Il vero Portafoglio di Mercato: come investire in tutto

Cosa succederebbe se potessimo vedere come è investito ogni dollaro del pianeta? In questo episodio di The Bull analizziamo il Market Portfolio secondo Goldman Sachs: 250 mila miliardi di dollari distribuiti tra azioni, obbligazioni, oro, mercati privati, real estate e cripto. Scopri perché è il benchmark dei benchmark, quali limiti ha e come costruire un portafoglio realmente globale, bilanciato e pronto al futuro.

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Il vero Portafoglio di Mercato: come investire in tutto
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263. Il vero Portafoglio di Mercato: come investire in tutto

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Risorse

Punti Chiave

Il vero portafoglio di mercato

Composizione del market portfolio

Il significato teorico del market portfolio

L’evoluzione del market portfolio nel tempo

Performance storica del market portfolio

Limiti del market portfolio

Trascrizione Episodio

Bentornati a The Bull – il tuo podcast di finanza personale.

Un paio di settimane fa la temutissima banca del male Goldman Sachs ci ha regalato una perla: 40 pagine e fischia di grafici e numeri dedicati al Market Portfolio, al portafoglio di mercato, al benchmark universale di tutti gli investitori del mondo.

Se sapete di cosa sto parlando – cioè se sapete cosa si intende per Market Portfolio – dovreste già avere l’acquolina in bocca perché dati così puntuali non li avevo mai trovati prima d’ora.
Altrimenti, se non sapete di che si tratta, state sereni che in due secondi spieghiamo che roba è e perché questa cosa di Goldman è così interessante.

Tra l’altro vi anticipo che ci sono anche due o tre chicche molto pratiche di utilità per tutti voi investitori dall’altra parte dello schermo.

Allora, brevissimo spieghino iniziale per spiegare che diavolo è il Market Portfolio.

Dicesi Market Portfolio, la somma di tutti gli asset investibili a livello globale.
Per Goldman, la stima a ottobre 2025 è di 250 trillion, cioè 250 mila miliardi di dollari.

[COMPOSIZIONE DEL MARKET PORTFOLIO]

E in questo momento, almeno secondo la ricostruzione di Goldman, la composizione del portafoglio di mercato, il portafoglio di tutti i portafogli, è può o meno questa:

49% azioni;
37% obbligazioni;
6% oro, che ha fatto un enorme balzo in avanti negli ultimi anni, grazie all’incredibile corsa del 2022 in poi che ne ha più che raddoppiato il valore;
5% Private Market, quindi azioni e debito di società non quotate;
2% di fondi immobiliari e
1% di cripto, di cui naturalmente Bitcoin occupa un peso spropositato.

Questo è il modo in cui sono investiti, più o meno nel momento in cui ne stiamo parlando, circa 250 mila miliardi di dollari di asset tra i vari investitori istituzionali e privati con accesso ai mercati finanziari.

Capite perché dicevo che è il “benchmark dei benchmark”?

Ma vediamo un po’ più nel dettaglio come sono composti al loro interno i due big boy: azioni e obbligazioni.

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Si applicano T&C, investire comporta dei rischi ma per comprendere bene come è distirbuito il rischio di tutto il mercato, torniamo a parlare del Market Portfolio.

Partiamo dalle AZIONI.
Va beh, qui in realtà sappiamo bene come è composto un indice azionario globale, dato che molto spesso ci riferiamo a indici ben noti come l’MSCI ACWI oppure il FTSE All World.

Stati Uniti: 64%
Europa: 14%
Asia ex Giappone: 12%
Giappone: 5%
E poi c’è una parte residua di mercati minori intorno al 5%.

In breve: due terzi Stati Uniti, un terzo resto del pianeta.

Guardiamo invece la composizione settoriale così come è oggi, poi vediamo come sono cambiate le cose nel tempo.

Oggi abbiamo:

28% Technology
17% Finanziari
11% consumi discrezionali
11% manifattura
9% servizi di comunicazione
9% healthcare
e nel 15% rimanente c’è tutto il resto, energia, utilities, materie prime, costruzioni e via dicendo.

È un po’ meno nota invece la composizione dei bond globali.

Qui gli Stati Uniti sono meno dominanti, anche se il loro peso resta comunque di un altro ordine di grandezza rispetto alle altre regioni:
I bond americani pesano il 43% del mercato obbligazionario globale;
Seguono quelli europei con il 29%;
Quelli asiatici con il 21% e
Infine tutto il resto del mondo con il 7%.

È interessante anche andare a vedere la composizione dal punto di vista della tipologia di obbligazioni

Praticamente metà, 51%, sono Titoli di Stato
Un altro 16% sono strumenti obbligazionari in qualche modo garantiti a livello governativo;
21% sono obbligazioni societarie;
Il restante 12% sono strumenti di debito collateralizzati.

[IL SIGNIFICATO TEORICO DEL MARKET PORTFOLIO]

Ora, prima di andare a guardare come si è evoluto nel tempo questo mega portafoglione, spieghiamo bene una cosa, altrimenti sembra che mi diverta a fare una lista di statistiche senza alcun motivo.

Gira che ti rigira, quando parli di finanza alla fine ritorni sempre alle origini, alla teoria moderna del portafoglio e al Capital Asset Pricing Model.
Vi ricordate?
Il CAPM? William Sharpe?
Quello che aveva messo in chiaro che c’è un rapporto lineare tra rischio e rendimento tra i vari asset investibili?
E che aveva spiegato che il rendimento è una funzione dell’interesse senza rischio e della sensibilità al premio al rischio del mercato?

E(Ri)=Rf+ i(ERm-Rf)

Il CAPM no?
Dai sì che lo conosciamo tutti.

Va beh, una delle conseguenze della grandiosa, bellissima e non perfettamente giustissima teoria formulata da William Sharpe nell’ormai lontano 1964 era che doveva esistere un portafoglio che, in ciascun momento, dovesse rappresentare il miglior rapporto tra rendimento e rischio.

Non è un caso tra l’altro che in finanza il rapporto tra rendimento e rischio si chiama proprio, indice di Sharpe, Sharpe Ratio.
Lo Sharpe Ratio non è altro che

Sharpe Ratio= P-RfP

Il rendimento in eccesso dell’asset o di un portafoglio meno l’interesse senza rischio diviso per il rischio del portafoglio, cioè per la sua volatilità, per la sua deviazione standard.

Perché è importante?
Perché come abbiamo detto un cazziliardo di volte, noi non investiamo per massimizzare il rendimento assoluto sui nostri capitali, ma il rendimento aggiustato per il rischio.
Vogliamo il massimo rendimento per un certo livello di rischio oppure
Vogliamo il minimo rischio per un certo livello di rendimento

Il portafoglio con il miglior sharpe ratio sarebbe quindi quello che massimizza quest’idea – anche se naturalmente il problema è che i dati che gli metti dentro sono passati, quelli futuri … boh … vai a sapere.

Ora, ci sarebbero un po’ di cose da dire sulle implicazioni di questa idea fondativa della teoria finanziaria e sulle implicazioni per l’investitore, ma non è questo il luogo per approfondire questo discorso.

La cosa che ci interessa davvero oggi è semplicemente che secondo Sharpe il portafoglio con il massimo Sharpe Ratio è esattamente il portafoglio di mercato, cioè l’insieme di tutti gli asset pesati per capitalizzazione, l’unico portafoglio che teoricamente tutti gli investitori del mondo potrebbero detenere contemporaneamente.

Ovviamente questa è una finzione teorica, però l’idea è potente:
Ogni volta che ciascuno di noi investe in qualcosa, si tratta un gioco a somma zero: per uno che compra ci vuole uno che vende, solo uno dei due ha ragione;
Mentre con il market portafoglio non serve una controparte: il mio guadagno non è la tua perdita, ma la crescita di valore degli asset – dovuta in particolare al reddito generato da azioni e obbligazioni che pesano il 90% del totale.
In realtà, se ci pensiamo bene, il portafoglio di mercato è proprio una fotografia del modo in cui l’umanità intera distribuisce il proprio rischio, rispetto alla nostra capacità collettiva di produrre e spendere reddito; e il premio al rischio che incorpora il market portfolio in ogni fase storica è proporzionale al rischio di possedere determinati asset che vanno bene o male quando va bene o male l’economia del mondo intero.
Per questa ragione il punto di partenza dell’investitore medio e investire in questa rappresentazione della media ponderata di tutti i portafogli del mondo.

Anche qui, sempre in teoria.
In pratica come vedremo tra pochissimo non è vero che il market portfolio sia sempre stato quello che ha ottenuto il maggior rendimento per unità di rischio: altri portafogli hanno performato meglio.

[L’ORIGINE DEL 60/40]

Perché questa bellissima costruzione teorica non funziona perfettamente nella realtà?
Si possono buttare lì un po’ di risposte:
La prima e più importante è che gli investitori non sono perfettamente razionali e quindi non si comportano e non investono esattamente come vorrebbe la teoria;
La seconda è che non tutti hanno le stesse informazioni. I mercati sono efficienti ma non completamente efficienti – e lasciamo perdere se poi includiamo manipolazioni di mercato;
La terza è che i modelli finanziari ipotizzano che non ci siano tassi, costi di transazione, frizioni di alcun genere come i costi di leva e così vias.

Però c’è un fatto degno di nota.
Ogni volta che facciamo qualche confronto e ci serve un portafoglio di riferimento noi prendiamo sempre il 60/40, 60% azioni e 40% obbligazioni.
Perché si usa questo?
Beh il motivo è che questo portafoglio, che è stato popolarizzato alla fine degli anni ’80, rifletteva la distribuzione di azioni e obbligazioni nel market portfolio.

Il 60/40 ha sempre rappresentato una buona approssimazione del portafoglio di mercato e in effetti ha dimostrato di generare in media un miglior rendimento aggiustato per il rischio rispetto ad un portafoglio composto da sole azioni.

Secondo i calcoli di Goldman, un 60/40 globale, composto quindi da due indici pesati per capitalizzazione di azioni e obbligazioni,

avrebbe reso circa il 7,1% all’anno di media dal 1990 ad oggi, con uno Sharpe ratio di 0,42.
Un portafoglio 100% azionario globale avrebbe reso 8,2%, ma con uno sharpe ratio di 0,36.
Più rendimento assoluto sì, ma a fronte di un rischio più che proporzionale.

Questo sempre per tornare al solito tema che tocchiamo ogni tanto: “perché investire in un portafoglio 100% azionario è un’idea generalmente subottimale”.

Dopo 260 e fischia episodi abbiamo finalmente spiegato da dove arriva la celebrità del 60/40. È un’approssimazione realistica del portafoglio di mercato, cioè della media di come investono la maggior parte degli investitori privati e istituzionali del mondo.

Però oggi abbiamo visto che la realtà non è più questa.
O meglio, 49% azioni, 37% obbligazioni, la loro proporzione oggi è 57/43, non è che siamo lontanissimi.
Ma la verità è che la quota di altri asset è cresciuta nel tempo.

[L’EVOLUZIONE DEL MARKET PORTFOLIO NEL TEMPO]

Vediamo l’evoluzione del Market Portfolio nel tempo.
Il report ricostruisce il portafoglio con Azioni e obbligazioni e oro dal 1950, mentre ne dà una versione più dettagliata con global credit, quindi bond societari, mercati privati, real estate e cripto a partire dal 1990.
Ovviamente non ci sono cripto prima del 2008.

Ci sono due cose molto significative da notare:
La prima è che la quota di azioni ha toccato il suo punto minimo chiaramente nel 2009, dopo il collasso dei mercati duranti la Great Financial Crisis. Quel momento ha conciso anche con quello di massimo peso dei titoli di stato. La proporzione era praticamente 40/60 in quel momento. Poi la quota azionaria ha gradualmente recuperato, soprattutto erodendo spazio ai bond governativi, ma ancora oggi non siamo tornati ai livelli di fine anni ’90.
La seconda cosa è che nel frattempo è aumentato in maniera significativa il peso degli altri asset: credito, oro, mercati privati, real estate e cripto oggi pesano circa il 16% del totale, praticamente il doppio rispetto al 2000.

E anche questo non è un dettaglio trascurabile se il nostro benchmark di riferimento quando pensiamo a come costruire il nostro portafoglio è il mercato globale. Non è chiaramente obbligatorio investire in oro, private equity e così via, ma bisogna tener presente che azioni e titoli di stato è una rappresentazione significativa ma parziale del portafoglio di mercato – di come l’investitore medio investe i suoi soldi nel mondo.

Ora, torniamo un attimo alle azioni e guardiamo a come si è evoluta la loro composizione nel tempo.

Non credo stupirà nessuno che, dal punto di vista geografico, gli Stati Uniti hanno raggiunto oggi un peso mai visto nell’azionario globale, perlomeno dalla seconda guerra mondiale in poi.

Che oggi pesino il 64-65% del totale l’abbiamo detto mille volte.
Vediamo però quali sono stati i principali highlights storici:
Intanto gli Stati Uniti hanno sempre mantenuto il primato, anche se con meno margine di oggi, tranne che per un breve periodo alla fine degli anni 80, quando il Giappone divenne il più grande mercato del mondo, gonfiato da una bolla così clamorosa che i prezzi di oggi dell’S&P 500 sembrano invece quelli di un mercato depresso.
Un secondo fatto rilevante è la crescita dei mercati emergenti: praticamente inesistenti fino agli anni ’80, hanno avuto il loro picco di massimo splendore nei primi anni 2000 per poi arretrare un po’ e posizionarsi oggi intorno al 10% del totale;
Contestualmente si è assottigliata parecchio la quota di Europa e Regno Unito, praticamente dimezzandosi dagli anni ’50 ad oggi.

Se guardiamo invece alla composizione settoriale dell’S&P 500, la storia della sua evoluzione racconta molto bene la trasformazione dell’economia dal dopoguerra in poi.

Negli anni 50 il mercato era dominato da colossi dell’energia e del petrolio e il settore healthcare praticamente non esisteva.
Oggi invece commodity peserà un quindicesimo di allora, mentre healthcare è diventato il 4° settore più rappresentato. Il settore largamente dominante, come abbiamo detto prima, è chiaramente quello Tecnologico.

Da un mondo fortemente industrializzato si è chiaramente passati ad un’economia più light, dominata dai servizi tecnologici, finanziari e di comunicazione e focalizzata sulla preservazione della salute per un tempo molto più lungo che in passato.

Se invece ci spostiamo dall’evoluzione dei settori all’evoluzione delle abitudini di investimento a livello globale cosa scopriamo?
Beh, un fatto piuttosto noto anche qui: i paesi anglosassoni sono molto meno avversi al rischio e quindi decisamente più propensi a investire in azioni, rispetto ad Europei e Giapponesi, con i paesi Scandinavi che invece rappresentano una curiosa via di mezzo.

Americani, Canadesi, Australiani e Neozelandesi investono oggi circa il 60% dei propri asset in azioni.
Gli Scandinavi quasi il 50%;
Gli Europei poco meno del 30%, anche se come vedremo tra un secondo il Regno Unito alza un po’ la media, perché invece nell’area Euro siamo un disastro;
I giapponesi infine investono storicamente poco in azioni, circa il 20%.

Nessuno mi toglierà mai dalla testa la convinzione che la prosperità economica di un Paese sia legata a doppio filo alla propensione dei suoi cittadini ad investire in azioni.
E non tanto direttamente, per via del maggior rendimento atteso dell’azionario rispetto alle obbligazioni.
Ma proprio per il mindset che richiede.
Investire in azioni presuppone:
Propensione al rischio;
Fiducia e ottimismo verso il futuro;
Ambizione.
Ma soprattutto: accettazione del fallimento come possibilità.
Non è un caso che i Paesi anglosassoni siano quelli che hanno una cultura del fallimento più sviluppata, mentre i Giapponesi vedono il fallimento come una vergogna – e pure qui da noi non si scherza.
E non è un caso che si fanno ancora molti più figli in America che in Giappone o in Europa.

Noi vediamo notoriamente il fallimento come una sconfitta.
In America un fallimento è un punto in più sul curriculum.
Avranno tanti difetti, ma su sta cosa hanno ragione al 200%.

Ma torniamo a noi.
Se lasciamo da parte gli investitori istituzionali, come investiamo noi privati risparmiatori?
Beh, gli europei un botto di bond e di cash – per non parlare poi dell’immobiliare, che qua non è contemplato perché si considerano solo asset class investibili.

Australiani e Americani sono sempre al primo posto, con circa il 50% dei propri asset finanziari investiti in azioni. Europei ultimi, poco più del 10%.
L’altra cosa sorprendente è invece che abbiamo una montagna di cash e per cash probabilmente si intende sia contante che titoli con rischio prossimo al risk-free rate.

Il che in effetti è un peccato se ci pensiamo: va bene avere un’elevata propensione al risparmio e un approccio conservativo, ma se un terzo degli asset sono praticamente fermi a fare la muffa questo è un problema sia per il singolo investitore che per l’economia di cui fa parte.

Banalmente per il cosiddetto Wealth Effect: è noto che una crescita del patrimonio finanziario aumenta i consumi e quindi crea una spirale positiva nell’economia. Investire in maniera più efficacie potrebbe implicitamente dare stimolo ad un’economia cronicamente statica come la nostra o altre del sud Europa.

Cmq al di là della quota di investimento azionario nei vari Paesi, è interessante andare a vedere anche in cosa investiamo, in termini di esposizione geografica.

Per quanto riguarda le azioni, quasi ovunque emerge una significativa esposizione al mercato americano – e non potrebbe essere altrimenti.

Gli americani ovviamente non ne hanno manco per le palle di investire troppo all’estero, cara grazia che c’è un 20% dei loro soldi investiti fuori dallo US Stock Market.
All’estremo opposto invece c’è il Giappone, che esattamente come gli Americani investe per il 78% nelle azioni di casa propria. Quindi i Giapponesi investono poco in azioni e pure con scarsissima diversificazione.
Gli Europei sono un po’ a metà strada:
36% in azioni americane
46% in azioni dell’area Euro
18% in azioni del resto del mondo
Il caso forse più singolare è il regno Unito:
Appena il 19% in azioni inglesi;
34% in azioni americane
E ben il 47% in azioni del resto del mondo, la quota più alta tra tutti i Paesi considerati.

Sui bond invece c’è un maggiore home-bias e verso la fine dell’episodio faremo vedere perché questa decisione è perfettamente giustificabile.

In quasi tutti i Paesi la quota di bond domestici è superiore al 50%, con picchi tra il 70 e l’80% in Stati Uniti, Giappone e area Euro – che non a caso sono i mercati con i più grandi debiti pubblici globali.
È curioso che il Paese con maggiore esposizione al debito americano, in percentuale, sia la svizzera, con il 33% del totale, mentre nell’area Euro i titoli di debito americani sono solo il 14%, così come in Giappone.

Europa e Giappone restano però i più grandi creditori degli Stati Uniti al mondo, in valore assoluto.

[PERFORMANCE STORICA DEL MARKET PORTFOLIO]

Ora, detto questo, lasciamo questi discorsi più statistici e andiamo a parlare di cose un po’ succulente, come le performance e soprattutto – come vedremo verso la fine – di qualche spunto pratico che ne possiamo derivare per i nostri portafogli.

Intanto?
Ma quanto ha reso storicamente il Market Portfolio?
Beh, secondo i calcoli di Goldman, come dicevamo all’inizio il Market Portfolio non è stato storicamente né il portafoglio più performante, né quello con il miglior Sharpe ratio.

Goldman confronta il Market Portfolio con il classico 60/40 globale e con un Global Risk Parity, che mi sembra di capire sia un portafoglio composto di azioni, obbligazioni e oro in cui l’allocazione di ciascun asset viene pesato in base all’inverso della volatilità mensile di lungo termine dei rendimenti dal 1950.
Molto banalmente: la volatilità storica delle 3 asset class è:
15% per le azioni globali
6,6% bond globali e
17,3% oro

Se io prendo l’inverso viene

1Az=7,35
7,35 per le azioni
1OB=17,86

17,86 per i bond
1ORO=5,88
E 5,88 per l’oro

Il peso di ciascun asset è quindi l’inverso della volatilità di ogni asset diviso la somma dei valori per i tre asset.

1i1

Soprattutto per chi ascolta e non sta vedendo le formule, non è molto importante.
Alla fine il portafoglio Risk-Parity di di Goldman è fatto da circa
24% di azioni;
55% di obbligazioni e
21% di oro

Basta sapere questo

Vediamo come sarebbe andato il confronto tra questi tre portafogli molto basilari e prendiamo solo i dati dal 1990, perché quelli dal 1950 sono un po’ meno affidabili visto che i dati sono più imprecisi e banalmente l’oro è svincolato dal dollaro solo dal 1971.

Il portafoglio con il miglior rendimento assoluto sarebbe stato il 60/40, mentre quello con il miglior rendimento per unità di rischio sarebbe stato il Global Risk Parity.

Certo, non parliamo di differenze abissali.
Investire nel portafoglio di mercato sarebbe stato un valido approccio, così come con gli altri due.

Immaginiamo di investire 500 € al mese per 36 anni, come dal 1990 ad oggi, usando queste come performance medie, ecco come andrebbe:

I tre portafogli arriverebbero ad un valore compreso tra 750 e 930.000 €.
Ovviamente al netto del rischio di sequenza, quindi chiaramente quello meno volatile, che è il risk parity, avrà una maggiore probabilità di fare quel percorso rispetto al 60/40 che essendo più volatile avrà una dispersione maggiore.

Il 60/40

Potrebbe non arrivare a 400.000 € o anche sfondare abbondantemente i 2 milioni.

Il global risk parity invece

Avrebbe una dispersione dei risultati più compatta, tra circa 400.000 e circa 1 milione e 300.000.

E se investissimo solo in azioni?
Beh, vale la pena ancora una volta rimarcare questo concetto a cui sono molto affezionato.

Investendo solo in azioni la dispersione dei risultati terminali nel 95% dei casi più probabili va da meno di 300.000 € a oltre 4 milioni.

Credo che essere consapevoli di questa ampia dispersione quando si investe solo in azioni faccia capire meglio uno dei motivi più importanti per cui noi vogliamo investire nel portafoglio che massimizza il rendimento atteso in proporzione al rischio che ci richiede, non il rendimento atteso assoluto – perché ne va del patrimonio reale che alla fine ci troviamo in mano.

E in questo sicuramente portafogli maggiormente diversificati svolgono generalmente un servizio migliore di un portafoglio 100% in azioni.

Non tutti i portafogli diversificati sono uguali però.
Abbiamo visto che in teoria il market portfolio avrebbe dovuto essere quello con il massimo sharpe ratio, ma così non è stato – anche se si è trattato di un portafoglio che dato complessivamente un risultato robusto nel corso del tempo e continua a rimanere un eccellente punto di partenza per l’investitore medio.

Goldman però si è messa a fare qualche conto e ha provato a ricostruire i portafogli ottimali dal 1950 ad oggi e si vede molto bene che questi cambiano in continuazione – cosa che rende praticamente impossibile pensare di avere sempre il portafoglio ottimale in mano, motivo in più per cui il Market Portfolio resta una buona approssimazione generale.

Per trovare il portafoglio ottimale ovviamente si usa la frontiera efficiente di Markowitz:
Si prende il rendimento medio
La volatilità e
Le correlazioni tra le varie asset class

E anche semplicemente con Excel si possono calcolare i portafogli ottimali in base ai dati che gli metti dentro.

Giusto per fare qualche esempio:
Negli anni ’60 il portafoglio ottimale sarebbe stato composto quasi esclusivamente da azioni ex Stati Uniti;
Per tutta la seconda metà degli anni ’70 fino al 1984 praticamente le azioni americane avrebbero trovato zero spazio;
Dal 2000 al 2021 i bond americani avrebbero pesato per il 60-70% del totale.
E negli ultimi 2 anni un portafoglio 50% azioni, 50% oro sarebbe stato quello ottimale.

Fondamentalmente negli ultimi 5 anni il Market Portfolio ha sovrappesato eccessivamente i bond rispetto a quella che sarebbe stata un’allocazione ideale.

Mentre negli ultimi 20 anni si è praticamente perso la corsa pazzesca dell’oro.

Attenzione ancora una volta che ottimale vuol dire: “miglior rendimento aggiustato per il rischio”, non il portafoglio che ha reso di più in assoluto.

[LIMITI DEL MARKET PORTFOLIO]

Ora, fermo restando tutto quello che ci siamo detti, quali sono i limiti del Market Portfolio secondo Goldman.
Ce ne sarebbero tre.

Il PRIMO è che per definizione è reattivo, non proattivo, e quindi tende a funzionare bene in determinati regimi macroeconomici e farsi invece trovare gravemente impreparato in altri.
Il suo contesto ideale è fatto da: PIL globale in crescita e inflazione stabile, come negli anni 50, 60 e 90. In periodi caratterizzati da altre condizioni macroeconomiche, come per esempio gli anni ’70, i primi 2000 o il momento che stiamo vivendo, probabilmente altri portafogli funzionano meglio.

Vediamo per esempio quale comportamento drasticamente diverso avrebbe un portafoglio di questo tipo quando ci sono crescita e bassa inflazione e nel contesto opposto.

Passiamo da un Sharpe Ratio di 0.92 con crescita reale del PIL oltre il 3% o inflazione sotto al 2%, ad un -0.37 con crescita inferiore al 2% e inflazione oltre il 3%.

Parliamo naturalmente di due esperienze di investimento diametralmente opposte.

Un portafoglio così – ma lo stesso discorso si può fare per un 60/40 – sarebbe esposto principalmente a tre scenari macroeconomici estremi, ma non così rari dopo tutto:
Picchi di inflazione e addirittura stagflazione;
Recessioni;
Bolle, come nel 2000.

Invece la presenza dell’oro in un portafoglio risk-parity avrebbe mitigato gli scenari più avversi migliorando lo Sharpe ratio dell’investimento e soprattutto avrebbe portato a drawdown molto più contenuti.

Il SECONDO potenziale problema è ancora una volta il dominio americano.
Oggi il 65% del mercato azionario è S&P 500, peraltro massicciamente dominato da 10 aziende quasi monosettore.
Metà del portafoglio obbligazionario è fatto di debito americano e infine
C’è la grossa incognita del dollaro.

Però gli stessi fattori che hanno fatto del sovrappeso degli Stati Uniti un punto di forza per quasi 40 anni, sono oggi invece un grosso punto interrogativo – e questa è una cosa che anche qui abbiamo detto spesso: tassi di interesse in discesa per decenni, bassa inflazione, tagli delle tasse, buyback ecc.
Alcuni di questi propellenti della crescita americana non possono essere permanenti e la grossa concentrazione in poche aziende aumenta il rischio idiosincratico degli Stati Uniti.

Ovviamente questo discorso vale in generale, ma vale soprattutto in particolare, perché la performance del market portfolio per un investitore americano non sarebbe stata la stessa di un investitore Europeo o Giappone.

Negli anni tra il 2005 e il 2009 l’investitore americano se la sarebbe passata molto meglio di un europeo, che avrebbe dovuto fare i conti con un dollaro crollato fino ad un cambio di 1,58 con l’euro.
Allo stesso modo invece negli anni 10 del 2000 fino al 2022 un europeo avrebbe avuto un boost di performance dall’apprezzamento del dollaro, arrivato addirittura sotto la parità con l’euro.
Per un giapponese, infine, la svalutazione dello yen dal covid in poi sarebbe stato un doping mostruoso.

Però sul discorso dell’esposizione valutaria ci torniamo alla fine, con una serie di considerazioni molto molto interessanti.

Qui il punto era semplicemente dire: il market portfolio è naturalmente sbilanciato su Stati Uniti, dollaro, società growth e valutazioni elevate. Questo è il riflesso di una straordinaria storia di successo del passato. Perdurerà anche in futuro?
Chissà.
Sappiamo però che la regressione verso la media è una tendenza ricorrente e pervasiva nei lunghi cicli dei mercati.

Il TERZO problema, perlomeno secondo Goldman, è infine che il portafoglio di mercato godrebbe di una diversificazione minima, perché il peso di oro, mercati privati, real estate e cripto sarebbe comunque piuttosto limitato.

In un portafoglio risk parity il contributo di private markets e soprattutto bitcoin negli ultimi 15 anni sarebbe stato piuttosto netto.

Il portafoglio ideale sarebbe stato:
15% azioni
42% obbligazioni
14% oro
10% Private markets
15% real estate
4% bitcoin

Ovviamente a posteriori nulla da dire.
In termini prospettici ci vedo qualche problema:
In primis private equity e private credit hanno un’enorme dispersione delle performance, quindi vai a sapere se investi tu cosa ottieni davvero, non è che esiste un indice come l’MSCI ACWI. Inoltre ci sono costi elevati;
Bitcoin invece ha avuto una crescita esplosiva in questi 15 anni. Ora invece è un asset molto più consolidato con un rendimento atteso futuro certamente di un altro ordine di grandezza, per quanto sia sensato parlare di rendimento atteso in questo caso.

[“MIGLIORAMENTI” DEL MARKET PORTFOLIO]

Ad ogni modo nel corso del report, se poi qualcuno vorrà andare a leggerselo, troverà che ci sono alcuni “accorgimenti” – diciamo – che secondo Goldman ottimizzerebbero l’asset allocation del Market Portolio.

In Primis, c’è un’idea di asset allocation piuttosto persistente:
In questo momento l Market Portfolio avrebbe un’eccessiva esposizione azionaria rispetto ai rendimenti impliciti nelle valutazioni di oggi e al contrario
Avrebbe una bassa esposizione all’oro, soprattutto nell’ottica di mettere il portafoglio al riparo da rischi di inflazione e debasement valutario.
Infine una maggiore presenza di bond indicizzati all’inflazione e azioni nel settore infrastrutturale – quindi sempre nell’ambito real asset – rientra tra i “suggerimenti” di Goldman per chi è sensibile al rischio di trovarsi con tassi reali più elevati.

Adesso non entriamo nel dettaglio di quello che sto per dire, però accenno soltanto al fatto che c’è un interessante “strategia barbell” che viene proposta, in cui ai due estremi si bilanciano:
Growth stocks, da una parte, per cercare di catturare tutti i potenziali benefici di un boom legato all’innovazione e all’intelligenza artificiale; e dall’altro
Un quota rilevante di real asset, come appunto oro, TIPS, azioni di società che si occupano di infrastrutture e commodities.

Perché dico che è una strategia barbell?
Perché in uno scenario inflazionistico salgono i tassi reali e le azioni growth sono quelle a maggior duration, quelle più sensibili alle variazioni dei tassi di interesse. Diversamente dalle azioni value, in caso di rialzo dei tassi le azioni growth tendono ad andare giù di più perché si comportano esattamente come un bond a lunga scadenza: i suoi flussi di cassa sono più proiettati nel futuro e quindi il loro prezzo, a parità di variazione dei tassi di sconto, scende di più.

Al contrario durante un boom sono quelle che beneficiano maggiormente di tassi in discesa.

Quindi questo approccio sarebbe pensato per avere un’esposizione significativa in entrambe le condizioni, che sono solitamente antitetiche ma piuttosto cicliche.

DA questo punto di vista, il portafoglio medio ottimale dal 1950 ad oggi sarebbe stato composto da:
Circa 40% di Real Asset
Circa 30% di growth stocks
Circa 10% di S&P 500 e
Circa 20% di Treasury decennali – adatti ai contesti di recessione.

Una sorta di Permanent Portfolio 2.0.
Se guardiamo al futuro, il “vero portafoglio di mercato” di domani potrebbe quindi essere meno americano, più legato ad asset reali e più corto in duration di quello attuale.
Il secondo accorgimento riguarda l’eccessiva esposizione geografica verso gli Stati Uniti sia della componente obbligazionaria, in particolare per investitori extra Stati Uniti che si ritroverebbero con metà dei bond in dollari, sia di quella azionaria.

Partiamo dai bond e dalla cosa che ci interessa di più – che peraltro supporta una delle tesi fisse di questo podcast.

Dal 1990 ad oggi la combinazione migliore per un europeo sarebbe stata:
Azioni globali e
Obbligazioni in euro

In passato un’esposizione coperta ai treasury americani sarebbe stata positiva per un investitore europeo, mentre oggi il consensus è che tra i costi di copertura e le prospettive sul debito americano non rendano così particolarmente interessante prendersi il rischio di esporsi a bond fuori dall’area euro.

Per quanto riguarda l’esposizione azionaria, invece, anche qui non ci sono dubbi che dagli anni 90 ad oggi la quota di azioni americane avrebbe dovuto essere quasi sempre superiore a quella del Market Portfolio.

Solo tra gli anni ’70 e inizio ’80 e a cavallo della GFC il Market Portfolio era troppo esposto agli stati uniti.
Per il resto del tempo lo è stato troppo poco.

Come sappiamo dopo la GFC il rendimento dell’S&P 500 ha preso il largo rispetto a quello degli altri mercati – e per un ordine di grandezza impressionante.

In dollari parliamo di oltre il 14% all’anno per l’S&P 500 contro meno del 7% per l’MSCI ACWI ex USA.

Ci sono stati però tre fattori decisivi per questa enorme sovraperformance in questi 15 anni:

Una maggiore crescita di utili e buyback;
La crescita delle valutazioni, dovute ad una maggiore capacità di generare profitti e alla maggior fiducia nelle mega tech americane e infine
Il rafforzamento del dollaro.

Come ci siamo chiesti tante volte, la domanda ora è: quanto questi tre fattori possono continuare a far correre l’azionario americano? E per quanto a lungo?

L’attuale peso degli Stati Uniti nel portafoglio di mercato implica che anche nel futuro questa sovraperformance devastante continuerà.

Ed è possibilissimo.

Però è anche possibile:
Che gli utili smettano di crescere ad un ritmo abnorme, come già successo in passato;
Che le valutazioni smettano di gonfiarsi, o addirittura che si contraggano un po’ e infine
Che il dollaro possa ancora perdere un po’ di terreno, visto che resta comunque piuttosto caro rispetto alla media storica.

Del resto, abbiamo già detto tante volte che c’è un gap di valutazioni piuttosto importante tra azioni americane ed azioni exUS, anche escludendo le big tech.
Partendo da prezzi così alti, non basta generare più utili rispetto agli altri mercati.
Serve una profittabilità molto più alta solo per generare lo stesso rendimento.

[L’IMPATTO DELL’ESPOSIZIONE AL DOLLARO]

Ora, per un investitore non americano il grosso tema è la valuta.
E quest’anno l’abbiamo sperimentato per bene sulla nostra pelle.

Un ETF a cambio aperto sull’S&P 500 avrebbe lasciato per strada oltre 10 punti percentuali di crescita rispetto ad uno con capito coperto.

Però è anche vero che – come diciamo spesso anche noi – solitamente coprire il cambio quando si investe in azioni non ha un beneficio atteso positivo:
Intanto il rischio valutario incide poco sul rischio complessivo di investire in azioni;
In secondo luogo i cambi sono ciclici e tendono a regredire verso la media;
Infine se uno investe in large cap, queste hanno già un’esposizione valutaria internazionale perché di solito fatturano in tutto il mondo – quindi anche volendo in realtà il rischio valutario ti rientra dalla finestra.

È infatti molto interessante vedere che per un europeo, il tasso ideale di copertura sul dollaro sarebbe stato storicamente piuttosto basso, intorno al 25%.

Semplificando un po’ alla buona, 3 anni su 4 non conveniva coprire il cambio.

Secondo Goldman: il dollaro potrebbe ancora scendere e il costo di copertura per Euro, Yen e Franco è piuttosto elevato, quindi una copertura diretta non è vista come la migliore strategia di base.

Coprire il dollaro per noi costa circa il 2% all’anno, meno del 4,5% che costa ai miei amici svizzeri Mr Rip e Nicola Protasoni, visto che ormai lì i tassi sono tornati negativi, ma decisamente di più del quasi 0% per la Sterlina, dove invece i tassi della BoE sono prossimi a quelli Americani.

Invece una delle cose più interessanti che ho letto nel report riguarda proprio delle strategie alternative per la copertura valutaria.
Alcune sono ovvie, altre … un po’ meno.

UNA è chiaramente l’Oro: tendenzialmente l’oro ha una correlazione negativa con il dollaro.
Una SECONDA sono valute forti come Franco Svizzero e Yen.
La TERZA – e più interessante – sono asset denominati in valute dei mercati emergenti, che hanno una correlazione negativa con il dollaro.

Dal 2000 in poi l’MSCI Emerging Markets ha avuto una correlazione quasi sempre negativa con il dollar index.
Quest’anno questo fatto si è visto in maniera macroscopica:

In dollari, l’MSCI EM è cresciuto di oltre il 30% da gennaio ad ottobre, mentre in valuta locale è cresciuto intorno al 25%, nettamente di più di qualunque altro indice azionario regionale.

Investire in mercati emergenti è quindi un modo per avere un hedge nei confronti del dollaro.
Ammetto che a questa dinamica non avevo mai pensato.
Mi era più chiara sul debito dei mercati emergenti, dato che spesso questi paesi sono costretti a emettere titoli di Stato in dollari – e quindi beneficiano di un dollaro che scende.
Ma in effetti anche sul mercato azionario si vede una dinamica piuttosto persistente che si alterna ai destini del biglietto verde.

[CONCLUSIONI]

Ora, fatto tutto sto viaggio, cosa ci portiamo a casa – al di là di una camionata di informazioni e statistiche.

Direi queste cose:

La PRIMA è che il Market Portfolio, pur con tutte le sue imperfezioni, resta una valida base di partenza per l’allocazione di qualunque investitore. Nel dubbio, il punto di partenza è il portafoglio di mercato pesato per capitalizzazione.

La SECONDA è che ci sono alcuni accorgimenti che possono effettivamente migliorarne l’ottimizzazione: maggiore esposizione ad asset reali, adattamento dell’esposizione geografica e gli ultimi temi che abbiamo trattato sul discorso cambio.

La TERZA è la più importante di tutte: il portafoglio di mercato è il portafoglio di tutti e di nessuno. È il portafoglio medio di tutti gli investitori del mondo e quindi non è il portafoglio ideale per nessuno.

I veri adattamenti che ciascuno dovrebbe adottare a partire da questo li abbiamo citati spesso di recente:

Il primo riguarda il nostro profilo di rischio: tolleranza e orizzonte temporale sono i primi driver per capire come aumentare o ridurre il rischio del nostro portafoglio. La teoria finanziaria direbbe di usare la leva o il cash per settare il rischio. Chi invece non può o non vuole usare la leva, può chiaramente aumentare l’esposizione ad asset rischiosi in maniera indiretta, come ad esempio con i fattori.

Il secondo riguardo invece il nostro capitale umano: più il mio reddito è stabile e il debito è passo più sarò in grado di assumermi un rischio maggiore – e al contrario naturalmente il mio reddito sia più precario e/o il mio debito personale importante rispetto ai miei asset. Il fatto che il market portfolio non includa il capitale umano è sempre stata una delle critiche più persistenti al suo impianto teoriche.

E queste due cose probabilmente contano più di qualunque ottimizzazione matematica del mondo, perché vanno a coordinare i nostri investimenti con le reali esigenze della nostra vita.

In fondo, il portafoglio di mercato è come uno specchio: ci restituisce la somma di tutte le nostre paure e speranze finanziarie.
È il risultato di miliardi di decisioni diverse, prese ogni giorno da investitori, governi, banche centrali e risparmiatori come noi.
Ed è proprio questo il suo paradosso: è perfetto in teoria, ma inutile in pratica se non lo adattiamo alla nostra vita.
Perché il miglior portafoglio di mercato non è quello che massimizza i rendimenti, ma quello che ti permette di supportare i tuoi obiettivi, dormire bene la notte e svegliarti al mattino con ancora voglia di investire.

Bene amici miei, spero che l’episodio vi sia piaciuto e che questa disamina di questo mega portafoglione da 250 mila miliardi di dollari sia stata interessante.

Come sempre vi invito a mettere segui e attivare le notifiche su spotify, apple podcast e di iscrivervi al canale YouTube per supportarci e permetterci di continuare a produrre contenuti che vi raccontano il portafoglio dei portafogli, perché il migliore per tutti e perché non è il migliore per nessuno sempre nuovi.

Per questo episodio invece è davvero tutto e noi ci rivediamo giovedì prossimo con un nuovo appeuntamento assieme, sempre qui, naturalmente con The Bull il tuo podcast di finanza personale.

Recensioni

Quando capisci come funziona la finanza… ti viene voglia di raccontarla!

Veramente interessante, chiaro e conciso. Cambia la vita finanziaria di chiunque.. da ascoltare assolutamente anche per chi di finanza non vuole occuparsi mai

Francesca B., 6 Apr 2024

Ho acquistato e letto il suo libro e l' ho trovato. Esprime i concetti economici in modo semplice e chiaro. Sentirlo parlare conferma che è un professionista del settore.

Giulia N., 11 Ago 2025

Non sono solito a mettere recensioni e specialmente non ascolto podcast, ma da quando ho iniziato questo, faccio fatica a staccarmi, e quasi non posso più fare a meno di ascoltare e arricchirmi culturalmente.

Andrea V., 22 Set 2025

Ho seguito tutte le puntate! Grazie veramente

Amalia A., 17 Set 2025

Da quando l'ho scoperto in 15 gg mi sono ascoltato 150 puntate senza fermarmi, ho annullato gli altri podcast per portarmi alla pari ed ascoltare tutte le precedenti puntate, ben fatto, esattamente il livello di informazione che mi serviva

Gianluca G., 11 Set 2025

La mia ignoranza in materia mi ha sempre creato dei dubbi, ma grazie a un amico ho iniziato ad ascoltare il podcast. Per fortuna che ho 24 anni e un po' di tempo e soldi da dedicarmi a imparare le varie nozioni per me stesso. Grazie mille!

Luca G. 10 Ott 2025

Podcast che dà sempre spunti interessanti che personalmente mi ha fatto appassionare alla finanza personale spingendomi ad approfondire in prima persona.

Lorenzo, 13 Mar 2025

Riccardo mi ha letteralmente cambiato la vita e fatto scoprire che amo la finanza, ho ascoltato il podcast già due volte e non mi stufo mai di ascoltarlo, parla in modo semplice e chiaro

Massimo D., 23 Set 2025

Podcast piacevole, scorre veloce ma in modo estremamente chiaro, spiega i concetti chiave per gestire le proprie finanze, fornendo la classica cassetta degli attrezzi. Complimenti, davvero ben fatto!

Massimiliano, 29 Mag 2024
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