è sapere sempre se quel che ci appare nella nostra visione delle cose, e sui cui basiamo le nostre decisioni, sono fatti certi, ma visti in uno specchietto retrovisore, o fatti incerti, che ancora devono accadere, visti attraverso un vetro opaco di fronte a noi.
Bene amici miei, spero che questo episodio vi sia piaciuto e che vi abbia dato qualche chiave di lettura utile per ragionare in maniera fondata sulla vostra asset allocation riducendo al minimo l’influenza di opinioni soggettive, che spesso affondano le loro radici nel recente passato e nell’esperienza più prossima e si perdono il quadro più generale.
Se vi è piaciuto ma anche se non vi è piaciuto vi invito a mettere segui e attivare le notifiche su spotify, apple podcast, youtube o dove ci ascoltate e a lasciare una recensione a 5 stelle per supportarci e permetterci di continuare a produrre contenuti che vi spiegano che guardare indietro va bene ma forse guardare avanti è meglio sempre nuovi.
Per questo episodio invece è davvero tutto e noi ci risentiamo domenica prossima quando vi svelerò alcune delle grandi novità di settembre che molto presto trasformeranno per sempre questo podcast, sempre qui, naturalmente, con The Bull, il tuo podcast di Finanza Personale.
Bentornati a The Bull — Il tuo podcast di finanza personale.
Premessa: chi vi parla è cresciuto con il mito degli Stati Uniti e non è particolarmente originale nel ritenere gli Stati Uniti la più grande nazione del mondo sotto svariati punti di vista.
– È la più grande democrazia del mondo occidentale (sì insomma — in teoria…)
– È la più grande economia del mondo
– Ha il primato globale della ricerca e dell’innovazione, con metà dei premi Nobel nella storia o americani o che lavoravano in istituzioni americane
– È ovviamente è il più grande mercato finanziario del mondo
E non potrebbe essere altrimenti.
Lì il capitalismo ha trovato la sua massima espressione.
Insomma, questi sono solo alcuni degli innumerevoli motivi per cui a buon diritto è nato il mito dell’eccezionalismo americano.
E questa cornice dell’eccezionalismo americano sarebbe ciò che ha portato gli Stati Uniti negli ultimi 15 anni a disintegrare qualunque confronto con gli altri mercati azionari.
Dal marzo 2009, il punto più nero della crisi finanziaria post Lehman, al febbraio di quest’anno, l’S&P 500 ha reso il 16% medio composto all’anno.
Detta altrimenti: ogni dollaro investito durante la notte più buia della finanza e dell’economia occidentale, oggi si sarebbe esattamente decuplicato.
Nel 1989 il mercato azionario americano valeva meno di un terzo di quello globale.
Oggi pesa più del doppio, circa 63%.
Ci sono infiniti motivi per spiegare questo successo indiscutibile e su così larga scala:
– Il dominio del dollaro come valuta di riserva globale
– Il ruolo dei Treasury come asset più importante del sistema finanziario
– L’impressionante capacità delle aziende americane di impiegare il capitale ed estrarre un ritorno corposo per gli azionisti
– Lo straordinario spirito imprenditoriale e l’ecosistema di venture capital e start-up che dai garage della California ha creato le più importanti aziende di tutti i tempi.
Ci sta tutto.
È naturale che la destinazione privilegiata negli ultimi decenni per l’investimento di ogni dollaro, euro, sterlina, yen e così via fossero i titoli di stato americani e soprattutto l’S&P 500.
Tutto ciò — e molto altro — ha contribuito a consolidare il mito della strapotenza finanziaria americana.
Questo, giusto per puntualizzare che quanto diremo nell’episodio di oggi, dedicato appunto al “NON-eccezionalismo” americano, non mette minimamente in discussione il valore assoluto degli Stati Uniti come mercato in particolare e come potenza economica in generale.
Ma questo è il passato.
Ora si tratta invece di distogliere lo sguardo dallo specchietto retrovisore e provare a gettare uno sguardo al futuro, per capire quanto dell’eccezionalismo americano sia già più che scontato nelle condizioni di mercato attuali e quanto invece sarà ancora in grado di sorprenderci negli anni a venire.
Ovviamente non potremo fare “previsioni” basate su chissà qualche interpretazione delle dinamiche del presente, come se fosse possibile da qui estrapolare indicazioni attendibili per il futuro.
Questa cosa lascia del tutto il tempo che trova.
Piuttosto ci concentreremo su qualche ragionamento più analitico e statistico — diciamo — per capire quanto questo eccezionalismo (vero o presunto tale) sia sufficiente a giustificare la nostra sovraesposizione al mercato americano, o se invece ci siano altri elementi che sarebbe bene considerare nell’asset allocation del vostro portafoglio.
Qualunque riferimento a chiunque tra voi continua a chiedermi cosa ne penso di portafogli che hanno il 90% della quota azionaria allocata negli Stati Uniti, naturalmente, è del tuuuuuttto casuale.
Lo scopo dell’episodio di oggi però non è dire “l’S&P 500 è improvvisamente diventato una merda dopo che tutti l’abbiamo incensato per due anni, quindi mollate tutto e investite solo nel resto del mondo o equally weighted o via dicendo”. Niente di tutto ciò. Lo scopo è capire cosa ha determinato la mostruosa sovraperformance americana negli ultimi 15 anni e quindi quali sono gli elementi oggettivi che, prevalentemente su base statistica, possono fornirci delle indicazioni utili per la nostra asset allocation.
Partiamo da questo ragionamento.
Ci sono due modi per stimare i rendimenti attesi nel futuro prevedibile:
– Uno è quello ESTRAPOLATIVO: ossia quello basato sull’estrapolazione delle performance dal passato nel futuro. L’assunto di base in questo caso è che i rendimenti medi del passato saranno i rendimenti medi del futuro.
In altri termini: il rendimento medio del mercato azionario resta più o meno stabile nel tempo.
E poi c’è
– Quello PROSPETTICO: ossia quello basato sui rendimenti impliciti nelle valutazioni attuali di oggi o su criteri che considerano i flussi di profitti che gli investitori possono aspettarsi dai propri rendimenti azionari.
Detto questo, per capire bene le cose di cui voglio parlare oggi, credo sia importante fermarci un secondo e capire come è composto il rendimento azionario, perché il peso di ciascun elemento di questa composizione in ogni periodo non è irrilevante sulle aspettative future.
Per esempio, ammettiamo che io investa 10.000 $ nell’S&P 500 — e dico dollari per non considerare il cambio — e che dopo 7,2 anni appunto questi siano diventati 20.000.
Sono dunque cresciuti, in media, del 10% all’anno.
Media geometrica.
Questo 10%, da cosa è fatto?
Da tre cose, in misura variabile:
In primis, dai **dividendi**. Una parte del rendimento azionario è appunto quanto dei propri utili annuali l’azienda paga ai suoi azionisti.
Noi siamo abituati sempre a ragionare in termini di total return, ma in realtà i dividendi sono sempre stata la prima fonte di remunerazione degli azionisti, che fino a 20-30 anni fa erano abituati a considerare le azioni come i bond e quindi a concentrarsi sullo yield, sul rendimento, su quanto tornava loro in tasca sotto forma di cash ogni anno.
Oggi siamo più abituati a pensare in termini di total return.
Il contributo dei dividendi, decennio dopo decennio, si è ridotto per l’S&P 500.
Negli anni ’70, ’80 e ’90 il dividend yield era in media del 3,5/4%, a seconda della fonte dei dati.
Negli anni 2000 è sceso intorno all’1,5%.
Questo per due ragioni:
– La prima è che la composizione settoriale dell’S&P 500 si è gradualmente spostata su aziende tech growth, molto più propense a impiegare il proprio capitale investendolo sulla propria crescita strutturale e per fare buyback, invece che a distribuire i dividendi.
– La seconda è un concetto più “meccanico”: come diremo meglio tra pochissimo, i dividendi sono cresciuti ad una velocità inferiore rispetto al prezzo delle azioni americane — di conseguenza il loro peso sul rendimento complessivo si è ridotto, anche se in valore assoluto sono cresciuti.
Il secondo elemento del rendimento azionario è la **crescita degli utili per azione**.
Una parte di questi utili sono distribuiti come dividendi, un’altra è utilizzata per fare buyback, per ricomprarsi le proprie azioni.
Dal punto di vista del ritorno complessivo, un dividendo o un buyback sono la stessa cosa.
Se la società paga un dividendo aumenta il dividend yield — il primo componente del rendimento totale;
Se invece si ricompra azioni per lo stesso valore, allora riduce il numero di azioni sul mercato e quindi aumenta l’utile per azioni — cioè il secondo componente del rendimento azionario.
Dividendi, buyback e in generale la crescita dei profitti è ciò che costituisce la componente FONDAMENTALE del rendimento complessivo che deriva dall’investimento azionario, cioè quella legata ai fondamenti.
Potremmo chiamarla la componente “OGGETTIVA” del total return.
IL terzo elemento è invece quella “SOGGETTIVA”, cioè quella legata all’interpretazione che il mercato sviluppa, in ogni dato momento, rispetto alle prospettive future di un certo investimento.
Anzi, meglio ancora: rispetto a quanto valore attribuisce, in termini di rischio e rendimento, ad un certo flusso di profitti nel futuro.
La componente soggettiva è chiaramente legata al tasso di sconto, cioè al rendimento richiesto dagli azionisti per rischiare i propri capitali.
Questa componente soggettiva è **la variazione nel rapporto tra prezzi e utili**.
Per esempio nel decennio dal 1970 al 1979 l’S&P 500 ha distribuito circa il 3,5% di dividendi e gli utili sono cresciuti quasi del 10% all’anno.
La somma farebbe circa 13,5%.
Eppure in quel decennio il total return dell’S&P 500 è stato meno del 6% all’anno.
Come è possibile?
Il motivo è che il rapporto tra prezzi e utili si è ridotto lungo il decennio, ossia gli investitori hanno considerato l’investimento azionario via via più rischioso perché nel frattempo l’economia era funestata dalla più grave inflazione di tutti i tempi e la pur corposa crescita nominale degli utili non era in grado di reggere il passo con un’inflazione a doppia cifra.
Al contrario negli anni ’90 l’S&P pagava sempre circa il 3 e mezzo percento di dividendi e gli utili sono cresciuti di circa il 7% all’anno. Il rendimento totale però è stato di quasi il 18% medio all’anno.
Infatti nello stesso periodo il rapporto prezzo/utili è cresciuto di oltre il 7% all’anno per un decennio.
E infatti si è poi arrivati a inizio 2000 con prezzi esorbitanti rispetto agli utili, la bolla è scoppiata ed è iniziato il decennio perduto.
Dicevo che le variazioni nel rapporto tra prezzi e utili sono la componente meno oggettiva, perché sono condizionati dalla prospettiva soggettiva aggregata degli investitori.
Ad esempio oggi gli utili per azione attesi dall’S&P 500 sono 290 dollari e mentre sto scrivendo il prezzo dell’S&P è 6450 circa.
6450 diviso 290, cioè il rapporto tra prezzo e utili attesi, è a poco più di 22.
Questo “22”, però, ci racconta una storia ambigua, in cui ci sono due personaggi principali
– Uno sono appunto i flussi di profitto attesi nel futuro e
– L’altro è il tasso a cui sconto questi flussi di cassa.
Gli investitori solitamente tendono a focalizzarsi sulla crescita degli utili nel futuro e tipicamente sono portati ad estrapolare la crescita passato e a proiettarla negli anni a venire.
Cioè dicono: se nel recente passato le società americane hanno vissuto una cresciuta annuale degli utili significativa, ALLORA anche nel futuro possiamo aspettarci questa crescita.
Il che in realtà è tutt’altro che vero.
Crescite sostenute dei profitti sono più predittive di un rallentamento futuro, non di un mantenimento o addirittura di un’accelerazione di questo trend.
Quello che però si può osservare guardando la storia dei mercati è che la crescita degli utili in realtà varia molto meno dei rendimenti azionari.
Tradotto: il range in cui si è mossa la crescita degli utili anno dopo anno è più ristretto del range in cui si è mosso il rendimento complessivo del mercato anno dopo anno.
Infatti c’è molta più variabilità nei prezzi delle azioni di quello che sarebbe giustificato dalle variazioni dei valori fondamentali sottostanti.
Ciò che cambia di volta in volta, invece, è il rendimento richiesto dagli investitori o il — che è lo stesso — il costo del capitale delle società che emettono azioni.
Il tasso a cui vengono scontati in ogni momento i profitti futuri è esattamente quel valore in cui rendimento richiesto (lato domanda) e costo del capitale (lato offerta) si incontrano — perché naturalmente il mercato deve essere in equilibrio.
Quindi quel 22 di prima, il rapporto tra il prezzo dell’S&P e gli utili attesi, è principalmente legato al tasso di sconto vigente nell’equilibrio di mercato in questo momento.
In questo momento, gli investitori hanno un’elevata propensione al rischio e se il rischio percepito si abbassa, anche il rendimento atteso diminuisce di conseguenza.
Di conseguenza: il rapporto tra prezzo e utili dell’S&P 500 oggi è molto alto non tanto perché ci si aspettano utili futuri molto corposi (dato che questa aspettativa è già scontata nei prezzi di oggi) ma perché è basso il rendimento richiesto dagli investitori.
Affinché il rendimento ottenuto effettivamente realizzato dagli investitori sia alto, è necessario che gli utili crescano di più di quanto già ci si attende.
Torniamo quindi ai due approcci tramite cui si possono stimare i rendimenti futuri: possiamo ESTRAPOLARE DAL PASSATO oppure fare una PROIEZIONE SUL FUTURO a partire dalle valutazioni di oggi o dal total payout, cioè dalla quota di utili che vengono distribuiti agli investitori come dividendi e buyback.
Entrambi i metodi sono imperfetti e quasi perfettamente inutili nel breve termine.
Su cicli più o meno decennali, però, il potere predittivo del metodo basato su ESTRAPOLAZIONE è disastroso. Antti Illmanen di AQR, forse la più illuminata autorità mondiale sul tema rendimenti attesi, ha calcolato che la correlazione tra estrapolazione e rendimenti dei dieci anni successivi è -0,37, quindi vuol dire che le performance passate predicono delle performance future praticamente sempre di segno opposto: a cicli negativi seguono cicli positivi e viceversa.
Invece il metodo PROSPETTICO, come ad esempio quello che parte dall’inverso del rapporto tra prezzi utili o dal rapporto tra dividendi e prezzi, è tutt’altro che infallibile ma ha mostrato una correlazione di 0,5.
Cioè: c’è una correlazione positiva piuttosto significativa tra i rendimenti impliciti di oggi e le performance del mercato azionario dei prossimi 10-15 anni.
A volte ci sono degli errori quantitativi importanti — e io stesso non ho mancato di prendere per il culo più volte le previsioni del 2014 sui successivi dieci anni che vedevano l’S&P rendere 5-6% di media all’anno. Avrebbe poi fatto tipo 12-13%.
Quelle previsioni però non hanno sbagliato il “segno”. Hanno sbagliato l’ordine di grandezza e c’è più di un motivo, se vogliamo, per giustificare quelle previsioni errate: su tutti, il lunghissimo periodo di tassi a zero che è stato un doping per le azioni, i cui prezzi sono cresciuti molto di più di quanto non sono cresciuti gli utili e gli altri fondamentali sottostanti.
Se nel prossimo decennio l’S&P renderà 4-6% nominale all’anno, come oggi prevedono in tanti, allora il track record del metodo PROSPETTICO risulterà complessivamente molto forte.
Ok?
Ci siamo fin qui?
Cosa sto cercando di dire in fondo?
Sto cercando di puntualizzare il fatto che quando si considera il rendimento passato di un’asset class è importante capire se quel rendimento è dovuto a motivazioni FONDAMENTALI OGGETTIVE oppure SOGGETTIVE.
Se noi estrapoliamo dal passato per formulare delle stime sui rendimenti futuri dobbiamo stare molto attenti a capire cosa ha determinato quelle performance passate.
Alla fine degli anni ’80 il rapporto tra prezzi e utili dell’S&P 500 era circa metà rispetto a quello del resto delle azioni dei mercati sviluppati — anche se ciò era dovuto principalmente al peso del Giappone, che all’apice della sua bolla si trovava con un CAPE ratio, cioè prezzo diviso la media degli utili reali dei 10 anni precedenti, di 78, contro l’S&P 500 a 19!
Da quel valore di 19, in questi ultimi 30 anni il CAPE ratio dell’S&P 500 è arrivato a 38.
Cioè: è raddoppiato.
Oggi le azioni americane costano il doppio rispetto a 30 anni fa, almeno secondo questo criterio.
Qui possono partire tutte le giustificazioni del mondo:
– Utili aziendali più solidi
– Meno regolamentazioni
– Politiche fiscali più favorevoli
– Prevalenza di società tech con business scalabili e bassi costi strutturali
– Maggiore partecipazione all’investimento azionario.
Tutto giustissimo e sacrosanto.
Ma se io estrapolo dal rendimento dei 30 anni passati per stimare i rendimenti futuri devo chiedermi: “quanto è probabile che si ripeta quel che abbiamo vissuto, se una parte significativa del rendimento passato dell’S&P 500 è dovuto semplicemente al fatto che le azioni americane sono diventate via via più care?”.
Cioè tra 30 anni, avremo il CAPE ratio dell’S&P 500 raddoppierà un’altra volta e andrà a 76, come il Giappone prima della più grande bolla di tutti i tempi?
Oddio: possibilissimo eh!
Non è che non possa accadere.
Bisogna però capire se l’investitore medio sarà davvero convinto che comprare azioni ad un prezzo 76 volte gli utili generi un qualche rendimento reale e che il rischio valga la candela.
Spero di non aver perso nessuno per strada sino ad ora.
Il punto da portarsi a casa è fondamentalmente questo:
– I ritorni attesi basati sull’approccio prospettico hanno una base oggettiva, cioè i rendimenti impliciti di partenza (in particolare il rapporto tra utili o dividenti e il prezzo). Questi presuppongo che il ritorno azionario siano variabile e hanno un potere maggiormente predittivo.
– I ritorni attesi basati invece su estrapolazione hanno una base soggettiva e sono principalmente guidati da una tendenza a sovrastimare o sottostimare la crescita futura degli utili a partire da quella del passato. Questi presuppongono che il ritorno azionario sia più o meno fisso e hanno un minor potere predittivo.
Poi nello specifico del mercato americano oggi possiamo aggiungere: attenzione ad estrapolare i rendimenti futuri da quelli degli ultimi 30 anni perché praticamente tutta la sovraperformance americana rispetto ai mercati exUS è spiegabile dal fatto che le azioni americane sono diventate via via sempre più costose e il mix di condizioni che l’ha reso possibile non è facilmente replicabile.
Gli Stati Uniti hanno sicuramente dimostrato una superiorità strutturale in termini imprenditoriali, di innovazione, impiego del capitale e nella creazione di un ecosistema quasi ideale per lo sviluppo delle sue aziende.
Ma questa superiorità si è tradotta in una maggior crescita dei profitti nell’ordine di un punto percentuale all’anno in media.
Notevole, sicuramente.
Ci sta dire che — per il solo fatto che un’azienda sia quotata negli Stati Uniti — probabilmente merita un punto percentuale di crescita attesa in più rispetto alla stessa azienda quotata fuori.
Però l’S&P 500 ha battuto l’MSCI exUS negli ultimi 40 anni non di 1 un punto, ma di circa 4 punti percentuali all’anno.
Questo extra rendimento in eccesso è dovuto principalmente al “repricing”, al fatto che a parità di utili, un’azione americana è arrivata a costare sempre di più di una europea o di una giapponese o di una australiana e così via.
L’errore che l’investitore non deve commettere è quindi confondere una sovraperformance basata su prezzi sempre più gonfi con una basata sua una maggiore crescita dei fondamentali.
Questa è la premessa teorica.
Ora veniamo a discorsi più pratici.
Qual è il quadro reale del mercato azionario americano?
Perché io sono il primo che negli ultimi due anni e mezzo ha raccontato della supremazia devastante dell’S&P 500 contro ogni altro grande indice.
Eppure, a guardar bene come sono andate le cose negli ultimi anni, escono fuori delle verità sorprendenti, che effettivamente avevo io stesso preso un po’ sottogamba.
PRIMA COSA: da settembre 2022 a oggi, cioè dal giorno prima che sul mercato esplodesse la bomba Chat GPT, il rapporto tra prezzi e utili attesi è passato da circa 17 a oltre 22, quindi circa un 30% in più, mentre il CAPE ratio è passato da 27 a quasi 38, praticamente 40% in più. Allo stesso tempo però la crescita degli utili viaggia intorno al 5-6%, rispetto al 9% del periodo 2017-2021 (almeno stando ai conti fatti da Acadian).
Cioè cosa vuol dire? Vuol dire che i multipli sono cresciuti al doppio della velocità rispetto ai 5 anni precedenti, mentre la crescita dei profitti si è quasi dimezzata.
Secondo Acadian, partendo dall’MSCI World, un investitore dovrebbe considerare di ridurre l’esposizione agli Stati Uniti di almeno l’8% se pensa che la crescita degli utili media delle società americane non batterà di almeno 2 punti percentuali all’anno quella delle società exUS (ragionamento molto simile a quello di Illmanen, che ha calcolato che affinché l’S&P 500 abbia lo stesso rendimento delle società exUS, i suoi utili dovrebbero battere gli utili delle società exUS di almeno 2,2 punti percentuali ogni anno per 10 anni — oppure i prezzi gonfiarsi ulteriormente).
Se questo concetto non dovesse essere particolarmente chiaro, spieghiamolo con un esempio super semplificato.
Immaginiamo che le società distribuiscano il 100% degli utili come dividendi; quindi, tutto il profitto viene dato agli azionisti.
Se il rapporto tra prezzo è utili dell’S&P fosse esattamente 22, giusto per fare i conti facili, e quello dell’MSCI exUS 15, allora il rendimento dell’S&P 500 sarebbe circa 4,5%, ossia 1 diviso 22, mentre quello dell’MSCI exUS sarebbe 6,7%, 1 diviso 15.
Per compensare il rendimento, alle azioni americane servirebbe una crescita di 2,2 punti percentuali in più per passare da 4,5 a 6,7%.
Ancora più semplicemente: se lo stesso flusso di casso lo acquisti ad un prezzo superiore, il tuo rendimento sarà inferiore.
SECONDA COSA: nel suo articolo, GMO scompone la performance dell’S&P 500 degli ultimi 40 anni in tre fattori:
– La crescita fondamentale, ossia quella legata, come abbiamo detto, a dividendi, buyback e utili;
– La crescita del rapporto tra prezzo e gross profit, che comunque è sempre un modo per misurare la valutazione relativa di un mercato;
– E poi il rafforzamento del dollaro, che chiaramente ha incentivato gli investitori esteri ad acquistare asset in dollari e disincentivato gli americani a comprare asset esteri.
Morale, secondo GMO l’80% della sovraperformance americana rispetto all’MSCI exUS è dovuta a questi 2 fattori, mentre solo il 20% dipende dalla crescita fondamentale.
Peraltro, il grosso di questa crescita fondamentale si è concentrata prima del 2015. Dal 2016 in poi, non c’è stato un’evidente extraperformance dell’S&P 500 rispetto all’MSCI exUS.
Tra l’altro GMO sottolinea una cosa che aveva notato anche Howard Marks nel suo ultimo memo.
Un terzo dell’S&P 500 sono le magnifiche 7, che come noto hanno valutazioni molto elevate ma sono pur sempre dei gioelli assoluti.
Ciò che però deve forse preoccupare di più paradossalmente sono le altre 493, che hanno valutazioni comunque nettamente sopra la media dei Paesi sviluppati, ma al contrario delle magnifiche non hanno generato crescite particolarmente impressionanti.
Infine, così come ChatGPT e la rivoluzione dell’AI hanno messo l’acceleratore alle azioni americane, allo stesso tempo hanno cambiato un po’ la narrativa sui modelli di business.
Nel passato le Big Tech dominavano perché facevano pozzi di profit con bassi costi strutturali.
Oggi invece nella corsa all’AI le big stanno spendendo Trillion, migliaia di migliaia di dollari in capital expenditures.
Prima che i mercati rimbalzassero per il discorso pro taglio dei tassi di Jerom Powell, nei giorni precedenti abbiamo assistito a vendite piuttosto pesanti su tutto il comparto tech, in particolare dopo che l’MIT ha fatto uscire un report in cui sostiene che circa il 95% degli investimenti in AI fatti sinora non sarà profittevole.
Lo stesso Sam Altman, il papà di ChatGPT e CEO di OpenAI, ha detto molto candidamente che pensa che ci sia troppo hype e che molti perderanno molti soldi.
Una rondine non fa primavera, ma il dubbio che ad un certo punto si finisca per sovraspendere per qualunque cosa abbia l’etichetta AI è più che fondato.
Ricordiamo la Legge di Amara, secondo la quale “tendiamo a sovrastimare l’impatto di una tecnologia nel breve termine e a sottostimarlo nel lungo termine”.
Anche sul FT la scorsa settimana è uscito un editoriale che andava in questa direzione è che sostanzialmente diceva: “mettiamo in conto un crash legato all’AI prima di godere davvero dei suoi benefici”.
Magari questa volta non sarà così e l’AI produrrà subito meraviglie.
Ma sarebbe più un’eccezione rarissima, che non la regola quando si tratta di innovazione dirompente.
TERZA COSA — e qui veniamo alle previsioni sul futuro.
GMO dice una cosa molto ovvia e molto vera.
Le politiche di Trump rischiano di esporre l’economia americana ad un supply-shock, cioè ad uno shock lato offerta, per 3 ragioni tutte collegate tra loro, che sono ovviamente:
– L’introduzione dei dazi, che potrebbe alzare i costi, ridurre la competitività dei beni prodotti negli Stati Uniti, perché se limiti i competitor viene meno anche l’incentivo alla qualità e all’innovazione, e ovviamente potrebbe creare inflazione.
– Questo supply-shock riguarda poi l’offerta di lavoro, dato che le politiche antimmigrazione riducono la disponibilità di personale a basso costo per la fascia di manodopera più bassa;
– Abbiamo poi l’incertezza generale, che rende quasi impossibile fare investimenti costosi a lungo termine per un’azienda, non sapendo quanti sono i dazi, su cosa, quanto a lungo, se ci saranno anche dopo Trump e così via;
GMO non è la prima società a notare due cose collegate tra loro:
– La prima è che ciò che per gli Stati Uniti è un supply-shock, lato offerta come abbiamo detto, per gli altri paesi è un demand-shock, lato domanda, dato che gli Stati Uniti sono stati per decenni il consumatore finale di tutto il resto del mondo.
– La seconda cosa, però, è che se è vero che le altre economie che esportano negli Stati Uniti rischiano rallentamento economico e recessione, uno shock lato domanda è più facile da curare: emetti debito pubblico (la Germania può emetterne in quantità industriale e se qualcuno desse retta a San Mario Draghi anche l’Europa tutta potrebbe emettere debito comune a basso costo), tagli i tassi, stimoli la domanda, per soddisfare la domanda dai lavoro a gente disoccupata e metti una pezza all’economia.
Uno shock lato offerta è invece più complicato da gestire, perché rischi di creare stagflazione.
Inoltre è teoricamente più semplice trovare nuovi mercati di sbocco per i tuoi prodotti che non ricostruire intere supply chain.
L’idea che gli americani si mettano ad avvitare gli iPhone a casa propria o a cucire le scarpe della Nike è semplicemente da fuori di testa.
Prima di fiondarci nell’ultima parte dell’episodio, facciamo un brevissimo recap.
Le due cose che abbiamo detto sono:
– UNO: se adottiamo uno sguardo oggettivo PROSPETTICO, i rendimenti attesi per l’S&P 500 da qui al prossimo decennio sembrano decisamente mediocri, soprattutto perché il grosso della sua supremazia passata si fonda su condizioni difficilmente replicabili, come deregolamentazioni, tagli alle tasse, tassi di interesse a zero, spesa pazza da parte del governo federale — tutte cose che non hanno aumentato più di tanto i profitti, ma soprattutto le valutazioni azionarie.
– DUE: ci sono fattori strutturali che sembrano giocare contro, soprattutto l’aumento incontrollato dei costi a fronte di benefici incerti per ciò che dovrebbe essere il deus ex machina definitivo, la cura ad ogni male passato, presente e futuro, l’AI. E poi il supply-shock indotto da Lord Dazimort e dal suo brutto rapporto con il libero commercio.
La naturale conclusione sembra quindi propendere decisamente in un’unica direzione: ridurre l’esposizione agli Stati Uniti in un indice globale e aumentare l’esposizione verso altri Paesi con valutazioni nettamente più basse.
Attenzione che il ragionamento di GMO, di Acadian, di AQR, forse anche di Research Affiliates, non è: Europa, Giappone, Australia, Canada e forse gli emergenti hanno delle economie messe meglio, quindi investiamo lì.
Forse sì, forse no, probabilmente no, ma non è questo il punto.
Il punto è che anche se l’economia e le aziende americane continueranno a fare mediamente meglio di quelle exUS, comunque il rendimento atteso per i mercati exUS resta più elevato, fatta salva una sorpresa al rialzo che porti le prime a crescere di oltre 2-3 punti percentuali ogni anno in più delle seconde.
In tutto ciò, per scrivere quest’episodio sono andato a vedere effettivamente come sono andate le cose negli ultimi anni.
Per mia abitudine faccio sempre backtest molto lunghi nel tempo.
Ma ogni tanto conviene anche andare a vedere i recenti track-record.
Confrontiamo per esempio la performance dal 2010 ad oggi di:
– S&p 500
– MSCI Europe
– Euro Stoxx 50
– DAX (quindi il mercato tedesco) e il nostro
– FTSE MIB
I dati sono espressi dalla prospettiva di un investitore in euro.
Usando i dollari c’è qualche significativa differenza quantitativa, ma non qualitativa.
Trarremmo le stesse conclusioni.
Dal primo agosto 2010 al 31 luglio 2025, 15 anni tondi, i risultati sono questi:
– MSCI Europe: +216%
– Euro Stoxx 50: +212%
– Dax: +250%
– FTSE Mib: +212%
– S&P 500: +722%.
Sì: 722%. Più del triplo della media di tutti gli altri.
Un altro campionato.
Già negli ultimi 5 anni però le cose cambiano:
– MSCI Europe: +78%
– Euro Stoxx 50: +93%
– Dax: +85%
– S&P 500: +105%. Sempre di più ma non così tanto di più.
Da notare poi — e questa cosa mi ha lasciato esterrefatto perché conoscevo il fatto, ma non mi ero accorto dell’entità: il nostro sfigatissimo FTSE Mib ha fatto +170% negli ultimi 5 anni, disintegrando l’S&P 500.
Se andiamo poi a vedere gli ultimi 3 anni abbiamo ancora un’altra storia da raccontare:
– MSCI Europe: +40%
– Euro Stoxx 50: +64%
– Dax: +80%
– FTSE Mib: uno scoppiettante +124% – probabilmente il miglior indice del mondo, la cui impressionante performance si può ricondurre all’enorme peso che i titoli bancari hanno nel paniere di piazza Affari. Con il rialzo dei tassi nel 2022, società come Unicredit, Intesa e BPM sono letteralmente volate, così come tutto il comparto bancario della zona Euro, con l’indice eurostoxx Banks che negli ultimi 3 anni è cresciuto del 270%.
E l’S&P 500?
Beh in dollari sarebbe cresciuto di circa il 60%, mentre in euro di poco meno del 40%.
Il motivo principale di questo cambio di testimone?
Sicuramente non il fatto che qualcuno creda che l’economia europea abbia migliori fondamentali di quella americana.
Nessuno è così pazzo, non scherziamo.
Semplicemente le valutazioni di partenza erano a tal punto depresse che poche buone notizie — o magari l’assenza di notizie troppo brutte — è bastata a far correre i titoli europei.
Ora, detto tutto questo, l’inevitabile conclusione è che sia opportuno sottopesare gli Stati Uniti nei portafogli?
Ho delle motivazioni per il Sì e delle motivazioni per NO.
MOTIVAZIONI PER IL NO:
1. Il punto di partenza è il market portfolio. L’attuale mercato pesato per capitalizzazione è la migliore rappresentazione possibile delle forze in gioco, delle prospettive future e della percezione di rischio e rendimento atteso da parte dell’investitore medio. Ogni deviazione è una scommessa contro il banco.
2. La matematica non dà vantaggi. Le valutazioni sono sotto gli occhi di tutti. Non basta investire nei mercati più economici per ottenere rendimenti maggiori. I rendimenti attesi sono più alti perché gli investitori richiedono un premio maggiore a fronte di un maggior rischio e perché le aziende devono sostenere un maggior costo del capitale. Un conto è il rendimento atteso, un conto è il rendimento effettivamente realizzato. Maggiore è il rischio di partenza, maggiore sarà anche la dispersione dei risultati effettivamente conseguiti dagli investitori.
3. Quel che abbiamo detto nell’episodio di oggi potrebbe essere tutto perfettamente vero ma inutile. Il mercato americano potrebbe andare avanti a gonfiarsi ancora magari per 5 anni, il dollaro ricominciare a salire e in più l’intelligenza artificiale potrebbe davvero fare miracoli che ancora non ci sogniamo. Se il mercato prezza le azioni americane 22 volte gli utili attesi e 15 volte quelle ex US, potrebbe semplicemente avere ragione.
MOTIVAZIONI PER IL Sì:
1. Il mercato attraversa dei cicli. Prima o poi questi finiscono. Abnormi crescite dei profitti nel passato preludono a crescite mediocri nel futuro. Rendimenti sopra la media nel passato, soprattutto se alimentate da espansione dei prezzi e non da ragioni fondamentali, prende in prestito rendimenti dal futuro — quindi è più che lecito aspettarsi ritorni inferiori dall’S&P 500 in un futuro prossimo. Pistola alla tempia, direi che le probabilità sono più contro l’S&P che pro S&P sempre e comunque.
2. Pesare un mercato in base al market cap, cioè al prezzo, è una decisione meno insindacabile di quel che si pensa. È forse la decisione più pratica che si possa prendere per descrivere l’andamento di un indice, ma non sta scritto da nessuna parte che un indice debba essere pesato per market cap. Si tratta di scegliere tra due posizioni alternative:
a. Un indice pesato per market cap tende a premiare le società growth più costose;
b. Un indice pesato per valori fondamentali, come utili, dividendi, freecash flow, debito e così via, tende a premiare le società value più economiche.
È una convenzione piuttosto ragionevole pesare per market cap, ma non è detto che sia l’unico modo giusto o il più giusto.
Sicuramente è meno arbitrari di altri — almeno stando al CAPM.
Ma non necessariamente esente da bias.
Quindi si può considerare di utilizzare altri ragionamenti — e mi ha stupito vedere che prendendo strade diverse si finisce spesso allo stesso punto.
Come sapete il peso dell’S&P 500 nel mio portafoglio azionario è circa 50%, perché questo è il contributo in termini di net profit delle società dell’S&P 500 nell’MSCI ACWI, come calcolato da Verdad, ma anche altri come il Global Fundamental Index di Research Affiliates, Acadian e Victor Haghani, usano metodologie diverse nei propri modelli di asset allocation strategica, per arrivare a conclusioni simili — con l’S&P 500 sottopesato, non in maniera drastica ma significativa.
In ogni caso, non si tratta di relegare gli Stati Uniti in un angolo.
Anzi.
È difficile immaginare che un mercato così grande possa non essere quello con un peso così ampio nel portafoglio.
L’obiettivo dell’episodio di oggi non vuole essere “dimostrare che sia meglio sottopesare gli Stati Uniti”.
Giuro su mia figlia, sinceramente, non lo so cosa sia giusto fare.
Ricordatevi sempre il teorema dell’Ultimo Pirla: io non so niente, non prevedo il futuro, non sono più intelligente della media e non ho alcun vantaggio competitivo.
Nel mio portafoglio gli US pesano 50%.
Ma il mio ragionamento è in parte psicologico:
– Se si rivelerà giusto sottopesarli, felice di averlo fatto;
– Se si rivelerà sbagliato, il danno non sarà grave come se li avessi esclusi dal portafoglio o limitati magari al 10-20%.
In parte è statistico BARRA metodologico:
– Mi convince di più un approccio ESTRAPOLATIVO o PROSPETTICO? Prospettico
– Questo mi dice che i rendimenti futuri saranno più alti negli Stati Uniti o exUS? exUS
– Quanto è probabile che nel prossimo decennio ci saranno ancora: tagli alle tasse, deregolamentazioni, deficit fiscale senza limiti, tassi d’interesse a zero e crescita sotto steroidi del dollaro? Non molto probabile.
Tutte queste cose messe assieme mi portano, come dire a, “talk the talk and walk the walk”.
Se ciò di cui ho parlato oggi e in passato in qualche modo mi convince, devo agire di conseguenza.
Non è però una buona ragiona per chiunque per fare lo stesso.
Ciò che volevo fare oggi era piuttosto proporvi un framework di ragionamento analogo per testare le vostre convinzioni e tradurlo in decisioni di asset allocation.
Magari applicare questo ragionamento alle vostre convinzioni vi porterà a decisioni opposte.
L’importante è sapere sempre se quel che ci appare nella nostra visione delle cose, e sui cui basiamo le nostre decisioni, sono fatti certi, ma visti in uno specchietto retrovisore, o fatti incerti, che ancora devono accadere, visti attraverso un vetro opaco di fronte a noi.
Bene amici miei, spero che questo episodio vi sia piaciuto e che vi abbia dato qualche chiave di lettura utile per ragionare in maniera fondata sulla vostra asset allocation riducendo al minimo l’influenza di opinioni soggettive, che spesso affondano le loro radici nel recente passato e nell’esperienza più prossima e si perdono il quadro più generale.
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Per questo episodio invece è davvero tutto e noi ci risentiamo domenica prossima quando vi svelerò alcune delle grandi novità di settembre che molto presto trasformeranno per sempre questo podcast, sempre qui, naturalmente, con The Bull, il tuo podcast di Finanza Personale.
Recensioni
Quando capisci come funziona la finanza… ti viene voglia di raccontarla!
Podcast che dà sempre spunti interessanti che personalmente mi ha fatto appassionare alla finanza personale spingendomi ad approfondire in prima persona.
Lorenzo, 13 Mar 2025Podcast piacevole, scorre veloce ma in modo estremamente chiaro, spiega i concetti chiave per gestire le proprie finanze, fornendo la classica cassetta degli attrezzi. Complimenti, davvero ben fatto!
Massimiliano, 29 Mag 2024Ho acquistato e letto il suo libro e l' ho trovato. Esprime i concetti economici in modo semplice e chiaro. Sentirlo parlare conferma che è un professionista del settore.
Giulia N., 11 Ago 2025Ho seguito tutte le puntate! Grazie veramente
Amalia A., 17 Set 2025Veramente veramente raccomandato! la finanza personale riassunta alla perfezione! e spiegata partendo dall'ABC! Ottimo anche da ascoltare a velocita 1,5x!
Giorgia R., 23 Gen 2025La mia ignoranza in materia mi ha sempre creato dei dubbi, ma grazie a un amico ho iniziato ad ascoltare il podcast. Per fortuna che ho 24 anni e un po' di tempo e soldi da dedicarmi a imparare le varie nozioni per me stesso. Grazie mille!
Luca G. 10 Ott 2025Da quando l'ho scoperto in 15 gg mi sono ascoltato 150 puntate senza fermarmi, ho annullato gli altri podcast per portarmi alla pari ed ascoltare tutte le precedenti puntate, ben fatto, esattamente il livello di informazione che mi serviva
Gianluca G., 11 Set 2025Non sono solito a mettere recensioni e specialmente non ascolto podcast, ma da quando ho iniziato questo, faccio fatica a staccarmi, e quasi non posso più fare a meno di ascoltare e arricchirmi culturalmente.
Andrea V., 22 Set 2025Dovrebbero ascoltarlo buona parte degli italiani e io avrei dovuto scoprirlo con qualche anno in anticipo ma meglio tardi che mai
Matteo C., 3 Set 2025