Come investire in base agli obiettivi

Il vero rischio non è la volatilità, ma non raggiungere i tuoi obiettivi. In questo episodio parliamo di Goal Based Investing: un approccio che combina la teoria finanziaria con la finanza comportamentale per costruire portafogli che tengono conto di bias cognitivi, contabilità mentale e bisogni reali. Dalla piramide di Maslow alla Behavioral Portfolio Theory, fino agli esempi pratici con un foglio di calcolo dedicato, vedremo come creare sottoportafogli per bisogni, desideri e sogni, e arrivare a una strategia complessiva più vicina alla vita reale di ogni investitore.

Difficoltà
40 minuti

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Punti Chiave

Il rischio più grande non è la volatilità, ma non raggiungere i propri obiettivi (Goal Based Investing).

Definisci obiettivi a breve, medio e lungo termine (Mental Accounting) e assegna a ciascuno un sottoportafoglio.

Il rischio di non raggiungere un obiettivo può essere misurato con il Safety-First Criterion (Roy) come alternativa alla deviazione standard.

Contenuti del video

  • 00:00 Come investire in base ai tuoi obiettivi
  • 03:30 Il rischio in finanza
  • 07:02 Bias cognitivi e Mental Accounting
  • 11:15 Behavioral Portfolio Theory
  • 15:20 L’unione tra BPT e MPT
  • 21:38 File da scaricare
  • 33:50 Accorgimenti di sicurezza

Trascrizione Video

Bentornati a The Bull — il tuo podcast di finanza personale

Era quasi un anno che aspettavo di fare questo video.

A gennaio 2025 feci una coppia di episodi, 174 e 175, dedicati ad un’introduzione al cosiddetto Goal Based Investing, un ambito sconfinato della finanza personale su cui sono state scritte milioni di pagine.

Goal Based Investing significa = INVESTIRE IN BASE AGLI OBIETTIVI

Ma non è semplicemente un modo di dire, ma una precisa impostazione metodologica per la costruzione del portafoglio che cerca di mettere insieme i contributi della teoria finanziaria del portafoglio con la cosiddetta finanza comportamentale

Da dove nasce l’idea di combinare questi due ambiti?

Cioè di far parlare una teoria basata su concetti statistici e matematici con una scuola di pensiero che dà massima importanza agli aspetti psicologici dell’investitore?

Probabilmente uno dei motivi era quello di cercare di mettere a terra delle idee che la finanza tradizionale aveva pensato principalmente per l’investimento istituzionale e non per il singolo individuo come me e voi con problemi reali, desideri reali e una serie di turbe psicologiche che ogni tanto gli fanno prendere decisioni demenziali.

Benché teoricamente non dovrebbe essere così, quando si tratta del nostro patrimonio personale, le logiche di investimento non sono necessariamente le stesse di quello istituzionale.

All’investitore istituzionale interesserà la performance del proprio portafoglio dal punto di vista di metriche oggettive che possa mostrare ai suoi clienti e al proprio capo, così da tenersi il proprio lavoro bello stretto, mentre all’investitore individuale interesserà soprattutto realizzare i propri obiettivi di vita attraverso una crescita adeguata del patrimonio.

Sulla base di un ragionamento di questo tipo ci si potrebbe chiedere: le teorie della finanza classica basate sull’ottimizzazione media-varianza del portafoglio hanno senso anche per gli investitori retail o se invece non fossero più adeguate agli investitori istituzionali.

Media-varianza?

Ricordate?


Per la modern portfolio theory il portafoglio migliore è quello che massimizza il rendimento atteso rispetto ad un determinato livello di rischio combinando asset con una bassa co-varianza, che poi è il concetto statistico per definire la correlazione tra due asset.

È come dire: se sono bravo a sciare e voglio divertirmi con piste più impegnative faccio quelle nere. Mentre sciare fuori pista comporta un rischio non compensato dal maggiore divertimento, perché l’upside è un po’ di adrenalina in più, il downside è che ci lasci le penne.

Quindi un portafoglio che rinuncia alla diversificazione per ottenere più rendimento comporta in media un rischio asimmetrico negativo, cioè ho più da perdere che da guadagnare.

Sull’idea di impostare un portafoglio basato sulla massimizzazione non tanto del rendimento, quanto del rapporto tra rischio e rendimento attraverso la diversificazione, si basa fondamentalmente tutta la finanza moderna.


Rischio cos’è però?

Per tutta la finanza classica è appunto la varianza,

cioè la dispersione dei rendimenti rispetto al rendimento medio di un asset e per motivi di praticità matematica, solitamente si usa la sua radice quadrata, che come tutti voi ben sapete si chiama deviazione standard.

Il rischio finanziario è quindi quanto si discosta il rendimento di un asset dal suo rendimento atteso, cioè dal suo rendimento medio, in un certo tempo.

Noi tutti sappiamo che, in linea di principio, i rendimenti tendono a regredire verso la loro media storica, quindi teoricamente il rischio finanziario inteso come volatilità si riduce man mano che l’orizzonte temporale si allunga.

L’avevamo spiegato in quest’altro video, vi ricordate?

La deviazione standard si riduce annualmente per un fattore = a 1/radice di N.



Ma quelle delle azioni si riduce più velocemente rispetto a quella dei bond.

E il motivo è che i mercati azionari sono soggetti a cicli, più o meno prevedibili, di regressione verso la media.

Ora, per l’investitore istituzionale, la definizione di rischio come deviazione standard può anche andare bene per i suoi scopi ed effettivamente, giusta o sbagliata, è una misura oggettiva del rischio.

Però qui per noi investitori privati cominciano una serie di problemi.

PROBLEMA UNO: la deviazione standard presuppone che i rendimenti di un investimento siano distribuiti normalmente, cioè devono seguire la forma a campana della curva di Gauss.

Se simulate milioni di lanci di testa o croce avremo situazioni estreme con tante teste o tante croci consecutive mentre 2/3 delle simulazioni saranno concentrate attorno al centro, dove teoricamente si trova la situazione ideale di metà teste e metà croci.

Allo stesso modo sono distribuiti normalmente le altezze o i pesi degli esseri umani, dove pochissimi maschi adulti peseranno 300 kg o 30 kg mentre 2/3 si collocheranno intorno al valore medio che sarà, boh, 70-80 kg suppongo.

E così via.

I fatti della finanza invece non sono distribuiti normalmente, perché come si dice hanno “fat tail”,

hanno code grasse, cioè gli eventi rari accadono più spesso di quel che la statistica prevedrebbe. Infatti per esempio Nassim Taleb contesta pesantemente l’uso della statistica Gaussiana in finanza, preferendo altri modelli come ad esempio quello di Pareto e delle leggi di potenza e della distribuzione

frattale dei rendimenti, utilizzati dal suo mito, genio della matematica e della finanza, Benoit Mandelbrot.

Al di là del dibattito accademico, il primo problema per noi investitori è che possiamo fare tutte le stime di questo mondo usando i rendimenti attesi e la loro varianza, ma UNO: i rendimenti attesi sono una stima che sì converge verso la media, ma resta pur sempre una stima e DUE: il rischio come varianza per noi è pericoloso perché in effetti potrebbero capitare cose molto più brutte di quel che i modelli descrivono, proprio perché in finanza capitano eventi rari e imprevedibili più spesso di quel che dovrebbero.

Quindi se noi facciamo tutta la nostra bella pianificazione e ci assumiamo un certo rischio come se le leggi della probabilità valessero tout court, ecco potremmo avere brutte sorprese.

E questo è il primo problema.

In media più o meno tutta la finanza classica ci prende, ma nel caso singolo rischio di farmi più male di quel che il modello aveva previsto.


Il PROBLEMA NUMERO DUE riguarda invece delle nostre deformazioni cognitive.

Kahneman e Tversky avevano scoperto, tra i vari, uno dei bias più significativi dell’investitore, cioè il loss aversion, l’avversione alle perdite.

I due avevano dimostrato che a noi fa bruciare più il didietro perdere 100  poi ho bisogno in media di guadagnarne 200 per essere emotivamente in pari.

La Modern Portfolio Theory, il CAPM e la Efficient Market Hypothesis, che naturalmente è una conseguenza di questa linea di pensiero, non contemplano i bias degli investitori.

Eppure, efficiente o no che sia, poi quando prendiamo decisioni per il nostro portafoglio dobbiamo tenere conto del fatto che una perdita ci farà più male di un guadagno e quindi anche se razionalmente sarebbe meglio un certo portafoglio, a me singolo individuo bacato potrebbe andar meglio un portafoglio meno efficiente ma che mi fa stare meglio.

Richard Thaler poi negli anni ’80 introdusse il concetto di Mental Accounting, di contabilità mentale.

E questa roba è un altro bel problema per la finanza classica, che parte dal presupposto che il denaro

sia fungibile, cioè 100 , a prescindere da come li hai guadagnati, da come li hai persi, dallo scopo che hanno e in generale dal significato che gli attribuisci.

Invece gli esseri umani, in media, non trattano il denaro come fungibile, ma gli attribuiscono etichette e valori differenti a seconda delle circostanze.

Se con fatica porto a casa determinati soldi con il mio duro lavoro, quei soldi li tratterò diversamente da quelli che invece potrei vincere in una scommessa o che potrei ricevere da un’eredità.

Razionalmente questa cosa non ha senso, ma sapete tutti bene che noi ragioniamo e agiamo così.

E quindi qual è il problema nella costruzione del portafoglio?

Il problema è che la finanza classica dice: costruisci il portafoglio che massimizza il rendimento per un certo livello di rischio.

Il singolo individuo invece tende ad assegnare ai vari pezzi del proprio capitale significati diversi in base allo scopo a cui sono destinati.

E questo per la finanza classica è completamente inefficiente.

Negli anni ’40 però Abrahm Maslow aveva introdotto la teoria della gerarchia dei bisogni umani, sostenendo che istintivamente l’uomo fosse portato a soddisfare PRIMA i bisogni primari fisiologici e di sicurezza e POI via via si muovesse verso quelli di autorealizzazione.

Riprendendo quest’idea, qualcuno ha cominciato a pensare a modelli alternativi di costruzione del portafoglio che rispondessero a questa gerarchia di bisogni che tutti noi ci portiamo dietro fin da quando nasciamo.

Non è un caso infatti che diciamo sempre: “mi raccomando, PRIMA il fondo di emergenza che se succede qualcosa poi sono cazzi, e POI solo a quel punto investiamo come se non ci fosse un domani” è proprio perché “safety first”, la sicurezza prima di tutto e poi puntiamo alla libertà finanziaria.

Perché poi il grosso della distanza che separa il modello dei portafogli efficienti adatto agli investitori istituzionali da ciò che serve all’investitore privato è esattamente come definiamo il RISCHIO.

Per la finanza classica, il RISCHIO è la varianza dei rendimenti, la volatilità, la deviazione standard. Per me singolo investitore, il RISCHIO è quello di non realizzare i miei obiettivi.

Io investo per uno scopo — o per più scopi.

Diventare ricco, proteggermi dall’inflazione, mandare i miei figli all’università, comprare la villa dei miei sogni, vivere di rendita, quello che vogliamo.

In quest’ottica, sticazzi la deviazione standard.

Il mio rischio più grande non è avere un portafoglio non efficiente.

Il mio rischio più grande è non realizzare gli obiettivi che danno un senso alla mia vita.

Ci sono stati tanti lavori di accademici e professionisti che hanno provato a sanare la questione. Tra questi ci sono forse 3 passaggi decisivi.



Il primo è stato il lavoro di Shefrin e Statman, che hanno sviluppato la Behavioral Portfolio Theory, BPT.

La BPT, invece basarsi sull’idea di rischio come varianza suggerisce che il rischio sia la probabilità di non realizzare un certo rendimento minimo necessario per soddisfare un determinato obiettivo.

Cioè il rischio non è la deviazione standard dei rendimenti.

Il rischio è non realizzare il tuo goal.

Mentre negli anni ’50 Markowitz elaborava la MPT, un altro accademico di nome Andrew Roy formulò il concetto di Safety-First criterion (SFC), cioè il criterio “la sicurezza prima di tutto”.

Questa formula in pratica dice quanto è probabile che un certo portafoglio ci permetta di realizzare un determinato rendimento minimo.

Fate attenzione perché è interessante.

La formula è molto semplice:

– Rendimento atteso del portafoglio MENO

– Rendimento minimo che voglio ottenere DIVISO

– Deviazione standard dei rendimenti del portafoglio.



In base a questo criterio io non sceglierò tra due portafogli NÉ quello che ha il rendimento atteso maggiore, NÉ quello con il rapporto tra rischio e rendimento maggiore, lo Sharpe Ratio.

Bensì quello che mi dà la maggiore probabilità di centrare l’obiettivo minimo.

Facciamo un esempio.

Prendiamo 3 portafogli:

– 100% MSCI World

– 60% MSCI world e 40% Obbligazioni governative globali e

– 40% MSCI world e 60% Obbligazioni governative globali

Ammettiamo che il rendimento atteso dei 3 portafogli sia rispettivamente 8% all’anno, 6% e 5% e che la loro deviazione standard sia 16%, 8,5% e 7,5%.

Ammettiamo inoltre che io voglia ottenere un rendimento minimo di almeno 3% all’anno.

Qual è il portafoglio migliore?

Secondo il Safety First Criterion le mie migliori chance sono con il portafoglio 60/40. Se invece il mio obiettivo minimo fosse 4%, allora sarebbe il portafoglio 100% azionario a massimizzare le probabilità di successo.

Il Safty First Criterion è in qualche modo un’alternativa allo Sharpe Ratio, l’indice di rendimento in rapporto al rischio, e ha anche una forma simile, solo che invece che fare rendimento atteso meno risk free rate diviso deviazione standard, fa rendimento atteso meno rendimento minimo, diviso deviazione standard.

Mentre lo Sharpe ratio dà il portafoglio più efficiente, il criterio di Roy dà il portafoglio teoricamente più robusto per il mio obiettivo minimo.

Ora, è chiaro che anche qui ci sono delle limitazioni che sono un po’ sempre le stesse:

– Il rendimento atteso è una stima molto complicata da fare; e

– La deviazione standard ha le problematiche statistiche di cui  abbiamo parlato.

Nel 2000 Hersh Shefrin e Meir Statman scrissero un paper dal titolo Behavioral Portfolio Theory in cui provarono a elaborare un’alternativa al modello di MArkowtiz introducendo il criterio di Roy.

Il punto di partenza era il cosiddetto paradosso di Friedman e Savage, che nel 1948 osservarono che razionalmente non avesse senso che le persone acquistassero sia le assicurazioni che i biglietti della lotteria, cosa che invece è comprensibile con l’idea di Mental Accounting.

Secondo Shefrin e Statman il modello di Markowitz è “inconsistent”, è incoerente e inconciliabile con questo paradosso e formularono un modello alternativo che in pratica porta a costruire portafogli a due strati, dove lo strato inferiore risponde all’idea di soddisfare il primario bisogno di sicurezza e di non finire poveri mentre quello superiore è finalizzato al piano aspirazionale, cioè a realizzare obiettivi che per noi sono desiderabili ma non vitali.


Nel 2010 poi Statman, Markowitz stesso e altri due produssero un lavoro dal titolo Portfolio Optimization with Mental Accounts e cercarono, come dire di mettere insieme le forze e unire la Modern Portfolio Theory con la Behavioral Portfolio Theory.

Per farla breve, nello studio si è cercato di creare un framework, cioè un modello di costruzione del portafoglio, composto da tre elementi:

– L’idea che il portafoglio abbia più strati destinati a diversi  scopi;

– Una definizione di rischio come probabilità di non raggiungere un  certo livello minimo di rendimento in ciascun account mentale, cioè  in ciascuno strato del portafoglio e infine

– Una propensione al rischio diversa per ciascuno strato.

La soluzione, detta alla buona, sarebbe che l’investitore sceglie la massima probabilità di fallimento che è disposto ad accettare per ciascuno strato del portafoglio e quella probabilità viene tradotta in un determinato livello di avversione al rischio.

A quel punto subentra il modello di Markowitz media-varianza per impostare i diversi strati del portafoglio usando quel livello come soglia di rischio rispetto al quale costruire un portafoglio efficiente che massimizza il rendimento atteso.

Cioè il portafoglio efficiente non sarebbe più quello che massimizza il rendimento per un determinato livello di varianza, bensì per un determinato livello di rischio definito come probabilità massima accettabile di non realizzare un certo rendimento minimo.

Sulla scorta di questi lavori sarebbe poi nato il Goal Based Investing, che forse ha la sua espressione più strutturata nel libro di Jean Brunel dal titolo “Goal Based Wealth Management”, del 2015.

Rispetto al modello della finanza classica, l’investimento per obiettivi si basa su questi 4 presupposti:

– Raggiungere obiettivi personali;

– Il rischio è definito come probabilità di non raggiungere il  rendimento minimo necessario;

– Il portafoglio ha più strati, ossia ha diverse allocation per  ciascun obiettivo, chiamato Bucket, cioè per ogni obiettivo ci  sarebbe metaforicamente un cestino dedicato, un conto mentale  separato per ogni scopo;

– E infine tiene conto dei bias comportamentali.

Ovviamente questo modello non è esente da limiti.

– Intanto elaborare diversi sottoportafogli richiede un lavoro più  complesso e più manutenzione rispetto ad un portafoglio buy and  hold;

– In secondo luogo, non è banale stimare la probabilità di fallimento  che sono disposto ad accettare rispetto ad un rendimento minimo  necessario per un mio obiettivo, così come il rendimento atteso e la  volatilità futura restano delle stime;

– Infine, per quanto sembri ovvio il contrario, in realtà è molto  difficile sapere con grande anticipo quali saranno i miei obiettivi  futuri:

– Oggi potrei pensare che tra 18 anni mia figlia andrà  all’università, ma magari non vorrà farla;

– Oppure penso che tra 10 anni vorrò cambiare casa — e invece ciò  potrebbe accadere tra 5 o mai;

– Per non parlare poi delle grandi incognite della vita, a volte  molto belle, a volte molto brutte, che in un secondo possono  stravolgere la migliore delle pianificazioni.

È chiaro che teoricamente un portafoglio efficiente dal punto di vista della teoria finanzaria è quello costruito “bottom-up” a partire dai miei obiettivi dovrebbero convergere verso lo stesso portafoglio.

Ma certamente per l’investitore individuale partire dai propri obiettivi e fare il lavoro all’indietro per costruire il proprio portafoglio andando a ritroso e ragionando in termini di rischio come = probabilità di fallire un target, è qualcosa di più vicino alla propria esperienza.

Questo modello ha un grosso pregio e un non trascurabile difetto.

– Il grosso pregio è che per un investitore reale è molto più semplice  ragionare in termini di rischio per ciascun obiettivo, che non di  rischio in senso assoluto considerando l’intero portafoglio.  Cioè se io fossi un consulente finanziario, chiederei al mio  cliente:

– Quali obiettivi vuoi realizzare?

– Quando li vogliamo realizzare?

– Quanti soldi ci servono per ciascun obiettivo?

– Quanto e in quali casi sei disposto a rischiare una parte dei  tuoi soldi per ottenere un maggiore rendimento ma anche una  minore probabilità di successo?

> Jean Brunel, che ha scritto uno dei libri più importanti sul Goal > Based Investing, dice: “non ha neanche troppo senso parlare > all’investitore in termini di probabilità percentuali. Piuttosto, per > ciascuno obiettivo, è meglio dirgli: senti, questo obiettivo X per te > è un bisogno, qualcosa che vuoi, un desiderio o un sogno? A need, > a want, a wish or a dream? Perché probabilmente vorrai > essere quasi certo di soddisfare un bisogno, abbastanza certo di > realizzare le tue volontà, sarai disposto a correre qualche rischio > per un desiderio mentre morirai di per certo con qualche aspirazione > non realizzata”. > > La piramide di Maslow. > Alcuni bisogni sono primari e indispensabili, come la sicurezza e il > sostentamento. > Altri sono aspirazionali, se li realizziamo siamo più felici, ma se > non li realizziamo non finiamo sotto un ponte. >  > A quel punto, una volta che uno ragiona in termini di need, want, wish > e dream si crea i suoi vari sottoportafogli prendendosi meno rischio > per i bisogni più imprescinibili e più rischio per gli obiettivi > aspirazionali, li mette insieme e alla fine salta fuori un unico > portafoglio che sarebbe la combinazione armonizzata tra i vari > sottoportafogli dedicati ai vari obiettivi. >  > Adesso facciamo un esempio pratico così capiamo come fare.

– Dicevamo che c’è anche un difetto: che riguarda naturalmente la complessità di mettere assieme tutti i pezzi,

– stimare rendimenti attesi e deviazione standard,

– pianificare accuratamente gli obiettivi e

– determinare i rendimenti minimi per realizzarli. E naturalmente  tutto ciò non può essere fatto una tantum, ma costantemente, man  mano che il corso della vita si muove lungo i suoi vari step.


Allora, capita tutta sta roba, facciamo un esempio pratico che può essere utile per impostare i nostri portafogli secondo questa logica, così che ciascuno si possa concentrare su come allocare le proprie risorse in funzione dei nostri reali bisogni e rispetto proprio reale profilo di rischio.

Nella descrizione dell’episodio, oltre ai paper citati e ai link degli sponsor per contribuire alla gita settimanale al supermercato di chi vi sta parlando, troverete anche il link ad questo file Google Sheet in cui ho provato a impostare un portafoglio con questa logica.

Istruzioni:

– Il file è in sola lettura, altrimenti ci mettete le mani sopra in  10.000 e viene fuori un macello. Chi desidera se lo scarica e  modifica quello che vuole.

– Le celle sono tutte editabili, ma consiglio di modificare solo  quelle in giallo, altrimenti modificate le formule.  Se però tra i vari ingegneri, statistici, matematici e informatici  all’ascolto, qualcuno vuole migliorarlo si diverta pure.  Fare spreadsheet non è esattamente il mio talento migliore, quindi  migliorare questo file non sarà una grande impresa.

– Ultima istruzione: ho semplificato l’approccio. Non ho calcolato i  portafogli sulla frontiera efficiente, ma ho semplicemente preso il  rendimento atteso che posso aspettarmi da azioni e obbligazioni, la  loro volatilità storica e ho dato per scontato che il portafoglio  fosse solo una combinazione di azioni e obbligazioni. La  correlazione tra azioni e obbligazioni è impostata di default su  0,2, ma mettete quella che ritenete più corretta.  Naturalmente è una semplificazione estrema, ma poi se uno vuole  aggiungere dettagli o raffinare meglio le stime, libero di farlo.

Quello che mi interessa, comunque, è far vedere un’idea di come partire dagli obiettivi, creare dei sottoportafogli, ipotizzare una stima di successo minima per ciascuno e tirare fuori poi un portafoglio generale.

Allora, come è fatto il file.

Nella prima colonna ho impostato 5 obiettivi, più o meno in ordine temporale.

5 perché me ne sono venuti in mente 5, se poi uno ne ha di più aggiunga le righe e ne mette quanti ne vuole.

Ho immaginato:

– Uno short term goal, quindi diciamo un certo capitale che vorrei  avere più o meno nei prossimi 5 anni;

– Un medium term goal stessa cosa, su 10;

– Education, che potrebbe essere l’Università per i figli,  arbitrariamente ho messo 15 anni, poi ciascuno metta quello che  vuole in base all’età dei figli

E poi abbiamo i due obiettivi propriamente di lungo termine

– Uno l’ho chiamato Retirement, che come sapete tutti bene non è  necessariamente quando vado in pensione, ma quando decido che non  voglio più essere dipendente dal mio lavoro dalle 9 alle 18 dal  lunedì al venerdì; qui ho messo 25 anni, però stesso discorso, se  uno è a 10 anni dal FIRE metta la durata che vuole e infine

– L’obiettivo Bequest, diciamo così il “lascito”, ciò che voglio  lasciare del mio patrimonio ad un erede mentre sono ancora in vita.  Qui ho messo 40 anni.

Ovviamente questi sono obiettivi molto generici.

Uno può voler mettere l’acquisto di una casa o di una macchina.

Oppure un viaggio particolarmente elaborato.

O qualsiasi altro obiettivo specifico venga in mente.

Per semplificare, io ho semplicemente stratificato il portafoglio:

– Breve termine;

– Medio termine

– Lungo termine

– + i due obiettivi per la prole, università e lascito.

Per comodità ho messo come “investable asset”, cioè come capitale investibile di partenza, 100.000 €, giusto per avere una cifra tonda.

Chiaramente chi tra voi ha 25-30 anni magari 100.000 € da investire non li ha, diversi tra voi più senior invece hanno patrimoni con uno zero in più, quindi ciascuno adatterà la pianificazione in base alla disponibilità di partenza.

Per ciascun obiettivo c’è da assegnare un peso.

Io ho messo:

– 5% al breve termine

– 10% al medio termine

– 10% all’obiettivo università

– 65% per il retirement e

– Il restante 10% per il lascito.

Anche qui, numeri del tutto arbitrari.

Poi cosa ho messo.

C’è un box in cui uno può inserire:

– Quanti soldi investe ogni mese

– Il rendimento atteso della componente azionaria

– Il rendimento atteso della componente obbligazionaria e infine

– La volatilità, espressa come deviazione standard, di azioni e  obbligazioni.

Sono tutti campi editabili.

Chiaramente quanti soldi investire ogni mese è una cosa soggettiva.

Ho messo 1.000 € sempre per il discorso estetico di avere le cifre tonde.

Per quanto riguarda i rendimenti attesi ho messo:

– 7,5% per le azioni, e

– 3% per le obbligazioni

La volatilità delle azioni è invece quella storica annualizzata dell’MSCI World, circa 16%.

Per i bond invece ho messo 5%.

Ciascuno assegna i pesi per ogni obiettivo, sceglie quanto investire ogni mese e automaticamente l’investimento mensile viene splittato secondo i pesi che abbiamo scelto (cioè se ho messo 10% per il goal Education, il 10% di mille euro al mese andrà nel sottoportafoglio Education).

Giocando sull’asset allocation tra azioni e obbligazioni per ciascun obiettivo viene fuori il rendimento atteso e il risultato economico che posso attendermi nell’orizzonte temporale scelto.

Per esempio, riprendiamo Education.

Ho allocato il 10%, quindi 10.000 € iniziali, 100 € al mese, 15 anni e ho impostato un portafoglio 60/40.

Con i dati inseriti viene fuori che il mio rendimento atteso per i prossimi 15 anni sarà circa 6% e che il portafoglio varrà circa 53.000 € nel 2040.

In valore reale fai che saranno grossomodo 35-40.000 €, a seconda dell’inflazione che ci sarà.

Ecco 35-40.000 € in valore odierno effettivamente sono un buon target per l’educazione universitaria.

Fin troppi se mia figlia vorrà studiare in un’Università pubblica a Milano, non del tutto sufficienti se vorrà andare alla Bocconi, decisamente insufficienti se vorrà andare a studiare all’estero.

E fin qui va beh, niente di che.

La parte tricky arriva subito dopo, quando dobbiamo mettere il valore soglia minimo.

E naturalmente questa decisamente è la cosa più soggettiva di tutta la questione.

Torniamo all’esempio dell’Università.

53.000 €, 35-40.000 in valore reale tra 15 anni, sono una cifra per garantire molte opzioni a mia figlia.

Però in effetti l’obiettivo minimo è che possa fare l’Università senza troppi patemi, non che entri a Harvard.

Suppongo che 5 anni in una buona università Statale Italiana suppongo che possano richiedere circa 25.000 € reali per stare tranquilli, tra rette, libri e tutto quanto. Poi chiaramente dipende dall’ISEE, dalle borse di studio e altre cose, però per gli obiettivi della mia pianificazione diciamo che:

– Io vorrei arrivare ad avere magari 60.000 € per l’Università  di mia figlia, ma

– Ho bisogno di arrivare ad averne almeno 40.000 €, che appunto  saranno grossomodo 25.000 tra 15 anni.

Per arrivare a quella cifra, partendo da 10.000 € e versando 100 € al mese mi serve un rendimento medio del 2,5%. In pratica, pareggio l’inflazione su per giù.

Quindi dicevamo:

– 6% è il rendimento che mi aspetto da un portafoglio 60/40 per i  prossimi 15 anni

– 2,5% è il rendimento minimo accettabile per il mio obiettivo.

Calcoliamo il criterio di Roy:

6% MENO 2,5% DIVISO la deviazione standard del portafoglio che è 10,19% viene 0,33

Ora sto 0,33 in sé e per sé non significa niente.

Però i fogli di calcolo hanno questa simpatica formula che si chiama DISTRIB.NORM.ST.N, che permette di calcolare quanto è probabile che un certo valore, in una distribuzione normale, sia più piccolo o uguale a un certo numero.

Attenzione, matematici all’ascolto: non è formalmente correttissimo quello che ho detto, anche se è una ragionevole approssimazione pratica, solo che non voglio annoiare a morte tutti gli altri.

Se avete idee statistiche più solide, fatemi sapere

Quindi quella formula mi permette di dire, largo circa: preso il valore del criterio di Roy e gli anni che mi separano dal mio obiettivo, quanto è probabile che realizzi il mio obiettivo minimo?

Certo, ci sono una serie di semplificazioni non da poco:

– Stiamo assumendo che la distribuzione dei rendimenti sia normale e  che la statistica sia perfettamente applicabile alla finanza;

– Stiamo inoltre ignorando il rischio di sequenza;

– Stiamo infine presupponendo che il rendimento di azioni e  obbligazioni resti più o meno stabile e che la volatilità non cambi.

È un modello profondamente imperfetto.

Ma a spanne nel file salta fuori che la probabilità di mandare mia figlia almeno in una buona università statale senza patemi da qui a 15 anni è quasi del 90%.

Fermo restando che è una stima da prendere molto con le pinze, mi sta bene?

Se 1 probabilità su 10 di fallire è per me accettabile, allora ho trovato la quadra.

Altrimenti quali altre opzioni ho?

Posso per esempio aumentare la quota di contribuzione mensile e ridurre il rendimento atteso minimo, così da arrivare al target dei 35.000 € dovendo affidarmi meno alle sorti del mercato.

O posso valutare una combinazione di maggior contributo mensile e minore esposizione azionaria.

Insomma, lo scopo è trovare il punto di equilibrio tra il sottoportafoglio che sto creando e l’obiettivo minimo che deve realizzare.

Comunque chiaro fino a qui?

Riepiloghiamo:

– Scelgo i miei obiettivi

– Assegno a ciascuno un peso e l’orizzonte temporale

– Imposto il portafoglio in base al rendimento che voglio ottenere

– E imposto il valore minimo accettabile che voglio raggiungere in  base alla probabilità di fallimento che sono disposto a sopportare.

Una volta che ho fatto tutto questo lavoro, cosa succede?

Succede che automaticamente esce fuori il mio portafoglio complessivo.

Perché infatti dobbiamo ricordarci che stiamo facendo questa cosa per arrivare ad un unico portafoglio.

Noi abbiamo un solo portafoglio, i soldi contano tutti uguali, siamo noi che applichiamo diverse contabilità mentali a ciascuno di essi.

Con questo processo bottom-up, però, riusciamo a capire come posso impostare oggi un’unica asset allocation tenendo conto della stratificazione dei vari obiettivi che nel corso del tempo quel portafoglio deve aiutarmi a realizzare.

Nel caso del file che vi lascio in descrizione troverete queste allocation, fatte più o meno a caso:

– 100% bond per l’obiettivo a breve termine

– 50/50 per quello a medio termine

– 60/40 per l’Università

– 70/30 per il Retirement e

– 100% per il lascito.

Il risultato complessivo, chiamato Overall Portfolio, risulterà composto con un’asset allocation composta al 69% da azioni e al 31% da obbligazioni.

Per dare un senso ai dati dell’Overall Portfolio gli ho dato a sua volta un orizzonte di 25 anni, dato che la parte Retirement è quella che impatta di più.

Su 25 anni, il mio portafoglio 67/33 ha un rendimento atteso del 6,36%, un rendimento minimo del 4,2%, una probabilità di realizzarlo di oltre l’80%.

Ovviamente, l’Overall Portfolio ha senso così oggi.

Da qui a 25 anni non è detto che avrà esattamente la forma che sto prevedendo in questo momento.

Potrei consumare parte del patrimonio per gli obiettivi di breve e medio termine.

Potrebbe ridursi la mia capacità di risparmio.

Potrei incorrere in uno sfortunato decennio perduto.

Ma allo stesso tempo vale anche il contrario.

Potrei aumentare la capacità di risparmio e non arrivare mai a toccare i soldi previsti neanche per gli obiettivi intermedi.

O il mercato potrebbe riservarmi una sequenza fortunata.

Quella è una fotografia che funziona nel momento in cui sto pianificando.

Nel corso della vita è naturale che prenderà forme diverse a seconda di come vorrò modificare i vari parametri.

Ora, facciamo alcune considerazioni.


PRIMA CONSIDERAZIONE: ci sono numerose “assumptions” in questo modello, numerose ipotesi. Stiamo immaginando che un investimento nell’azionario globale market cap weighted riporterà nel futuro QUEI rendimenti, stiamo considerando che i rendimenti azionari a 5 anni siano in media gli stessi che a 25 anni, stiamo assumendo che la volatilità annualizzata sia costante e soprattutto che la distribuzione dei rendimenti sia normale.

“Normale” nel senso statistico ovviamente.

Sono assunzioni tutt’altro che scontate.

Quindi è importante avere un approccio allo stesso tempo conservativo ed elastico per evitare di affidarsi eccessivamente a questi numeri.

Questo in due modi:

– Da una parte ipotizzando che i rendimenti possano essere più  deludenti del previsto. Credo che la cosa migliore sia avere  obiettivi ambiziosi, ma allo stesso tempo cercare di posizionare i  target minimi in modo realistico e conservativo, cercando per quanto  possibile di far dipendere i BISOGNI dalla nostra capacità di  risparmio e lasciando alle buone notizie del mercato la  responsabilità di realizzare i SOGNI.    Cosa voglio dire?  Voglio dire che se la scala dei miei obiettivi, in ordine di  importanza è: Bisogni, Volontà, Desideri e Sogni, imposterei una  pianificazione tale per cui per i primi serva tanto risparmio e poco  rendimento e via via che ci spostiamo verso desideri e sogni sia  l’effetto del rendimento composto a fare l'”heavylifting”, a fare il  grosso del lavoro.    Se ho un obiettivo quasi vitale da qui a 10 anni che posso  raggiungere investendo 500 € al mese in un portafoglio che rende il  5% o investendo 370 € al mese in un portafoglio che rende il 10%, mi  sembra ovvio che la prima strada sia quella da preferire. Il  risultato finale è lo stesso ma nel primo caso è più probabile e  dipende più da me che dalla buona sorte.

– Il secondo modo è mantenendo finestre flessibili sull’orizzonte  temporale. Più l’obiettivo si può muovere nel tempo, maggiori sono  le probabilità che abbiamo di realizzarlo.  Certo, l’università inizia in un momento ben preciso della vita dei  nostri figli — e lì meglio lasciare poco margine.  Ma per quanto riguarda l’obiettivo del retirement, per esempio,  posso pensare di posizionarlo tra 25 anni, ma anche di poterlo  realizzare tra 20 oppure 30, a seconda di come andrà il mercato nei  prossimi 2-3 decenni (e naturalmente in base anche a come andrà la  mia carriera professionale)

> La flessibilità della finestra temporale di ciascun obiettivo è una > chiave per piegare a nostro vantaggio la discontinuità di mercati e > quella fastidiosa caratteristica che hanno di avere comportamenti che > in media sono una cosa, ma che nei singoli anni dalla media sono > lontani anni luce.

SECONDA CONSIDERAZIONE: come dicevamo prima parlando della dinamicità dell’Overall Portfolio, questo lavoro non va fatto una volta per tutte, ma è un processo iterativo.

Almeno 1 o 2 volte all’anno bisognerebbe buttare un occhio alla nostra pianificazione e riadattarla in base a come stanno andando i nostri investimenti e a come possono modificarsi non solo i nostri obiettivi, ma anche il livello di priorità e importanza che attribuiamo ad essi.

Magari oggi per me è vitale raggiungere a tutti costi l’obiettivo X entro l’anno 2035, tra un anno invece scopro che tutto sommato anche se ci arrivo nell’anno 2040 o non ci arrivo affatto va bene lo stesso.

Ci saranno momenti in cui il rischio di sequenza giocherà a nostro favore — e questo potrebbe permetterci di accorciare la strada verso alcuni obiettivi e quindi ripensare l’allocazione complessiva dei vari sottoportafogli — e altri momenti in cui accadrà esattamente il contrario e quindi sarà necessario ridefinire alcune priorità.

TERZA CONSIDERAZIONE: il modello è chiaramente semplicistico.

Non considera la possibilità di includere altre asset class nel portafoglio come Oro o materie prime.

Non considera l’impatto di strategie diverse dal possedere asset che replicano il mercato in maniera passiva, come ad esempio strategie fattoriali.

E per quanto riguarda i bilanciamenti è stata fatta una stima alla buona ossia:

media ponderata delle varianze dei singoli asset MENO varianza del portafoglio diviso 2



Questo perché come abbiamo già detto, la differenza tra rendimento composto (cioè quello che ci portiamo a casa) è rendimento aritmetico meno varianza diviso 2, quindi se ho un portafoglio fatto da asset poco correlati e li ribilancio riduco la varianza complessiva e recupero un po’ di rendimento.

Come avevamo spiegato in questo video qui, il rendimento atteso di un portafoglio ribilanciato è maggiore della media ponderata del rendimento dei singoli asset presi individualmente.

Insomma, come sempre, diciamo una serie di cose ma poi dobbiamo mettere mille asterischi.

La finanza è così.

Resta pur sempre più arte che scienza.

È come la differenza tra la cucina e la pasticceria.

Nella pasticceria devi essere preciso su grammature, tecniche, temperature e cotture.

Quando cucini, è più una questione di sensazioni, odori, sapori, intuito e umore.

La finanza, del resto, è più una carbonara che una saint honorè.

Bene, care amiche e cari amici di The Bull, spero che quest’episodio vi sia piaciuto e che abbia aggiunto qualche utile strumento per aiutarvi a ragionare in maniera più consapevole sul vostro portafoglio.

Naturalmente nulla di quello che è stato detto oggi deve essere inteso come una raccomandazione di investimento, né il file condiviso ha alcuna validità se non puramente illustrativa ed esemplificativa.

Va quindi usato per seguire meglio il ragionamento dell’episodio di oggi, ma non va inteso in alcun modo come strumento predittivo sulla performance futura dei vostri investimenti.

Detto questo vi ringrazio come sempre per aver guardato il video e se non l’avete fatto vi invito a iscrivervi al canale, mettere like e attivare le notifiche per supportarci e permetterci di continuare a produrre contenuti che cercano di risolvere i vostri bisogni finanziari per aiutarvi a realizzare i sogni della vostra vita sempre nuovi.

Per questo episodio invece è davvero tutto e noi ci rivediamo con i prossimi video sempre qui, naturalmente con The Bull — il tuo podcast di finanza personale.

Recensioni

Quando capisci come funziona la finanza… ti viene voglia di raccontarla!

Veramente interessante, chiaro e conciso. Cambia la vita finanziaria di chiunque.. da ascoltare assolutamente anche per chi di finanza non vuole occuparsi mai

Francesca B., 6 Apr 2024

Dovrebbero ascoltarlo buona parte degli italiani e io avrei dovuto scoprirlo con qualche anno in anticipo ma meglio tardi che mai

Matteo C., 3 Set 2025

Podcast che dà sempre spunti interessanti che personalmente mi ha fatto appassionare alla finanza personale spingendomi ad approfondire in prima persona.

Lorenzo, 13 Mar 2025

Da quando l'ho scoperto in 15 gg mi sono ascoltato 150 puntate senza fermarmi, ho annullato gli altri podcast per portarmi alla pari ed ascoltare tutte le precedenti puntate, ben fatto, esattamente il livello di informazione che mi serviva

Gianluca G., 11 Set 2025

Podcast piacevole, scorre veloce ma in modo estremamente chiaro, spiega i concetti chiave per gestire le proprie finanze, fornendo la classica cassetta degli attrezzi. Complimenti, davvero ben fatto!

Massimiliano, 29 Mag 2024

Riccardo mi ha letteralmente cambiato la vita e fatto scoprire che amo la finanza, ho ascoltato il podcast già due volte e non mi stufo mai di ascoltarlo, parla in modo semplice e chiaro

Massimo D., 23 Set 2025

Ho seguito tutte le puntate! Grazie veramente

Amalia A., 17 Set 2025

Ho acquistato e letto il suo libro e l' ho trovato. Esprime i concetti economici in modo semplice e chiaro. Sentirlo parlare conferma che è un professionista del settore.

Giulia N., 11 Ago 2025

Non sono solito a mettere recensioni e specialmente non ascolto podcast, ma da quando ho iniziato questo, faccio fatica a staccarmi, e quasi non posso più fare a meno di ascoltare e arricchirmi culturalmente.

Andrea V., 22 Set 2025
Facile.it
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