Nessun investimento è davvero senza rischio (ma si rischia meno rischiando di più)
E' possibile non correre alcun rischio con i propri risparmi? Esistono investimenti completamente senza rischio? E quale sarebbe il rendimento senza rischio minimo che sarei disposto ad accettare per sempre? Investire in asset rischiosi, forse, è il modo per correre meno rischi possibile.

Risorse
Punti Chiave
Nessun asset è senza rischio; per valore reale serve rischio calcolato.
Usa l'esperimento di Haghani per trovare il tuo punto di equilibrio rischio/rendimento.
Un portafoglio diversificato (azioni, obbligazioni, oro, fattori) bilancia i rischi principali.
Trascrizione Episodio
Bentornati a The Bull, il tuo podcast di finanza personale!
Arrivati all’episodio numero 239 qualcuno ogni tanto mi chiede: “ma che c’avrai ancora da dire? Ma poi è pure agosto, non puoi startene zitto per un paio di settimane andare in ferie?”.
Guarda amico mio immaginario di questa fittizia conversazione: ormai mi sono infilato in un tunnel da cui non uscirò mai, fatto di nuove risposte a vecchie domande e nuove domande a vecchie risposte, e ho proprio il bisogno di fare nuovi episodi per condividere con voi tutte le cose intelligenti che trovo in giro e le riflessioni con cui le metto insieme.
In fondo penso che le nuove domande che ogni giorno mi pongo, saranno domande che un domani vi porrete anche voi, o che magari vi siete già posti prima di me.
Non è che ho la pretesa di fornire delle risposte.
Però provando a mettere insieme le risposte di altri, un po’ per volta ci avviciniamo sempre di più a quella piena consapevolezza e padronanza che può permetterci di investire al meglio i nostri soldi e migliorarci la vita.
Ovviamente investire al meglio non vuol dire indovinare la combinazione di asset con il maggior rendimento o il miglior Sharpe ratio.
Investire al meglio vuol dire investire nel modo migliore per me e per la mia famiglia rispetto ai nostri obiettivi e alla nostra predisposizione psicologica.
E purtroppo non credo ci sia un risposta one-fits-all.
Certo, l’80% lo sanno tutti coloro che si sono sparati buona parte i 238 episodi prima di quello di oggi.
– Spendi meno
– Guadagna di più
– Non investire i soldi che ti servono per le emergenze
– Usa ETF che replicano vasti indici a basso costo e fai meno scommesse possibili, partendo dal presupposto che tu sei l’investitore medio.
– Assumiti poi più o meno rischio a seconda di quanto il tuo orizzonte temporale, la tua tolleranza e la tua situazione finanziaria complessiva (fatta di reddito e debiti) ti consentono.
Questo è il grosso.
Però poi nella fase di implementazione ci sono mille domande, perché si sa: il diavolo si annida nei dettagli.
Perché poi la sapete, tutta la finanza personale si può ridurre ad un’unica grande domanda: quanto dei miei risparmi è corretto investire in asset rischiosi e quanto in asset senza rischio.
Questa è la quaestio quaestionoroum, la domanda delle domande, sperando di non aver sbagliato il genitivo plurale altrimenti faccio una figura di merda epica.
Se poi siamo abituati a identificare le azioni come l’asset class rischiosa per definizione, allora la domanda delle domande è: quanto investire in azioni?
Noi un paio di risposte a questa domanda le abbiamo proposte.
– Una risposta breve è la formula di The Bull (perlomeno finché si è nella fase di accumulo), quindi 125 meno gli anni meno il tasso d’interesse senza rischio per 5;
– Una risposta più complessa, ma sicuramente migliore, è in quella versione semplificata della teoria del portafoglio di Merton che è nota come Merton Share, dove la “share” di azioni, la quota ottimale di azioni viene stimata in base a questi tre principi:
– Sarà direttamente proporzionale al rendimento atteso dell’indice azionario in cui voglio investire in eccesso a quello senza rischio — e il rendimento atteso lo stimiamo come l’inverso del rapporto prezzo utili, oppure prendiamo per esempio le Capital Market Assumptions come quelle che fa AQR e le prendiamo da lì, visto che sono i migliori del mondo a fare questi ragionamenti.
– E poi sarà inversamente proporzionale alla varianza dell’indice moltiplicata per il nostro coefficiente di avversione al rischio.
Per chi vuole rimando agli episodi 184 e 230, mentre invece una nuova trattazione di questo argomento e di molti altri arriverà tra settembre in almeno due formati nuovi perché, come vi sto anticipando da qualche episodio, dopo l’estate la vostra esperienza di The Bull, non sarà più la stessa.
Mettiamola così: d’ora in poi The Bull non solo lo ascolterete…
Torniamo a noi, invece.
Dicevo, la domanda delle domande è quanto investire in azioni e un paio di risposte le abbiamo abbozzate.
Questi sono modelli top down — cioè: si prende una formula, si ficcano dentro i parametri che riteniamo più idonei per noi ed esce fuori l’allocation e ve la prendete così.
Il ragionamento però si può fare anche bottom up, e lo spunto ancora una volta me l’ha dato un articoletto di qualche mese fa di Victor Haghani, molto citato in giro peraltro.
L’articolo è molto semplice, e ve lo metto in descrizione per le vostre letture sul bagnasciuga, ma coglie un punto fondamentale.
Lui fa questo esperimento mentale e dice:
“immaginiamo che ci venga offerta la possibilità di ottenere un rendimento reale completamente senza rischio per sempre a condizione di rinunciare a qualunque altra opportunità di investimento. Quale sarebbe il rendimento minimo che saremmo disposti ad accettare?”
Cioè lo ridico.
Invece che stare a diventare scemi come me ogni giorno a capire qual è il portafoglio ideale, facciamo finta che sia possibile investire in un ETF magico a zero costi che vi dà un rendimento perpetuo reale, cioè al netto dell’inflazione, a patto però che questa sia l’unico strumento di investimento per tutto il resto della vostra vita. Qual è il rendimento — ripeto reale — che sareste disposti ad accettare in cambio dell’impegno a non investire mai più in nient’altro?
Chiaramente è escluso che possa usare la leva, altrimenti avessi la certezza di un qualunque rendimento reale perpetuo, potrei usare una leva infinita e fare soldi illimitati.
Il giochino funziona a condizione di metterci solo i propri risparmi.
Sembra una domanda un po’ banale, ma se vi fermate un attimo a ragionarci è veramente un modo estremamente intelligente per porsi il problema del portafoglio ideale per ME e quindi fare un doppio check rispetto alle MIE preferenze soggettive.
Proviamo a fare insieme questo ragionamento.
Modifico un po’ quello di Haghani perché fa anche delle considerazioni di natura fiscale che non hanno senso da noi.
Qual è il punto di partenza?
Il cash?
Ovviamente no.
Mettere tutti i nostri soldi in uno strumento monetario come il tanto amato XEON non è neanche lontanamente garanzia di rendimento reale.
Per esempio nei 20 anni che vanno dal gennaio 2005 al dicembre 2024 il rendimento nominale medio annuo composto di XEON è stato circa dell’1%, ma il suo rendimento reale è stato del -2,4%.
In pratica investire in cash, in un etf monetario, in questi 20 anni ci sarebbe costato oltre un quarto del valore reale dei nostri soldi.
Per la cronaca un ETF sui titoli di Stato europei a scadenza intermedia avrebbe un rendimento reale praticamente di zero, cioè avrebbe pareggiato tanto quanto l’inflazione si è mangiata via in questi anni.
La prossima volta che dovesse venirvi il dubbio su quale sia il senso di un ETF di bond quando esistono gli ETF monetari ricordatevi di questa cosa.
Titoli di Stato nominali, però, non sono comunque la soluzione al nostro problema del rendimento minimo reale garantito.
Noi siamo abituati a pensare che un titolo di stato sia uno strumento sicuro, ma solo perché consideriamo il suo valore nominale, mentre invece dobbiamo abituarci a pensare sempre in termini reali, dato che alla fine i soldi ci servono per comprare cose — e quindi il loro valore reale è quello che conta.
In altre termini, me ne faccio poco di sapere che un certo investimento ha reso 5% o 7% se non so qual è stata l’inflazione sotto.
– Se ho ottenuto l’7% in un periodo con l’inflazione annua media al 4% il mio rendimento reale sarà circa 3%;
– Se ho ottenuto il 5% in un periodo con l’inflazione annua media all’1%, il mio rendimento reale sarà stato 4%.
Poi parliamo di azioni, ma parlando di bond questa cosa è particolarmente importante.
Un bond, il cui emittente non fallisca, rimborsa sempre il suo valore nominale.
Ma in un contesto inflazionistico, con tassi in crescita, il valore reale va a farsi friggere.
Giusto per darvi un esempio, durante il cosiddetto “bond winter” tra la fine degli anni sessanta e il 1981, il rendimento nominale dei Treasury decennali è stato positivo, ma il loro rendimento reale è stato disastroso.
Per esempio dal 1972 al 1981 investire in super sicuri titoli di stato sarebbe costato all’investitore un terzo del valore reale dei propri soldi — e questo comprensivo delle cedole.
Qui ora non sto facendo una distinzione tra singoli bond e etf di bond, anche perché se si fa un backtest, di fatto il backtest considera un’esposizione stabile ad una certa maturity, cioè prende il rendimento di un decennale lungo tutto il periodo, non quello di uno strumento la cui duration si riduce fino alla scadenza.
Noi per convenzione consideriamo i titoli di Stato decennali un asset senza rischio perché nei quarant’anni dal 1981 al 2021 di fatto è stato così.
Ma dal 2022 il mondo è un po’ cambiato.
Ora, non siamo neanche lontanamente in uno scenario come quello degli anni ’70, ma l’esperienza di questi ultimi anni ci ha insegnato esattamente che investire in bond può costare dei tonfi verticali, che in valore reale diventano delle voragini.
Lo stesso ETF di bond governativi europei a scadenza intermedia dal novembre 2021 all’ottobre 2023 avrebbe perso quasi il 30% del suo valore in termini reali.
Ricordiamo che nel solo 2022 in Italia l’inflazione era decollata sopra il 12%.
Quando uno strumento obbligazionario ha un tracollo del genere, i tempi di recupero possono essere molto lunghi.
C’è un famoso paper scritto da Gabriel Lozada dell’Università dello Utah che avrebbe dimostrato come il rendimento iniziale di un fondo o di un ETF obbligazionario corrisponde al suo rendimento medio in un orizzonte temporale corrispondente a due volte la sua durata.
Cioè se oggi compro un ETF obbligazionario sul Bloomberg Aggregate Euro Treasury, che ha uno Yield to Maturity, cioè un rendimento a scadenza, intorno a 2,7% e duration di circa 7 anni, da qui al 2039 il rendimento medio di quello strumento sarà stato circa 2,7%.
Ovviamente questa frase presuppone una serie di precisazioni e infatti il paper è 45 pagine.
Però, seguendo il paper, teoricamente se voglio avere una ragionevole garanzia di ottenere un certo rendimento nominale da qui a x anni, dovrebbe funzionare prendere un ETF obbligazionario con duration di x diviso 2 anni.
Non so, il mio orizzonte è dieci anni? Uno strumento obbligazionario con duration 5 comprato oggi dovrebbe darmi una ragionevole garanzia che da qui a 10 anni renderà tanto quanto il suo rendimento a scadenza di oggi.
Il problema tuttavia è che stiamo sempre parlando di rendimenti nominali.
In qualche modo il term premium di uno strumento obbligazionario incorpora il rischio inflazione, almeno finché la curva dei rendimenti non è invertita, però se sale l’inflazione siamo punto e a capo.
Teoricamente l’unico strumento veramente risk-free, come ci aveva detto anche John Cochrane, è una indexed perpetuity, cosa che potremmo tradurre come un bond governativo indicizzato all’inflazione.
Negli Stati Uniti hanno i TIPS, anche trentennali.
Teoricamente una persona alle soglie della pensione potrebbe avere un portafoglio di TIPS e finanziare in termini reali tutte le sue esigenze di spesa.
Ma anche questo sarebbe un calcolo molto pericoloso, perché gli interessi sarebbero sempre più o meno adeguati all’inflazione, va il valore del bond potrebbe avere dei tracolli e se cambiano le esigenze di spesa e bisogna vendere i bond, a quel punto le perite sono drammatiche.
In Europa comunque non abbiamo un vero e proprio equivalente dei TIPS, anche perché non mi pare che la Germania stia emettendo bond a lunga scadenza indicizzati all’inflazione.
In prima approssimazione, però, un ETF sui governativi inflation-linked europei oggi rende circa 1,4%, quindi potremmo dire che 1,4% è circa il massimo rendimento rendimento reale a basso rischio (non zero rischio, ma abbsatanza basso rischio) che possiamo portarci a casa.
Non è perpetuo, naturalmente, le condizioni possono cambiare, ma ad oggi è così.
Ora, rinuncereste voi a qualunque altro investimento del mondo per un 1,4% reale per sempre?
Se la risposta è sì, tutti i vostri problemi di asset allocation sono finiti, ma forse finisce anche il vostro rapporto con questo podcast.
Mettete tutti i vostri risparmi in inflation-linked in euro e buona vita.
Per la maggior parte di noi invece 1,4% reale non è accettabile.
Guardiamo quindi l’altra asset class che conta: le azioni.
Le azioni ovviamente sono tutt’altro che senza rischio, anzi.
Come sappiamo bene, il loro rendimento in eccesso rispetto ad un asset senza rischio è proprio dato dal fatto cha abbiamo dei rischi da sopportare — e infatti si chiama premio al rischio.
Qual è il premio al rischio che ci aspettiamo dalle azioni?
Difficile da dire.
Abbiamo speso tante parole ultimamente per spiegare perché questo rischio varia nel tempo — vuoi per motivazioni legate al ciclo economico, vuoi per altre spiegazioni di natura comportamentale.
Ma varia.
Negli ultimi 50 anni l’S&P 500 ha reso oltre l’11% medio composto all’anno, con un rendimento in eccesso ai titoli di Stato di circa il 6% e addirittura l’8% in eccesso ai Treasury Bills, almeno stando ai conti di Damodaran della NYU.
In altri mercati è stato più basso e come sappiamo bene il rendimento atteso futuro sarà probabilmente inferiore.
In un contesto come quello di oggi, ho fatto due conti è il ritorno in eccesso di un portafoglio azionario fatto metà Stati Uniti e metà resto del mondo è circa 3,5%, che è abbastanza fondata visto che per esempio AQR stima che sia 3,4%.
Chiaramente questo numero non è fisso.
La premessa appunto è che i rendimenti attesi varino nei vari cicli di mercato.
Però questo è il rendimento atteso di partenza.
Se noi ragioniamo con le azioni come se fossero bond, il rendimento di partenza è fornisce la migliore previsione possibile sul rendimento effettivo di lungo termine e sappiamo che c’è una correlazione piuttosto forte tra i rendimenti iniziali e i ritorni effettivamente realizzati nei 10-15 anni successivi.
3,5% + 1,4% fa quasi 5% di rendimento atteso reale.
Dato che siamo sempre abituati a ragionare in termini nominali, se ipotizziamo un’inflazione di lungo termine intorno al 2-2,5%, siamo a 7-7,5% di rendimento medio annuo.
Però per i motivi che dicevamo prima, ragionare in termini reali sarebbe sempre la cosa ideale.
5% è una ragionevole stima reale del rendimento atteso per un portafoglio 100% azionario, metà Stati Uniti e metà resto del mondo.
Ora si tratta di capire qual è il rendimento reale minimo su cui uno sarebbe disposto a metterci la firma in cambio e il numero oscillerà tra 1,4% (quello che potrei prendermi oggi con strumenti obbligazionari in euro indicizzati all’inflazione) e 5%, con un 100% azionario.
Questo naturalmente sotto l’ipotesi che:
– UNO: non sia in grado di generare alfa, cioè un’extra performance rispetto al mercato grazie alle mie superiori capacità di investitore e
– DUE: che non consideri alcuna extra performance di natura sistematica, come ad esempio usando un’esposizione fattoriale.
È interessante fare questo ragionamento perché dice molto di noi e di qual è davvero la nostra disposizione soggettiva rispetto a rischio e rendimento.
A tutti piace l’idea di ottenere il massimo rendimento possibile.
Ma quando messi di fronte ad una scelta permanente e irreversibile siamo costretti a ragionare sul trade-off che più rispecchia le nostre preferenze soggettive.
Questo diventa poi la guida per impostare il bilanciamento del portafoglio.
Diciamo che oggi ho 35 anni, 50.000 € da investire e 500 € al mese da aggiungere fino ai 60 anni, che però aggiusterò per inflazione ogni anno del 2,5%.
Per esempio chiediamoci:
– Metterei la firma per prendermi un 2% reale a vita senza rischio? Tra 25 anni saranno un po’ di 420.000 € in valore reale;
– 3%? Un po’ più di 460.000 €
– 4%? Circa mezzo milione reale
– 5%? Circa 550.000 €
Parliamo di valori reali, dunque del valore che avranno i miei soldi tra 25 anni equivalente a quello di oggi.
Come facciamo a capire dove posizionarci?
Beh, consideriamo che le azioni globali hanno una volatilità annualizzata intorno al 16%, quindi la dispersione dei risultati è piuttosto ampia — può andarmi molto bene o eccezionalmente male, anche per via del rischio di sequenza visto che verso un po’ per volta.
– Se mi becco subito un decennio sfigato e poi un bull market leggendario volo;
– Se invece il bull market è subito e l’ultimo decennio prima della pensione mi dice male è tutta un’altra storia.
Qui facciamo finta di avere un rendimento costante — cosa assolutamente non vera — ma ci serve per capire a che condizioni saremmo disposti a bloccare un certo rendimento per sempre, rinunciando ad ogni possibile upside ma cancellando anche ogni possibile rischio.
Probabilmente per un 3% reale metterei la firma sulla pietra.
Zero rischio per sempre.
Un ritorno accettabile per la vita.
Se esistesse una perpetuity, una sorta di gestione separata con rendimento reale al 3% garantito per sempre, ci farei più di un pensiero.
Ovviamente questa cosa non esiste — e nessun asset manager potrà mai garantirla, perché la controparte dovrebbe prendersi un rischio eccessivo, probabilmente non compensato dal ritorno in eccesso al 3% che punterebbe a portarsi a casa.
Anche se questa sarebbe davvero una formula virtuosa per chi vende fondi comuni attivi.
Sostieni di essere in grado di generare alfa in maniera continuativa e che gli ETF sono invece una cagata inventata dagli influencer?
Benissimo: dammi il 3% reale, al netto delle commissioni, e avrai i miei soldi per sempre!
Ma dubito fortemente che qualcuno sia così folle da garantire una cosa del genere perché sarebbe un progetto fallimentare per l’asset manager in partenza.
Torniamo a noi.
Ora che so che io per un 3% reale senza rischio metterei la firma, che tipo di portafoglio voglio se devo includere anche la componente di rischio?
Beh, probabilmente vorrei un portafoglio che nei suoi scenari peggiori non si discosti molto da quel 3%.
Vediamo i rendimenti reali attesi da portafogli composti da solo azioni e obbligazioni, considerando un rendimento reale senza rischio di 1,4%, un rendimento reale azionario del 5% e il fatto che se ribilanciamo i portafogli di azioni e obbligazioni in media il rendimento realizzato è superiore alla media ponderata del rendimento delle due singole asset class, per via del bonus di ribilanciamento di cui abbiamo parlato spesso.
Diciamo che vale mezzo punto percentuale di rendimento.
Cosa abbiamo:
– 50 azioni e 50 obbligazioni: 3,6%
– 60/40: circa 3,9%
– 70/30: circa 4,1%
– 80/20: circa 4,4%
Ovviamente se mi sarei accontentato di un 3% senza rischio, se devo pensare ad un portafoglio vero sono disposto ad assumermi un certo rischio, ma sapendo che la mia baseline non dovrebbe andare troppo sotto al 3%.
Probabilmente da qualche parte tra 60/40 e 70/30 è dove si posiziona un portafoglio che rispecchia il mio profilo di rischio ed è coerente con modelli di asset allocation tipo la regola di The Bull o la regola di Merton.
Ora, facciamo un passo in avanti nella riflessione, che ci porta però ad un concetto piuttosto primordiale — cioè è una cosa che sta proprio alle fondamenta del processo di pianificazione dei propri investimenti.
In un mondo in cui non esiste nessuno che ti può garantire un 3-4% reale per sempre, si tratta di capire qual è la cosa che più si avvicina ad un bilanciamento ottimale tra i rischi che corro e i benefici che ottengo.
Agli albori della finanza, il portafoglio mean variance di Markowitz era pensato per essere questa roba qua.
Sulla carta era perfetto, poi il problema è che richiede così tante assunzioni che piccoli variazioni nelle ipotesi danno grandi variazioni nei risultati.
Le formule di cui parliamo qui sono molto meno rigorose ma più, diciamo così, su misura per l’investitore.
In particolare la semplificazione del modello di Merton che si adatta in base al coefficiente personale di avversione al rischio crea una specie di ponte tra i modelli puramente finanziari di asset allocation e quelli basati sul goal based investing.
Ad ogni modo, il discorso su cui spesso ci si incaglia — soprattutto quando si parla con qualcuno che deve ancora iniziare ad investire — è proprio il significato di rischio quando si investe.
Sappiamo bene che l’italiano medio non vuole tanto investire in azioni.
Negli Stati Uniti oltre il 60% della popolazione possiede Stock.
In Italia il numero gira intorno al 10%.
Di cosa invece andiamo ghiotti?
– Titoli di Stato soprattutto nominali
– Assicurazioni a capitale garantito
– Certificati con cedole astronomiche ma rendimenti terribili e costi abnormi
Perché?
Perché fondamentalmente noi siamo settati per aver paura di perde soldi in termini NOMINALI.
Invece non capiamo che ci muoviamo costantemente in un equilibrio precario tra due estremi, che sono l’inflazione da un lato e le crisi economiche dall’altro.
Noi possiamo perdere soldi in due modi:
– O investendoli e realizzando un possibile rendimento negativo
– O non investendoli e realizzando un rendimento negativo reale certo.
Era una delle primissime frasi di questo podcast all’episodio 2.
Se investi forse perdi i soldi.
Se non investi li perdi di sicuro.
La nostra ingenua pace dei sensi prima di diventare investitori dipendeva unicamente dal fatto che eravamo tranquilli nel vedere il valore nominale dei nostri soldi sul conto sempre lì bello tranquillo.
Poi ci lamentavamo con il governo, con l’europa, con i supermercati, i ristoranti o quant’altro per via del caro prezzi.
Però non è che poi agivamo di conseguenza e provavamo a contrastare la perdita di valore reale dei nostri soldi in qualche modo.
Il problema è che noi pretendiamo che i nostri risparmi possano stare in un equilibrio statico: una volta che sono lì, nessuno li tocca. Rendono zero e perdono zero per sempre.
Ma non è così.
L’equilibrio è dinamico: per avere ZERO, devi avere un certo rendimento che, come minimo, compensi l’inflazione.
Tutta sta predica per dire cosa?
Per dire che ciò che noi spesso consideriamo senza rischio è senza rischio solo in un senso.
Prendiamo i titoli di stato e ammettiamo che non esista il rischio emittente. Non è vero, ma sono d’accordo che non è così probabile, almeno su quelli ad alto rating.
Sono davvero senza rischio per il fatto che il rendimento nominale è praticamente certo come la morte?
Manco per niente.
Sono senza rischio nel senso che, probabilmente, durante una grave recessione economica continuano a darti il loro rendimento e se c’è un contesto di deflazione e i tassi scendono si apprezzano pure.
Ma non sono affatto senza rischio in un contesto inflattivo o comunque di tassi crescenti.
Lì il tuo rendimento nominale è sempre garantito.
Ma la perdita reale può essere devastante e richiedere un periodo di recupero così lungo da mandare in vacca tutta la tua pianificazione finanziaria.
La verità fondamentale a cui bisogna portare chiunque è scettico di fronte a tutto sto discorso degli investimenti è che per correre meno rischi possibile uno debba prendersi un livello di rischio sicuramente maggiore di zero.
In parole povere:
– ZERO RISCHIO = PIU’ RISCHIO
– UN PO’ DI RISCHIO = MENO RISCHIO
Ovviamente questa cosa il vostro interlocutore la capirà se si toglie le fette di salame dagli occhi e si rende conto che il problema non è preservare il valore nominale dei propri risparmi. Il problema è come minimo preservare il valore reale e caso mai ottenere pure un rendimento aggiuntivo.
Pim Van Vliet di Robeco, autore di una manica di paper uno più interessante dell’altro, ha scritto un articolo qualche settimana fa per il CFA institute in cui mette a fuoco esattamente questo tema: tutti gli investimenti sono rischiosi. Dal cash, cioè da un conto deposito alle azioni.
Nel breve termine, cash e bond danno l’impressione di essere senza rischio. Ma nel lungo termine il loro rischio di perdita reale aumenta sensibilmente.
Appunto, ricordiamoci che i 40 anni dal 1981 al 2021 sono stati eccezionali per i titoli di Stato, soprattutto per quelli americani.
In futuro è molto meno scontato che ciò succederà di nuovo.
Qual è però la trappola mentale a cui rischiamo di essere sottoposti?
È che con debiti pubblici sempre più alti e inflazione potenzialmente crescente, i rendimenti soprattutto sulla parte lunga della curva potrebbero salire, ma con il rischio di trovarci rendimenti nominali più elevati ma rendimenti reali risicati, se non negativi.
Tra la metà degli anni 70 e la fine degli anni 80 i Titoli di Stato Italiani avevano rendimenti a doppia cifra, ma in un contesto in cui l’inflazione viaggiava in media tra il 10 e il 20% all’anno.
I BTP o chi per essi sono sicuramente investimenti sicuri finché non fanno default.
Ma sicuri solo nel senso che garantiscono una promessa nominale, non una crescita reale.
Di conseguenza il nostro obiettivo che più si avvicina ad un rendimento reale senza rischio è appunto un portafoglio in grado di stare in equilibrio tra i principali rischi a cui i nostri risparmi sono esposti:
– Crisi economiche
– Inflazione
– Deflazione.
Per fare questo il portafoglio meno rischioso è molto più rischioso di quel che uno si aspetta, perlomeno finché parliamo di orizzonti di lungo termine:
– Servono sicuramente le azioni, che fino a prova contraria sono state il miglior asset antiinflazione dell’ultimo secolo;
– Servono probabilmente le obbligazioni, che danno un beneficio in termini di miglioramento del rapporto tra rischio e rendimento, possono portare un bonus di rendimento quando si ribilancia durante una crisi economica, hanno un rendimento maggiormente prevedibile, anche se ogg probabilmente le duration molto lunghe sono una scommessa pericolosa;
– Servono probabilmente asset decorrelati che funzionano soprattutto quando azioni e obbligazioni insieme vanno in vacca: oro certamente, forse materie prime, forse bond indicizzati all’inflazione, molto forse altri asset reali quotati o privati.
Ma in primis serve il rischio sistematico delle azioni proprio per controbilanciare il rischio della perdita reale di potere d’acquisto investendo in strumenti che nel lungo termine possono avere delle emorragie di valore reale.
Pim Van Vliet è molto noto per essere un grande studioso del fenomeno Low Volatilty, che è quella cosa strana per cui aziende a bassa volatilità e a basso beta hanno storicamente mostrato un’extraperformance rispetto al mercato.
Io ne parlo poco perché il mio cervello rifiuta sistematicamente quest’idea e non riesco a inserirla in un quadro coerente con gli altri fattori.
Limite mio.
– Value mi è perfettamente chiaro: investire in aziende di merda richiede maggior assunzione di rischio; quindi, che rendano di più nel lungo termine mi torna;
– Momentum mi ci è voluto un po’ di più ma ci sta: investire in aziende che sono cresciute tanto di recente è più rischioso; noi tendiamo ad aspettarci che tornino giù, non che continuino a crescere. Il nostro extra rendimento per l’investimento in momentum è il premio che ci pagano tutti gli altri investitori che il rischio di salire su un carro che ha corso già tanto non se lo vogliono prendere.
– Quality è ancora meno ovvio, però società con fondamentali solidi, poca leva finanziaria, bassi investimenti strutturali e una significativa distribuzione di dividendi potrebbero essere sistematica sottovalutate rispetto invece ai grandi nomi altisonanti che tendono invece spesso a diventare molto sopravvalutati, anche se lo stesso Cliff Asness nel 2013, nel Paper Quality minus Junk, spiegava che non è semplice ricondurlo ad una spiegazione basata sul rischio. Si potrebbe però pensare che per società profittevoli e “stabili” venga sottoapprezzato il loro potenziale di crescita. È una spiegazione a metà tra quelle risk-based alla Fama e quelle comportamentali, ma mi sembra accettabile.
Low Volatilty invece è ancora più dura.
In pratica un portafoglio di azioni a basso rischio produrrebbe maggior rendimento.
Da un parte, anche qui, forse gli investitori hanno una sistematica tendenza a sottostimare il potenziale di crescita di realtà a basso rischio implicito.
Oppure potrebbe essere che essendo meno volatili sono meno soggette a volatilty drag, ciò la differenza tra il loro rendimento medio aritmetico e quello composto si riduce e questo nel lungo termine darebbe un extra rendimento rispetto al mercato.
Non lo so, però Van Vliet ha scritto diversi articoli sull’argomento e anche in questo suggerisce un adattamento del classico portafoglio 60/40 in cui vengono sovrappesate società low volatilty, cioè società che lui chiama “per vedove e orfani”, azioni di società consolidate a bassa volatiltià che però nel lungo termine hanno un miglior risk-adjusted return del mercato.
Se volete approfondire vi lascio l’articolo e un paper in cui parla in maniera più tecnica di questa roba.
Oltre a questo, però quali sono i due consigli che dà per cercare di costruirsi un portafoglio che abbia un buon equilibrio tra rischio e rendimento rispetto alle due principali minacce finanziarie a cui siamo sottoposti: inflazione e crisi economiche?
Sono due buoni consigli, che rispecchiano perfettamente molte delle cose che diciamo qui e che ho trovato riflesse anche nel mio portafoglio.
– La prima è l’introduzione di una quantità di oro tra il 5 e il 15%. Vi ricordo che era sempre suo il paper The Golden Rule of Investing, che abbiamo citato più volte, che mostrava come un’allocazione fissa in oro in quel range on top ad un portafoglio tipo 60/40 è quella che in media avrebbe dato il miglior beneficio tra rischio e rendimento, in particolare durante contesti inflazionari come gli anni dopo il 1920, il 1970 e il 2022.
– La seconda è l’esposizione fattoriale. Oltre a Low Volatility cita Value e Momentum. Tra l’altro è appena uscito un articolo di Verdad con una serie di statistiche sull’extra rendimento e sulla volatilità aggiuntiva portata dai principali fattori. Negli ultimi 50 anni, Value, Momentum e Quality risultano quelli con il miglior rapporto tra rischio e rendimento atteso. La conclusione dell’articolo è che mentre la storia recente ha favorito grandi società con iperinvestimenti tecnologici (vedi le Magnifiche 7), c’è oggi una forte tesi di investimento per un’esposizione in particolare a società value, momentum e quality.
– Il terzo consiglio, su cui sicuramente Van Vliet e Verdad sarebbero perfettamente d’accordo, è una diversificazione globale, sulla base del fatto che il premio al rischio atteso negli US sia inferiore rispetto ad altre regioni, in particolare Europa e Paesi Emergenti. Ricordo che Verdad aveva pubblicato un articolo che avuto molta influenza sul sottoscritto in cui spiegava che se prendiamo l’MSCI World e lo pesiamo solo per il contributo in termini di profitto generato da ciascun mercato, il peso degli Stati Uniti scendeva dal 70 a circa il 55% e che ciò poteva rappresentare una più ragionevole rappresentazione del mercato azionario globale basandosi su un criterio fondamentale, invece che il puro market cap.
Al di là delle proposte specifiche, comunque, il punto su cui mi volevo focalizzare oggi era questo, che magari è perfettamente chiaro nella testa di chi mi ascolta, ma meno nei vostri compagni di vita che state cercando di tirare a bordo nel vostro viaggio finanziario: NON ESISTE l’ASSENZA DI RISCHIO, NESSUN ASSET E’ SENZA RISCHIO e l’unica cosa che conta è IL VALORE REALE DEI NOSTRI RISPARMI NEL TEMPO.
L’equilibrio statico è un’illusione.
I nostri risparmi sono in un equilibrio dinamico sospesi tra diversi tipi di rischio.
Avere un portafoglio abbastanza rischioso da bilanciare i rischi principali, inflazione e crisi economica, è paradossalmente la cosa che più si avvicina ad un rendimento reale perpetuo senza rischio.
Il ragionamento di Hagahni è utile per capire dove si posiziona per voi quel punto di equilibrio.
Bene amiche e amici miei, spero che quest’episodio vi sia piaciuto e che ve lo siate gustato in qualche località amena.
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Ancora una volta vi ringrazio per essere stati con me e se volete mettere segui e attivare le notifiche su spotify, apple podcast, youtube o dove ci ascoltate per supportarci e permetterci di continuare a produrre contenuti che vi raccontano perché niente è senza rischio e che per correre meno rischi bisogna correre più rischi sempre nuovi.
Per questo episodio invece è davvero tutto e noi ci rivediamo mercoledì prossimo con un appuntamento super pratico dedicato soprattutto a chi vorrete convincere in vacanza a cominciare ad investire con il più semplice dei portafogli del mondo, sempre qui naturalmente con the bull il tuo podcast di finanza personale.
Bentornati a The Bull, il tuo podcast di finanza personale!
Arrivati all’episodio numero 239 qualcuno ogni tanto mi chiede: “ma che c’avrai ancora da dire? Ma poi è pure agosto, non puoi startene zitto per un paio di settimane andare in ferie?”.
Guarda amico mio immaginario di questa fittizia conversazione: ormai mi sono infilato in un tunnel da cui non uscirò mai, fatto di nuove risposte a vecchie domande e nuove domande a vecchie risposte, e ho proprio il bisogno di fare nuovi episodi per condividere con voi tutte le cose intelligenti che trovo in giro e le riflessioni con cui le metto insieme.
In fondo penso che le nuove domande che ogni giorno mi pongo, saranno domande che un domani vi porrete anche voi, o che magari vi siete già posti prima di me.
Non è che ho la pretesa di fornire delle risposte.
Però provando a mettere insieme le risposte di altri, un po’ per volta ci avviciniamo sempre di più a quella piena consapevolezza e padronanza che può permetterci di investire al meglio i nostri soldi e migliorarci la vita.
Ovviamente investire al meglio non vuol dire indovinare la combinazione di asset con il maggior rendimento o il miglior Sharpe ratio.
Investire al meglio vuol dire investire nel modo migliore per me e per la mia famiglia rispetto ai nostri obiettivi e alla nostra predisposizione psicologica.
E purtroppo non credo ci sia un risposta one-fits-all.
Certo, l’80% lo sanno tutti coloro che si sono sparati buona parte i 238 episodi prima di quello di oggi.
– Spendi meno
– Guadagna di più
– Non investire i soldi che ti servono per le emergenze
– Usa ETF che replicano vasti indici a basso costo e fai meno scommesse possibili, partendo dal presupposto che tu sei l’investitore medio.
– Assumiti poi più o meno rischio a seconda di quanto il tuo orizzonte temporale, la tua tolleranza e la tua situazione finanziaria complessiva (fatta di reddito e debiti) ti consentono.
Questo è il grosso.
Però poi nella fase di implementazione ci sono mille domande, perché si sa: il diavolo si annida nei dettagli.
Perché poi la sapete, tutta la finanza personale si può ridurre ad un’unica grande domanda: quanto dei miei risparmi è corretto investire in asset rischiosi e quanto in asset senza rischio.
Questa è la quaestio quaestionoroum, la domanda delle domande, sperando di non aver sbagliato il genitivo plurale altrimenti faccio una figura di merda epica.
Se poi siamo abituati a identificare le azioni come l’asset class rischiosa per definizione, allora la domanda delle domande è: quanto investire in azioni?
Noi un paio di risposte a questa domanda le abbiamo proposte.
– Una risposta breve è la formula di The Bull (perlomeno finché si è nella fase di accumulo), quindi 125 meno gli anni meno il tasso d’interesse senza rischio per 5;
– Una risposta più complessa, ma sicuramente migliore, è in quella versione semplificata della teoria del portafoglio di Merton che è nota come Merton Share, dove la “share” di azioni, la quota ottimale di azioni viene stimata in base a questi tre principi:
– Sarà direttamente proporzionale al rendimento atteso dell’indice azionario in cui voglio investire in eccesso a quello senza rischio — e il rendimento atteso lo stimiamo come l’inverso del rapporto prezzo utili, oppure prendiamo per esempio le Capital Market Assumptions come quelle che fa AQR e le prendiamo da lì, visto che sono i migliori del mondo a fare questi ragionamenti.
– E poi sarà inversamente proporzionale alla varianza dell’indice moltiplicata per il nostro coefficiente di avversione al rischio.
Per chi vuole rimando agli episodi 184 e 230, mentre invece una nuova trattazione di questo argomento e di molti altri arriverà tra settembre in almeno due formati nuovi perché, come vi sto anticipando da qualche episodio, dopo l’estate la vostra esperienza di The Bull, non sarà più la stessa.
Mettiamola così: d’ora in poi The Bull non solo lo ascolterete…
Torniamo a noi, invece.
Dicevo, la domanda delle domande è quanto investire in azioni e un paio di risposte le abbiamo abbozzate.
Questi sono modelli top down — cioè: si prende una formula, si ficcano dentro i parametri che riteniamo più idonei per noi ed esce fuori l’allocation e ve la prendete così.
Il ragionamento però si può fare anche bottom up, e lo spunto ancora una volta me l’ha dato un articoletto di qualche mese fa di Victor Haghani, molto citato in giro peraltro.
L’articolo è molto semplice, e ve lo metto in descrizione per le vostre letture sul bagnasciuga, ma coglie un punto fondamentale.
Lui fa questo esperimento mentale e dice:
“immaginiamo che ci venga offerta la possibilità di ottenere un rendimento reale completamente senza rischio per sempre a condizione di rinunciare a qualunque altra opportunità di investimento. Quale sarebbe il rendimento minimo che saremmo disposti ad accettare?”
Cioè lo ridico.
Invece che stare a diventare scemi come me ogni giorno a capire qual è il portafoglio ideale, facciamo finta che sia possibile investire in un ETF magico a zero costi che vi dà un rendimento perpetuo reale, cioè al netto dell’inflazione, a patto però che questa sia l’unico strumento di investimento per tutto il resto della vostra vita. Qual è il rendimento — ripeto reale — che sareste disposti ad accettare in cambio dell’impegno a non investire mai più in nient’altro?
Chiaramente è escluso che possa usare la leva, altrimenti avessi la certezza di un qualunque rendimento reale perpetuo, potrei usare una leva infinita e fare soldi illimitati.
Il giochino funziona a condizione di metterci solo i propri risparmi.
Sembra una domanda un po’ banale, ma se vi fermate un attimo a ragionarci è veramente un modo estremamente intelligente per porsi il problema del portafoglio ideale per ME e quindi fare un doppio check rispetto alle MIE preferenze soggettive.
Proviamo a fare insieme questo ragionamento.
Modifico un po’ quello di Haghani perché fa anche delle considerazioni di natura fiscale che non hanno senso da noi.
Qual è il punto di partenza?
Il cash?
Ovviamente no.
Mettere tutti i nostri soldi in uno strumento monetario come il tanto amato XEON non è neanche lontanamente garanzia di rendimento reale.
Per esempio nei 20 anni che vanno dal gennaio 2005 al dicembre 2024 il rendimento nominale medio annuo composto di XEON è stato circa dell’1%, ma il suo rendimento reale è stato del -2,4%.
In pratica investire in cash, in un etf monetario, in questi 20 anni ci sarebbe costato oltre un quarto del valore reale dei nostri soldi.
Per la cronaca un ETF sui titoli di Stato europei a scadenza intermedia avrebbe un rendimento reale praticamente di zero, cioè avrebbe pareggiato tanto quanto l’inflazione si è mangiata via in questi anni.
La prossima volta che dovesse venirvi il dubbio su quale sia il senso di un ETF di bond quando esistono gli ETF monetari ricordatevi di questa cosa.
Titoli di Stato nominali, però, non sono comunque la soluzione al nostro problema del rendimento minimo reale garantito.
Noi siamo abituati a pensare che un titolo di stato sia uno strumento sicuro, ma solo perché consideriamo il suo valore nominale, mentre invece dobbiamo abituarci a pensare sempre in termini reali, dato che alla fine i soldi ci servono per comprare cose — e quindi il loro valore reale è quello che conta.
In altre termini, me ne faccio poco di sapere che un certo investimento ha reso 5% o 7% se non so qual è stata l’inflazione sotto.
– Se ho ottenuto l’7% in un periodo con l’inflazione annua media al 4% il mio rendimento reale sarà circa 3%;
– Se ho ottenuto il 5% in un periodo con l’inflazione annua media all’1%, il mio rendimento reale sarà stato 4%.
Poi parliamo di azioni, ma parlando di bond questa cosa è particolarmente importante.
Un bond, il cui emittente non fallisca, rimborsa sempre il suo valore nominale.
Ma in un contesto inflazionistico, con tassi in crescita, il valore reale va a farsi friggere.
Giusto per darvi un esempio, durante il cosiddetto “bond winter” tra la fine degli anni sessanta e il 1981, il rendimento nominale dei Treasury decennali è stato positivo, ma il loro rendimento reale è stato disastroso.
Per esempio dal 1972 al 1981 investire in super sicuri titoli di stato sarebbe costato all’investitore un terzo del valore reale dei propri soldi — e questo comprensivo delle cedole.
Qui ora non sto facendo una distinzione tra singoli bond e etf di bond, anche perché se si fa un backtest, di fatto il backtest considera un’esposizione stabile ad una certa maturity, cioè prende il rendimento di un decennale lungo tutto il periodo, non quello di uno strumento la cui duration si riduce fino alla scadenza.
Noi per convenzione consideriamo i titoli di Stato decennali un asset senza rischio perché nei quarant’anni dal 1981 al 2021 di fatto è stato così.
Ma dal 2022 il mondo è un po’ cambiato.
Ora, non siamo neanche lontanamente in uno scenario come quello degli anni ’70, ma l’esperienza di questi ultimi anni ci ha insegnato esattamente che investire in bond può costare dei tonfi verticali, che in valore reale diventano delle voragini.
Lo stesso ETF di bond governativi europei a scadenza intermedia dal novembre 2021 all’ottobre 2023 avrebbe perso quasi il 30% del suo valore in termini reali.
Ricordiamo che nel solo 2022 in Italia l’inflazione era decollata sopra il 12%.
Quando uno strumento obbligazionario ha un tracollo del genere, i tempi di recupero possono essere molto lunghi.
C’è un famoso paper scritto da Gabriel Lozada dell’Università dello Utah che avrebbe dimostrato come il rendimento iniziale di un fondo o di un ETF obbligazionario corrisponde al suo rendimento medio in un orizzonte temporale corrispondente a due volte la sua durata.
Cioè se oggi compro un ETF obbligazionario sul Bloomberg Aggregate Euro Treasury, che ha uno Yield to Maturity, cioè un rendimento a scadenza, intorno a 2,7% e duration di circa 7 anni, da qui al 2039 il rendimento medio di quello strumento sarà stato circa 2,7%.
Ovviamente questa frase presuppone una serie di precisazioni e infatti il paper è 45 pagine.
Però, seguendo il paper, teoricamente se voglio avere una ragionevole garanzia di ottenere un certo rendimento nominale da qui a x anni, dovrebbe funzionare prendere un ETF obbligazionario con duration di x diviso 2 anni.
Non so, il mio orizzonte è dieci anni? Uno strumento obbligazionario con duration 5 comprato oggi dovrebbe darmi una ragionevole garanzia che da qui a 10 anni renderà tanto quanto il suo rendimento a scadenza di oggi.
Il problema tuttavia è che stiamo sempre parlando di rendimenti nominali.
In qualche modo il term premium di uno strumento obbligazionario incorpora il rischio inflazione, almeno finché la curva dei rendimenti non è invertita, però se sale l’inflazione siamo punto e a capo.
Teoricamente l’unico strumento veramente risk-free, come ci aveva detto anche John Cochrane, è una indexed perpetuity, cosa che potremmo tradurre come un bond governativo indicizzato all’inflazione.
Negli Stati Uniti hanno i TIPS, anche trentennali.
Teoricamente una persona alle soglie della pensione potrebbe avere un portafoglio di TIPS e finanziare in termini reali tutte le sue esigenze di spesa.
Ma anche questo sarebbe un calcolo molto pericoloso, perché gli interessi sarebbero sempre più o meno adeguati all’inflazione, va il valore del bond potrebbe avere dei tracolli e se cambiano le esigenze di spesa e bisogna vendere i bond, a quel punto le perite sono drammatiche.
In Europa comunque non abbiamo un vero e proprio equivalente dei TIPS, anche perché non mi pare che la Germania stia emettendo bond a lunga scadenza indicizzati all’inflazione.
In prima approssimazione, però, un ETF sui governativi inflation-linked europei oggi rende circa 1,4%, quindi potremmo dire che 1,4% è circa il massimo rendimento rendimento reale a basso rischio (non zero rischio, ma abbsatanza basso rischio) che possiamo portarci a casa.
Non è perpetuo, naturalmente, le condizioni possono cambiare, ma ad oggi è così.
Ora, rinuncereste voi a qualunque altro investimento del mondo per un 1,4% reale per sempre?
Se la risposta è sì, tutti i vostri problemi di asset allocation sono finiti, ma forse finisce anche il vostro rapporto con questo podcast.
Mettete tutti i vostri risparmi in inflation-linked in euro e buona vita.
Per la maggior parte di noi invece 1,4% reale non è accettabile.
Guardiamo quindi l’altra asset class che conta: le azioni.
Le azioni ovviamente sono tutt’altro che senza rischio, anzi.
Come sappiamo bene, il loro rendimento in eccesso rispetto ad un asset senza rischio è proprio dato dal fatto cha abbiamo dei rischi da sopportare — e infatti si chiama premio al rischio.
Qual è il premio al rischio che ci aspettiamo dalle azioni?
Difficile da dire.
Abbiamo speso tante parole ultimamente per spiegare perché questo rischio varia nel tempo — vuoi per motivazioni legate al ciclo economico, vuoi per altre spiegazioni di natura comportamentale.
Ma varia.
Negli ultimi 50 anni l’S&P 500 ha reso oltre l’11% medio composto all’anno, con un rendimento in eccesso ai titoli di Stato di circa il 6% e addirittura l’8% in eccesso ai Treasury Bills, almeno stando ai conti di Damodaran della NYU.
In altri mercati è stato più basso e come sappiamo bene il rendimento atteso futuro sarà probabilmente inferiore.
In un contesto come quello di oggi, ho fatto due conti è il ritorno in eccesso di un portafoglio azionario fatto metà Stati Uniti e metà resto del mondo è circa 3,5%, che è abbastanza fondata visto che per esempio AQR stima che sia 3,4%.
Chiaramente questo numero non è fisso.
La premessa appunto è che i rendimenti attesi varino nei vari cicli di mercato.
Però questo è il rendimento atteso di partenza.
Se noi ragioniamo con le azioni come se fossero bond, il rendimento di partenza è fornisce la migliore previsione possibile sul rendimento effettivo di lungo termine e sappiamo che c’è una correlazione piuttosto forte tra i rendimenti iniziali e i ritorni effettivamente realizzati nei 10-15 anni successivi.
3,5% + 1,4% fa quasi 5% di rendimento atteso reale.
Dato che siamo sempre abituati a ragionare in termini nominali, se ipotizziamo un’inflazione di lungo termine intorno al 2-2,5%, siamo a 7-7,5% di rendimento medio annuo.
Però per i motivi che dicevamo prima, ragionare in termini reali sarebbe sempre la cosa ideale.
5% è una ragionevole stima reale del rendimento atteso per un portafoglio 100% azionario, metà Stati Uniti e metà resto del mondo.
Ora si tratta di capire qual è il rendimento reale minimo su cui uno sarebbe disposto a metterci la firma in cambio e il numero oscillerà tra 1,4% (quello che potrei prendermi oggi con strumenti obbligazionari in euro indicizzati all’inflazione) e 5%, con un 100% azionario.
Questo naturalmente sotto l’ipotesi che:
– UNO: non sia in grado di generare alfa, cioè un’extra performance rispetto al mercato grazie alle mie superiori capacità di investitore e
– DUE: che non consideri alcuna extra performance di natura sistematica, come ad esempio usando un’esposizione fattoriale.
È interessante fare questo ragionamento perché dice molto di noi e di qual è davvero la nostra disposizione soggettiva rispetto a rischio e rendimento.
A tutti piace l’idea di ottenere il massimo rendimento possibile.
Ma quando messi di fronte ad una scelta permanente e irreversibile siamo costretti a ragionare sul trade-off che più rispecchia le nostre preferenze soggettive.
Questo diventa poi la guida per impostare il bilanciamento del portafoglio.
Diciamo che oggi ho 35 anni, 50.000 € da investire e 500 € al mese da aggiungere fino ai 60 anni, che però aggiusterò per inflazione ogni anno del 2,5%.
Per esempio chiediamoci:
– Metterei la firma per prendermi un 2% reale a vita senza rischio? Tra 25 anni saranno un po’ di 420.000 € in valore reale;
– 3%? Un po’ più di 460.000 €
– 4%? Circa mezzo milione reale
– 5%? Circa 550.000 €
Parliamo di valori reali, dunque del valore che avranno i miei soldi tra 25 anni equivalente a quello di oggi.
Come facciamo a capire dove posizionarci?
Beh, consideriamo che le azioni globali hanno una volatilità annualizzata intorno al 16%, quindi la dispersione dei risultati è piuttosto ampia — può andarmi molto bene o eccezionalmente male, anche per via del rischio di sequenza visto che verso un po’ per volta.
– Se mi becco subito un decennio sfigato e poi un bull market leggendario volo;
– Se invece il bull market è subito e l’ultimo decennio prima della pensione mi dice male è tutta un’altra storia.
Qui facciamo finta di avere un rendimento costante — cosa assolutamente non vera — ma ci serve per capire a che condizioni saremmo disposti a bloccare un certo rendimento per sempre, rinunciando ad ogni possibile upside ma cancellando anche ogni possibile rischio.
Probabilmente per un 3% reale metterei la firma sulla pietra.
Zero rischio per sempre.
Un ritorno accettabile per la vita.
Se esistesse una perpetuity, una sorta di gestione separata con rendimento reale al 3% garantito per sempre, ci farei più di un pensiero.
Ovviamente questa cosa non esiste — e nessun asset manager potrà mai garantirla, perché la controparte dovrebbe prendersi un rischio eccessivo, probabilmente non compensato dal ritorno in eccesso al 3% che punterebbe a portarsi a casa.
Anche se questa sarebbe davvero una formula virtuosa per chi vende fondi comuni attivi.
Sostieni di essere in grado di generare alfa in maniera continuativa e che gli ETF sono invece una cagata inventata dagli influencer?
Benissimo: dammi il 3% reale, al netto delle commissioni, e avrai i miei soldi per sempre!
Ma dubito fortemente che qualcuno sia così folle da garantire una cosa del genere perché sarebbe un progetto fallimentare per l’asset manager in partenza.
Torniamo a noi.
Ora che so che io per un 3% reale senza rischio metterei la firma, che tipo di portafoglio voglio se devo includere anche la componente di rischio?
Beh, probabilmente vorrei un portafoglio che nei suoi scenari peggiori non si discosti molto da quel 3%.
Vediamo i rendimenti reali attesi da portafogli composti da solo azioni e obbligazioni, considerando un rendimento reale senza rischio di 1,4%, un rendimento reale azionario del 5% e il fatto che se ribilanciamo i portafogli di azioni e obbligazioni in media il rendimento realizzato è superiore alla media ponderata del rendimento delle due singole asset class, per via del bonus di ribilanciamento di cui abbiamo parlato spesso.
Diciamo che vale mezzo punto percentuale di rendimento.
Cosa abbiamo:
– 50 azioni e 50 obbligazioni: 3,6%
– 60/40: circa 3,9%
– 70/30: circa 4,1%
– 80/20: circa 4,4%
Ovviamente se mi sarei accontentato di un 3% senza rischio, se devo pensare ad un portafoglio vero sono disposto ad assumermi un certo rischio, ma sapendo che la mia baseline non dovrebbe andare troppo sotto al 3%.
Probabilmente da qualche parte tra 60/40 e 70/30 è dove si posiziona un portafoglio che rispecchia il mio profilo di rischio ed è coerente con modelli di asset allocation tipo la regola di The Bull o la regola di Merton.
Ora, facciamo un passo in avanti nella riflessione, che ci porta però ad un concetto piuttosto primordiale — cioè è una cosa che sta proprio alle fondamenta del processo di pianificazione dei propri investimenti.
In un mondo in cui non esiste nessuno che ti può garantire un 3-4% reale per sempre, si tratta di capire qual è la cosa che più si avvicina ad un bilanciamento ottimale tra i rischi che corro e i benefici che ottengo.
Agli albori della finanza, il portafoglio mean variance di Markowitz era pensato per essere questa roba qua.
Sulla carta era perfetto, poi il problema è che richiede così tante assunzioni che piccoli variazioni nelle ipotesi danno grandi variazioni nei risultati.
Le formule di cui parliamo qui sono molto meno rigorose ma più, diciamo così, su misura per l’investitore.
In particolare la semplificazione del modello di Merton che si adatta in base al coefficiente personale di avversione al rischio crea una specie di ponte tra i modelli puramente finanziari di asset allocation e quelli basati sul goal based investing.
Ad ogni modo, il discorso su cui spesso ci si incaglia — soprattutto quando si parla con qualcuno che deve ancora iniziare ad investire — è proprio il significato di rischio quando si investe.
Sappiamo bene che l’italiano medio non vuole tanto investire in azioni.
Negli Stati Uniti oltre il 60% della popolazione possiede Stock.
In Italia il numero gira intorno al 10%.
Di cosa invece andiamo ghiotti?
– Titoli di Stato soprattutto nominali
– Assicurazioni a capitale garantito
– Certificati con cedole astronomiche ma rendimenti terribili e costi abnormi
Perché?
Perché fondamentalmente noi siamo settati per aver paura di perde soldi in termini NOMINALI.
Invece non capiamo che ci muoviamo costantemente in un equilibrio precario tra due estremi, che sono l’inflazione da un lato e le crisi economiche dall’altro.
Noi possiamo perdere soldi in due modi:
– O investendoli e realizzando un possibile rendimento negativo
– O non investendoli e realizzando un rendimento negativo reale certo.
Era una delle primissime frasi di questo podcast all’episodio 2.
Se investi forse perdi i soldi.
Se non investi li perdi di sicuro.
La nostra ingenua pace dei sensi prima di diventare investitori dipendeva unicamente dal fatto che eravamo tranquilli nel vedere il valore nominale dei nostri soldi sul conto sempre lì bello tranquillo.
Poi ci lamentavamo con il governo, con l’europa, con i supermercati, i ristoranti o quant’altro per via del caro prezzi.
Però non è che poi agivamo di conseguenza e provavamo a contrastare la perdita di valore reale dei nostri soldi in qualche modo.
Il problema è che noi pretendiamo che i nostri risparmi possano stare in un equilibrio statico: una volta che sono lì, nessuno li tocca. Rendono zero e perdono zero per sempre.
Ma non è così.
L’equilibrio è dinamico: per avere ZERO, devi avere un certo rendimento che, come minimo, compensi l’inflazione.
Tutta sta predica per dire cosa?
Per dire che ciò che noi spesso consideriamo senza rischio è senza rischio solo in un senso.
Prendiamo i titoli di stato e ammettiamo che non esista il rischio emittente. Non è vero, ma sono d’accordo che non è così probabile, almeno su quelli ad alto rating.
Sono davvero senza rischio per il fatto che il rendimento nominale è praticamente certo come la morte?
Manco per niente.
Sono senza rischio nel senso che, probabilmente, durante una grave recessione economica continuano a darti il loro rendimento e se c’è un contesto di deflazione e i tassi scendono si apprezzano pure.
Ma non sono affatto senza rischio in un contesto inflattivo o comunque di tassi crescenti.
Lì il tuo rendimento nominale è sempre garantito.
Ma la perdita reale può essere devastante e richiedere un periodo di recupero così lungo da mandare in vacca tutta la tua pianificazione finanziaria.
La verità fondamentale a cui bisogna portare chiunque è scettico di fronte a tutto sto discorso degli investimenti è che per correre meno rischi possibile uno debba prendersi un livello di rischio sicuramente maggiore di zero.
In parole povere:
– ZERO RISCHIO = PIU’ RISCHIO
– UN PO’ DI RISCHIO = MENO RISCHIO
Ovviamente questa cosa il vostro interlocutore la capirà se si toglie le fette di salame dagli occhi e si rende conto che il problema non è preservare il valore nominale dei propri risparmi. Il problema è come minimo preservare il valore reale e caso mai ottenere pure un rendimento aggiuntivo.
Pim Van Vliet di Robeco, autore di una manica di paper uno più interessante dell’altro, ha scritto un articolo qualche settimana fa per il CFA institute in cui mette a fuoco esattamente questo tema: tutti gli investimenti sono rischiosi. Dal cash, cioè da un conto deposito alle azioni.
Nel breve termine, cash e bond danno l’impressione di essere senza rischio. Ma nel lungo termine il loro rischio di perdita reale aumenta sensibilmente.
Appunto, ricordiamoci che i 40 anni dal 1981 al 2021 sono stati eccezionali per i titoli di Stato, soprattutto per quelli americani.
In futuro è molto meno scontato che ciò succederà di nuovo.
Qual è però la trappola mentale a cui rischiamo di essere sottoposti?
È che con debiti pubblici sempre più alti e inflazione potenzialmente crescente, i rendimenti soprattutto sulla parte lunga della curva potrebbero salire, ma con il rischio di trovarci rendimenti nominali più elevati ma rendimenti reali risicati, se non negativi.
Tra la metà degli anni 70 e la fine degli anni 80 i Titoli di Stato Italiani avevano rendimenti a doppia cifra, ma in un contesto in cui l’inflazione viaggiava in media tra il 10 e il 20% all’anno.
I BTP o chi per essi sono sicuramente investimenti sicuri finché non fanno default.
Ma sicuri solo nel senso che garantiscono una promessa nominale, non una crescita reale.
Di conseguenza il nostro obiettivo che più si avvicina ad un rendimento reale senza rischio è appunto un portafoglio in grado di stare in equilibrio tra i principali rischi a cui i nostri risparmi sono esposti:
– Crisi economiche
– Inflazione
– Deflazione.
Per fare questo il portafoglio meno rischioso è molto più rischioso di quel che uno si aspetta, perlomeno finché parliamo di orizzonti di lungo termine:
– Servono sicuramente le azioni, che fino a prova contraria sono state il miglior asset antiinflazione dell’ultimo secolo;
– Servono probabilmente le obbligazioni, che danno un beneficio in termini di miglioramento del rapporto tra rischio e rendimento, possono portare un bonus di rendimento quando si ribilancia durante una crisi economica, hanno un rendimento maggiormente prevedibile, anche se ogg probabilmente le duration molto lunghe sono una scommessa pericolosa;
– Servono probabilmente asset decorrelati che funzionano soprattutto quando azioni e obbligazioni insieme vanno in vacca: oro certamente, forse materie prime, forse bond indicizzati all’inflazione, molto forse altri asset reali quotati o privati.
Ma in primis serve il rischio sistematico delle azioni proprio per controbilanciare il rischio della perdita reale di potere d’acquisto investendo in strumenti che nel lungo termine possono avere delle emorragie di valore reale.
Pim Van Vliet è molto noto per essere un grande studioso del fenomeno Low Volatilty, che è quella cosa strana per cui aziende a bassa volatilità e a basso beta hanno storicamente mostrato un’extraperformance rispetto al mercato.
Io ne parlo poco perché il mio cervello rifiuta sistematicamente quest’idea e non riesco a inserirla in un quadro coerente con gli altri fattori.
Limite mio.
– Value mi è perfettamente chiaro: investire in aziende di merda richiede maggior assunzione di rischio; quindi, che rendano di più nel lungo termine mi torna;
– Momentum mi ci è voluto un po’ di più ma ci sta: investire in aziende che sono cresciute tanto di recente è più rischioso; noi tendiamo ad aspettarci che tornino giù, non che continuino a crescere. Il nostro extra rendimento per l’investimento in momentum è il premio che ci pagano tutti gli altri investitori che il rischio di salire su un carro che ha corso già tanto non se lo vogliono prendere.
– Quality è ancora meno ovvio, però società con fondamentali solidi, poca leva finanziaria, bassi investimenti strutturali e una significativa distribuzione di dividendi potrebbero essere sistematica sottovalutate rispetto invece ai grandi nomi altisonanti che tendono invece spesso a diventare molto sopravvalutati, anche se lo stesso Cliff Asness nel 2013, nel Paper Quality minus Junk, spiegava che non è semplice ricondurlo ad una spiegazione basata sul rischio. Si potrebbe però pensare che per società profittevoli e “stabili” venga sottoapprezzato il loro potenziale di crescita. È una spiegazione a metà tra quelle risk-based alla Fama e quelle comportamentali, ma mi sembra accettabile.
Low Volatilty invece è ancora più dura.
In pratica un portafoglio di azioni a basso rischio produrrebbe maggior rendimento.
Da un parte, anche qui, forse gli investitori hanno una sistematica tendenza a sottostimare il potenziale di crescita di realtà a basso rischio implicito.
Oppure potrebbe essere che essendo meno volatili sono meno soggette a volatilty drag, ciò la differenza tra il loro rendimento medio aritmetico e quello composto si riduce e questo nel lungo termine darebbe un extra rendimento rispetto al mercato.
Non lo so, però Van Vliet ha scritto diversi articoli sull’argomento e anche in questo suggerisce un adattamento del classico portafoglio 60/40 in cui vengono sovrappesate società low volatilty, cioè società che lui chiama “per vedove e orfani”, azioni di società consolidate a bassa volatiltià che però nel lungo termine hanno un miglior risk-adjusted return del mercato.
Se volete approfondire vi lascio l’articolo e un paper in cui parla in maniera più tecnica di questa roba.
Oltre a questo, però quali sono i due consigli che dà per cercare di costruirsi un portafoglio che abbia un buon equilibrio tra rischio e rendimento rispetto alle due principali minacce finanziarie a cui siamo sottoposti: inflazione e crisi economiche?
Sono due buoni consigli, che rispecchiano perfettamente molte delle cose che diciamo qui e che ho trovato riflesse anche nel mio portafoglio.
– La prima è l’introduzione di una quantità di oro tra il 5 e il 15%. Vi ricordo che era sempre suo il paper The Golden Rule of Investing, che abbiamo citato più volte, che mostrava come un’allocazione fissa in oro in quel range on top ad un portafoglio tipo 60/40 è quella che in media avrebbe dato il miglior beneficio tra rischio e rendimento, in particolare durante contesti inflazionari come gli anni dopo il 1920, il 1970 e il 2022.
– La seconda è l’esposizione fattoriale. Oltre a Low Volatility cita Value e Momentum. Tra l’altro è appena uscito un articolo di Verdad con una serie di statistiche sull’extra rendimento e sulla volatilità aggiuntiva portata dai principali fattori. Negli ultimi 50 anni, Value, Momentum e Quality risultano quelli con il miglior rapporto tra rischio e rendimento atteso. La conclusione dell’articolo è che mentre la storia recente ha favorito grandi società con iperinvestimenti tecnologici (vedi le Magnifiche 7), c’è oggi una forte tesi di investimento per un’esposizione in particolare a società value, momentum e quality.
– Il terzo consiglio, su cui sicuramente Van Vliet e Verdad sarebbero perfettamente d’accordo, è una diversificazione globale, sulla base del fatto che il premio al rischio atteso negli US sia inferiore rispetto ad altre regioni, in particolare Europa e Paesi Emergenti. Ricordo che Verdad aveva pubblicato un articolo che avuto molta influenza sul sottoscritto in cui spiegava che se prendiamo l’MSCI World e lo pesiamo solo per il contributo in termini di profitto generato da ciascun mercato, il peso degli Stati Uniti scendeva dal 70 a circa il 55% e che ciò poteva rappresentare una più ragionevole rappresentazione del mercato azionario globale basandosi su un criterio fondamentale, invece che il puro market cap.
Al di là delle proposte specifiche, comunque, il punto su cui mi volevo focalizzare oggi era questo, che magari è perfettamente chiaro nella testa di chi mi ascolta, ma meno nei vostri compagni di vita che state cercando di tirare a bordo nel vostro viaggio finanziario: NON ESISTE l’ASSENZA DI RISCHIO, NESSUN ASSET E’ SENZA RISCHIO e l’unica cosa che conta è IL VALORE REALE DEI NOSTRI RISPARMI NEL TEMPO.
L’equilibrio statico è un’illusione.
I nostri risparmi sono in un equilibrio dinamico sospesi tra diversi tipi di rischio.
Avere un portafoglio abbastanza rischioso da bilanciare i rischi principali, inflazione e crisi economica, è paradossalmente la cosa che più si avvicina ad un rendimento reale perpetuo senza rischio.
Il ragionamento di Hagahni è utile per capire dove si posiziona per voi quel punto di equilibrio.
Bene amiche e amici miei, spero che quest’episodio vi sia piaciuto e che ve lo siate gustato in qualche località amena.
E se invece siete in partenza per qualche viaggio esotico in mete lontane e non volete spendere una sbadliata di soldi con il vostro piano telefonico, gli amici di NordVPN hanno creato Saily, la SIM virtuale per navigare in qualunque Paese del mondo a condizioni super economiche.
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Il contenuto è sponsorizzato da Saily e insieme a The Bull vi augura buone vacanze ovunque voi siate!
Ancora una volta vi ringrazio per essere stati con me e se volete mettere segui e attivare le notifiche su spotify, apple podcast, youtube o dove ci ascoltate per supportarci e permetterci di continuare a produrre contenuti che vi raccontano perché niente è senza rischio e che per correre meno rischi bisogna correre più rischi sempre nuovi.
Per questo episodio invece è davvero tutto e noi ci rivediamo mercoledì prossimo con un appuntamento super pratico dedicato soprattutto a chi vorrete convincere in vacanza a cominciare ad investire con il più semplice dei portafogli del mondo, sempre qui naturalmente con the bull il tuo podcast di finanza personale.
Recensioni
Quando capisci come funziona la finanza… ti viene voglia di raccontarla!
Riccardo mi ha letteralmente cambiato la vita e fatto scoprire che amo la finanza, ho ascoltato il podcast già due volte e non mi stufo mai di ascoltarlo, parla in modo semplice e chiaro
Massimo D., 23 Set 2025Podcast che dà sempre spunti interessanti che personalmente mi ha fatto appassionare alla finanza personale spingendomi ad approfondire in prima persona.
Lorenzo, 13 Mar 2025Ho seguito tutte le puntate! Grazie veramente
Amalia A., 17 Set 2025Dovrebbero ascoltarlo buona parte degli italiani e io avrei dovuto scoprirlo con qualche anno in anticipo ma meglio tardi che mai
Matteo C., 3 Set 2025Non sono solito a mettere recensioni e specialmente non ascolto podcast, ma da quando ho iniziato questo, faccio fatica a staccarmi, e quasi non posso più fare a meno di ascoltare e arricchirmi culturalmente.
Andrea V., 22 Set 2025Podcast piacevole, scorre veloce ma in modo estremamente chiaro, spiega i concetti chiave per gestire le proprie finanze, fornendo la classica cassetta degli attrezzi. Complimenti, davvero ben fatto!
Massimiliano, 29 Mag 2024Ho acquistato e letto il suo libro e l' ho trovato. Esprime i concetti economici in modo semplice e chiaro. Sentirlo parlare conferma che è un professionista del settore.
Giulia N., 11 Ago 2025Veramente interessante, chiaro e conciso. Cambia la vita finanziaria di chiunque.. da ascoltare assolutamente anche per chi di finanza non vuole occuparsi mai
Francesca B., 6 Apr 2024La mia ignoranza in materia mi ha sempre creato dei dubbi, ma grazie a un amico ho iniziato ad ascoltare il podcast. Per fortuna che ho 24 anni e un po' di tempo e soldi da dedicarmi a imparare le varie nozioni per me stesso. Grazie mille!
Luca G. 10 Ott 2025