Investire in Obbligazioni indicizzate all’inflazione (e il “Debasement Trade”)

Da alcune settimane si parla di “debasement trade”: crescita degli asset reali per timori che i governi cerchino di inflazionare i debiti pubblici. Mai come in questo scenario ha senso comprendere come funzionano i bond inflation-linked.

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Investire in Obbligazioni indicizzate all’inflazione (e il “Debasement Trade”)
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257. Investire in Obbligazioni indicizzate all’inflazione (e il “Debasement Trade”)

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Le obbligazioni indicizzate all'inflazione (IL) proteggono il potere d'acquisto di capitale e cedole, ma non dai movimenti dei tassi d'interesse.

Il 'debasement trade' e la dominanza fiscale creano un contesto di tassi reali bassi o negativi, rendendo gli IL strumenti pertinenti.

Trascrizione Episodio

Che bello quando succede qualche casino sui mercati di venerdì pomeriggio, che così mi tocca rifare pezzi dell’episodio della domenica!

Venerdì sembrava l’ennesima noiosissima giornata l’ennesimo nuovo massimo storico per S&P 500 e Nasdaq e poi verso l’ora della merenda una riga rossa verticale verso il basso.

Anche qui: l’ennesima noiosa trama che ha dominato la prima parte dell’anno e che ora è ritornata in auge per la seconda stagione.

A quanto pare la Cina starebbe facendo ostruzionismo alle società americane che hanno bisogno delle sue terre rare e Trump, che già era incazzato come una iena perché inspiegabilmente non gli è stato dato il Nobel per la pace, si è imbestialito ancora di più e ha minacciato 100% di dazi a partire dal 1° novembre e ha cancellato l’incontro con il mite Xi Jinping previsto durante il meeting dell’APAC.

Nel dubbio — e in attesa di nuove informazioni — il mercato ha reagito con il pilota automatico:

– Vendite sull’azionario;

– Acquisti sui Treasury, i cui rendimenti sono scesi a 4,05%

– Oro su nuovamente sopra i 4.000 dopo che era sceso un po’ nei giorni scorsi

– Bitcoin giù di quasi il 10%, a ennesima riconferma che scambia molto più come una tech stock growth che non come un safe haven.

Devo dire la verità: non è tanto per il -3% dell’S&P e le diverse migliaia di euro che — puff — sono sparire dal mio portafoglio.

Alla fine, quello fa parte del gioco.

Molte altre migliaia di euro se ne andranno presto o tardi.

È che proprio l’idea di ricominciare a parlare di dazi sì, dazi no un’altra volta mi fa venire la nausea.

Speriamo che quindi questa roba duri poco, un altro paio di post su Truth e Donald e Xi di nuovo amiconi come prima.

Il mio amico Ben Carlson venerdì sera ha scritto su X, in maniera ironica ovviamente: “era questo il top?”. Per dire: il 10 ottobre verrà ricordato come il giorno in cui il mercato ha toccato il suo massimo prima di cominciare la discesa in quella che forse verrà ricordata come la AI bubble?

Chissà.

Il destino sarebbe crudele: il giorno in cui esce quest’episodio sarà il 3° anniversario del Bull Market iniziato il 12 ottobre del 2022, che ha visto l’S&P 500 salire del 95% prima della legnata di ieri, dividendi compresi.

Comunque, boh vedremo, come dicevamo la volta scorsa ci sta un ottobre un po’ choppy dopo 5 mesi di crescita di fila.

Statisticamente il mercato fa l’ultimo massimo a dicembre, raramente ad ottobre e quando fa nuovi massimi a settembre tende a fare in positivo anche l’ultimo quarter.

Non è detto che quest’anno sarà così però ne sarebbe felicissimo il mio piano di accumulo con Scalable Capital, la banca tedesca che ha fatto della tecnologia e dell’investimento a basso costo i pilastri della sua crescita in Europa.

In attesa di avere il regime amministrato in Italia nel 2026, fosse anche solo che il loro Country Manager Alessandro Saldutti ha minacciato di impiccarsi in caso contrario, da più di due anni uso Scalable per parte dei miei investimenti per i PAC a zero costi d’ordine e per la possibilità di acquistare singoli ETF a 0,99 euro o addirittura a zero per ordini sopra i 250 €.

Inoltre 3,5% di interessi sulla liquidità non investita fino al 31 dicembre 2025 e AI insghts, l’assistente AI costruito su tecnologia openAi e su dati di FactSet e Justetf che chiarisce i tuoi dubbi e ti supporta nelle tue decisioni di investimento.

In descrizione trovate un link per aprire un conto con Scalable che frutterà al sottoscritto laute commissioni che ripianeranno il buco nel mio portafoglio dopo lo scherzetto di venerdì.

Questo contenuto è stato sponsorizzato da Scalable, investire comporta dei rischi ma per capire come proteggerci da alcuni rischi a cui forse non avevamo pensato, sentite un po’ il contenuto di oggi.

Questo è un episodio dedicato ai bond indicizzati all’inflazione. In tanti me lo avete chiesto nel tempo e che sinceramente non avevo mai ritenuto particolarmente interessante fare.

Diciamo che c’è stato un motivo teorico e uno storico:

– Quello teorico è che in un podcast dedicato principalmente a spiegare come investire e quindi naturalmente orientato alla fase di accumulazione a lungo termine del patrimonio, gli strumenti indicizzati all’inflazione non è che siano esattamente la ciliegina sulla torta.
Se i mercati prezzano piuttosto bene rischio e rendimento, probabilmente nel lungo termine voglio prendermi il rischio inflazione e voglio che questo sia compensato da un maggior rendimento atteso.
Se invece inserisco un’assicurazione sul rischio inflazione — chiamiamolo così — a parità di altre condizioni questo minor rischio dovrebbe avere un costo in termini di rendimento.
Non è necessariamente detto che sia così, ma logicamente sì dal punto di vista del rendimento atteso.

Tipicamente — e soprattutto nella grande tradizione americana dedicata al retirement planning — i titoli governativi indicizzati all’inflazione servono a proteggere la capacità di consumo dell’investitore che vive del proprio portafoglio.

E questo ha perfettamente senso.

È senza dubbio molto più risk-free un titolo decennale indicizzato all’inflazione che uno nominale, perché in caso di rialzo dell’inflazione, della garanzia nominale del primo me ne faccio una cippa lippa, se i suoi flussi di cassa mi servono per vivere.

In fase di accumulazione, però, il discorso viene un po’ meno.

– Il motivo storico è invece che questo podcast è nato a inizio 2023. Dopo la fiammata inflazionistica del 2022, nel 2023 era iniziato un periodo di disinflazione forzato delle politiche aggressive delle banche centrali che avevano sparato su a razzo i tassi di interesse.

Personalmente non avevo ETF indicizzati all’inflazione nemmeno prima per via di quello che ho detto poco fa. Ma poi a maggior ragione non ho mai trovato particolarmente utile parlarne in uno scenario disinflazionistico come quello che ha accompagnato tutta la vita del nostro podcast.

Oggi invece il mio punto di vista potrebbe essere un po’ diverso.

Anche qui per due ragioni.

– Una un po’ scema. Quando venerdì 17 uscirà su YouTube un episodio speciale dedicato ad un aggiornamento sul mio portafoglio, racconterò che il buon Victor Haghani si è prestato a farmi una radiografia della mia filosofia di investimento e ci siamo trovati d’accordo quasi su tutto tranne che su due cose: lui non ama particolarmente i fattoriali ma l’idea di capital efficiency che ci sta dietro tutto sommato l’ha approvata, mentre l’unico segno con la matita rossa me l’ha fatto sull’assenza di bond indicizzati all’inflazione.

Lui è molto scettico sui bond nominali, soprattutto su quelli a duration medio-lunga, e invece è molto più orientato verso quelli inflation-linked, che sono per lui il vero asset senza rischio.

Ora, non è che Haghani ha la verità in tasca, però se per me fino a quel momento i bond inflation linked erano un monolitico “NO”, ora è più un “OK RAGIONIAMOCI”.

– L’altro motivo invece è molto meno scemo e riguarda questa grande moda delle ultime settimane di parlare ovunque di “debasement trade”. Partiamo da qui e capiamo perché spiegare OGGI i bond indicizzati all’inflazione potrebbe essere un’idea coerente con lo zeitgeist, con lo spirito del tempo.

Allora, brevissimo recap del potenziale cambio di scenario macroeconomico che abbiamo vissuto negli ultimi 3 anni.

Dal 1982 al 2021 l’inflazione era stata dichiarata sconfitta e abbiamo vissuto una lunghissima epoca di tassi nominali discendenti e di tassi reali stabilmente bassi, spesso anche negativi come durante il decennio dopo la grande crisi finanziaria del 2008-2009.

Spieghiamo subito uno dei concetti più importanti di quest’episodio, altrimenti non si capisce una fava.

– I tassi di interesse settati dalla Fed e dalla Bce, così come i rendimenti di un titolo di stato, sono tassi NOMINALI.

– Se ai tassi NOMINALI sottrai l’INFLAZIONE ottieni i tassi REALI.

Ok?

Quindi oggi parleremo spesso e volentieri di tassi reali perché è su questo che entrano in gioco i titoli indicizzati all’inflazione.

Tra l’altro approfitto per ricordare una cosa — che ormai è diventata una mia grande battaglia personale.

Molto spesso i media finanziari, per motivi che giuro mi restano ignoti, fanno questo ragionamento senza senso e dicono:

– Un treasury rende, fai, 4,1%

– L’Earnings Yield dell’S&P 500, cioè utili diviso prezzo, fa — non lo so — 4%,

allora investire in azioni non è più conveniente rispetto ad un titolo di stato.

Che è un ragionamento semplicemente sbagliato, perché confronti un rendimento nominale, con un proxy per il rendimento azionario reale.

Se tu vuoi stimare qual è oggi il rendimento in eccesso atteso dal mercato azionario rispetto ai titoli di stato, devi usare i rendimenti reali, quindi o togli l’inflazione ai rendimenti nominali o usi — appunto — titoli di stato indicizzati all’inflazione, il cui rendimento corrisponde alla stima del mercato sull’inflazione attesa.

Se oggi un Treasury decennale rende 4,1% e un Treasury Inflation Protected Security, un TIPS, rende 1,7%, questo vuol dire che il mercato si aspetta, più o meno, un’inflazione del 2,4%.
Non bisognerebbe fare la sottrazione, ma 1+4,1% diviso 1+1,7% meno 1 che fa 2,36%, ma siamo lì.

Se lo facciamo in Europa possiamo prendere un titolo senza rischio credito come il Bund. L’unico problema è che non è che ce ne siano molti.
In America i TIPS sono molto diffusi, Bund indicizzati invece la Germania ne emette pochi, io ho trovato solo quattro Inflationsindexierte Bundeswertpapire sul sito della Bundesrepublik Deutschland Finanzagentur GmbH.
Cioè ho trovato solo 4 Bund indicizzati all’inflazione se non si fosse capito in tedesco, quella lingua straordinariamente chiara e musicale.

– Bund decennale: 2,7%

– Bund decennale indicizzato all’inflazione non c’è, però quello a 7 anni rende 0,7%, quello a 20 rende 1,25%, saremo, boh, 0,8-0,9%.

Siamo comunque su una stima di inflazione in Germania nell’ordine del 1,8-1,9%.

Tornando negli Stati Uniti, l’excess Return dell’S&P 500 oltre ai bond decennali è circa 4%-1,7% uguale 2,3% quindi c’è un premio al rischio reale positivo.

Poco, perché le valutazioni come sappiamo sono molto elevate, ma c’è.

Molto spesso invece si fa casino tra rendimenti nominali e rendimenti reali e si tirano conclusioni a partire da premesse errate.

E quando si guarda ai bond capita di mescolare le due cose.

Torniamo ad oggi.

Dicevamo, dopo 40 anni di tassi in discesa, nel 2022 abbiamo avuto una fiammata inflazionistica che non ci scorderemo per un bel pezzo e un brusco risveglio da un bellissimo sogno in cui tutto il mondo finanziario si era addormentato, fatto da tassi di interesse che potessero scendere all’infinito sotto zero e di denaro facile elargito in quantità illimitata dalle banche centrali.

Per capire però il quadro in cui — forse ci troviamo — partiamo da questo concetto che è improvvisamente diventato la parola più frequente su tutti i media di informazione di mezzo mondo: il debasement trade appunto.

Il “debasement” è un termine vecchio come il mondo e risale a quando i sovrani decidevano di ridurre il contenuto di metallo prezioso nelle monete per finanziare la spesa pubblica, di fatto inflazionando indirettamente il valore della moneta.

Oggi il meccanismo è più sofisticato, ma il principio è lo stesso, perché pure il problema globale che abbiamo adesso è vecchio come il mondo, solo che è sotto steroidi: l’immenso debito pubblico di tutte le principali economie sviluppate.

E quindi una soluzione che piace ai governi — e un po’ meno al resto delle persone — è ridurre il peso reale del debito attraverso la svalutazione silenziosa della moneta.

In termini più tecnici, questo processo si chiama “dominanza fiscale”: significa che le scelte di politica monetaria finiscono subordinate alle necessità di finanza pubblica.
In pratica, quando i governi hanno troppo debito, la banca centrale non può più alzare liberamente i tassi per combattere l’inflazione, perché ogni aumento del costo del denaro mette a rischio la sostenibilità del debito.
Il risultato è un contesto di tassi reali persistentemente bassi o negativi, che riducono il valore reale del debito nel tempo ma penalizzano i risparmiatori.

E ovviamente il tema dei temi riguarda principalmente il debito dei debiti e la moneta delle monete: il gigantesco debito pubblico americano e il ruolo del dollaro.

Ora, io non so se Trump voglia esplicitamente un debasement del dollaro per sostenere il peso di un debito pubblico con non accenna minimamente a contrarsi negli anni a venire o per altre ragioni.

Sappiamo bene che tutta la politica economica di Trump si regge sull’ultima idea che gli ficca in testa l’ultimo tizio che va a trovarlo alla Casa Bianca.

Un giorno il dollaro deve scendere per stimolare l’export.

Un altro giorno per riequilibrare la bilancia commerciale.

Un altro forse sarà per il debito.

Chi lo sa.

E’ però abbastanza evidente che c’è un tema di dominanza fiscale, con il governo degli Stati Uniti che sta facendo molta pressione sulla Federal Reserve per tenere i tassi di interesse artificialmente bassi incidendo anche sulla parte lunga della curva.

Nelle scorse settimane si era fatta largo l’idea di un terzo mandato “segreto” della Fed: non solo tenere bassa l’inflazione e la disoccupazione, ma anche il costo del debito pubblico a lungo termine.

Certamente, un modo per rendere il debito pubblico più sostenibile è una progressiva svalutazione della moneta in cui è prezzato.

Cmq dopo la pandemia e la crisi energetica, i governi occidentali si trovano con debiti pubblici elevatissimi — in molti casi superiori al 100% del PIL — e con un sistema economico che non può reggere tassi reali molto positivi per lungo tempo, perché significa dover rifinanziare costantemente un debito enorme a costi abnormi.

Nelle ultime settimane poi JP Morgan ha creato lo slogan del momento: debasement trade appunto, a seguito della combinazione contemporanea di tre fatti politici:

– La vittoria alle elezioni in Giappone della nuova premier Sanae Takaichi, molto propensa a tenere tassi praticamente a zero e favorevole ad andare avanti a spendere e spandere, nonostante il debito pubblico giapponese al 260% del PIL;

– Poi c’è stato il premier francese durato meno di un muone, nominato e dimesso più velocemente di quanto serve per mangiare un croissaint, cosa che ha spalancato ulteriormente il dramma politico economico in Francia, che improvvisamente ha scoperto di avere un debito pubblico fuori controllo, ma anche un parlamento fatto da estremisti di sinistra e di destra che di tagliare pensioni e spesa pubblica non ne vogliono sapere perché non portano voti;

– E ovviamente c’è lo Shutdown negli Stati Uniti, molti uffici federali chiusi e prospettive di licenziamento di dipendenti pubblici perché il congresso non ha trovato l’accordo tra democratici e repubblicani sul budget.

La combinazione di questi fattori ha alimentato la convinzione che, anche in presenza di tassi nominali positivi, i tassi reali resteranno sotto pressione, perché i governi potrebbero preferire un’inflazione “gestita” artificiosamente piuttosto che intraprendere misure più sane nel lungo termine, ma sanguinose nel breve, su tutti: tasse e tagli della spesa pubblica.

È quindi in questo quadro che molti hanno letto l’incredibile corsa di alcuni asset reali, in particolare dell’oro.

L’oro ha sfondato i 4.000 dollari l’oncia, è cresciuto di oltre il 50% nel 2025 e finora sta conducendo il suo secondo miglior anno di sempre dopo il drammatico 1979, in cui in un solo anno più che raddoppiò di valore durante la seconda piena inflazionistica che dilagò a seguito dello shock petrolifero.

La corsa all’oro è stata accompagnata peraltro anche da una forte crescita anche di altri metalli, tra cui l’argento, che dal famoso episodio che avevamo fatto a maggio è cresciuto di oltre il 45%.
Ad ogni modo su questa ascesa del biondo metallo si sono formulate due ipotesi principali:

– La prima è appunto che gli investitori sarebbero preoccupati da questo potenziale debasement della principale valuta del mondo e di conseguenza non si fidano più come prima a mettere soldi in quelli che un tempo erano i superiscuri titoli di stato americani denominati in dollari. La preoccupazione sarebbe dunque che tutto ciò che abbia una denominazione nominale valutaria sia destinato ad una progressiva svalutazione nel tempo.

La stessa corsa delle azioni, in qualche modo, andrebbe letta in questa direzione, perché in fondo le azioni sono asset reali, il cui rendimento è una funzione dei profitti realizzati vendendo beni e servizi reali.

Morgan Stanely ha proposto un’interessante riflessione qualche giorno fa in cui ha fatto notare che rispetto a 25 anni fa, le valutazioni azionarie americane sono sì molto alte, ma il contesto è cambiato nettamente: allora c’era pieno ottimismo verso una crescita reale dell’economia senza precedenti. Che poi infatti innescò inflazione, rialzo dei tassi, scoppio della bolla dot-com e il resto lo sapete. Oggi invece, come dire, è cambiato il denominatore.

Rispetto al prezzo dell’oro, oggi l’S&P 500 è più economico del 70%, tra molte virgolette perché queste comparazioni lasciano un po’ il tempo che trovano.
Però se usiamo l’oro come proxy per misurare la crescita reale, non nominale, dell’economia, paradossalmente l’S&P 500 sarebbe molto più economico oggi, perché invece allora prezzava una crescita reale assurda che infatti è risultata poi insostenibile.

Se questa cosa è vera è buona per chi investe in azioni, meno per la società in generale, che invece andrebbe incontro ad un contesto di bassa crescita e svalutazione delle proprie risorse monetarie.

Possibile.

– C’è però anche un’altra interpretazione. Ho letto un articolo di James Mackintosh sul Wall Street Journal che in pratica dice: ok il debasement trade, ma se fosse questo, teoricamente dovremmo anche vedere i rendimenti dei titoli di stato a lungo termine andare su alle stelle. E invece quelli americani sono più bassi di qualche mese fa e quelli francesi e giapponesi non è che siano andati fuori controllo.

Quindi, più semplicemente, può essere che la gente compra oro per questi motivi:

– Incertezza generale anche a livello geopolitico

– Pressione sulla Fed che terrà i tassi più bassi del dovuto — e di solito con tassi reali bassi il prezzo dell’oro sale

– Ma anche preoccupazione sullo stato dell’economia americana, perché è vero che il PIL continua a crescere a ritmi quasi cinesi, ma la nuova occupazione si è praticamente congelata.

Per inciso, anche per Bitcoin potrebbe valere una duplice interpretazione.

– Potrebbe aver fatto +30% quest’anno — prima del -10% di venerdì — per la ricerca di un’alternativa all’oro come asset reale svincolato dal dollaro;

– Oppure potrebbe essere salito a braccetto con tutta l’ala tecnologica del mercato azionario — e il tracollo di venerdì, così come successo durante i giorni successivi al liberation day, fa ancora pensare che in parte sia così.

Il prossimo vero e duraturo crollo del mercato azionario sarà un po’ un test della verità sulla principale tesi di investimento dietro a bitcoin.

Comunque qualunque sia l’interpretazione, debasement o non debasement, è da tanto che abbiamo iniziato a fare episodi tornando sulla terza gamba del portafoglio: le azioni stanno bene dove stanno, ma forse i bond nominali rischiano di non essere così efficaci in un portafoglio diversificato se all’orizzonte si prospettano minacce di natura inflazionistica.

Dell’oro abbiamo parlato spesso in lungo e in largo e torneremo ad occuparcene in futuro.

Nell’ambito però di questa terza gamba composta da real assets, cioè da asset che teoricamente reagiscono bene a contesti inflazionistici in senso lato o di debasement in generale, abbiamo spesso anche parlato di materie prime, azioni di società legate a infrastrutture, energia ed estrazione, managed futures e — sempre un po’ en passant — anche di bond indicizzati all’inflazione.

Quale momento migliore di questo, dunque, per provare a capire un po’ meglio come funzionano e perché potrebbero avere il loro senso nel portafoglio — a maggior ragione se uno dovesse sposare questa tesi generale di fondo che stiamo raccontando.

Allora, un’obbligazione indicizzata all’inflazione è un titolo di Stato che protegge il capitale e le cedole dall’aumento dei prezzi.
In pratica, il valore nominale del titolo cresce in base all’inflazione, misurata dall’indice dei prezzi al dettaglio.

Se ad esempio i prezzi salgono del 3%, anche il valore dell’obbligazione sale del 3%. E le cedole — che sono calcolate in percentuale sul capitale — crescono a loro volta.

Per capirlo meglio, immaginiamo un esempio semplice.

Supponiamo di comprare un Titolo da 100 euro con cedola dell’1%.

Se dopo un anno l’inflazione è stata del 3%, il capitale rivalutato diventa 103 euro, e la cedola sarà l’1% di 103, quindi 1,03 euro.

Alla scadenza, il capitale che viene restituito sarà anch’esso rivalutato con l’inflazione cumulata.

In sostanza, queste obbligazioni mantengono il potere d’acquisto del capitale. Attenzione che non proteggono dai movimenti dei tassi di interesse e quindi dalle variazioni dei rendimenti sui mercati, ma proteggono dal fatto che 100 euro domani varanno meno di oggi.

Come dicevamo all’inizio, la chiave per capire come funzionano le obbligazioni indicizzate è la differenza tra tasso nominale e tasso reale.

– Il tasso nominale è quello che vedi scritto sul titolo: se un titolo di stato rende il 4%, quello è il rendimento nominale.
Il tasso reale invece è il rendimento dopo aver tolto l’effetto dell’inflazione.

Se compri un titolo che rende il 4% e l’inflazione è del 2%, il tuo rendimento reale è circa del 2%.
Ma se l’inflazione sale al 5%, il tuo rendimento reale diventa negativo: +4% nominale, –5% inflazione = –1% reale.

Repetita iuvant: i titoli di stato danno una garanzia nominale sui flussi di cassa, quindi cedole e rimborso del capitale. Non reale.

Se investo 10.000 € in un BTP con scadenza tra 5 anni per essere sicuro di avere ancora i miei 10.000 € tra 5 anni posso stare quasi certo che avrò i miei 10.000 €. Il problema è che se nel frattempo l’inflazione è salita di più di quanto era prezzato nel rendimento a scadenza quando l’hai comprato, il valore reale del tuo capitale sarà inferiore a quello di partenza.

Le obbligazioni indicizzate all’inflazione invece non ti danno un rendimento nominale fisso, ma un rendimento reale.

Il mercato misura la differenza tra i due con un indicatore chiamato break-even inflation: che in pratica è quel livello di inflazione che rende equivalenti il rendimento di un titolo nominale e quello di un titolo indicizzato.

Facciamo un esempio:

– Abbiamo detto che un Treasury decennale nominale rende il 4,2%.

– TIPS decennale rende l’1,8%.

Questo vuol dire che il mercato si aspetta che l’inflazione media dei prossimi 10 anni sia grossomodo del 2,4%.

Ora attenzione bene.

– Se l’inflazione sarà effettivamente 2,4%, allora comprare oggi un Treasury nominale o un TIPS con la stessa scadenza sarà equivalente; ceteris paribus.

– Se invece l’inflazione sarà più alta del 2,4%, allora sarà stato più conveniente investire in TIPS;

– Se invece sarà stata più bassa, sarà convenuto investire nel titolo nominale.

E questa è una chiave importante per leggere correttamente il mercato dei bond: i rendimenti reali ti dicono cosa il mercato si aspetta sull’inflazione futura e sulla politica monetaria.

Ma ci dicono anche un’altra cosa, ossia che un titolo indicizzato all’inflazione non è “meglio”, tra virgolette, se l’inflazione è alta, ma solo se ex post risulta più alta di quella prezzata all’inizio.

Quindi le inflation-linked, non sono obbligazioni “a prova di inflazione” in senso assoluto.
Anzi nel breve periodo, possono perdere valore di brutto se i tassi reali salgono.

Per la cronaca, dal marzo del 2022 all’ottobre dello stesso anno un ETF sui titoli governativi europei indicizzati all’inflazione perse oltre il 15%, nonostante l’inflazione che galoppava.

Perché questo?

Non perché l’inflazione fosse bassa, ma perché i tassi reali — cioè tassi nominali meno inflazione, quelli che le banche centrali devono offrire per “compensare” gli investitori — erano saliti rapidamente.

Infatti il prezzo di un’inflation-linked dipende da due forze:

1. L’inflazione effettiva, che spinge il valore nominale verso l’alto.

2. Il tasso reale, che spinge il prezzo di mercato verso il basso quando sale.

Questo perché il valore del bond cresce meccanicamente seguendo l’inflazione realizzata che si accumula, ma può scendere se nel frattempo i tassi reali salgono molto.

Ricordiamo sempre che il prezzo di un bond è il valore scontato dei flussi di cassa futuri, cedole e rimborso del capitale.

– Nel caso dei bond classici il tasso di sconto è nominale, è lo lo yield to maturity, il suo rendimento a scadenza, che dipende dai tassi di interesse più eventuale rischio duration, rischio credito e così via.

– Nel caso dei bond indicizzati, invece, il tasso di sconto è il tasso reale, nominale meno inflazione. Se questo sale, il prezzo del bond scende — almeno nel breve.

Quindi se i tassi reali aumentano più dell’inflazione attesa, anche le obbligazioni inflation-linked possono perdere valore.

Nel lungo periodo però, questi strumenti tendono a preservare il potere d’acquisto meglio delle obbligazioni nominali, soprattutto quando l’inflazione ha delle fiammate improvvise o resta strutturalmente elevata.

Ed è proprio questo il loro ruolo strategico in portafoglio.

Chiaramente al costo di un potenziale mancato rendimento che può invece dare un bond nominale in un contesto caratterizzato da una significativa recessione o da tassi reali in discesa.

Come sempre quando si parla di bond anche qui bisogna specificare le differenze tra ETF e singoli titoli, perché sappiamo che questo è sempre un terreno minato.

Ovviamente possiamo:

– Comprare titoli singoli, come i BTP Italia, o gli analoghi francesi, spagnoli o tedeschi e in altre valute TIPS, Gilt e così via.

– Oppure possiamo comprare ETF che replicano panieri di obbligazioni indicizzate.

Vediamo la differenza.

I BTP Italia, ad esempio, sono emissioni con scadenze precise, cedole semestrali e rivalutazione del capitale in base all’inflazione italiana.
Puoi tenerli fino a scadenza e avere la garanzia di riavere il capitale rivalutato — generalmente con floor a 100, quindi anche in caso di deflazione non va sotto 100.
Nessun TER, nessuna replica, rendimento noto se resti fino alla fine.

I limiti sono gli stessi che conosciamo per i loro analoghi nominali:

– Nessuna diversificazione

– Duration decrescente

– E se vendi prima della scadenza, potresti avere perdite anche importanti

Gli ETF, invece, hanno un funzionamento un po’ più complesso di un ETF obbligazionario standard.

– In un ETF “normale” su titoli nominali, il valore dell’indice dipende dai prezzi di mercato dei bond, che sono determinati dai tassi nominali.

– In un ETF inflation-linked, invece, i prezzi dei bond aumentano anche grazie alla rivalutazione periodica del capitale legata all’inflazione.
Questo significa che, anche se le cedole sono basse, il valore netto dell’ETF incorpora mese per mese la crescita del capitale rivalutato.

Detto questo, il prezzo a mercato dell’ETF dipende comunque dai tassi reali.
Se i tassi reali salgono, il valore scende, come dicevamo prima.
Quindi non è uno strumento “immunizzato” dall’inflazione nel breve termine.
Tende a diventarlo sul lungo periodo, perché l’indicizzazione agisce nel tempo.

Se vogliamo, rispetto a un ETF obbligazionario standard, quello inflation-linked:

– Ha spesso una correlazione più bassa con le azioni

– E offre una protezione reale più diretta nei periodi di inflazione sopra le attese.

Ovviamente, per gli stessi motivi che abbiamo spiegato tante volte con le obbligazioni nominali, l’ETF è una soluzione molto più semplice e diversificata rispetto ai singoli titoli, a meno che uno sia in pensione e voglia una serie di bond indicizzati all’inflazione con diverse scadenze per finanziare in maniera costante il proprio consumo.

Un’ultima cosa: attenzione che se guardate il rendimento a scadenza di un ETF indicizzato quel valore viene *pesato sulla duration media del fondo* ed è una stima nominale del rendimento atteso *se l’inflazione futura sarà quella implicita oggi nei prezzi*. È quindi, diciamo così, ciò che otterresti *se l’inflazione futura fosse esattamente quella attesa oggi dal mercato*.

Ora, capito come funzionano e che hanno senso per diversificare il portafoglio in circostanze di inflazione che supera quella attesa, resta da capire come eventualmente implementarli nel portafoglio perché, diciamoci la verità, rispetto a quelli sulle obbligazioni nominali che ce ne sono di ogni gusto, forma e colore, gli ETF inflation linked sono veramente 4 in croce e in generale c’è un motivo per cui agli americani piacciono tanto mentre agli europei un po’ meno: i tassi reali negli Stati Uniti sono più alti.

Questo perché il mercato europeo è più “ottimista” sull’inflazione, o meglio: è più rassegnato a tassi reali bassi per via di una crescita economica che sembra continuerà ad essere strutturalmente più bassa.

Inoltre ci sono altri motivi:

– Il tasso di risparmio europeo è più alto, mentre negli Stati Uniti c’è maggiore propensione al debito;

– Inoltre la demografia europea è più stagnante di quella americana;

– Infine il mercato dei tips è più liquido e profondo di quello europeo, oltre al fatto che in America emettono più TIPS dei corrispondenti Europei — e quindi devono pagare in proporzione tassi più alti perché l’offerta è maggiore.

Tutte queste portano i TIPS ad avere rendimenti reali più elevati rispetto ai corrispondenti europei.

Detto questo:

– Come sempre se l’obiettivo è avere uno strumento che mantiene il potere d’acquisto in euro, inflation-linked europei sono una scelta no brainer.

– Altrimenti esistono etf sugli inflation linked globali, anche con copertura valutaria, che permette di esporsi ai rendimenti reali più alti per esempio negli Stati Uniti, nel Regno Unito e in Canada.

Ovviamente resta il duplice tema:

– Se non copri ti esponi al rischio valuta;

– Se copri ti esponi a costi potenzialmente elevati.

Vediamo come sarebbe andata negli ultimi 5 anni, quando un ETF sul bloomberg euro aggregate treasury avrebbe perso il 13%;

– Gli inflation linked europei avrebbero guadagnato il 4,5%;

– I globali a cambio aperto avrebbero perso il 6,5%;

– I globali a cambio coperto avrebbero perso il 12,6%.

Si può sempre provare a sfruttare il carry — come si dice — ossia il differenziale di tassi di interesse tra diversi mercati.

Sono però sempre dell’idea che se uno deve investire in un uno strumento di, diciamo così, protezione, meno variabili mette dentro meglio è.

Sono preoccupato dall’inflazione in europa? Andrò su quelli europei, punto.

Se invece ho una particolare visione che mi porta a pensare che, che ne so, i tassi reali in America saliranno e che pure il dollaro si rafforzerà, allora TIPS a cambio aperto — ma qui siamo nell’ambito della gestione attiva.

L’unico tema che ho sugli ETF indicizzati europei è questo: praticamente vuol dire investire in titoli di Francia, Italia, Spagna e un pizzico di Germania. Punto.

Francia e Italia pesano tantissimo anche negli ETF obbligazionari standard, ma sicuramente qui c’è molta meno diversificazione.

Ad ogni modo suppongo che da un terzo a metà della componente obbligazionaria del portafoglio, se uno desidera, può andare in IL.

Il nostro amico Victor, nella sua asset allocation modello, mette:

– Metà TIPS decennali;

– Un quarto di Treasury bills, quindi titoli a brevissimo termine, praticamente monetario;

– E poi un quarto nel Bloomberg aggregate, quindi un mix di titoli nominali governativi e corporate a scadenza intermedia.

Per lui: solo azioni e obbligazioni, ma mi aveva confermato che approvava una piccola quantità di oro come diversificatore.

Ovviamente non c’è un investment case assoluto per questi strumenti. Come sempre, in alcuni casi andranno bene in altri meno. Se però il tema di avere un asset reale per diversificare il portafoglio è sentito dall’investitore e questo è particolarmente preoccupato che l’inflazione realizzata futura sarà maggiore di quella attesa, allora ecco qua una possibile ricetta.

Ora prima di chiudere ricolleghiamo tutto al quadro macro.

Il debasement trade — ammesso e non concesso che sia persistente — parte dalla tesi che i governi non possono permettersi tassi reali troppo positivi, perché renderebbero insostenibile il debito pubblico.

Quindi una via d’uscita, piuttosto malsana ma per nulla improbabile, è lasciare che l’inflazione corroda lentamente il valore reale del debito.

Al momento sembrerebbe che i mercati si aspettino un’inflazione sopra i target delle banche centrali *negli anni a venire*, ma senza particolare panico al momento, cioè una forma di repressione finanziaria soft.

In questo scenario, le inflation-linked sono in effetti una delle poche asset class che, insieme all’oro, potrebbero avere una reazione positiva e, a differenza dell’oro, gli IL pagano dei flussi di cassa.
E rispetto all’oro o ai beni reali, hanno il vantaggio di essere più regolamentati e generalmente meno volatili.

Ovviamente Il punto di fondo è questo: le obbligazioni indicizzate all’inflazione non servono necessariamente ad aumentare il rendimento atteso del portafoglio. Anzi. Direi più no che sì.
Possono però avere un ruolo nel contenimento della volatilità complessiva del portafoglio in certe stagioni macroeconomiche ed eventualmente possono garantire che il valore reale del capitale resti più stabile, indipendentemente da come i governi o le banche centrali decidano di muovere la leva monetaria.

Non c’è mai una soluzione perfetta, naturalmente, perché ogni elemento di diversificazione costa qualcosa lungo la strada:

– In scenari più positivi del previsto, perdiamo rendimento;

– In scenari negativi, ma per motivi diversi — come in caso di una depressione economica — allora questi strumenti non danno nessun particolare supporto, al contrario di quel che farebbero bond a lunga duration.

Come ci disse William Bernstein quando venne a trovarci, si tratta in primis di scegliere qual è per noi il male principale e coprirci da quello.

Un portafoglio che ci fa stare più sereni è un portafoglio che terremo più a lungo.

Ecco perché vale la pena capire e considerare le obbligazioni indicizzate all’inflazione: non possiamo controllare l’inflazione, ma si può decidere di non subirla in toto.

Bene amici miei, fine dell’episodio di oggi, spero vi sia piaciuto e che abbia aggiunto un nuovo pezzettino al vostro ormai immenso puzzle di competenze finanziaria che da 257 episodi state costruendo insieme a me.

Questo è un episodio un po’ melanconico sapete, perché è l’ultimo episodio standard, solo audio, in cui ci sono io a parlare e voi ascoltate.

Da lunedì 20 ottobre, il podcast diventerà vodcast e chi vorrà seguirmi su Spotify e YouTube potrà guardarsi anche la versione video, mentre invece chi usa altre piattaforme o semplicemente non vuole vedere la mia faccia — posizione assolutamente condivisibile — potrà continuare ad ascoltarmi e basta.

Gli episodi saranno sempre perfettamente comprensibili anche in formato audio — promesso.

E sì, avete capito bene, lunedì 20 ottobre!

Da quel giorno la programmazione di The Bull slitta in avanti di 24 ore.

Invece che domenica e mercoledì, gli episodi usciranno lunedì e giovedì.

Spero di non destabilizzare nessuno, ma alla fine la maggior parte di voi l’episodio della domenica lo ascolta di lunedì, quindi a sto punto facciamolo direttamente di lunedì.

E quello di mercoledì slitta a giovedì per coerenza.

Però c’è ancora un episodio in mezzo no?

Quello di mercoledì prossimo.

Beh, non avrei potuto immaginarmi una conclusione più memorabile di questa stagione solo audio di The Bull durata 2 anni e mezzo.

Mercoledì infatti chiuderemo con il botto con un’intervista incredibile alla donna più famosa del mondo della finanza, sua maestà Cathie Wood, founder e CEO di ARK innovation e gestore dell’ETF attivo più famoso del mondo, che investe esclusivamente in società che riflettono ciò che lei chiama Technolgy Enabled Disruptive Innovation.

Con Cathie abbiamo parlato dei temi di investimento tecnologici più dirompenti del momento, di AI, di Tesla e del perché non viene compresa fino in fondo, di Bitcoin, di cui lei è una grandissima supporter da oltre un decennio e tanto altro ancora.

Insomma, quello sarà l’ultimo audio della storia di The Bull e spero che poi continuerete a voler scrivere insieme a me la storia di questo podcast in questa e tante altre forme.

Vedrete che ci sono tante sorprese che ci aspettano.

Per chi vuole poi ci vediamo alle presentazioni del mio libro il 14 ottobre a milano alle 18:30, il 16 a bologna alle 18:00 e il 22 a Roma, seguitemi su Instagram o Linkedin per i dettagli.

Non serve prenotare.

Come sempre vi invito a mettere segui e attivare le notifiche su spotify, apple podcast e a iscrivervi al canale YouTube per supportarci e permetterci di continuare a produrre contenuti in cui la quantità di informazioni non verrà mai diluita come nei debasement ma sarà sempre più ricca sempre nuovi.

Per questo episodio invece è davvero tutto e noi ci vediamo mercoledì prossimo con Cathie Wood, sempre qui naturalmente con The Bull il tuo podcast di finanza personale

 

Recensioni

Quando capisci come funziona la finanza… ti viene voglia di raccontarla!

La mia ignoranza in materia mi ha sempre creato dei dubbi, ma grazie a un amico ho iniziato ad ascoltare il podcast. Per fortuna che ho 24 anni e un po' di tempo e soldi da dedicarmi a imparare le varie nozioni per me stesso. Grazie mille!

Luca G. 10 Ott 2025

Ho seguito tutte le puntate! Grazie veramente

Amalia A., 17 Set 2025

Dovrebbero ascoltarlo buona parte degli italiani e io avrei dovuto scoprirlo con qualche anno in anticipo ma meglio tardi che mai

Matteo C., 3 Set 2025

Podcast piacevole, scorre veloce ma in modo estremamente chiaro, spiega i concetti chiave per gestire le proprie finanze, fornendo la classica cassetta degli attrezzi. Complimenti, davvero ben fatto!

Massimiliano, 29 Mag 2024

Riccardo mi ha letteralmente cambiato la vita e fatto scoprire che amo la finanza, ho ascoltato il podcast già due volte e non mi stufo mai di ascoltarlo, parla in modo semplice e chiaro

Massimo D., 23 Set 2025

Veramente veramente raccomandato! la finanza personale riassunta alla perfezione! e spiegata partendo dall'ABC! Ottimo anche da ascoltare a velocita 1,5x!

Giorgia R., 23 Gen 2025

Da quando l'ho scoperto in 15 gg mi sono ascoltato 150 puntate senza fermarmi, ho annullato gli altri podcast per portarmi alla pari ed ascoltare tutte le precedenti puntate, ben fatto, esattamente il livello di informazione che mi serviva

Gianluca G., 11 Set 2025

Veramente interessante, chiaro e conciso. Cambia la vita finanziaria di chiunque.. da ascoltare assolutamente anche per chi di finanza non vuole occuparsi mai

Francesca B., 6 Apr 2024

Ho acquistato e letto il suo libro e l' ho trovato. Esprime i concetti economici in modo semplice e chiaro. Sentirlo parlare conferma che è un professionista del settore.

Giulia N., 11 Ago 2025
Facile.it
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