Come investo i miei soldi
Mostriamo come si traduce tutto ciò di cui abbiamo parlato finora: la costruzione concreta di un portafoglio solido. Dalla scelta dei pesi alle tipologie di strumenti, fino alla logica che guida ogni decisione di investimento. Non un modello da replicare, ma un esempio pratico per capire come applicare i principi di asset allocation in modo consapevole e realistico.
Risorse
Punti Chiave
La Asset Allocation del proprio portafoglio deriva dall'allineamento tra obiettivi, tolleranza al rischio (soggettiva) e rendimenti attesi (oggettivi).
La quota azionaria (ad es. 67% nel portafoglio personale) è influenzata dalla valutazione dei mercati e dal rischio valutario, che giustificano una moderata sottopesatura degli USA.
L'esposizione ai fattori (es. Value, Momentum, Quality) e all'oro mira a migliorare l'efficienza del portafoglio (Risk-Adjusted Return) diversificando le fonti di rischio.
Contenuti del video
- 00:00 Il mio portafoglio
- 00:43 Introduzione
- 05:33 Come determino l’asset allocation
- 07:22 Come determino il rendimento atteso
- 09:20 Come determinare il rischio
- 11:18 Azioni americane
- 16:22 Azioni paesi sviluppati (ex ue)
- 17:35 Azioni paesi eurozona
- 20:07 Azioni mercati emergenti
- 22:05 Tilt fattoriali
- 29:25 Oro
- 32:30 Obbligazioni
- 35:22 Qual è il livello di rischio del mio portafoglio?
- 39:00 I consigli di Victor Haghani
- 00:00 Il mio portafoglio
- 00:43 Introduzione
- 05:33 Come determino l’asset allocation
- 07:22 Come determino il rendimento atteso
- 09:20 Come determinare il rischio
- 11:18 Azioni americane
- 16:22 Azioni paesi sviluppati (ex ue)
- 17:35 Azioni paesi eurozona
- 20:07 Azioni mercati emergenti
- 22:05 Tilt fattoriali
- 29:25 Oro
- 32:30 Obbligazioni
- 35:22 Qual è il livello di rischio del mio portafoglio?
- 39:00 I consigli di Victor Haghani
Trascrizione Video
Bentornati a The Bull — il tuo podcast di finanza personale.
In questa serie di video dedicati ai temi o più importanti o su cui c’è stato più interesse nel corso di questi oltre due anni, ce n’è ovviamente uno che non poteva mancare.
Personalmente lo ritengo forse il più inutile di tutti quanti.
Ma considerato il numero di domande che ho ricevuto sul tema, beh, direi che da questo punto di vista va proprio in cima nella classifica degli argomenti più gettonati, ossia: com’è fatto il mio portafoglio.
Personalmente non l’ho mai ritenuto qualcosa di così interessante, anche perché — come si dice — “say what you do and do what you say”, sarei un po’ psycho se dicessi nel podcast delle cose e poi investissi diversamente.
MA poi ciascuno è diverso, ogni situazione è specifica, le esigenze della mia famiglia non sono le stesse di altre famiglie e ho sempre avuto paura di dare la ricetta giusta per la malattia sbagliata.
Se però siete avidi ascoltatori di The Bull, oppure avete visto il 19 video prima di questo, allora penso che ciascuno di voi sia abbastanza attrezzato da non correre più il rischio di seguire ciecamente ciò che faccio io, avrà già abbastanza consapevolezza e spirito critico finanziario per non farsi troppo condizionare da quello che dirò.
A scanso di equivoci, comunque, il mio consiglio è concentrarsi più sul ragionamento dietro ogni decisione di investimento, che non tanto sugli strumenti in sé.
Oggi quindi parlerò sì di come è fatto il mio portafoglio, perlomeno a ottobre 2025.
Ma per rendere la cosa più interessante, diciamo che raccontare la mia asset allocation è più che altro un modo per raccontarvi come ragiono io rispetto a quelli che ritengo siano i temi più rilevanti in questo momento:
– Sia dal punto di vista del contesto di mercato;
– Sia dal punto di vista di ciò che ritengo utile per la vita della mia famiglia.
Esiste anche una versione audio di questo contenuto che risale a febbraio del 2025.
Da allora sono cambiate poche cose — com’è giusto che sia — però ovviamente in questo video ci sarà una grandissima differenza: vedremo una serie di cose che allora, ovviamente potevo solo farvi immaginare.
Naturalmente, patti chiari amicizia lunga: this is not financial advice.
E soprattutto non c’è nessun motivo per cui dobbiate pensare che quel che faccio io sia ottimale in senso assoluto. Quello che faccio con il mio portafoglio è ciò che penso vada bene per me ma sono certo che se facessi vedere il mio portafoglio a Eugene Fama, Meb Faber, John Campbell, Victor Hagahni o ai tanti altri altri ospiti che sono venuti e che verranno a breve a trovarci, ciascuno di loro potrebbe trovare qualcosa di migliorabile.
Anzi — questa cosa: l’ho fatta davvero!
Ho chiesto sia a Meb Faber che a Victor Haghani un feedback sul mio portafoglio, specificando che l’obiettivo sarebbe stato poi parlarne a livello generale con voi.
La risposta di Faber alla mia lunga e dettagliata email è stata
Va beh…
Utile, grazie meb…
Però è coerente con il personaggio.
Quando lo invitai l’anno scorso gli scrissi un altrettanto dettagliatissima email per spiegare The Bull, contenuti, obiettivi dell’intervista ecc. lui mi rispose:
È così, di poche parole.
Victor Haghani invece è stato splendido e mi ha mandato letteralmente un papiro, con pure i suoi partner in copia per partecipare alla discussione.
Alla fine di quest’episodio, vi dirò qual è stato il suo feedback.
Torniamo a noi
Ovviamente non esiste un portafoglio giusto. Esiste solo il portafoglio che ritengo sia giusto per me considerando:
– I miei obiettivi;
– Il mio orizzonte temporale;
– La mia tolleranza al rischio; e soprattutto
– Il punto di vista di mia moglie.
Quindi prendete tutto quello che dico come roba molto soggettiva, adatta — penso — al mio caso e non necessariamente al vostro e partite dal presupposto che su qualunque cosa io possa essere in errore.
Ah, ovviamente non parlerò di valori assoluti.
Però diciamo che il discorso di oggi va bene tanto per chi ha 50.000 € che 10 milioni.
Spoiler: non mi trovo a metà strada…
Però diciamo che i ragionamenti sono universali.
Chiaramente più capitale c’è, più ha senso fare certi adattamenti, all’inizio invece le opzioni sono un po’ più limitate
Bene, prima di addentrarci nei meandri del mio portafoglio, quest’episodio è realizzato in collaborazione con Fineco, che è la banca che utilizzo dal primo anno in cui ho cominciato ad investire i miei primi risparmi e su cui ora c’è la maggior parte del mio portafoglio.
Su Fineco si trovano centinaia di ETF a zero commissioni di iShares, Xtrackers, Amundi e Fidelity e il piano Replay per fare piani di accumo a basso costo con la possibilità di investire in qualunque giorno del mese, più volte al mese, un volta ogni più mesi, insomma quando vi pare, su ETF, ETC e ETN. Il mio pac in questo momento è su 8 ETF è pago circa 5€ al mese.
Per chi desiderasse aprire un conto con Fineco, sia un conto completo con tutti i servizi bancari a zero canone per 12 mesi, sia un conto trading dedicato esclusivamente agli investimenti, può trovare un link in descrizione che permette di avere le prime 60 operazioni gratis da effettuare nei primi 6 mesi.
COME DETERMINO L’ASSET ALLOCATION
Partiamo dall’asset allocation in generale.
Per comprendere al meglio tutta la teoria che ci sta dietro consiglio, per chi non l’avesse fatto, di guardarsi questo video qua.
Come abbiamo spiegato in quel video, la domanda più importante di tutte quando uno investe è “quanto del mio patrimonio dovrei investire in asset rischiosi” principalmente in azioni.
La risposta a questa domanda è una funzione di tre variabili:
– Il rendimento in eccesso atteso dal mercato azionario rispetto all’interesse senza rischio pagato per esempio da un titolo di Stato ad alto rating;
– Una misura oggettiva del rischio azionario — che solitamente è la sua deviazione standard; e infine
– Una misura soggettiva del rischio azionario, che è il mio coefficiente di avversione al rischio. Semplificando un po’ quello che dice la teoria finanziaria che supporta sta roba, il coefficiente di avversione al rischio è un numero tra 2 e 5 che attribuisco alle tre dimensioni del rischio:
– La mia tolleranza al rischio
– La mia capacità di assumermi rischio in base al mio orizzonte temporale e
– La mia necessità di assumermi rischio in base ai miei obiettivi.
Chiaramente, tutto ciò da adattare anche al valore presente del mio capitale umano.
– Se ho un lavoro e un reddito pressoché stabili, allora potrò permettermi maggior rischio con il mio portafoglio;
– Viceversa se il mio lavoro e il mio reddito sono più precari, dovrò tenerne conto.
Comunque tutta questa bella cosa qua è alla base della Teoria del Portafoglio di Merton, riassunta nella famosa formula, chiamata Merton Share, che dice quanto dovrei investire del mio capitale in asset rischiosi e che ha questa formula qua:
O più precisamente, questa qua
Chiara no?
Va beh, l’avevamo vista nell’altro video.
COME DETERMINARE IL RENDIMENTO ATTESO
Ora, come avevamo fatto là in generale, anche per il mio portafoglio bisogna cominciare stimando il rendimento atteso reale dell’asset azionario in eccesso al tasso senza rischio, che sarà la mia mu
No, non questa mu, questa mu
μ
Cioè il numeratore della nostra formula.
Come benchmark cosa uso?
il punto di partenza più logico è il portafoglio di mercato, quindi userò l’approssimazione più vicina che abbiamo, ossia un indice globale come l’MSCI All Country World.
Ora, per calcolare il rendimento reale atteso dall’MSCI All Country World abbiamo due strade:
– PRIMA STRADA: usiamo un modello basato sui rendimenti impliciti nel rapporto attuale tra prezzi e utili, come abbiamo spiegato nell’altro video, in cui in partica facevamo una media ponderata tra Earnings Yield e Cyclically Adjusted Earning Yield (CAEY). Grosso modo il rendimento reale atteso per il mercato azionario globale veniva circa 4,4%.
– SECONDA STRADA, ancora più facile, prendiamo quella di alcune autorevoli società di asset management serie. Le mie preferite sono AQR, Elm Wealth e Research Affiliates.
Anche queste tre più o meno convergono su un valore di circa 4,4% all’anno oltre l’inflazione. Ma volendo potete prendere anche Vanguard, Blackrock, JP Morgan ecc. La mia sensazione è che nelle prime ci sia un ragionamento strutturato dietro a quelle valutazioni basato su una profonda comprensione della teoria finanziaria. Le grandi case, invece, non sai mai se hanno qualche bias legato ai prodotti che vogliono vendere.
Cmq abbiamo circa 4,4% di rendimento medio annuale reale atteso per l’MSCI All Country World. Per quanto riguarda il tasso reale senza rischio, un media ponderata tra Titoli americani, tedeschi, e gli altri principali titoli di stato ad alto rating fa circa 1%.
Il nostro rendimento in eccesso, il mu che va al numeratore della formula di Merton è quindi circa 3,4%.
COME DETERMINARE IL RISCHIO
Al denominatore invece ci serve il quadrato della deviazione standard, che per l’MSCI ACWI negli ultimi anni la arrotondiamo a 15%.
15% al quadrato fa 0,0225 e abbiamo così il nostro valore per σ^2^
Infine arriva la parte più importante: devo decidere quanto rischio voglio prendermi da tre punti di vista:
– la mia tolleranza
– la mia capacità (in base al mio orizzonte temporale) e
– il rendimento che necessito (rispetto ai miei obiettivi).
Abbiamo detto la volta scorsa che possiamo assegnare valori da 2 a 5, dove 2 vuol dire massima propensione al rischio, 5 minima.
Nel mio caso cosa ho scelto:
– Tolleranza al rischio alta quindi disponibilità a sopportare anche drawdown di oltre il 40%;
– Capacità piuttosto elevata, dato che il mio orizzonte temporale è ancora lungo e i soldi del mio portafoglio non mi servono per nessuna spesa prevedibile per i prossimi anni, quindi ancora 2 (volendo potrei anche mettere 3, se aggiusto per il fatto che il mio reddito da lavoro non è stabile come se fossi un dipendente; dato che però mia moglie lo è ciò limita nettamente il rischio legato al nostro capitale umano);
– Il rischio che devo prendermi, invece, non è necessariamente elevato, qui posso accettare sicuramente 3.
RISCHIO Coefficiente di avversione al rischio (γ)
TOLLERANZA 2
CAPACITA’ 2
NECESSITA’ 3
Perfetto, ora che abbiamo tutti i dati, li metto nella formula e ottengo un’indicazione della quota di azioni che dovrei avere in portafoglio rispetto al totale del mio capitale investibile.
65% in azioni.
In realtà in questo momento il mio è più 67%, ma siamo lì, anche perché poi in realtà ho un po’ più cash di quel che dovrei visto che abbiamo una mezza idea di cambiare casa nel medio termine; a guardare tutto il patrimonio forse sono pure sottopesato sulle azioni.
Comunque, consideriamo solo il portafoglio investito in strumenti non monetari.
Cosa c’è dentro?
AZIONI AMERICANE
Partiamo dall’allocazione geografica.
Ovviamente dominano gli Stati Uniti, anche se per motivi che spiegherò tra poco e che chi segue The Bull da tanto già conosce, li sto sottopesando.
Nell’MSCI ACWI il loro peso sarebbe intorno al 64%
Mentre invece nel mio portafoglio sono al 51%.
Naturalmente 51% rapportato alla sola quota azionaria, non a tutto il mio portafoglio.
Ovviamente continuo a mantenere un significato sovvrappeso degli US rispetto agli altri mercati.
Però appunto c’è quasi un 13% in meno.
Perché ho preso questa decisione? Un’argomentazione dettagliata sul “peso degli USA” nel portafoglio si trova in questo video, ma intanto diamo una carrellata veloce dei tre motivi principali:
– PRIMO MOTIVO: le valutazioni sono molto elevate, cioè i prezzi delle azioni americane sono molto elevati rispetto agli utili. Ora, sappiamo tutti bene che ciò non ha alcun valore predittivo da un anno con l’altro. Ma nel lungo termine il prezzo a cui si compra un asset è il fattore più importante rispetto al suo rendimento atteso. Per semicitare Howard Marks , non basta comprare asset di qualità; conta anche il prezzo a cui si comprano. E i rendimenti futuri sono inversamente proporzionali ai prezzi di partenza.
E’ chiaro che lo Eugene Fama che è in me sa che i prezzi sono giusti e il mercato è generalmente efficiente. Ma lo stesso Gene Fama aveva già spiegato qui con Ken French che su orizzonti già di 3-5 anni si assiste ad una regressione vero la media piuttosto prevedibile dei rendimenti azionari. Altri personaggi straordinari come John Campbell e Robert Shiller misero poi una parola pressoché definitiva all’argomento, confermando che i mercati azionari sono soggetti a lente mean reversion, a regressioni verso la media e che i rendimenti futuri sono inversamente correlati ai prezzi iniziali rispetto agli utili. Tra l’altro John Campbell è stato recentemente nostro ospite nell’episodio 250 del podcast. Più i prezzi di oggi sono elevati, minore sarà il rendimento che ci si può aspettare futuro. Siccome il mercato americano è molto più costoso di quelli del resto del mondo, preferisco adottare una lieve riduzione del suo peso nel mio portafoglio.
– SECONDA MOTIVAZIONE: fin dal primo giorno o quasi di questo podcast vi ho smartellato i cosiddetti sull’importanza della diversificazione e sul perché gli ETF sono fighissimi per questo scopo. Certo è che se l’indice è fatto di 2.600 società, ma 10 aziende, di cui 9 americane e una che prospera quasi solo grazie a Nvidia, pesano per quasi un quarto del totale,
ecco indubbiamente l’elevata concentrazione nelle big tech fa venir meno un po’ di diversificazione. In quest’ottica, ridurre un po’ gli Stati Uniti nel mio portafoglio mi dà l’idea di essere maggiormente diversificato rispetto a singoli rischi idiosincratici. Ora, niente di decisivo eh? Perché quanto il mercato viene giù sappiamo bene che aumenta la correlazione tra le azioni. Come si dice: la diversificazione viene meno proprio nel momento in cui ti serve di più. Ma in termini di gestione del rischio, non di rendimento atteso, una maggiore diversificazione mi fa stare meglio.
– TERZA MOTIVAZIONE: ho trovato diversi studi, tra cui uno di Verdad
che spiegano che gli Stati Uniti hanno questo peso non solo per una questione tecnica di market cap, ma anche perché gli investitori hanno attribuito aspettative maggiori alla crescita delle società Americane rispetto agli altri paesi sviluppati e perché le aziende americane hanno più azioni in circolazione che possono essere scambiate, rispetto a Europa e Giappone. Se invece escludiamo questi due fattori e considerassimo solo gli utili che vengono generati, dato che di fatto investire in azione significa investire nel futuro cash flow che deriva dai profitti delle società sottostanti, secondo Verdad un portafoglio di Paesi Sviluppati realmente Market Cap Weighted dovrebbe essere 55% Stati Uniti e 45% Paesi Sviluppati. Se escludiamo i Paesi Emergenti, questo è il peso dei Paesi Sviluppati nel mio portafoglio.
Con gli emergenti diventa circa 51% Stati Uniti, 39% sviluppati, 10% emergenti.
Dovreste seguire quello che sto facendo? Assolutamente no. O meglio: boh. Non lo so. Non so se sia giusto sottopesare gli Stati Uniti. Nessuno ha la risposta naturalmente, altrimenti i prezzi di mercato si adatterebbero automaticamente. Ma nel mio caso trovo quest’impostazione equilibrata rispetto ai rischi di futuri rimorsi e rimpianti e coerente con l’idea teorica di regressione verso la media dei mercati più cari. Quindi per me va bene così.
Ora andiamo avanti un po’ più spediti, perché chiaramente questo 51% di Stati Uniti richiedeva un po’ di discussione.
AZIONI PAESI SVILUPPATI (ex UE)
Il secondo blocco per grandezza nel mio portafoglio azionario è rappresentato dai paesi sviluppati extra Unione Europa, con il 23%.
Parliamo prevalentemente di Giappone, Regno Unito, Svizzera, Canada, Australia e via dicendo.
Questo 22% è ottenuto con un mix di ETF su MSCI World, Stoxx 600, Eurostoxx 50 e MSCI Japan.
Il Giappone è il più pesante del gruppo.
Siamo intorno al 9% della parte azionaria, che è significativamente di più del 5% che occupa nell’MSCI ACWI. Anche il Regno Unito, con il suo 6,6%, ha praticamente un peso doppio rispetto a quello che avrebbe nell’MSCI ACWI.
Ovviamente se riduci gli Stati Uniti, gli altri Paesi acquistano peso meccanicamente.
Però in particolare Giappone e Regno Unito sono spesso visti ultimamente come mercati particolarmente interessanti sicuramente per le valutazioni molto basse. Per quanto riguarda il Giappone, poi, sono stata fatte na serie di riforme pro-imprese che potrebbero favorire la profittabilità delle società quotate rispetto al recente passato.
AZIONI PAESI EUROZONA
Il terzo blocco è invece l’Eurozona.
Nell’indice MSCI ACWI il blocco formato soprattutto da Francia, Germania, Italia, Spagna e Olanda non arriva neanche al 10%.
Io ho circa il 16% ottenuto aggiungendo un ETF sull’Eurostoxx 50.
Anche qui: in parte la percentuale è superiore sempre ad un indice globale perché ci sono meno Stati Uniti.
In generale sull’Europa ho dato un piccolo tilt, scegliendo di sovrappesare solo le grandi società Europee sin dai tempi in cui si parlava tanto delle Granolas, vi ricordate?
Era stata Goldman Sachs un po’ di anni fa a parlare delle Magnifiche d’Europa.
Granolas sta per: GSK, Roche, ASML, Novartis, L’oreal, Astrazeneca, Nestlé, Sap e Sanofi.
Con l’Eurostoxx 50 e lo Stoxx 600 si va inevitabilmente a concentrare la loro presenza nel portafoglio.
Insomma.
L’Europa non è un mercato esuberante e purtroppo è privo di grandi realtà tecnologiche lontanamente paragonabili a quelle americane.
Ma non è comunque un buon motivo per ritenerla un cattivo investimento in assoluto e forse pochi si sono davvero resi conto di questa cosa:
Negli ultimi 3 anni l’indice delle blue chip dell’Eurozona ha schiantato l’S&P 500: 67% di crescita contro 49%.
Non vuol dire niente, naturalmente — e al sottoscritto è andata solo di culo.
Però era solo per rimarcare due cose:
– Intanto che — anche in quest’era dominata dall’unica narrazione dell’onnipotente S&P 500 — in realtà non è sempre vero che questo sia sempre stato il miglior indice su cui investire;
– E poi che, come dicevamo prima, non conta solo il valore assoluto delle società, ma soprattutto quello relativo. I fondamentali contano, ma se parti da valutazioni estremamente basse contro valutazioni estremamente alte cose succede:
– Alle prime bastano poche notizie per crescere
– Alle seconde servono invece grandi notizie solo per mantenere quei livelli di prezzo.
Diciamo che personalmente volevo due cose:
– Volevo avere una certa esposizione azionaria in Euro, per limitare una parte del rischio cambio sul dollaro.
– Inoltre, avendo tantissimo tech con gli Stati Uniti, avere più Europa mi ha dato un tilt fattoriale indiretto verso realtà più tipicamente Value, vista la predominanza di settori tradizionali in Europa rispetto agli Stati Uniti e alle valutazioni generalmente basse.
AZIONI MERCATI EMERGENTI
Ultimo pezzetto di azionario, almeno a livello di ripartizione geografico, mercati emergenti.
Qui ho circa il 10%
Non è un’esposizione bassissima, perché rispetto all’MSCI ACWI ho probabilmente 2-3 punti percentuali in più.
Però non credo faccia una differenza sostanziale.
Sugli Emergenti ho una posizione abbastanza agnostica.
Non ho intenzione di spingere particolarmente, sono un po’ frenato dal rischio di natura geopolitica e non sono uno di quelli che è convinto che un domani Cina e India saranno necessariamente il nuovo centro del mondo.
In Cina avrò sì e no il 3% della componente azionaria.
Ogni tanto ha delle fiammate, soprattutto alimentate da interventi pubblici, ma resta pur sempre un paese con enormi limiti a livello giuridico, cosa che la rende un mercato meno investibile.
È vero, ha un PIL che si sta avvicinando a quello degli Stati Uniti, ma deve ancora dimostrare di riuscire ad avere un’economia competitiva tipica di un paese sviluppato, con un forte consumo interno (cosa che il simpaticissimo Xi Jinping non è che proprio veda di buon occhio vista la sua anima maoista).
E sappiamo anche tutti i problemi interni che ha: demografia stagnante, disoccupazione giovanile (presunta, visto che per risolvere il problema l’anno scorso il governo ha deciso di non pubblicare più il dato, lontano dagli occhi, lontano dal cuore) e poi c’è quella terribile crisi immobiliare latente che ha devastato la ricchezza privata di milioni di cinesi.
Semi parafrasando Winston Churchill, la democrazia e il capitalismo sono i peggiori sistemi che esistono.
Tranne tutti gli altri.
Comunque, dicevo, 10% sugli Emergenti, se un domani crescono bene, un piede ce l’ho.
Se continuano a rimanere un’eterna promessa come il Godot dei mercati finanziari globali, poco male, il danno al portafoglio non sarà clamoroso.
TILT FATTORIALI
Ora, prima di chiudere con la parte azionaria, ultima cosa.
Sappiamo che, in teoria, se io investo in un indice market-cap-weighted il fattore di rendimento e di rischio a cui sono principalmente esposto è il Beta, la sensibilità del portafoglio rispetto al mercato stesso.
Sta roba qua
Negli anni, però, Fama e French,
Jegadeesh e Titman,
Novy-Marx
e tanti altri hanno messo in evidenza il ruolo sistematico di altri fattori di rendimento che tendono ad essere persistenti, anche se con comportamenti molto diversi.
Per il mio portafoglio volevo quindi un’esposizione azionaria a diversi fattori di rischio e rendimento
Dei mille fattori che sono stati più o meno scovati, quelli che sembrano più accreditati e su cui c’è maggior consenso sono, cinque:
– Momentum,
– Value
– Profitability/Quality
– Size
– Low Volatilty
Su tutto questo discorso, naturalmente vi rimando a questo video in cui abbiamo visto i fattori più in dettaglio.
Breve recap:
– Momentum è il fattore che espone alle società che sono cresciute di più negli ultimi 12 mesi.
– Value si riferisce a società con basso prezzo rispetto al valore patrimoniale.
– Quality riguarda società con elevato ritorno sull’equity, basso indebitamento e bassa variabilità degli utili.
– Size espone a società small cap, secondo l’idea che storicamente le small cap incorporano un rischio maggiore e quindi pagano un premio superiore a chi ci investe.
– Low Volatily è la più strana delle anomalie e riguarda il fatto che società con minore volatilità hanno avuto in media un rendimento maggiore rispetto al mercato.
Ad un certo punto ho voluto dare un tilt al portafoglio per espormi a 3 di questi fattori.
3, perché ho scelto di non avere esposizione né alle small cap né a low volatilty.
Sulle small caps ho un bias negativo legato al fatto non so quanto gli indici small caps riescano davvero a estrarre efficacemente l’extra rendimento di questo fattore. Un po’ per come sono costruiti, un po’ perché negli ultimi anni le small cap più promettenti tendono a stare più a lungo non quotate con i fondi di private equity e un po’ perché viviamo in un’epoca in cui la scala, la dimensione, diventa sempre più importante per sopravvivere.
Ovviamente potrebbe non esserci niente di giusto in tutto ciò, ma per ora ho preferito così.
Sono un investitore da Large Cap.
Sono felice di prendermi il rischio di investire in azioni di grandi aziende, meno di prendermi del rischio ulteriore per investire in azioni di piccole società.
Alla fine uno investe anche in base a come è fatto.
Metto però un asterisco perché il fatto che ora siano disponibili in europa ETF su small caps di Avantis e a breve di Dimensional Fund, i due fuoriclasse mondiali su questo, potrebbe farmi cambiare idea.
Low Volatility invece più semplicemente faccio fatica a riconciliarlo con la teoria finanziaria.
L’effetto è noto e ben documentato, tipo qui
Ma mentre per Value, Momentum e Quality la teoria economica che ci sta dietro mi è sembrata coerente, il fatto che Low Volatilty sembri più un’anomalia comportamentale per cui gli investitori tenderebbero a pagare troppo per le società più correlate al mercato mi lascia più tiepido.
Anche qui vale come sopra.
Mio bias.
Elevata probabilità che mi sbagli.
Ora sappiamo bene che un ETF fattoriale fa solo in parte quello che ci aspettiamo perché è long-only, non ha la parte short che isola il fattore.
Ma come investitore retail non è che abbia molte altre opportunità per crearmi delle esposizioni fattoriali, quindi ho tagliato la testa al toro è ho investito in tre ETF fattoriali su MSCI World Momentum, Quality e Value, più o meno in parti uguali.
Un’alternativa forse ancora più pratica era usare un unico ETF mutlifactor su questi tre fattori come questo qua
In totale quindi circa un quarto della mia quota azionaria è su questi fattoriali.
Quando prima vi ho dato le percentuali geografiche avevo già tenuto conto anche del peso delle varie regioni dentro questi ETF, quindi questo 25 abbondante % è un di cui di quello che ho detto prima.
Soffermiamoci un secondo su questi tre.
Negli ultimi 10 anni è facile immaginare come siano andate le cose:
– Momentum ha dominato, crescendo di oltre il 300%;
– Quality ha fatto molto bene, 224%, circa un 6 punti percentuali in meno dell’MSCI World classico;
– Value, comprensibilmente, è rimasto indietro: +133%, metà dell’MSCI World.
Quality ha una forte concentrazione sugli gli Stati uniti, oltre il 70%. Momentum è sotto al 60%
In Value invece gli Stati Uniti hanno meno del 40% del peso e ben il 23% è attribuito al Giappone.
Se andiamo a prendere le prime 10 posizioni di ciascun indice, troviamo in effetti cose che non troveremmo tra i top 10 holding dell’MSCI World classico.
– in Momentum abbiamo per esempio società come Netflix, Palantir, Walmart, Berkshire Hathaway e Costco;
– in Quality troviamo: Vista, Mastercard, Eli Lilly e la rediviva General Electric;
– in Value invece tutte le prime 10 non si trovano tra le prime 10 dell’MSCI World.
Rispetto ai primi due, qui c’è una maggior concentrazione di realtà nel settore industriale, finanziario, media e nella tecnologia più tradizionale, come Cisco, Intel e Qualcom.
Una differenza abissale è anche nel rapporto tra prezzi e utili attesi:
– Momentum e Quality intorno a 21-22;
– Value 11.
Ricordiamoci sempre che investire in società con un rapporto tra prezzi e utili basso è teoricamente più rischioso, non meno rischioso, perché sto scommettendo sulle squadre sfavorite.
Rendono potenzialmente di più perché mi devo prendere anche più rischio.
Ma se penso che ad un certo punto le valutazioni alte avranno un impatto negativo sui rendimenti futuri, anche qui, un piedino su Value mi piaceva averlo.
E in effetti da inizio anno la scelta è sembrata vincente
Questo però deve sorprendere fino ad un certo punto.
Anche negli ultimi 5 anni, Value si sarebbe rivelato l’investimento migliore, anche se probabilmente questa sovraperfomance non è stata continua ma figlia di alcuni momenti concentrati, come il rimbalzo dopo il Covid o la miglior reazione alle vicende politiche americane di inizio anno rispetto agli altri fattori.
Fine della parte azionaria
Breve recap:
51% Stati Uniti
16% Unione Europea
23% Altri Sviluppati
10% Emergenti
A livello di fattori invece più o meno sarebbe così:
¾ market cap weighted
¼ fattoriale
Scusate se vi aspettavate qualcosa di più frizzante.
Ma come dicevo uno investe così com’è.
E io sono piuttosto noioso.
ORO
Bene, fatte le azioni, che erano il capitolo di gran lunga più impegnativo, passiamo alle altre asset class.
Abbiamo detto che il 67% circa del portafoglio è in Azioni.
Il restante 33% è invece fatto così:
– 25% è in obbligazioni,
– 8% è in oro.
Prima domanda, che peraltro mi faccio da solo.
Se la formula di Merton dava 65 o 67% in azioni, perché nella quota senza rischio ci ho ficcato dentro l’oro?
Avrei dovuto fare prima spazio all’oro e poi riproporzionare la quota di azioni e obbligazioni.
In realtà il mio ragionamento è questo:
– La parte che non è azioni è per diversificare il comportamento delle azioni;
– Oro e obbligazioni svolgono questo ruolo in momenti diversi;
– Ero disposto a prendermi un maggior rischio per un maggior rendimento atteso
Facendo dei backtest sugli ultimi 20 anni risultava una combinazione migliore in termini di rendimento aggiustato per il rischio, soprattutto nei periodi più critici.
L’oro non ha avuto una presenza stabile nel mio portafoglio.
E qui mi costituisco spontaneamente e denuncio il mio comportamento sciagurato, di chi predica bene e razzola male.
Avevo circa il 5% di oro fino all’ottobre del 2023, che forse qualcuno ricorderà che era stato un momento piuttosto teso perché erano esplosi i soliti, ciclici timori sul debito americano alle stelle.
Comunque allora cosa pensai: vendo oro e compro S&P 500.
Col senno di poi è stata una buona idea?
Insomma.
Fino a gennaio ancora ancora
Oggi decisamente no…
E mi sta bene.
Per una cazzata fatta — non grave per l’amor del cielo — però ancora una volta la dimostrazione che il mercato ne sa più di me, dicevo per una cazzata fatta, almeno poi ho indovinato una cosa buona.
Fino a novembre avevo 5% in obbligazioni High Yield.
Poi subito dopo l’elezione di Trump l’oro ha avuto un momento di ripiego, passando da 2.800 $ l’oncia a circa 2.560.
Nonostante odi l’oro come investimento mi rodeva continuare a vederlo correre così tanto e quindi mi sono detto: ora o mai più.
Una mattina a metà novembre l’oro era ancora sotto i 2.600, gli High Yield invece rendevano solo leggermente di più di un Treasury nonostante il rischio molto più alto — che è il modo con cui si dice che i bond sono cari — quindi via High Yield e ho comprato l’equivalente di circa il 5% del mio portafoglio di oro.
A sto giro decisamente meglio.
Ma la lezione è sempre la stessa: fare market timing è fottutamente difficile.
Trova l’asset allocation per te, ribilancia e non fare altro, almeno non ti vengono i rimpianti come al sottoscritto di non essere andato a farsi un giro nell’ottobre del 2023 invece che giocare al piccolo Jim Simons.
Poi, un po’ è cresciuto ancora lui, un po’ ho continuato a investire io, tant’è che adesso ho l’8% e penso di salire pian piano fino al 10%.
Forse un’allocazione target per me alla fine potrebbe essere 65% azioni, 25% obbligazioni, 10% oro.
OBBLIGAZIONI
Veniamo infine alle vostre amate obbligazioni.
In realtà qui molto easy.
Il grosso sono obbligazioni governative e un pochino di corporate europee, un po’ meno di 3/4 del totale.
Il resto sono fondamentalmente treasury e qualcos’altro sempre di paesi sviluppati.
Sulle obbligazioni, comunque, val la pena secondo me considerarle divise in due macroblocchi, in base alla duration.
Infatti ho due terzi in obbligazioni a scadenza intermedia, con duration intorno a 6-7 anni, e un terzo in obbligazioni governative europee a lunga scadenza, con duration media intorno a 16.
Non ho obbligazioni a lunga scadenza in valute diverse dall’Euro perché già con le lunghe scadenze mi prendo il rischio duration e non volevo sommargli anche il rischio valuta.
Anche qui, è tutto piuttosto banale e non ci sono idee geniali.
Le obbligazioni intermedie sono la quota, tra molte virgolette, a basso rischio del portafoglio.
Le obbligazioni a lungo termine, invece, le avevo comprate piuttosto bene ma hanno poi sofferto molto l’aumento dei rendimenti sulla parte lunga della curva in Europa dopo che la Germania a Marzo aveva annunciato che si sarebbe indebitata come mai nella vita per finanziarie riarmo e crescita.
I bond lunghi hanno però due cose buone, per me almeno:
– Il loro YTM oggi è 3,7%, quindi è vero che hanno sofferto parecchio, ma con tassi di mercato che sono saliti ok che i prezzi sono scesi ma sono pure saliti i rendimenti futuri. Questo è compatibile con un portafoglio di lungo termine.
– Inoltre in caso di recessione sono molto utili.
Ci sarebbe un terzo discorso di “capital efficiency”, ma ne parliamo alla fine.
Ovvio che i bond lunghi hanno anche un rischio opposto: in caso di un nuovo picco di inflazione — o comunque se gli investitori si preoccupano della tenuta a lungo termine dei debiti pubblici, questi vengono già che è un piacere.
Però insomma, è normale che ci siano sempre parti del portafoglio che funzionano meglio e altre meno.
Quello che conta è il “Total portfolio approach”, cioè una visione in cui l’unica cosa importante è che il portafoglio funzioni nel suo complesso, senza cadere nel cosiddetto “line-item thinking”, cioè guardare ogni singola riga del portafoglio in maniera isolata dal resto.
Sarebbe come essere in aereo e dire: “ma cosa li mettono a fare i salvagente se tanto non precipitiamo mai?”
Nei primi 9 mesi di quest’anno il beneficio della diversificazione, sia in termini di asset class che di regioni geografiche, si è visto tutto.
L’oro è stato di grand lunga l’asset class più performante, così come decisamente bene hanno fatto il mercato dell’Eurozona e in generale quello dei mercati sviluppati ex Stati Uniti.
I bond governativi europei intermedi sono rimasti piuttosto flat mentre l’onnipotente S&P 500 è ancora leggermente in negativo nel momento in cui stiamo registrando soprattutto per effetto del tracollo del dollaro rispetto all’euro.
QUAL È IL LIVELLO DI RISCHIO DEL MIO PORTAFOGLIO?
Ora, prima di chiedere, 3 considerazioni.
PRIMA CONSIDERAZIONE: qual è il livello di rischio del mio portafoglio?
Probabilmente ha un livello di rischio sistematico superiore a quello che avrebbe un portafoglio con la stessa asset allocation ma più, diciamo, plain vanilla e market cap weighted.
Quali sono gli elementi che lo rendono più rischio?
– I fattoriali, per definizione se tilti un portafoglio verso un fattore, l’eventuale, e sottolineo eventuale, extrarendimento viene al costo di un extra rischio (quasi certo).
– Il fatto di sovrappesare leggermente alcuni mercati con valutazioni inferiori.
– E infine le obbligazioni a lunga scadenza.
Penso però che intanto questo maggiore rischio sistematico abbia anche un beneficio in termini di riduzione di alcuni rischi specifici.
Ho un’esposizione leggermente inferiore a Stati Uniti in generale elle Magnifiche 7 in particolare.
Ho un’esposizione leggermente più bilanciata rispetto a settori diversi dal tech.
Ho ancora una forte dipendenza dal dollaro sulla parte azionaria, ma una predominanza dell’euro su quella obbligazionaria.
Dopo tanto ragionarci sopra, ho deciso che mi sta bene così.
Inoltre l’idea è quella di perseguire una migliore “capital efficiency”, cioè usare strumenti che espongono ad un maggior rendimento a fronte di un maggior rischio implicito per migliorare complessivamente il profilo di rischio/rendimento del portafoglio.
Ne parlerò poi in un altro episodio perché il discorso si fa un filo tecnico, ma l’idea è quella di usare una sorta di leva indiretta, tramite appunto fattoriali, mercati più rischiosi e bond più lunghi, per diversificare il portafoglio senza sacrificare troppo rendimento.
Sempre MOLTO MOLTO MOLTO in teoria.
Sulla carta però, guardando indietro, sembra aver senso
Avevo già fatto vedere che negli ultimi 25 anni un portafoglio così avrebbe reso praticamente tanto quanto un 100% azionario globale, e nettamente meglio del classico 60/40 ma con una frazione del rischio e quindi un miglior rendimento aggiustato per il rischio
La domanda che ci potrebbe porre però è: oggi siamo in uno scenario più simile alla fine del 1999 o alla fine del 2014?
– Se guardiamo alle valutazioni azionarie, siamo decisamente vicinissimi a quelle del 1999
Vedete che a inizio millennio sia le azioni americane che quelle europee erano carissime, mentre oggi quelle americane si stanno pericolosamente avvicinando al livello monstre della dot-com bubble, mentre quelle europee sono ad un livello molto più basso.
– Se guardiamo invece al prezzo dell’oro, qui si che invece lo scenario si inverte
La corsa dell’oro negli ultimi 25 anni è stata impressionante, tanto che investire in oro nel 2000 avrebbe reso molto di più che nell’S&P 500
Quindi se devo pensare a cosa può andare storto nel portafoglio è un ritracciamento importante dell’oro dopo una lunga corsa.
Sarebbe però la prima volta che oro e azioni perdono valore contemporaneamente, mentre storicamente sono sempre stati molto indipendenti l’uno dall’altro e il grafico che abbiamo appena visto rende bene l’idea.
I CONSIGLI DI VICTOR HAGHANI
SECONDA CONSIDERAZIONE: si può far meglio?
Sicuramente sì — anche se poi “meglio” bisogna capire cosa significa.
Come dicevo all’inizio il buon Victor Haghani mi ha dato un feedback dettagliato.
Ovviamente sul 90% delle cose era d’accordo, soprattutto:
– Esposizione a mercati extra Stati Uniti
– Utilizzo dell’oro
– E le logiche di asset allocation.
E ci mancherebbe che non fosse così visto che attingo sempre a man bassa dalle cose che pubblica lui.
Le sue due microcritiche invece sono state queste:
Lui non è un grande fan dei fattoriali perché a suo dire non porterebbero abbastanza extra rendimento per compensare il rischio aggiuntivo e i costi aggiuntivi, visto che naturalmente un ETF fattoriale costa magari 10-15 basis point in più di uno classico.
L’altra critica è invece
È che avrebbe preferito dei bond indicizzati all’inflazione.
Un 10% di obbligazioni governative europee inflation linked potrebbe in effetti avere senso.
Le ho sempre però viste più come qualcosa di molto sensato in un portafoglio conservativo, orientato a generare income, che non in un portafoglio destinato ancora a lungo alla crescita.
Ma è una cosa su cui potrei considerare di fare un ragionamento a breve.
Bene cari miei, credo che ci siamo detti un po’ tutto.
Oggi abbiamo fatto la radiografia al mio portafoglio e spero che al di là delle decisioni che ho preso io, che contano come il proverbiale due di picche a briscola, tutto ciò sia stato utile per condividere dei ragionamenti che magari potreste valutare di fare con i vostri portafogli e che potrebbero portarvi a scelte diverse ma più adatte a ciascuna specifica situazione.
Fatemi sapere che ne pensate.
Prima di lasciarci vi invito come sempre iscrivervi al canale, mettere like e attivare le notifiche per supportarci e permetterci di continuare a produrre contenuti che ogni tanto continueranno a raccontarvi come investo i miei sempre nuovi.
Per questo episodio invece è davvero tutto e noi invece ci rivediamo nei prossimi video sempre qui naturalmente, con The Bull il tuo podcast di finanza personale.
Bentornati a The Bull — il tuo podcast di finanza personale.
In questa serie di video dedicati ai temi o più importanti o su cui c’è stato più interesse nel corso di questi oltre due anni, ce n’è ovviamente uno che non poteva mancare.
Personalmente lo ritengo forse il più inutile di tutti quanti.
Ma considerato il numero di domande che ho ricevuto sul tema, beh, direi che da questo punto di vista va proprio in cima nella classifica degli argomenti più gettonati, ossia: com’è fatto il mio portafoglio.
Personalmente non l’ho mai ritenuto qualcosa di così interessante, anche perché — come si dice — “say what you do and do what you say”, sarei un po’ psycho se dicessi nel podcast delle cose e poi investissi diversamente.
MA poi ciascuno è diverso, ogni situazione è specifica, le esigenze della mia famiglia non sono le stesse di altre famiglie e ho sempre avuto paura di dare la ricetta giusta per la malattia sbagliata.
Se però siete avidi ascoltatori di The Bull, oppure avete visto il 19 video prima di questo, allora penso che ciascuno di voi sia abbastanza attrezzato da non correre più il rischio di seguire ciecamente ciò che faccio io, avrà già abbastanza consapevolezza e spirito critico finanziario per non farsi troppo condizionare da quello che dirò.
A scanso di equivoci, comunque, il mio consiglio è concentrarsi più sul ragionamento dietro ogni decisione di investimento, che non tanto sugli strumenti in sé.
Oggi quindi parlerò sì di come è fatto il mio portafoglio, perlomeno a ottobre 2025.
Ma per rendere la cosa più interessante, diciamo che raccontare la mia asset allocation è più che altro un modo per raccontarvi come ragiono io rispetto a quelli che ritengo siano i temi più rilevanti in questo momento:
– Sia dal punto di vista del contesto di mercato;
– Sia dal punto di vista di ciò che ritengo utile per la vita della mia famiglia.
Esiste anche una versione audio di questo contenuto che risale a febbraio del 2025.
Da allora sono cambiate poche cose — com’è giusto che sia — però ovviamente in questo video ci sarà una grandissima differenza: vedremo una serie di cose che allora, ovviamente potevo solo farvi immaginare.
Naturalmente, patti chiari amicizia lunga: this is not financial advice.
E soprattutto non c’è nessun motivo per cui dobbiate pensare che quel che faccio io sia ottimale in senso assoluto. Quello che faccio con il mio portafoglio è ciò che penso vada bene per me ma sono certo che se facessi vedere il mio portafoglio a Eugene Fama, Meb Faber, John Campbell, Victor Hagahni o ai tanti altri altri ospiti che sono venuti e che verranno a breve a trovarci, ciascuno di loro potrebbe trovare qualcosa di migliorabile.
Anzi — questa cosa: l’ho fatta davvero!
Ho chiesto sia a Meb Faber che a Victor Haghani un feedback sul mio portafoglio, specificando che l’obiettivo sarebbe stato poi parlarne a livello generale con voi.
La risposta di Faber alla mia lunga e dettagliata email è stata
Va beh…
Utile, grazie meb…
Però è coerente con il personaggio.
Quando lo invitai l’anno scorso gli scrissi un altrettanto dettagliatissima email per spiegare The Bull, contenuti, obiettivi dell’intervista ecc. lui mi rispose:
È così, di poche parole.
Victor Haghani invece è stato splendido e mi ha mandato letteralmente un papiro, con pure i suoi partner in copia per partecipare alla discussione.
Alla fine di quest’episodio, vi dirò qual è stato il suo feedback.
Torniamo a noi
Ovviamente non esiste un portafoglio giusto. Esiste solo il portafoglio che ritengo sia giusto per me considerando:
– I miei obiettivi;
– Il mio orizzonte temporale;
– La mia tolleranza al rischio; e soprattutto
– Il punto di vista di mia moglie.
Quindi prendete tutto quello che dico come roba molto soggettiva, adatta — penso — al mio caso e non necessariamente al vostro e partite dal presupposto che su qualunque cosa io possa essere in errore.
Ah, ovviamente non parlerò di valori assoluti.
Però diciamo che il discorso di oggi va bene tanto per chi ha 50.000 € che 10 milioni.
Spoiler: non mi trovo a metà strada…
Però diciamo che i ragionamenti sono universali.
Chiaramente più capitale c’è, più ha senso fare certi adattamenti, all’inizio invece le opzioni sono un po’ più limitate
Bene, prima di addentrarci nei meandri del mio portafoglio, quest’episodio è realizzato in collaborazione con Fineco, che è la banca che utilizzo dal primo anno in cui ho cominciato ad investire i miei primi risparmi e su cui ora c’è la maggior parte del mio portafoglio.
Su Fineco si trovano centinaia di ETF a zero commissioni di iShares, Xtrackers, Amundi e Fidelity e il piano Replay per fare piani di accumo a basso costo con la possibilità di investire in qualunque giorno del mese, più volte al mese, un volta ogni più mesi, insomma quando vi pare, su ETF, ETC e ETN. Il mio pac in questo momento è su 8 ETF è pago circa 5€ al mese.
Per chi desiderasse aprire un conto con Fineco, sia un conto completo con tutti i servizi bancari a zero canone per 12 mesi, sia un conto trading dedicato esclusivamente agli investimenti, può trovare un link in descrizione che permette di avere le prime 60 operazioni gratis da effettuare nei primi 6 mesi.
COME DETERMINO L’ASSET ALLOCATION
Partiamo dall’asset allocation in generale.
Per comprendere al meglio tutta la teoria che ci sta dietro consiglio, per chi non l’avesse fatto, di guardarsi questo video qua.
Come abbiamo spiegato in quel video, la domanda più importante di tutte quando uno investe è “quanto del mio patrimonio dovrei investire in asset rischiosi” principalmente in azioni.
La risposta a questa domanda è una funzione di tre variabili:
– Il rendimento in eccesso atteso dal mercato azionario rispetto all’interesse senza rischio pagato per esempio da un titolo di Stato ad alto rating;
– Una misura oggettiva del rischio azionario — che solitamente è la sua deviazione standard; e infine
– Una misura soggettiva del rischio azionario, che è il mio coefficiente di avversione al rischio. Semplificando un po’ quello che dice la teoria finanziaria che supporta sta roba, il coefficiente di avversione al rischio è un numero tra 2 e 5 che attribuisco alle tre dimensioni del rischio:
– La mia tolleranza al rischio
– La mia capacità di assumermi rischio in base al mio orizzonte temporale e
– La mia necessità di assumermi rischio in base ai miei obiettivi.
Chiaramente, tutto ciò da adattare anche al valore presente del mio capitale umano.
– Se ho un lavoro e un reddito pressoché stabili, allora potrò permettermi maggior rischio con il mio portafoglio;
– Viceversa se il mio lavoro e il mio reddito sono più precari, dovrò tenerne conto.
Comunque tutta questa bella cosa qua è alla base della Teoria del Portafoglio di Merton, riassunta nella famosa formula, chiamata Merton Share, che dice quanto dovrei investire del mio capitale in asset rischiosi e che ha questa formula qua:
O più precisamente, questa qua
Chiara no?
Va beh, l’avevamo vista nell’altro video.
COME DETERMINARE IL RENDIMENTO ATTESO
Ora, come avevamo fatto là in generale, anche per il mio portafoglio bisogna cominciare stimando il rendimento atteso reale dell’asset azionario in eccesso al tasso senza rischio, che sarà la mia mu
No, non questa mu, questa mu
μ
Cioè il numeratore della nostra formula.
Come benchmark cosa uso?
il punto di partenza più logico è il portafoglio di mercato, quindi userò l’approssimazione più vicina che abbiamo, ossia un indice globale come l’MSCI All Country World.
Ora, per calcolare il rendimento reale atteso dall’MSCI All Country World abbiamo due strade:
– PRIMA STRADA: usiamo un modello basato sui rendimenti impliciti nel rapporto attuale tra prezzi e utili, come abbiamo spiegato nell’altro video, in cui in partica facevamo una media ponderata tra Earnings Yield e Cyclically Adjusted Earning Yield (CAEY). Grosso modo il rendimento reale atteso per il mercato azionario globale veniva circa 4,4%.
– SECONDA STRADA, ancora più facile, prendiamo quella di alcune autorevoli società di asset management serie. Le mie preferite sono AQR, Elm Wealth e Research Affiliates.
Anche queste tre più o meno convergono su un valore di circa 4,4% all’anno oltre l’inflazione. Ma volendo potete prendere anche Vanguard, Blackrock, JP Morgan ecc. La mia sensazione è che nelle prime ci sia un ragionamento strutturato dietro a quelle valutazioni basato su una profonda comprensione della teoria finanziaria. Le grandi case, invece, non sai mai se hanno qualche bias legato ai prodotti che vogliono vendere.
Cmq abbiamo circa 4,4% di rendimento medio annuale reale atteso per l’MSCI All Country World. Per quanto riguarda il tasso reale senza rischio, un media ponderata tra Titoli americani, tedeschi, e gli altri principali titoli di stato ad alto rating fa circa 1%.
Il nostro rendimento in eccesso, il mu che va al numeratore della formula di Merton è quindi circa 3,4%.
COME DETERMINARE IL RISCHIO
Al denominatore invece ci serve il quadrato della deviazione standard, che per l’MSCI ACWI negli ultimi anni la arrotondiamo a 15%.
15% al quadrato fa 0,0225 e abbiamo così il nostro valore per σ^2^
Infine arriva la parte più importante: devo decidere quanto rischio voglio prendermi da tre punti di vista:
– la mia tolleranza
– la mia capacità (in base al mio orizzonte temporale) e
– il rendimento che necessito (rispetto ai miei obiettivi).
Abbiamo detto la volta scorsa che possiamo assegnare valori da 2 a 5, dove 2 vuol dire massima propensione al rischio, 5 minima.
Nel mio caso cosa ho scelto:
– Tolleranza al rischio alta quindi disponibilità a sopportare anche drawdown di oltre il 40%;
– Capacità piuttosto elevata, dato che il mio orizzonte temporale è ancora lungo e i soldi del mio portafoglio non mi servono per nessuna spesa prevedibile per i prossimi anni, quindi ancora 2 (volendo potrei anche mettere 3, se aggiusto per il fatto che il mio reddito da lavoro non è stabile come se fossi un dipendente; dato che però mia moglie lo è ciò limita nettamente il rischio legato al nostro capitale umano);
– Il rischio che devo prendermi, invece, non è necessariamente elevato, qui posso accettare sicuramente 3.
RISCHIO Coefficiente di avversione al rischio (γ)
TOLLERANZA 2
CAPACITA’ 2
NECESSITA’ 3
Perfetto, ora che abbiamo tutti i dati, li metto nella formula e ottengo un’indicazione della quota di azioni che dovrei avere in portafoglio rispetto al totale del mio capitale investibile.
65% in azioni.
In realtà in questo momento il mio è più 67%, ma siamo lì, anche perché poi in realtà ho un po’ più cash di quel che dovrei visto che abbiamo una mezza idea di cambiare casa nel medio termine; a guardare tutto il patrimonio forse sono pure sottopesato sulle azioni.
Comunque, consideriamo solo il portafoglio investito in strumenti non monetari.
Cosa c’è dentro?
AZIONI AMERICANE
Partiamo dall’allocazione geografica.
Ovviamente dominano gli Stati Uniti, anche se per motivi che spiegherò tra poco e che chi segue The Bull da tanto già conosce, li sto sottopesando.
Nell’MSCI ACWI il loro peso sarebbe intorno al 64%
Mentre invece nel mio portafoglio sono al 51%.
Naturalmente 51% rapportato alla sola quota azionaria, non a tutto il mio portafoglio.
Ovviamente continuo a mantenere un significato sovvrappeso degli US rispetto agli altri mercati.
Però appunto c’è quasi un 13% in meno.
Perché ho preso questa decisione? Un’argomentazione dettagliata sul “peso degli USA” nel portafoglio si trova in questo video, ma intanto diamo una carrellata veloce dei tre motivi principali:
– PRIMO MOTIVO: le valutazioni sono molto elevate, cioè i prezzi delle azioni americane sono molto elevati rispetto agli utili. Ora, sappiamo tutti bene che ciò non ha alcun valore predittivo da un anno con l’altro. Ma nel lungo termine il prezzo a cui si compra un asset è il fattore più importante rispetto al suo rendimento atteso. Per semicitare Howard Marks , non basta comprare asset di qualità; conta anche il prezzo a cui si comprano. E i rendimenti futuri sono inversamente proporzionali ai prezzi di partenza.
E’ chiaro che lo Eugene Fama che è in me sa che i prezzi sono giusti e il mercato è generalmente efficiente. Ma lo stesso Gene Fama aveva già spiegato qui con Ken French che su orizzonti già di 3-5 anni si assiste ad una regressione vero la media piuttosto prevedibile dei rendimenti azionari. Altri personaggi straordinari come John Campbell e Robert Shiller misero poi una parola pressoché definitiva all’argomento, confermando che i mercati azionari sono soggetti a lente mean reversion, a regressioni verso la media e che i rendimenti futuri sono inversamente correlati ai prezzi iniziali rispetto agli utili. Tra l’altro John Campbell è stato recentemente nostro ospite nell’episodio 250 del podcast. Più i prezzi di oggi sono elevati, minore sarà il rendimento che ci si può aspettare futuro. Siccome il mercato americano è molto più costoso di quelli del resto del mondo, preferisco adottare una lieve riduzione del suo peso nel mio portafoglio.
– SECONDA MOTIVAZIONE: fin dal primo giorno o quasi di questo podcast vi ho smartellato i cosiddetti sull’importanza della diversificazione e sul perché gli ETF sono fighissimi per questo scopo. Certo è che se l’indice è fatto di 2.600 società, ma 10 aziende, di cui 9 americane e una che prospera quasi solo grazie a Nvidia, pesano per quasi un quarto del totale,
ecco indubbiamente l’elevata concentrazione nelle big tech fa venir meno un po’ di diversificazione. In quest’ottica, ridurre un po’ gli Stati Uniti nel mio portafoglio mi dà l’idea di essere maggiormente diversificato rispetto a singoli rischi idiosincratici. Ora, niente di decisivo eh? Perché quanto il mercato viene giù sappiamo bene che aumenta la correlazione tra le azioni. Come si dice: la diversificazione viene meno proprio nel momento in cui ti serve di più. Ma in termini di gestione del rischio, non di rendimento atteso, una maggiore diversificazione mi fa stare meglio.
– TERZA MOTIVAZIONE: ho trovato diversi studi, tra cui uno di Verdad
che spiegano che gli Stati Uniti hanno questo peso non solo per una questione tecnica di market cap, ma anche perché gli investitori hanno attribuito aspettative maggiori alla crescita delle società Americane rispetto agli altri paesi sviluppati e perché le aziende americane hanno più azioni in circolazione che possono essere scambiate, rispetto a Europa e Giappone. Se invece escludiamo questi due fattori e considerassimo solo gli utili che vengono generati, dato che di fatto investire in azione significa investire nel futuro cash flow che deriva dai profitti delle società sottostanti, secondo Verdad un portafoglio di Paesi Sviluppati realmente Market Cap Weighted dovrebbe essere 55% Stati Uniti e 45% Paesi Sviluppati. Se escludiamo i Paesi Emergenti, questo è il peso dei Paesi Sviluppati nel mio portafoglio.
Con gli emergenti diventa circa 51% Stati Uniti, 39% sviluppati, 10% emergenti.
Dovreste seguire quello che sto facendo? Assolutamente no. O meglio: boh. Non lo so. Non so se sia giusto sottopesare gli Stati Uniti. Nessuno ha la risposta naturalmente, altrimenti i prezzi di mercato si adatterebbero automaticamente. Ma nel mio caso trovo quest’impostazione equilibrata rispetto ai rischi di futuri rimorsi e rimpianti e coerente con l’idea teorica di regressione verso la media dei mercati più cari. Quindi per me va bene così.
Ora andiamo avanti un po’ più spediti, perché chiaramente questo 51% di Stati Uniti richiedeva un po’ di discussione.
AZIONI PAESI SVILUPPATI (ex UE)
Il secondo blocco per grandezza nel mio portafoglio azionario è rappresentato dai paesi sviluppati extra Unione Europa, con il 23%.
Parliamo prevalentemente di Giappone, Regno Unito, Svizzera, Canada, Australia e via dicendo.
Questo 22% è ottenuto con un mix di ETF su MSCI World, Stoxx 600, Eurostoxx 50 e MSCI Japan.
Il Giappone è il più pesante del gruppo.
Siamo intorno al 9% della parte azionaria, che è significativamente di più del 5% che occupa nell’MSCI ACWI. Anche il Regno Unito, con il suo 6,6%, ha praticamente un peso doppio rispetto a quello che avrebbe nell’MSCI ACWI.
Ovviamente se riduci gli Stati Uniti, gli altri Paesi acquistano peso meccanicamente.
Però in particolare Giappone e Regno Unito sono spesso visti ultimamente come mercati particolarmente interessanti sicuramente per le valutazioni molto basse. Per quanto riguarda il Giappone, poi, sono stata fatte na serie di riforme pro-imprese che potrebbero favorire la profittabilità delle società quotate rispetto al recente passato.
AZIONI PAESI EUROZONA
Il terzo blocco è invece l’Eurozona.
Nell’indice MSCI ACWI il blocco formato soprattutto da Francia, Germania, Italia, Spagna e Olanda non arriva neanche al 10%.
Io ho circa il 16% ottenuto aggiungendo un ETF sull’Eurostoxx 50.
Anche qui: in parte la percentuale è superiore sempre ad un indice globale perché ci sono meno Stati Uniti.
In generale sull’Europa ho dato un piccolo tilt, scegliendo di sovrappesare solo le grandi società Europee sin dai tempi in cui si parlava tanto delle Granolas, vi ricordate?
Era stata Goldman Sachs un po’ di anni fa a parlare delle Magnifiche d’Europa.
Granolas sta per: GSK, Roche, ASML, Novartis, L’oreal, Astrazeneca, Nestlé, Sap e Sanofi.
Con l’Eurostoxx 50 e lo Stoxx 600 si va inevitabilmente a concentrare la loro presenza nel portafoglio.
Insomma.
L’Europa non è un mercato esuberante e purtroppo è privo di grandi realtà tecnologiche lontanamente paragonabili a quelle americane.
Ma non è comunque un buon motivo per ritenerla un cattivo investimento in assoluto e forse pochi si sono davvero resi conto di questa cosa:
Negli ultimi 3 anni l’indice delle blue chip dell’Eurozona ha schiantato l’S&P 500: 67% di crescita contro 49%.
Non vuol dire niente, naturalmente — e al sottoscritto è andata solo di culo.
Però era solo per rimarcare due cose:
– Intanto che — anche in quest’era dominata dall’unica narrazione dell’onnipotente S&P 500 — in realtà non è sempre vero che questo sia sempre stato il miglior indice su cui investire;
– E poi che, come dicevamo prima, non conta solo il valore assoluto delle società, ma soprattutto quello relativo. I fondamentali contano, ma se parti da valutazioni estremamente basse contro valutazioni estremamente alte cose succede:
– Alle prime bastano poche notizie per crescere
– Alle seconde servono invece grandi notizie solo per mantenere quei livelli di prezzo.
Diciamo che personalmente volevo due cose:
– Volevo avere una certa esposizione azionaria in Euro, per limitare una parte del rischio cambio sul dollaro.
– Inoltre, avendo tantissimo tech con gli Stati Uniti, avere più Europa mi ha dato un tilt fattoriale indiretto verso realtà più tipicamente Value, vista la predominanza di settori tradizionali in Europa rispetto agli Stati Uniti e alle valutazioni generalmente basse.
AZIONI MERCATI EMERGENTI
Ultimo pezzetto di azionario, almeno a livello di ripartizione geografico, mercati emergenti.
Qui ho circa il 10%
Non è un’esposizione bassissima, perché rispetto all’MSCI ACWI ho probabilmente 2-3 punti percentuali in più.
Però non credo faccia una differenza sostanziale.
Sugli Emergenti ho una posizione abbastanza agnostica.
Non ho intenzione di spingere particolarmente, sono un po’ frenato dal rischio di natura geopolitica e non sono uno di quelli che è convinto che un domani Cina e India saranno necessariamente il nuovo centro del mondo.
In Cina avrò sì e no il 3% della componente azionaria.
Ogni tanto ha delle fiammate, soprattutto alimentate da interventi pubblici, ma resta pur sempre un paese con enormi limiti a livello giuridico, cosa che la rende un mercato meno investibile.
È vero, ha un PIL che si sta avvicinando a quello degli Stati Uniti, ma deve ancora dimostrare di riuscire ad avere un’economia competitiva tipica di un paese sviluppato, con un forte consumo interno (cosa che il simpaticissimo Xi Jinping non è che proprio veda di buon occhio vista la sua anima maoista).
E sappiamo anche tutti i problemi interni che ha: demografia stagnante, disoccupazione giovanile (presunta, visto che per risolvere il problema l’anno scorso il governo ha deciso di non pubblicare più il dato, lontano dagli occhi, lontano dal cuore) e poi c’è quella terribile crisi immobiliare latente che ha devastato la ricchezza privata di milioni di cinesi.
Semi parafrasando Winston Churchill, la democrazia e il capitalismo sono i peggiori sistemi che esistono.
Tranne tutti gli altri.
Comunque, dicevo, 10% sugli Emergenti, se un domani crescono bene, un piede ce l’ho.
Se continuano a rimanere un’eterna promessa come il Godot dei mercati finanziari globali, poco male, il danno al portafoglio non sarà clamoroso.
TILT FATTORIALI
Ora, prima di chiudere con la parte azionaria, ultima cosa.
Sappiamo che, in teoria, se io investo in un indice market-cap-weighted il fattore di rendimento e di rischio a cui sono principalmente esposto è il Beta, la sensibilità del portafoglio rispetto al mercato stesso.
Sta roba qua
Negli anni, però, Fama e French,
Jegadeesh e Titman,
Novy-Marx
e tanti altri hanno messo in evidenza il ruolo sistematico di altri fattori di rendimento che tendono ad essere persistenti, anche se con comportamenti molto diversi.
Per il mio portafoglio volevo quindi un’esposizione azionaria a diversi fattori di rischio e rendimento
Dei mille fattori che sono stati più o meno scovati, quelli che sembrano più accreditati e su cui c’è maggior consenso sono, cinque:
– Momentum,
– Value
– Profitability/Quality
– Size
– Low Volatilty
Su tutto questo discorso, naturalmente vi rimando a questo video in cui abbiamo visto i fattori più in dettaglio.
Breve recap:
– Momentum è il fattore che espone alle società che sono cresciute di più negli ultimi 12 mesi.
– Value si riferisce a società con basso prezzo rispetto al valore patrimoniale.
– Quality riguarda società con elevato ritorno sull’equity, basso indebitamento e bassa variabilità degli utili.
– Size espone a società small cap, secondo l’idea che storicamente le small cap incorporano un rischio maggiore e quindi pagano un premio superiore a chi ci investe.
– Low Volatily è la più strana delle anomalie e riguarda il fatto che società con minore volatilità hanno avuto in media un rendimento maggiore rispetto al mercato.
Ad un certo punto ho voluto dare un tilt al portafoglio per espormi a 3 di questi fattori.
3, perché ho scelto di non avere esposizione né alle small cap né a low volatilty.
Sulle small caps ho un bias negativo legato al fatto non so quanto gli indici small caps riescano davvero a estrarre efficacemente l’extra rendimento di questo fattore. Un po’ per come sono costruiti, un po’ perché negli ultimi anni le small cap più promettenti tendono a stare più a lungo non quotate con i fondi di private equity e un po’ perché viviamo in un’epoca in cui la scala, la dimensione, diventa sempre più importante per sopravvivere.
Ovviamente potrebbe non esserci niente di giusto in tutto ciò, ma per ora ho preferito così.
Sono un investitore da Large Cap.
Sono felice di prendermi il rischio di investire in azioni di grandi aziende, meno di prendermi del rischio ulteriore per investire in azioni di piccole società.
Alla fine uno investe anche in base a come è fatto.
Metto però un asterisco perché il fatto che ora siano disponibili in europa ETF su small caps di Avantis e a breve di Dimensional Fund, i due fuoriclasse mondiali su questo, potrebbe farmi cambiare idea.
Low Volatility invece più semplicemente faccio fatica a riconciliarlo con la teoria finanziaria.
L’effetto è noto e ben documentato, tipo qui
Ma mentre per Value, Momentum e Quality la teoria economica che ci sta dietro mi è sembrata coerente, il fatto che Low Volatilty sembri più un’anomalia comportamentale per cui gli investitori tenderebbero a pagare troppo per le società più correlate al mercato mi lascia più tiepido.
Anche qui vale come sopra.
Mio bias.
Elevata probabilità che mi sbagli.
Ora sappiamo bene che un ETF fattoriale fa solo in parte quello che ci aspettiamo perché è long-only, non ha la parte short che isola il fattore.
Ma come investitore retail non è che abbia molte altre opportunità per crearmi delle esposizioni fattoriali, quindi ho tagliato la testa al toro è ho investito in tre ETF fattoriali su MSCI World Momentum, Quality e Value, più o meno in parti uguali.
Un’alternativa forse ancora più pratica era usare un unico ETF mutlifactor su questi tre fattori come questo qua
In totale quindi circa un quarto della mia quota azionaria è su questi fattoriali.
Quando prima vi ho dato le percentuali geografiche avevo già tenuto conto anche del peso delle varie regioni dentro questi ETF, quindi questo 25 abbondante % è un di cui di quello che ho detto prima.
Soffermiamoci un secondo su questi tre.
Negli ultimi 10 anni è facile immaginare come siano andate le cose:
– Momentum ha dominato, crescendo di oltre il 300%;
– Quality ha fatto molto bene, 224%, circa un 6 punti percentuali in meno dell’MSCI World classico;
– Value, comprensibilmente, è rimasto indietro: +133%, metà dell’MSCI World.
Quality ha una forte concentrazione sugli gli Stati uniti, oltre il 70%. Momentum è sotto al 60%
In Value invece gli Stati Uniti hanno meno del 40% del peso e ben il 23% è attribuito al Giappone.
Se andiamo a prendere le prime 10 posizioni di ciascun indice, troviamo in effetti cose che non troveremmo tra i top 10 holding dell’MSCI World classico.
– in Momentum abbiamo per esempio società come Netflix, Palantir, Walmart, Berkshire Hathaway e Costco;
– in Quality troviamo: Vista, Mastercard, Eli Lilly e la rediviva General Electric;
– in Value invece tutte le prime 10 non si trovano tra le prime 10 dell’MSCI World.
Rispetto ai primi due, qui c’è una maggior concentrazione di realtà nel settore industriale, finanziario, media e nella tecnologia più tradizionale, come Cisco, Intel e Qualcom.
Una differenza abissale è anche nel rapporto tra prezzi e utili attesi:
– Momentum e Quality intorno a 21-22;
– Value 11.
Ricordiamoci sempre che investire in società con un rapporto tra prezzi e utili basso è teoricamente più rischioso, non meno rischioso, perché sto scommettendo sulle squadre sfavorite.
Rendono potenzialmente di più perché mi devo prendere anche più rischio.
Ma se penso che ad un certo punto le valutazioni alte avranno un impatto negativo sui rendimenti futuri, anche qui, un piedino su Value mi piaceva averlo.
E in effetti da inizio anno la scelta è sembrata vincente
Questo però deve sorprendere fino ad un certo punto.
Anche negli ultimi 5 anni, Value si sarebbe rivelato l’investimento migliore, anche se probabilmente questa sovraperfomance non è stata continua ma figlia di alcuni momenti concentrati, come il rimbalzo dopo il Covid o la miglior reazione alle vicende politiche americane di inizio anno rispetto agli altri fattori.
Fine della parte azionaria
Breve recap:
51% Stati Uniti
16% Unione Europea
23% Altri Sviluppati
10% Emergenti
A livello di fattori invece più o meno sarebbe così:
¾ market cap weighted
¼ fattoriale
Scusate se vi aspettavate qualcosa di più frizzante.
Ma come dicevo uno investe così com’è.
E io sono piuttosto noioso.
ORO
Bene, fatte le azioni, che erano il capitolo di gran lunga più impegnativo, passiamo alle altre asset class.
Abbiamo detto che il 67% circa del portafoglio è in Azioni.
Il restante 33% è invece fatto così:
– 25% è in obbligazioni,
– 8% è in oro.
Prima domanda, che peraltro mi faccio da solo.
Se la formula di Merton dava 65 o 67% in azioni, perché nella quota senza rischio ci ho ficcato dentro l’oro?
Avrei dovuto fare prima spazio all’oro e poi riproporzionare la quota di azioni e obbligazioni.
In realtà il mio ragionamento è questo:
– La parte che non è azioni è per diversificare il comportamento delle azioni;
– Oro e obbligazioni svolgono questo ruolo in momenti diversi;
– Ero disposto a prendermi un maggior rischio per un maggior rendimento atteso
Facendo dei backtest sugli ultimi 20 anni risultava una combinazione migliore in termini di rendimento aggiustato per il rischio, soprattutto nei periodi più critici.
L’oro non ha avuto una presenza stabile nel mio portafoglio.
E qui mi costituisco spontaneamente e denuncio il mio comportamento sciagurato, di chi predica bene e razzola male.
Avevo circa il 5% di oro fino all’ottobre del 2023, che forse qualcuno ricorderà che era stato un momento piuttosto teso perché erano esplosi i soliti, ciclici timori sul debito americano alle stelle.
Comunque allora cosa pensai: vendo oro e compro S&P 500.
Col senno di poi è stata una buona idea?
Insomma.
Fino a gennaio ancora ancora
Oggi decisamente no…
E mi sta bene.
Per una cazzata fatta — non grave per l’amor del cielo — però ancora una volta la dimostrazione che il mercato ne sa più di me, dicevo per una cazzata fatta, almeno poi ho indovinato una cosa buona.
Fino a novembre avevo 5% in obbligazioni High Yield.
Poi subito dopo l’elezione di Trump l’oro ha avuto un momento di ripiego, passando da 2.800 $ l’oncia a circa 2.560.
Nonostante odi l’oro come investimento mi rodeva continuare a vederlo correre così tanto e quindi mi sono detto: ora o mai più.
Una mattina a metà novembre l’oro era ancora sotto i 2.600, gli High Yield invece rendevano solo leggermente di più di un Treasury nonostante il rischio molto più alto — che è il modo con cui si dice che i bond sono cari — quindi via High Yield e ho comprato l’equivalente di circa il 5% del mio portafoglio di oro.
A sto giro decisamente meglio.
Ma la lezione è sempre la stessa: fare market timing è fottutamente difficile.
Trova l’asset allocation per te, ribilancia e non fare altro, almeno non ti vengono i rimpianti come al sottoscritto di non essere andato a farsi un giro nell’ottobre del 2023 invece che giocare al piccolo Jim Simons.
Poi, un po’ è cresciuto ancora lui, un po’ ho continuato a investire io, tant’è che adesso ho l’8% e penso di salire pian piano fino al 10%.
Forse un’allocazione target per me alla fine potrebbe essere 65% azioni, 25% obbligazioni, 10% oro.
OBBLIGAZIONI
Veniamo infine alle vostre amate obbligazioni.
In realtà qui molto easy.
Il grosso sono obbligazioni governative e un pochino di corporate europee, un po’ meno di 3/4 del totale.
Il resto sono fondamentalmente treasury e qualcos’altro sempre di paesi sviluppati.
Sulle obbligazioni, comunque, val la pena secondo me considerarle divise in due macroblocchi, in base alla duration.
Infatti ho due terzi in obbligazioni a scadenza intermedia, con duration intorno a 6-7 anni, e un terzo in obbligazioni governative europee a lunga scadenza, con duration media intorno a 16.
Non ho obbligazioni a lunga scadenza in valute diverse dall’Euro perché già con le lunghe scadenze mi prendo il rischio duration e non volevo sommargli anche il rischio valuta.
Anche qui, è tutto piuttosto banale e non ci sono idee geniali.
Le obbligazioni intermedie sono la quota, tra molte virgolette, a basso rischio del portafoglio.
Le obbligazioni a lungo termine, invece, le avevo comprate piuttosto bene ma hanno poi sofferto molto l’aumento dei rendimenti sulla parte lunga della curva in Europa dopo che la Germania a Marzo aveva annunciato che si sarebbe indebitata come mai nella vita per finanziarie riarmo e crescita.
I bond lunghi hanno però due cose buone, per me almeno:
– Il loro YTM oggi è 3,7%, quindi è vero che hanno sofferto parecchio, ma con tassi di mercato che sono saliti ok che i prezzi sono scesi ma sono pure saliti i rendimenti futuri. Questo è compatibile con un portafoglio di lungo termine.
– Inoltre in caso di recessione sono molto utili.
Ci sarebbe un terzo discorso di “capital efficiency”, ma ne parliamo alla fine.
Ovvio che i bond lunghi hanno anche un rischio opposto: in caso di un nuovo picco di inflazione — o comunque se gli investitori si preoccupano della tenuta a lungo termine dei debiti pubblici, questi vengono già che è un piacere.
Però insomma, è normale che ci siano sempre parti del portafoglio che funzionano meglio e altre meno.
Quello che conta è il “Total portfolio approach”, cioè una visione in cui l’unica cosa importante è che il portafoglio funzioni nel suo complesso, senza cadere nel cosiddetto “line-item thinking”, cioè guardare ogni singola riga del portafoglio in maniera isolata dal resto.
Sarebbe come essere in aereo e dire: “ma cosa li mettono a fare i salvagente se tanto non precipitiamo mai?”
Nei primi 9 mesi di quest’anno il beneficio della diversificazione, sia in termini di asset class che di regioni geografiche, si è visto tutto.
L’oro è stato di grand lunga l’asset class più performante, così come decisamente bene hanno fatto il mercato dell’Eurozona e in generale quello dei mercati sviluppati ex Stati Uniti.
I bond governativi europei intermedi sono rimasti piuttosto flat mentre l’onnipotente S&P 500 è ancora leggermente in negativo nel momento in cui stiamo registrando soprattutto per effetto del tracollo del dollaro rispetto all’euro.
QUAL È IL LIVELLO DI RISCHIO DEL MIO PORTAFOGLIO?
Ora, prima di chiedere, 3 considerazioni.
PRIMA CONSIDERAZIONE: qual è il livello di rischio del mio portafoglio?
Probabilmente ha un livello di rischio sistematico superiore a quello che avrebbe un portafoglio con la stessa asset allocation ma più, diciamo, plain vanilla e market cap weighted.
Quali sono gli elementi che lo rendono più rischio?
– I fattoriali, per definizione se tilti un portafoglio verso un fattore, l’eventuale, e sottolineo eventuale, extrarendimento viene al costo di un extra rischio (quasi certo).
– Il fatto di sovrappesare leggermente alcuni mercati con valutazioni inferiori.
– E infine le obbligazioni a lunga scadenza.
Penso però che intanto questo maggiore rischio sistematico abbia anche un beneficio in termini di riduzione di alcuni rischi specifici.
Ho un’esposizione leggermente inferiore a Stati Uniti in generale elle Magnifiche 7 in particolare.
Ho un’esposizione leggermente più bilanciata rispetto a settori diversi dal tech.
Ho ancora una forte dipendenza dal dollaro sulla parte azionaria, ma una predominanza dell’euro su quella obbligazionaria.
Dopo tanto ragionarci sopra, ho deciso che mi sta bene così.
Inoltre l’idea è quella di perseguire una migliore “capital efficiency”, cioè usare strumenti che espongono ad un maggior rendimento a fronte di un maggior rischio implicito per migliorare complessivamente il profilo di rischio/rendimento del portafoglio.
Ne parlerò poi in un altro episodio perché il discorso si fa un filo tecnico, ma l’idea è quella di usare una sorta di leva indiretta, tramite appunto fattoriali, mercati più rischiosi e bond più lunghi, per diversificare il portafoglio senza sacrificare troppo rendimento.
Sempre MOLTO MOLTO MOLTO in teoria.
Sulla carta però, guardando indietro, sembra aver senso
Avevo già fatto vedere che negli ultimi 25 anni un portafoglio così avrebbe reso praticamente tanto quanto un 100% azionario globale, e nettamente meglio del classico 60/40 ma con una frazione del rischio e quindi un miglior rendimento aggiustato per il rischio
La domanda che ci potrebbe porre però è: oggi siamo in uno scenario più simile alla fine del 1999 o alla fine del 2014?
– Se guardiamo alle valutazioni azionarie, siamo decisamente vicinissimi a quelle del 1999
Vedete che a inizio millennio sia le azioni americane che quelle europee erano carissime, mentre oggi quelle americane si stanno pericolosamente avvicinando al livello monstre della dot-com bubble, mentre quelle europee sono ad un livello molto più basso.
– Se guardiamo invece al prezzo dell’oro, qui si che invece lo scenario si inverte
La corsa dell’oro negli ultimi 25 anni è stata impressionante, tanto che investire in oro nel 2000 avrebbe reso molto di più che nell’S&P 500
Quindi se devo pensare a cosa può andare storto nel portafoglio è un ritracciamento importante dell’oro dopo una lunga corsa.
Sarebbe però la prima volta che oro e azioni perdono valore contemporaneamente, mentre storicamente sono sempre stati molto indipendenti l’uno dall’altro e il grafico che abbiamo appena visto rende bene l’idea.
I CONSIGLI DI VICTOR HAGHANI
SECONDA CONSIDERAZIONE: si può far meglio?
Sicuramente sì — anche se poi “meglio” bisogna capire cosa significa.
Come dicevo all’inizio il buon Victor Haghani mi ha dato un feedback dettagliato.
Ovviamente sul 90% delle cose era d’accordo, soprattutto:
– Esposizione a mercati extra Stati Uniti
– Utilizzo dell’oro
– E le logiche di asset allocation.
E ci mancherebbe che non fosse così visto che attingo sempre a man bassa dalle cose che pubblica lui.
Le sue due microcritiche invece sono state queste:
Lui non è un grande fan dei fattoriali perché a suo dire non porterebbero abbastanza extra rendimento per compensare il rischio aggiuntivo e i costi aggiuntivi, visto che naturalmente un ETF fattoriale costa magari 10-15 basis point in più di uno classico.
L’altra critica è invece
È che avrebbe preferito dei bond indicizzati all’inflazione.
Un 10% di obbligazioni governative europee inflation linked potrebbe in effetti avere senso.
Le ho sempre però viste più come qualcosa di molto sensato in un portafoglio conservativo, orientato a generare income, che non in un portafoglio destinato ancora a lungo alla crescita.
Ma è una cosa su cui potrei considerare di fare un ragionamento a breve.
Bene cari miei, credo che ci siamo detti un po’ tutto.
Oggi abbiamo fatto la radiografia al mio portafoglio e spero che al di là delle decisioni che ho preso io, che contano come il proverbiale due di picche a briscola, tutto ciò sia stato utile per condividere dei ragionamenti che magari potreste valutare di fare con i vostri portafogli e che potrebbero portarvi a scelte diverse ma più adatte a ciascuna specifica situazione.
Fatemi sapere che ne pensate.
Prima di lasciarci vi invito come sempre iscrivervi al canale, mettere like e attivare le notifiche per supportarci e permetterci di continuare a produrre contenuti che ogni tanto continueranno a raccontarvi come investo i miei sempre nuovi.
Per questo episodio invece è davvero tutto e noi invece ci rivediamo nei prossimi video sempre qui naturalmente, con The Bull il tuo podcast di finanza personale.
Recensioni
Quando capisci come funziona la finanza… ti viene voglia di raccontarla!
Da quando l'ho scoperto in 15 gg mi sono ascoltato 150 puntate senza fermarmi, ho annullato gli altri podcast per portarmi alla pari ed ascoltare tutte le precedenti puntate, ben fatto, esattamente il livello di informazione che mi serviva
Gianluca G., 11 Set 2025Veramente interessante, chiaro e conciso. Cambia la vita finanziaria di chiunque.. da ascoltare assolutamente anche per chi di finanza non vuole occuparsi mai
Francesca B., 6 Apr 2024Podcast piacevole, scorre veloce ma in modo estremamente chiaro, spiega i concetti chiave per gestire le proprie finanze, fornendo la classica cassetta degli attrezzi. Complimenti, davvero ben fatto!
Massimiliano, 29 Mag 2024Podcast che dà sempre spunti interessanti che personalmente mi ha fatto appassionare alla finanza personale spingendomi ad approfondire in prima persona.
Lorenzo, 13 Mar 2025Dovrebbero ascoltarlo buona parte degli italiani e io avrei dovuto scoprirlo con qualche anno in anticipo ma meglio tardi che mai
Matteo C., 3 Set 2025Ho seguito tutte le puntate! Grazie veramente
Amalia A., 17 Set 2025Riccardo mi ha letteralmente cambiato la vita e fatto scoprire che amo la finanza, ho ascoltato il podcast già due volte e non mi stufo mai di ascoltarlo, parla in modo semplice e chiaro
Massimo D., 23 Set 2025Ho acquistato e letto il suo libro e l' ho trovato. Esprime i concetti economici in modo semplice e chiaro. Sentirlo parlare conferma che è un professionista del settore.
Giulia N., 11 Ago 2025Non sono solito a mettere recensioni e specialmente non ascolto podcast, ma da quando ho iniziato questo, faccio fatica a staccarmi, e quasi non posso più fare a meno di ascoltare e arricchirmi culturalmente.
Andrea V., 22 Set 2025