Perché il fondo della tua banca fa peggio del mercato: il report SPIVA

Perché i fondi comuni delle banche italiane rendono meno degli ETF? In questo episodio di The Bull analizziamo i numeri dello SPIVA Scorecard di Standard & Poor’s, che confronta ogni sei mesi i fondi attivi con i loro benchmark.
Parliamo di costi, sopravvivenza, persistenza delle performance e falsi miti sulla gestione attiva. Un’analisi chiara (e un po’ scomoda) su perché battere il mercato è così difficile.

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Perché il fondo della tua banca fa peggio del mercato: il report SPIVA
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269. Perché il fondo della tua banca fa peggio del mercato: il report SPIVA

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Trascrizione Episodio

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Era da un po’ che non mi facevo nuovi amici, mi sembrava giusto riprendere quella vecchia buona abitudine di parlar male di prodotti venduti principalmente dalle nostre amate banche sotto casa e dai loro cordialissimi consulenti finanziaria abilitati all’offerta fuorisede – anche se il vecchio titolo di “promotore finanziario” rendeva meglio l’idea.

Però come sempre lo faremo con un intento “critico” nel senso greco del termine, cioè: analizzare, dividere i vari componenti del problema, identificare gli aspetti più rilevanti e trarne delle informazioni utili per tutti noi.

Ora, non voglio sparare sulla croce rossa quindi non parleremo di certificati di investimento o di altri fantasiosi prodotti strutturati venduti dalle banche alla loro evidentemente iperalfabetizzata clientela retail, dato che serve un Ph.D. in finanza solo per capire la scheda informativa.

Oggi parliamo dei gloriosi e rispettabilissimi fondi comuni d’investimento – il prodotto più tipico di cui sono infarciti i portafogli della maggior parte dei risparmiatori italiani, almeno fino a quando non vengono a conoscenza di contenuti come quello che state vedendo o ascoltando in questo momento.

Perché all’episodio 270 parliamo di questa cosa?
Non avevamo già dato per assodato che i fondi attivi fanno peggio del mercato che cercano di battere e che strumenti come gli ETF sono immensamente più efficienti?

Crystal clear.
Però un conto è sapere una cosa, un conto è comprenderla, un altro ancora è padroneggiarla.
Ed è qui che dobbiamo tutti arrivare.

Inoltre un discorso è la questione qualitativa: i fondi attivi sottoperformano la qualunque.
Ma poi c’è la questione quantitativa, cioè andare davvero a capire di cosa stiamo parlando e soprattutto collegare la teoria finanziaria con quello che succede nella pratica, perché questo poi vedrete sarà molto istruttivo anche per guidare i nostri comportamenti e le nostre decisioni.

Ma poi tra l’altro, nonostante i due e mezzo di The Bull, mi sono accorto che nonostante l’abbia citato mille volte, non avevo mai preso in mano nel dettaglio il famigerato report semestrale di Standard and Poor’s dal titolo “SPIVA S CORECARD”

Che è il report che ogni 6 mesi certifica come performano i fondi gestiti attivamente rispetto al loro indice di riferimento.
Per la cronaca SPIVA sta per: Standard and Poor’s Index Versus Active.

E i risultati, lo sappiamo, sono abbastanza sconfortanti.

Però il report è estremamente interessante e guardare qualche numero sarà molto utile per comprendere dei concetti fondamentali per ciascun singolo investitore.

Allora, menu di oggi:
Vediamo per bene il report SPIVA per l’Europa, perché è quello che riguarda i fondi che effettivamente potrebbero finire nei nostri portafogli se per caso ci venisse la curiosa idea di affidarci al consulente amico di famiglia che lavora nella banca sotto casa;
Poi cerchiamo di capire le ragioni strutturali di quello che nel report viene documentato;
Parleremo di persistenza delle performance e di performance gap, caso mai a qualcuno vengano dei dubbi su quel che andrò dicendo;
Infine tiriamo qualche conclusione pratica.

Pronti?
Prima lo sponsor di oggi che qua c’è una costosa carretta da portare avanti.
Questo episodio è stato realizzato in collaborazione con Edenred, l’inventore di TicketRestaurant.
In un episodio in cui parleremo di quanto i costi dei fondi a gestione attiva facciano danni ai nostri portafogli, ci sta proprio bene raccontare che se hai un’azienda i buoni pasto TicketRestaurant Edenred sono deducibili al 100% e al 75% se sei un libero professionista.
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Bene, TicketRestaurant top, l’abbiamo detto, adesso torniamo a parlare male delle banche…

[lo SPIVA Europe Scorecard]
Eccoci qua, via con il report più bello che c’è, lo Spiva Europe Scorecard e mi riferirò all’ultima edizione disponibile – quella di metà 2025.
Poi faremo magari un update a inizio 26 quando uscirà il report full year.

Allora, intanto cosa fa lo SPIVA?
In pratica prende i fondi azionari e obbligazioni a gestione attiva domiciliati in Europa e va a vedere come si sono comportati rispetto agli indici che questi fondi dichiarano come loro benchmark.

A livello metodologico è importante sottolineare tre cose, per comprenderlo appieno:
In primis, SPIVA corregge per “Survivorship Bias”, cioè i suoi risultati tengono conto dei fondi che sono stati nel frattempo liquidati oppure fusi con altri fondi – che è una pratica piuttosto comune nell’industria finanziaria e che camuffa un po’ le effettive performance.
In secondo luogo, SPIVA confronta le performance sia con una logica asset-weighted, in cui i fondi più grandi pesano di più, sia con una logica equal-weighted, in cui ciascun fondo pesacome tutti gli altri – vedremo che confrontare i risultati tra questi due approcci ci dirà delle cose interessanti.
In terzo luogo, SPIVA non misura solo la differenza di performance assoluta, cioè non dice solo quanti fondi hanno sottoperformato il benchmark e in media di quanto; dice anche come sono andate le cose dal punto di vista del risk-adjusted return, del rendimento adeguato al rischio.

Perché quest’ultima cosa è molto importante?
Perché per evitare di comparare le mele con le pere, il rendimento di un investimento va misurato in proporzione per il rischio che richiede.

Se io, gestore attivo, batto il mercato ma il mio fondo è più rischioso del mercato – beh – tecnicamente non ho battuto niente perché è esattamente ciò che prevede la teoria finanziaria.
Il rendimento di un portafoglio è una funzione lineare della sua sensibilità al rischio di mercato, questa cosa si sa dagli anni ’60.

Invece lo scopo di un bravo gestore dovrebbe essere quello di ottenere un miglior rendimento per unità di rischio rispetto al suo benchmark.

Dico questo perché quando si parla di questo annoso dibattito tra fondi attivi e fondi passivi c’è sempre chi si arrampica sugli specchi per tentare di difendere l’indifendibile e dice: “eh ma chi l’ha detto che un fondo attivo debba battere il mercato? Può benissimo avere altri obiettivi, non sta scritto da nessuna parte che tutti gli investitori vogliano battere il mercato”.

Verissimo.
Infatti un fondo potrebbe rendere meno del mercato, ma con uno sharpe ratio, un rapporto tra rendimento e rischio migliore.
Ci sta.
Sarebbe un ottimo risultato.

Peccato che, come vedremo tra pochissimo, la performance media dei fondi attivi dal punto di vista del rendimento adeguato al rischio è pure peggio di quella assoluta.

Negli ultimi anni la litania è spesso stata: è colpa della crescita dell’investimento passivo!
Con il fatto che tutti i poveri scemi investitori retail del mondo comprano ETF e fondi indicizzati cosa succede, questi fanno crescere soprattutto le società americane più grandi e quindi penalizzano i fondi attivi che invece cercano di sovraperformare proprio sottopesando le società più grandi e gonfiate e puntando su quelle più piccole e potenzialmente sottovalutate.
Però i passivi distorcono il mercato e quindi i gestori attivi non ottengono risultati anche se hanno ragione.

Nell’episodio 260 avevamo già spiegato perché questa cosa non sta in piedi e perché non c’è alcuna evidenza che i fondi passivi gonfino le società più grandi, anzi, i numeri dicono che non sono le società più grandi quelli con una maggiore “passive ownership”.

Per esempio solo il 22% delle azioni delle magnifiche 7 si trovano in fondi passivi, contro una media del 25% delle altre società dell’S&P 500.
Quindi questa correlazione tra flussi passivi e crescita delle società più grandi è “financial bullshit”.

Al di là di questo, comunque, il report di quest’anno parte rilevando una cosa molto istruttiva.
Cosa dice?

Dice: anche ammesso e non concesso che sta cosa sia parzialmente vera, nei primi 6 mesi del 2025 c’erano le condizioni ideali per deporre finalmente la tirannia dell’investimento passivo e restituire l’antica gloria ai gestori attivi.

Infatti nella prima metà dell’anno il 64% delle società non americane incluse nello S&P World, che è un indice simile al MSCI ACWI, hanno battuto l’indice, contro il 40% di quelle americane.
Quindi pescando anche solo un’azione a caso fuori dagli Stati Uniti i gestori attivi avevano due probabilità su tre di battere il mercato.

Eppure solo il 44% dei fondi sull’azionario globale ha effettivamente fatto meglio del benchmark.
Motivi?
Sfortuna, sicuramente possibile;
Timore di sottopesare gli Stati Uniti, dopo 15 anni di dominio incontrastato (e vedremo più avanti che anche il rischio di carriera del gestore è un ostacolo per i fondi attivi);
Oppure ancora questa è l’ennesima prova che battere il mercato, al netto delle fee dei fondi attivi, è fottutamente difficile. E tra l’altro vedremo che pure al lordo delle fee non è che le cose migliorino molto.

Super, ora veniamo alla ciccia dell’episodio che i numeri sono succosi.
[PERFORMANCE ASSOLUTA AZIONI]
Partiamo dalla performance assoluta dei fondi azionari.
Solo una precisazione: vedrete che il report esamina decine di benchmark in diverse valute, però non è che possiamo star qui fino a Natale.
Noi invece guarderemo solo fondi in euro su: Azioni Europa, Azioni Globali e Azioni dei Paesi Emergenti.
Gli altri se volete ve li guardate da soli, ma tanto non è che la solfa cambia molto.

Allora: quanti fondi hanno fatto peggio?

Azioni europee: 92% a 5 anni e 94% a 10 anni.
Azioni globali: 95% a 5 anni e 98% a 10 anni.
Azioni paesi emergenti: 73% a 5 anni e 90% a 10 anni.

Ecco qui emergono già 2 dati significativi:
Provare a battere l’azionario globale sembra un’impresa disperata nel lungo termine;
Nei mercati un po’ più di nicchia e meno liquidi, invece, almeno su orizzonti più brevi sembra più fattibile, infatti per esempio nell’ultimo anno quasi metà dei fondi sui mercati emergenti ha sovraperformato e 1 su 5 negli ultimi cinque anni.
Sempre tosta, ma meno tosta.

Perché questo?
Ci torniamo dopo nella parte più teorica e secchiona, però ovviamente l’indice globale delle large cap, dominato per il 64% dall’S&P 500, rappresenta uno dei mercati più efficienti del mondo.
Per poter battere un mercato hai bisogno di scovare delle inefficienze nei prezzi ed è più facile trovarle nei mercati più nicchia, meno coperti, meno liquidi, meno competitivi e dove l’abilità del gestore può fare qualche differenza in più.

Una cosa molto curiosa riguarda invece i fondi danesi che investono nel mercato di casa loro.
Nei primi mesi del 2025 tutti i fondi attivi hanno battuto il mercato e il 97% nell’ultimo anno!

Com’è possibile quest’anomalia?
Beh in realtà si spiega molto facilmente.
Dal 2020 al 2024 la società farmaceutica Novo Nordisk, che tra le varie cose produce il farmaco miracoloso contro l’obesità chiamato Ozempic, è passata dal pesare un quarto del mercato danese e al 52% nel 2024.

Di solito i fondi comuni europei non possono avere posizioni così concentrate, quindi saranno stati obbligati a sottopesare NovoNordisk.
Nel 2025 la società ha preso una bella legnata e il suo peso è sceso al 44% del mercato.

Quindi sì, tutti bravi i gestori attivi, ma ti piace vincere facile.

[jingle: bonji bonji bopopo]

Torniamo alle cose serie: prima dicevamo che la performance assoluta è interessante, ma è soprattutto la performance adeguata al rischio che permette di confrontare tra loro diversi investimenti.

Ecco qua, vediamo allora quanti fondi europei hanno sottoperformato il benchmark dal punto di vista del risk-adjusted return.

Beh diciamo che non sembra che i fondi attivi facciano meglio nemmeno in questa prospettiva, anzi.
A dieci anni, la sottoperformance sale:
Al 96% per le azioni europee
Al 99% per quelle globali e
Al 94% per i mercati emergenti.

Nota a margine, il 100% dei fondi europei che ha provato a battere l’S&P 500 negli ultimi 10 anni ha ottenuto un rendimento adeguato al rischio inferiore.

MAI PROVARE A SFIDARE L’ONNIPOTENTE S&P 500!!!

Ora, va beh se guardiamo le performance assolute e quelle relative i fondi comuni sono un disastro.
Però ecco che arriva un’altra delle solite filastrocche che si raccontano per mettere le toppe alla povera bistrattata categoria dei gestori attivi.

“Eh è facile investire in ETF quando tutto va bene. È quando le cose vanno male che” – udite udite – “il gestore sa cosa fare!”.

Spoiler: il gestore… no sa che cazzo fare nemmeno lui.

Perché dico questo?
Beh perché altrimenti negli anni in cui investire sono stati ca**i da ca**re si sarebbe dovuto vedere il contributo del gestore che “lui sì sa cosa fare”.

Non so tipo 2018 o nel 2022, in cui l’azionario globale, in dollari, è arrivato a lasciare già il 25% ad un certo punto.

Niente, neanche qui ce la facciamo.
In entrambi gli anni circa l’80% dei fondi ha sottoperformato i rispettivi benchmark.

Insomma, a quanto pare anche negli anni più difficili dove ti servirebbe sì un bravo gestore che ti salva la vita e ti accudisce come un cucciolo di labrador invece che lasciarti esposto alle angherie dei brutti fondi cattivi passivi comunisti, comunque la gestione attiva tracolla lo stesso.

Ma poi scusa come è possibile?
Se la colpa è dei fondi passivi che gonfiano le realtà più grandi, com’è che nel 2022 i fondi attivi non hanno stravinto quando le magnifiche 7 sono sprofondate molto di più dell’S&P 5000

arrivando a perdere in media fino al 50% del valore?
Cioè, era un rigore a porta vuota, no?

Evidentemente no.

[DI QUANTO SOTTOPERFORMANO I FONDI ATTIVI]

Detto questo, all’inizio abbiamo accennato al fatto che un conto è il discorso qualitativo, mentre un altro è quello quantitativo.
Cioè un conto è dire: la maggior parte dei fondi attivi non batte il mercato, mentre un altro è dire: di quanto sottoperformano?

Beh la risposta arriva subito dopo – e anche qui è una risposta duplice, perché Spiva conteggia sia la media ponderata della performance dei vari fondi per categoria, sia la media puramente aritmetica, equal weight, in cui il fondo che gestisce un miliardo e quello che gestisce 10 milioni pesano allo stesso modo.

Vediamo i numeri e poi ragioniamo sulla differenza.

Partiamo dal confronto equal-weight:

Negli ultimi 10 anni i fondi europei hanno lasciato per strada in media:
Il 2,46% all’anno sull’azionario europeo
Il 4,07% all’anno sull’azionario globale e
Il 2% all’anno su quello dei mercati emergenti

E la sottoperformance è molto evidente anche a 5 anni, 3 anni e addirittura già ad un anno.

Se invece guardiamo la media ponderata vediamo cosa succede

Dal punto di vista qualitativo non cambia molto: la performance media a 10 anni è inferiore dal 2% in su rispetto a quella dell’indice.
Però… diciamo così… è un po’ meno peggio.
Per esempio la media ponderata delle performance dei fondi sulle azioni globali negli ultimi 10 anni è stata migliore di quasi 0,7% all’anno rispetto alla media equal weight.

[PROBLEMI STRUTTURALI DELLA GESTIONE ATTIVA]
Questo non è solo un fatto statistico curioso, ma ci racconta una verità importante, che è uno dei motivi principali per cui l’investimento attivo, in aggregato, è fallimentare in linea di principio.

Nel paper del 1991 L’Aritmetica della gestione attiva, il premio Nobel William Sharpe spiegò che

il rendimento medio della gestione attiva deve necessariamente coincidere con il rendimento medio del mercato meno i costi,

Rendimento medio gestione attiva=Rendimento medio del Mercato-Costi

perché affinché il mercato sia in equilibrio, per ogni investitore che devia dal mercato ce ne vuole un altro che devii in maniera uguale e contraria – per un che vende Nvidia ci vuole uno che compra più Nvidia no?

Per definizione, quindi, solo una minoranza della gestione attiva può avere un rendimento superiore al mercato.
Se poi aggiungi i costi, le fee, le tasse e tutto quel che la gestione attiva richiede, il numero di fondi che può davvero battere il mercato si riduce ulteriormente.

Ora, l’aritmetica della gestione attiva è molto convincente, anche se è un’estrema semplificazione, perché naturalmente i fondi attivi non esauriscono il 100% della gestione attiva: ci sono gli investitori retail, ci sono gli hedge fund, ci sono i family office, ci sono altre forme di investimento attivo non catturati dall’universo preso in considerazione da SPIVA.

Ciononostante i numeri vanno in un’unica direzione: i fondi gestiti attivamente incontrano ostacoli strutturali che impedisce loro di avere una performance positiva, aggiustate per il rischio, che sia persistente a lungo.

In particolare abbiamo due problemi.

PROBLEMA UNO: la competenza di un gestore di successo non è scalabile all’infinito.
Nel loro famoso paper del 2004 sui flussi e le performance dei fondi comuni nei mercati razionali

Berk e Green spiegarono che l’investimento attivo non batte i benchmark per via della competizione tra i diversi investitori e per via del rendimento decrescente man mano che i fondi diventano più grandi

In equilibrio infatti gli investitori che scelgono di investire con gestori attivi non possono aspettarsi di ricevere un rendimento in eccesso positivo rispetto al mercato, aggiustato per il rischio

perché, banalmente, la performance positiva di un fondo attrae nuovi investitori e quindi riduce le possibilità per il gestore di ottenere sovraperformance nel futuro.
Semplicemente: più capitali deve allocare, minori opportunità ci saranno, per quanto bravo sia, perché la competenza non cresce con la scala.

Per fare un esempio scemo: è come aspettarsi che Canavacciuolo sia in grado di cucinare allo stesso modo nel suo ristorante tristellato per una manciata di tavoli e al forum di Assago per 15.000 persone.

Questa dinamica innesca un circolo vizioso mortale:
I fondi migliori attraggono più capitali
Più capitali riducono le performance future
I fondi peggiori perdono capitali e in molti casi vengono chiusi prima che possano poi performare

Veniamo al PROBLEMA DUE e torniamo alla media asset-weighted e equal-weighted.
Perché la media asset-weighted è meno peggio di quella equal-weighted?

Perché probabilmente nella media asset weighted pesano di più fondi più grandi che in passato hanno sovraperformato e che più diventano grandi meno sono attivi, perché avendo meno opzioni disponibili per allocare grandi capitali tendono a stare più vicini ai benchmark e a ridurre il tracking error.

Come dire: le ragioni del successo di un fondo e di un gestore sono le stesse della sua futura sottoperformance, in maniera quasi meccanica.

Vediamo un caso celeberrimo, il mitologico fondo di JP Morgan – Global Focus Fund

che è un fondo attivo che investe nel mercato azionario globale e ha come benchmark l’MSCI World.

Se uno guarda la sua performance cumulativa addirittura dal 2004 ad oggi, quindi oltre 20 anni fa, ci sono pochi dubbi: il fondo decisamente ha battuto il suo benchmark negli ultimi due decenni e passa.

+567% contro +518% dell’MSCI World.

Però se già solo guardiamo la performance dal 2006 ad oggi, il vantaggio sparisce, mentre negli ultimi 15 anni il risultato è esattamente l’inverso.

+458% l’MSCI World, +338% il fondo di JP Morgan, che oggi vanta la bellezza di quasi 10 miliardi di dollari di asset under management.

Non è che negli anni quelli di JP morgan sono diventati scemi.
Semplicemente l’alfa sul mercato è limitato e la competenza non è scalabile in maniera illimitata.

C’è poi un TERZO PROBLEMA.
Alcuni fondi fanno bene, altri fanno male.
Ma sappiamo anche che c’è una ciclicità di fondo sui mercati.
Dato per scontato che tutti i gestori del mondo sono competenti e investono milioni in ricerca e tecnologia per essere all’avanguardia, c’è una grossa componente casuale che determina chi vince e chi perde, come vedremo tra poco.

Però ciò determina la classica logica del bias del sopravvissuto.

I fondi che vincono, come abbiamo detto, attraggono capitali e in futuro sottoperformano sia perché le dimensioni rendono più difficile farlo, sia perché si riduce la quota di attività – cioè tendono ad essere più simili al benchmark, così fanno meno danni, si tengono più clienti e non rischiano troppo.
Come si dice diventano “Closet Indexer”, cioè fondi fondamentalmente passivi camuffati fondi attivi – con i costi dei fondi attivi.

Già nel 2009 un famoso paper di Cremers e Petajisto dal titolo “Quanto è attivo il tuo gstore”

avevano fatto vedere che i fondi con la più bassa quota di active share, cioè quelli che si discostano meno dal benchmark, tendono a sottoperformare il benchmark più di quelli maggiormente attivi.

Quando sei molto grosso però hai meno opportunità per essere molto attivo e tu gestore hai un lavoro da tenerti stretto.
Invece è più facile che i fondi più piccoli siano più attivi e quindi possano sovraperformare molto o fare incredibilmente schifo.

Quelli che però fanno schifo magari non fanno in tempo a vivere la parte positiva della regressione verso la media perché vengono chiusi prima.

Se torniamo al report di SPIVA, vediamo che il tasso di sopravvivenza di un fondo a gestione attiva a 10 anni è nell’ordine del 50-60%:

Cioè: quasi metà dei fondi non arrivano alle scuole medie.
Non avremo mai la controprova di quello che sto per dire, ma è piuttosto logico supporre che alcuni dei fondi più performanti oggi si sarebbero trovati tra i fondi che invece sono spariti prima del loro tempo.

Quindi tu, risparmiatore medio che oggi vuoi investire in un fondo attivo hai prevalentemente due opzioni:
O investire in un fondo consolidato con un track record di successo, che però quasi meccanicamente avrà rendimenti mediocri in futuro,
Oppure investire in un fondo con scarse performance passate, buone prospettive future, ma che potrebbe non sopravvivere abbastanza a lungo prima di concretizzarle.

Al che il tipico consulente abilitato all’offerta fuori sede ti dice: “eh no, perché io so chi sono i gestori bravi e chi no! Lo so prima di tutti, mica ti faccio investire in fondi di merda, ti faccio investire solo in fondi che sovraperformeranno nel futuro”.

Sì…
Certo…

[togliere scritta, mettere audio e terminare leggermente prima, tipo “ma vacag”]

Ringrazio Giovanni che sa sempre condensare in parole semplici quello che i nostri Batman e Robin della finanza Gene Fama e Ken French scrissero nel 2010 nel paper Luck versus Skill in the Cross section of Mutual Fund Returns

che avevano preso un campione di 3156 dal 1984 al 2006 e avevano verificato in particolare due cose:
a) la prima è che in aggregato i fondi attivi non battono il mercato e che anche se ci sono competenze sopra la media dei gestori non bastano a compensare i costi;
b) la seconda è che le performance eccezionali e quelle pessime sono distribuite in maniera pressoché casuale, quindi anche nei fondi top performer non c’è evidenza di una reale e persistente capacità di generare alfa, una volta che controlli per il rischio e per l’esposizione fattoriale.

In parole povere: è ridicolo anche solo pensare di poter determinare in anticipo chi è un bravo gestore e chi no.

Ora, detto tutto questo dobbiamo vedere altre tre cose, che sono:
UNO: il tema appunto della Persistenza, cioè quanto a lungo effettivamente un fondo di successo riesce a sovraperformare;
DUE: il tema dell’impatto delle Fee e
TRE: il tema del Performance Gap, cioè che differenza c’è tra la performance di un fondo e quella del povero cristo investitore nel fondo.

[LA PERSISTENZA DELLE PERFORMANCE]

Andiamo con ordine.
LA PERSISTENZA.

Su questo ci viene in aiuto un altro report sempre della combriccola di SPIVA che si chiama “PERSISTENCE SCORECARD”

E che va a proprio ad esaminare quanto a lungo un fondo attivo riesce ad essere più performante della media.

Spoiler: poco.

Sentite un po’ questa cosa che è simpatica.
SPIVA prende i fondi azionari, e pure quelli obbligazionari, di cui oggi non facciamo in tempo a parlare ma il quadro è solo leggermente meno drammatico – dicevo prende i fondi attivi e li divide in due:
La metà che ha performato meglio e
La metà che ha performato peggio

e va guardare quanto a lungo un fondo che si è trovato nella metà più performante resta nella metà più performante anche negli anni successivi.
Il tutto viene confrontato con la probabilità di ottenere testa un certo numero di volte consecutive.

Beh i risultati sono molto divertenti.

A due anni, solo il 44% dei fondi azionari resta tra i top performer.
A tre anni solo il 13%.
A cinque anni solo il 6%, tanto quanto la probabilità di ottenere 4 teste di fila dopo il primo testa.

Tradotto: qual è la probabilità che il fondo di successo proposto dalla tua banca tra 5 anni sarà ancora nella metà dei fondi più performanti della sua categoria?
1 su 16, la stessa di ottenere 4 teste di fila.

Good luck.

Però non limitiamoci a guardare la metà migliore e la metà peggiore, perché visti i risultati medi, puoi avere un fondo che fa parte della metà migliore e ottenere comunque delle performance mediocri.

Vediamo cosa succede ai quartili, cioè invece che dividerli in 2 si dividono in 4 e si guarda cosa succede nel tempo al miglior quarto, al secondo miglior quarto, al terzo miglior quarto e al peggior quarto.

Anche qui, risultato veramente impressionante.
Chi vede il video apprezza meglio il concetto anche visivamente, sennò comunque in allegato vi lasco tutti i report.
Vediamo cosa succede in 3 anni al quartile migliore e al quartile peggiore – cioè se fossero 1000 fondi in tutto, cosa succede nei 3 anni successivi ai 250 più performanti e ai 250 meno performanti dei 3 anni precedenti.

Partiamo da quelli migliori:
Solo il 13% si riconferma tra i migliori anche 3 anni dopo
Quasi il 40% finisce nel quarto quartile
E l’11% viene fuso con un altro fondo o liquidato

Invece cosa succede ai peggiori:
Il 25% finisce nel miglior quartile
Il 13% resta nel quarto quartile
E il 23% viene fuso o liquidato.

Insegnamenti che ne traiamo:
UNO: I migliori fondi dei tre anni passati hanno 1 probabilità su 2 di essere tra i peggiori fondi nel 2028 o di venire chiusi o fusi con altri fondi;
DUE: I peggiori fondi dei tre anni passati hanno 1 probabilità su 4 di essere tra i migliori nel 2028 ma anche il doppio della probabilità di venire liquidati entro tre anni rispetto ai migliori.

Quindi: regressione verso la media sì, ma con un discreto rischio.

Ovviamente questa è una media delle medie, poi ci sono alcune specificità per diverse categorie e su diversi orizzonti temporali.

In generale, comunque, quello che si vede in maniera molto evidente è che in tutti i mercati la capacità di un fondo di rimanere tra i migliori della propria categoria nel tempo è estremamente limitata e con ogni probabilità diminuisce all’aumentare dei capitali che attrae.

Si potrebbe dire che le performance passate di un fondo comune sono un indicatore piuttosto “contrarian” delle performance future.

[L’IMPATTO DEI COSTI]
Detto della persistenza, veniamo al SECONDO TEMA: il discorso delle Fee.
Quello che anche io stesso ho spiegato molte volte è che la sottoperformance dei fondi attivi dipende principalmente da due cose.

Una è il fatto che i mercati sono efficienti e quindi batterli e tecnicamente molto complicato, soprattutto nei mercati più grandi e liquidi con elevata velocità di trasmissione delle informazioni. Peraltro molto spesso la sovraperformance di un fondo viene chiamata “alfa”, cioè rendimento in eccesso slegato dal rischio sistematico del mercato, quando in realtà è più spesso beta, una funzione del rischio del mercato. Quindi:
O il gestore si è preso più rischio e ha ottenuto più rendimento
Oppure più o meno consapevolmente si esposto ad alcuni fattori che in un determinato momento hanno fatto bene.

Questo fatto è noto già da almeno il 1997 quando Mark Carhart scrisse il celeberrimo paper “sulla persistenza nella performance dei fondi comuni”

in cui faceva vedere che

i fondi comuni che battevano il mercato non lo facevano perché il gestore era effettivamente più brillante degli altri nel selezionare in anticipo i titoli migliori, ma perché oltre al mercato si esponeva ai fattori value, small cap e momentum.

Quindi quasi tutta la differenza di performance tra un fondo e il suo indice di riferimento va individuata in primis nell’esposizione ai fattori.

La seconda cosa riguarda i costi.

I costi appunto, sono l’altro tema che di cui volevo parlare.
Oh non è che sia rocket science: se un ETF costa 0,2% all’anno e un fondo sullo steso benchmark costa 2% all’anno, si fa presto a capire che serve una performance eccezionale del fondo anche solo per andare in pari.

Fonte: ESMA (dati EU)

Però è interessante andare a vedere quanto incidono questi costi, perché non vorrei che passasse il messaggio che, se non ci fossero i costi, eh, hai voglia!, vedi come volerebbero i fondi attivi!

Il dubbio ce lo toglie la versione istituzionale dello SPIVA Scorecard, che invece guardare ai fondi retail guarda anche alle classi istituzionali e alle gestioni separate. Non c’è la versione europea mi pare, quindi ci facciamo andare bene quella americana, tanti i dati europei sono pure peggio di quelli americani.
In quel report però si fanno i conti in tasca ai fondi e si fa a guardare le performance gross of fees e net of fees. Cioè prima e dopo i costi.

Intanto ci sono subito due cose da dire:
Effettivamente al lordo dei costi la performance dei fondi attivi migliora, ma non di tanto. Nel caso dei fondi americani sullo US stock market, si passa dall’87% dei fondi che sottoperforma su 10 anni al 75%. Comunque 3 su 4 non battono il mercato neanche senza considerare le fee.
Inoltre, come noto, i fondi istituzionali sono di qualità superiore e costano di meno. Infatti solo l’80% non batte il mercato dopo i costi e solo il 72% al lordo dei costi. Questi probabilmente hanno molta più ragion d’essere di quelli retail.

Se poi andiamo a guardare un po’ più nel dettaglio quanto effettivamente impattano le fee sul risultato finale, beh, devo dire che ci sono rimasto un po’ male.
Tolte le fee uno si aspetta che almeno metà dei fondi batta il mercato e l’altra metà no.
Anzi, visto che ci sono un sacco di investitori retail incompetenti che investono a caso basandosi su quello che leggono su reddit, i fondi comuni di JP Morgan, Morgan Stanley, Blackrock, Fidelity e compagnia bella dovrebbero fare ancora meglio.
Le fee sono un grosso drag, ci sta, ma tolte le fee mi aspetterei meno di metà dei fondi attivi facesse peggio del mercato.

Anche qui, invece, non ci siamo.
Oh io ci provo a salvarli in tutti i modi ma non c’è verso.

Il mercato globale, fortemente americanocentrico, resta complicatissimo da battere anche prima dei costi e infatti l’83% dei fondi sottoperforma su 10 anni.
Va un po’ meglio nei mercati più di piccoli e meno liquidi: circa il 30% dei fondi sui mercati emergenti e sul mercato globale ex Stati Uniti riesce a sovraperformare a 10 anni.
Però poi qui l’impatto delle fee si fa ancora più corposo, avendo costi maggiori da sostenere.

Insomma alla fine, come la giri la giri, non c’è verso di forzare quest’inviolabile aritmetica dell’investimento attivo che Bill Sharpe buttò giù in quattro righe divenute memorabili ormai 35 anni orsono.

[PERFORMANCE GAP]

Ma le brutte notizie potevano finire qua?
Eh no, perché investire in un fondo attivo che sottoperforma il mercato non ti garantisce mica di portarti a casa almeno quel rendimento.

Per spiegare meglio questa cosa ci rifacciamo al famoso report annuale di Morningstar dal titolo Mind The Gap.

È un report molto interessante che ogni anno mi gusto con grande piacere.
Il messaggio principale è questo: gli investitori ottengono in media un rendimento inferiore rispetto a quello dei fondi in cui investono per motivi di cattivo timing dei loro contributi e per cattive abitudini che hanno un impatto negativo del rischio di sequenza.

Ci sono due spiegazioni principali che si possono portare:
Da una parte più operazioni di compravendita fai, più costi devi sostenere per transazioni e tasse;
Dall’altro c’è un tema comportamentale. È noto che l’investitore medio tende ad essere “performance chaser”, cioè aumenta i propri investimenti in un certo asset o in un dato strumento dopo che questo ha ottenuto una certa performance.

Il fatto di comprare alto e vendere basso è certamente un atteggiamento più frequente del contrario.
Inoltre si affeziona molto allo “storytelling” e si mette a seguire qualunque trend diventa di moda in un certo periodo.

In media secondo Morningstar negli ultimi 10 anni la performance media di fondi comuni e etf, sia azionari, che obbligazionari che su asset alternativi, è stata intorno all’8,2% all’anno, ma l’investitore medio si è portato a casa circa il 7%.

Ora, questa non è una problematica dei fondi comuni in realtà.
Anzi Morningstar fa vedere che in alcune categorie, come i settoriali o nei mercati un po’ più di nicchia come quelli ex Stati Uniti (perché per gli americani tutto ciò che non è Stati Uniti è roba di nicchia), dicevo qui l’investitore in ETF ha un gap maggiore rispetto allo strumento in cui investe rispetto a quel che succede all’investitore in fondi comuni – anche se nonostante questo l’investitore in ETF ha comunque un rendimento medio superiore.

L’ETF è quotato in borsa e lo compri e vendi quando vuoi ma se lo usi male, in maniera attiva e scriteriata, è molto più facile sottoperformare che sovraperformare.

Ma se lasciamo da parte investimenti in ETF fatti a cazzo in ambiti di nicchia e guardiamo invece al confronto tra investimento attivo e investimento indicizzato, emerge invece che l’investimento attivo amplifica il rischio di gap

La differenza complessiva sembra poca, perché parliamo di un gap dell’1,3% dei fondi passivi contro 1,5% di quelli attivi.

Ma una volta che togliamo tutte le categorie più particolari e ci concentriamo sul mercato azionario americano, quello in cui di gran lunga affluiscono più capitali, è impressionante vedere come il performance gap dei fondi attivi sia dell’1,3% mentre per i fondi passivi è praticamente zero.

La spiegazione anche qui è piuttosto immediata: un fondo attivo ha un tracking error maggiore di uno indicizzato, che praticamente non ne ha.
Di conseguenza il timing degli investimenti si espone maggiormente al rischio di sequenza.
Teoricamente il rischio di sequenza è simmetrico: può andarti bene come andarti male, puoi essere fortunato e investire nei momenti giusti, o sfortunato e investire subito prima di una correzione. In media però dovrebbe essere neutro.
Tuttavia sappiamo quando le emozioni governano le nostre decisioni e quanto spesso ci portano a prendere decisioni sbagliate nei momenti sbagliati.

Quindi il performance gap non è una caratteristica dei fondi attivi, ma del modo in cui l’investitore medio investe, guidato più dalla pancia che dalla testa.
Però l’uso di strumenti passivi indicizzati – soprattutto se si evitano cose che pure io ho sempre bistrattato come gli strumenti settoriali, tematici o altre cose di nicchia – riduce effettivamente il rischio che il timing dei nostri investimenti comprima i nostri risultati rispetto a quelli degli strumenti in cui investiamo i nostri soldi.

[CONCLUSIONI]

Detto questo, l’investimento a gestione attiva è dannato per sempre?

Da una parte un certo tipo di investimento attivo, e in particolare quello retail, sì – anche se ci sono ragioni strutturali perché avrà vita lunga, almeno qui da noi.

I fondi comuni destinati alla clientela retail hanno ben poco da salvare.
E non è un tema italiano ma come riporta SPIVA è un fenomeno globale.

In Italia caso mai abbiamo un problema nel problema.
In un report di Morningstar del 2022 l’Italia era semplicemente l’ultima tra 26 Paesi analizzati per competitività dei costi dei fondi di investimento.

La principale motivazione di questo poco lusinghiero primato è che il grosso della distribuzione è in mano alle banche, in un sistema che disincentiva la discesa dei costi dato che i consulenti non indipendenti percepiscono retrocessioni sui fondi che vendono.

Chissà se l’Europa partorirà mai una legge che vieti le retrocessioni.
In attesa di quello – che probabilmente non arriverà mai – niente come la preparazione finanziaria dei risparmiatori può innescare meccanismi virtuosi che premano al ribasso sui costi dei fondi.

Parlando di fondi azionari, che già di per sé sono quello che sono, noi – semplicemente – abbiamo i costi più alti del mondo.

che viaggiano tranquillamente intorno al 2% di commissioni all’anno, contro meno dell’1% in Olanda, Stati Uniti e Regno Unito.

Quindi di margine per fare meglio ce n’è eccome.

Finché però regnerà questa combinazione micidiale tra mercato poco dinamico, conflitti di interesse tra chi dovrebbe consigliare e chi dovrebbe vendere e bassa educazione finanziaria, fondi comuni costosi e inefficienti resteranno una delle opzioni di default per il risparmiatore medio.

Dall’altra parte l’investimento attivo è necessario al buon funzionamento del mercato, altrimenti il mercato perde efficienza e l’allocazione del capitale avviene in maniera disfunzionale.
Inoltre ci sono tanti soggetti attivi fondamentali per fornire liquidità al mercato.
Infine certe categorie istituzionali hanno esigenze diverse dall’investitore retail e per questi probabilmente ha senso fare ricorso a veicoli di investimento più sofisticati.

Gli hedge fund hanno vita dura esattamente come tutte le forme di investimento attivo, ma dove ci sono grandi patrimoni hanno la loro ragion d’essere per diversificare e fornire certe opzioni di investimento che i fondi indicizzati e gli etf non darebbero.

Ci sono sicuramente tanti esempi in cui l’investimento attivo di qualità è funzionale per la meccanica generale del mercato e per rispondere alle diverse necessità dei diversi soggetti che investono.
Quindi viva tutte le forme di investimento attivo di qualità, soprattutto di natura istituzionale – che come abbiamo visto ha mediamente costi più bassi e rendimenti migliori.

Detto questo, per l’investitore retail faccio fatica a capire quale ruolo possano avere nel portafoglio dell’investitore medio.

Se uno ha la preparazione per gestirsi il portafoglio da sé, farebbe bene a farlo con strumenti a basso costo.
In alternativa ci sono i consulenti indipendenti.

Però lancio la sfida a chi mi sta guardando o ascoltando affinché mi proponga delle idee valide per riabilitare fondi comuni retail gestiti attivamente.

In attesa di qualche illuminazione che mi smentisca grazie di cuore per avermi seguito fino a qui.
Spero che l’episodio sia stato interessante e che vi sia piaciuto.

Se così fosse – ma anche se non fosse – vi ringrazio se vorrete mettere segui e attivare le notifiche su Spotify, apple podcast o YouTube per supportaci e permetterci di continuare a produrre contenuti che vi raccontano l’inesorabile verità matematica su quanto i fondi attivi facciano c********….. tendano a sottoperformare il mercato sempre nuovi.

Per questo episodio invece è davvero tutto e noi ci rivediamo lunedì o giovedì prossimo a seconda di quando esce questo episodio perché non mi ricordo sempre qui, naturalmente con The Bull il tuo podcast di finanza personale.

Recensioni

Quando capisci come funziona la finanza… ti viene voglia di raccontarla!

Ho acquistato e letto il suo libro e l' ho trovato. Esprime i concetti economici in modo semplice e chiaro. Sentirlo parlare conferma che è un professionista del settore.

Giulia N., 11 Ago 2025

Da quando l'ho scoperto in 15 gg mi sono ascoltato 150 puntate senza fermarmi, ho annullato gli altri podcast per portarmi alla pari ed ascoltare tutte le precedenti puntate, ben fatto, esattamente il livello di informazione che mi serviva

Gianluca G., 11 Set 2025

Podcast piacevole, scorre veloce ma in modo estremamente chiaro, spiega i concetti chiave per gestire le proprie finanze, fornendo la classica cassetta degli attrezzi. Complimenti, davvero ben fatto!

Massimiliano, 29 Mag 2024

Veramente veramente raccomandato! la finanza personale riassunta alla perfezione! e spiegata partendo dall'ABC! Ottimo anche da ascoltare a velocita 1,5x!

Giorgia R., 23 Gen 2025

Non sono solito a mettere recensioni e specialmente non ascolto podcast, ma da quando ho iniziato questo, faccio fatica a staccarmi, e quasi non posso più fare a meno di ascoltare e arricchirmi culturalmente.

Andrea V., 22 Set 2025

Riccardo mi ha letteralmente cambiato la vita e fatto scoprire che amo la finanza, ho ascoltato il podcast già due volte e non mi stufo mai di ascoltarlo, parla in modo semplice e chiaro

Massimo D., 23 Set 2025

La mia ignoranza in materia mi ha sempre creato dei dubbi, ma grazie a un amico ho iniziato ad ascoltare il podcast. Per fortuna che ho 24 anni e un po' di tempo e soldi da dedicarmi a imparare le varie nozioni per me stesso. Grazie mille!

Luca G. 10 Ott 2025

Veramente interessante, chiaro e conciso. Cambia la vita finanziaria di chiunque.. da ascoltare assolutamente anche per chi di finanza non vuole occuparsi mai

Francesca B., 6 Apr 2024

Dovrebbero ascoltarlo buona parte degli italiani e io avrei dovuto scoprirlo con qualche anno in anticipo ma meglio tardi che mai

Matteo C., 3 Set 2025
Facile.it
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