La Guida completa all’investimento fattoriale
Che cosa significa investire in fattori? Value, Momentum, Size, Quality, Low Volatility: cinque pilastri dell’investimento fattoriale spiegati con esempi e dati concreti. Capire come questi fattori influenzano i rendimenti e come possono essere integrati nella propria strategia è fondamentale per costruire portafogli efficienti nel lungo periodo.
Risorse
Punti Chiave
Il Factor Investing consiste nel sovrappesare azioni con caratteristiche specifiche (fattori) per ottenere un potenziale extra-rendimento (Value, Momentum, Quality, Size, Low Volatility).
L'extra-rendimento fattoriale non è gratuito, ma compensa il rischio aggiuntivo assunto (Risk Based) o l'investimento in controtendenza (Comportamentale).
La combinazione di più fattori (es. Value e Momentum) può migliorare il rendimento aggiustato per il rischio nel lungo periodo.
Contenuti del video
- 00:00 Guida completa all’investimento fattoriale
- 02:30 La teoria finanziaria tradizionale
- 04:34 Il CAPM
- 09:16 La scoperta dei fattori
- 16:07 Investimento fattoriale
- 17:33 Perché funzionano: chi c’è dall’altra parte?
- 24:27 Combinazione di più fattori
- 27:51 Il limite degli etf fattoriali
- 29:03 Performance storiche
- 35:04 Come combinare i fattori
- 00:00 Guida completa all’investimento fattoriale
- 02:30 La teoria finanziaria tradizionale
- 04:34 Il CAPM
- 09:16 La scoperta dei fattori
- 16:07 Investimento fattoriale
- 17:33 Perché funzionano: chi c’è dall’altra parte?
- 24:27 Combinazione di più fattori
- 27:51 Il limite degli etf fattoriali
- 29:03 Performance storiche
- 35:04 Come combinare i fattori
Trascrizione Video
Bentornati a The Bull, il tuo podcast di finanza personale.
Di tutti i singoli temi che potremmo discutere in questo podcast, cari miei, c’è poco da fare: questo è inevitabilmente il tema dei temi.
Ci piaccia o non ci piaccia, la finanza è soprattutto un fatto americano.
E quindi capire quanto effettivamente abbia senso essere esposti al mercato azionario più bello del mondo, l’equivalente finanziario della nostra serie A negli anni ’90, è alla base di una delle decisioni più importanti e impattanti che come investitori saremo chiamati a prendere.
Del resto, quando il 64% del tuo portafoglio azionario è concentrato su società americane
e di questo 64% oltre un terzo è composto solo da 10 società,
il dubbio è quanto meno legittimo.
Ok se prendiamo i singoli mercati nazionali per esempio europei, gli indici sono moooolto più concentrati,
Se però già prendiamo un miglior termine di confronto con un mercato immenso come l’S&P 500, come ad esempio lo Stoxx 600, l’indice delle 600 più grandi società europee, già vediamo che qui la concentrazione è molto più bassa.
Ora, non è che la concentrazione in sé sia un problema.
Però è ovvio che più un mercato è concentrato, soprattutto concentrato in particolare in un macro settore, come quello tecnologico, più aumentano i rischi idiosincratici, che non sono remunerati dal mercato.
Ma il discorso della concentrazione e della sua potenziale problematicità non è l’unico.
Ci sono diversi motivi che sollevano degli interrogativi sull’opportunità di investire in un portafoglio rigorosamente market-cap weighted.
Oggi parleremo di questo.
Ovviamente non avrò una risposta conclusiva alla fine dell’episodio ma l’idea è piuttosto quella di mettere sul tavolo tutti i ragionamenti che ho fatto BARRA preso da persone immensamente più intelligenti di me e lasciare poi a ciascuno di voi, in base alla propria sensibilità, tirare le proprie legittime conclusioni.
Dunque, la domanda di partenza è: investiamo il 64% dei nostri portafogli azionari negli Stati Uniti come prevedono gli indici Market cap weighted replicati dai miei etf globali, oppure è il caso di fare altri ragionamenti?
Il Market portfolio: il punto di partenza dell’investitore
Prima di provare a rispondere, dichiariamo più forte possibile una cosa.
Un indice come l’MSCI All Country World è il naturale punto di partenza di qualunque investitore globale, perché si basa sull’idea che i mercati siano generalmente efficienti nell’allocazione dei capitali e nel prezzare il rapporto rischio/rendimento di tutti gli asset quindi, in ogni momento, l’allocazione base da cui partire è quella del portafoglio di mercato, e l’MSCI All Country World o il FTSE All World ne sono una ragionevole approssimazione.
La premessa teorica di questo discorso è duplice:
– Una è il Capital Asset Pricing Model, che dice che il portafoglio di mercato è per definizione quello con il miglior rapporto tra rendimento e rischio;
– L’altra è l’ipotesi dei mercati efficienti, in base a cui i prezzi degli asset riflettono tutte le informazioni disponibili. Di conseguenza l’attuale configurazione del mercato, con quei pesi lì su quelle aziende lì, è la migliore rappresentazione possibile della media di tutte le informazioni, le opinioni, le previsioni e le preferenze soggettive di tutti gli investitori.
Che a livello globale, in questo momento, è grosso modo questa qua:
Circa 64% Stati Uniti
Circa 26% Altri Paesi Sviluppati
Circa 10% Mercati Emergenti
Ok?
Quindi se volete investire con un approccio completamente passivo, l’MSCI ACWI o il FTSE ALL WORLD sono la migliore approssimazione possibile di un portafoglio globale di mercato, ciò che meglio dovrebbe sposare i sacri dettami di San Jack Bogle e di tutta la filosofia dell’investimento indicizzato.
Con un caveat però.
Bogle, Buffet, Fama, Malkiel, tutti questi mostri sacri che hanno sempre detto: compra il mercato e non fare altro, quando dicevano “mercato” si riferivano allo US Stock Market e parlavano a investitori americani che guadagnano e spendono in dollari.
Per noi il discorso è un po’ diverso.
A volerlo applicare alla lettera dovremmo investire solo nel mercato dell’Eurozona, ma non sono convinto che sia una buona idea, perché è un mercato più piccolo, meno diversificato, meno profondo e liquido, privo di grandi aziende esposte ai settori più innovativi, insomma, non un benchmark ideale.
L’S&P 500 viene spesso chiamato “IL MERCATO” perché, al di là del fatto che è gigante, non esiste nessun altro mercato “locale” al mondo che rappresenta in maniera così vasta tutta l’economia: nell’S&P 500 ci sono tutti i settori, con top player globali in praticamente ogni settore e con un 40% buono di ricavi che arrivano dall’estero.
È ragionevolmente una buona approssimazione del “MERCATO” in generale.
Però noi non siamo il John Doe dell’Oregon che riceve settimanalmente il suo paycheck in dollari e ne versa una parte nel suo index fund sull’S&P 500 di vanguard, noi europei ci prendiamo una serie di incognite in più: non siamo cittadini americani e non guadagniamo e spendiamo in dollari.
D’altra parte ha anche poco senso investire solo nel mercato dell’Eurozona, perché sarei portato a dire che i benefici dell’assenza del rischio cambio sarebbero sovrastati dai limiti delle società in cui andremmo ad investire.
La nostra migliore approssimazione del mercato diventa quindi il mercato globale, come potrebbe essere rappresentato appunto dall’MSCI ACWI, dal FTSE All Wordl, o dalle relative versioni senza mercati emergenti se per qualche motivo vi stanno sulle palle.
Poi, che le variabili valutarie abbiano un impatto positivo, negativo o neutro è difficilissimo da misurare.
Dovremmo tenere conto sia delle conseguenze sulle valutazioni dei nostri asset denominati in altre valute sia degli effetti economici reali, perché magari la svalutazione di una valuta ha un effetto negativo sul nostro portafoglio, ma può avere un effetto positivo su società che esportano e che quindi vedranno i loro profitti in quella valuta più alti, facendo salire il prezzo delle proprie azioni.
Comunque, al di là di questo, in assenza di altre valutazioni il Market Portfolio, il portafoglio più rappresentativo di tutto il mercato azionario globale pesato per capitalizzazione, è il benchmark di partenza naturale dell’investitore medio.
Dal 1987 ad oggi, da quando MSCI tiene raccoglie i dati, l’indice ha reso, in dollari, circa l’8,6% medio composto all’anno, evviva evviva se anche nei prossimi 38 anni farà lo stesso.
Pochi sono così ottimisti, ma anche fosse 7, 6, 5% all’anno per 38 anni non credo che qualcuno si lamenterà troppo.
Se oggi investo 10.000 € tra 38 anni saranno 6 volte tanto con un rendimento del 5% all’anno o 13 volte tanto con un rendimento del 7% all’anno.
C’è una grossa differenza tra i due, ma saremmo felici in entrambi i casi.
Detto questo, però, e senza rinnegare nulla di tutto quel che abbiamo sempre detto in questo podcast, di investire in indici, di non prendere decisioni discrezionale, e tutto il resto — ecco: questo non significa che replicare un indice pesato per capitalizzazione sia l’unica decisione corretta da prendere sotto ogni punto di vista.
Noi potremmo infatti adattare l’esposizione al mercato azionario globale seguendo criteri sistematici non arbitrari, in base agli obiettivi che vogliamo conseguire.
Attenzione che questo non implica necessariamente un rendimento atteso maggiore.
Questo è impossibile saperlo ex ante.
Quello che noi cerchiamo è un miglioramento del profilo di rischio del nostro portaglio o, se vogliamo, una diversa gestione di alcuni aspetti del rischio complessivo del portafoglio.
Detto questo, quali sono i due temi principali che possono portare alla riconsiderazione di un portafoglio puramente market cap weighted — e quindi del peso esorbitante degli Stati Uniti in esso?
Ovviamente sono i soliti indiziati:
– Le valutazioni attuali, ciò il prezzo relativo delle azioni americane rispetto agli utili che generano
– E il futuro del dollaro.
Primo problema: le valutazioni azionarie elevate
Partiamo dunque con il primo tema, le valutazioni elevate.
Per chi fosse capitato qui per sbaglio e non sapesse di che cacchio sto parlando, quando si parla di valutazione azionaria ci riferiamo a quella bestia mitologica nota come Price / Earnings ratio, ossia il rapporto tra il prezzo dell’azione, o di un intero indice, e gli utili per azione che la società genera che in media generano tutte le società dell’indice.
A volte si usano gli utili degli ultimi 12 mesi, altre volte quelli dei 12 mesi successivi, altre volte ancora si usa una versione sotto steroidi chiamata Cyclically Adjusted Price Earning Ratio, per gli amici CAPE ratio, inventata dal premio Nobel Robert Shiller e John Campbell,che in pratica fa prezzo diviso la media degli utili degli ultimi 10 anni aggiustata per inflazione.
Sono tutti indicatori profondamente imperfetti, però in qualche modo sul lungo termine non sono completamente inutili e danno una qualche idea di quanto sia caro il mercato azionario in un certo momento e dei rendimenti attesi nel futuro
Per ulteriori dettagli su questa roba vi rimando a questo video qui.
Perché è importante capire se sia caro o meno?
Perché bisogna ricordarsi che un’azione non è altro che un diritto sugli utili futuri della società in cui abbiamo investito.
Il prezzo a cui acquistiamo oggi un’azione è il valore presente dei flussi di cassa futuri attualizzati ad un tasso corrispondente al rendimento che mi aspetto — ossia al rischio che ci vedo.
Pertanto, il mio rendimento sarà molto diverso se per ricevere quei flussi di cassa futuri pagherò 50, 100 o 150 dollari la stessa azione.
Quindi un modo comodo per farsi un’idea di quanto sia cara un’azione o l’intero mercato azionario in media, si guarda appunto al rapporto tra il prezzo e gli utili.
Ora, in sé e per sé sta il rapporto tra prezzo e utili non è che dica molto, perché il mercato è generalmente efficiente; quindi se il P/E ratio in un certo momento è molto basso vuole dire o che gli investitori in aggregato hanno scarsa fiducia nella capacità delle società di quel mercato di generare utili o considerano quel mercato particolarmente rischioso — di conseguenza saranno disposti a pagare poco per investire. Viceversa un P/E alto testimonia un grande ottimismo e fiducia verso la capacità di un mercato di generare utili nel futuro o che quel mercato appare poco rischioso — di conseguenza gli investitori saranno disposti a pagare tanto per investirci.
Quindi il fatto che un mercato abbia un prezzo più alto e un altro uno più basso di per sé non vuol dire nulla.
Dice solo che, in teoria, se voglio scommettere su quello più caro guadagnerò poco ma con maggiore probabilità, mentre se scommetto su quello più economico guadagnerò tanto ma con minore probabilità.
Come diciamo spesso, quando sentite qualcuno dire: “attenzione il mercato è sopravvalutato” eeehhhrrrgggg [sirena], risposta sbagliata.
Puoi solo dire che è caro rispetto alla media, non che è sopravvalutato.
Se oggettivamente fosse troppo caro il mercato cambierebbe immediatamente tutti i prezzi.
Possiamo dare solo descrizioni quantitative, non qualitative.
Solo con il senno di poi si può affermare questa cosa, ma principalmente perché subentrano delle nuove informazioni che prima non avevamo.
In questo momento le azioni dell’S&P 500 costano in media 23 volte gli utili attesi nei prossimi 12 mesi è il CAPE ratio ha raggiunto livelli da quasi picco della dot-com bubble a 40.
È tanto? Sì rispetto alla media storica è tanto.
È troppo? Non si sa.
Da una parte forse sì, perché rispetto agli utili attesi le azioni americane costano un buon 30-35% in più di quel che costano in media le azioni degli altri Paesi Sviluppati. Questo significa che sono riposte altissime aspettative nella continua capacità delle aziende americane di generare maggiori utili anche nel futuro.
E se guardiamo al rapporto tra prezzi e utili passati, il CAPE Ratio americano è passato da essere la metà di quello dei Paesi Sviluppati ex Stati Uniti alla fine degli anni 80 ad essere quasi il doppio oggi.
Questo cosa significa?
Uno solitamente è portato a dire: “eh beh, però sono 40 anni che il mercato americano sovrasta gli altri mercati con una superiorità schiacciante”.
10.000 dollari investiti quando sono nato io, nel 1986, nell’S&P 500 o nell’indice dei Paesi sviluppati ex Stati Uniti sarebbero diventati 680.000 nel primo caso e appena 161.000 nel secondo.
Stiamo parlando di un rendimento medio composto all’anno di oltre l’11% contro poco più del 7%.
Però bisogna anche guardare cosa ha determinato questi rendimenti.
Il rendimento azionario, come sappiamo, dipende da tre cose:
– Dai dividendi distribuiti
– Da quanto crescono gli utili e
– Da quanto crescono le valutazioni — cioè da quanto diventa più o meno cara un’azione rispetto agli utili che la società sottostante genera.
Buona parte della sovraperformance americana di questi 40 anni dipende dal fatto che le azioni americane sono diventate più costose.
Gli utili delle azioni americani sono storicamente cresciuti ad un tasso superiore rispetto a quelle degli altri Paesi, nell’ordine di circa un 1% in più all’anno.
Ma i prezzi delle azioni americane sono cresciute di oltre il 2% in più all’anno.
Il fatto che le azioni americane siano diventate sempre più costose per enne motivi spiega buona parte dei motivi per cui l’S&P 500 ha portato questi rendimenti sensazionali.
Ci sono appunto tanti motivi assolutamente legittimi per cui questa cosa è successa:
– Società più tecnologiche e meno industriale generano più utili;
– ETF e index fund hanno permesso a molte più persone di investire nelle azioni americane facendo salire le valutazioni;
– I costi per investire si sono polverizzati e lo stesso fatto di investire è diventato (o viene percepito) come meno rischioso che in passato, di conseguenza gli investitori oggi sono disposti a pagare prezzi più alti che in passato.
Aggiungiamo poi i tassi a zero, gli stimoli monetari, le riforme fiscali, tutto quanto.
Però una volta che le valutazioni sono così alte, c’è quasi una conseguenza meccanica da tenere a mente.
Gli utili delle società americane devono crescere ad un tasso più alto di quelli delle società degli altri paesi per le relative azioni diano lo stesso rendimento.
Antti Ilmanen ha calcolato che gli utili per azione negli stati uniti devono crescere oltre 2 punti percentuali in più all’anno nei prossimi 10 anni per dare lo stesso rendimento delle società nei mercati ex Stati Uniti.
Quindi attenzione: il fatto che i prezzi delle società americane sono altissime non vuol dire che per forza succederà qualcosa di brutto.
Ma se volgiamo scommettere che anche nel prossimo decennio continueranno a sovraperformare gli altri mercati, sarà necessario che la crescita degli utili continui ad essere sensazionale anche in futuro.
Questa cosa non è impossibile, però ci sono numerosi studi, tra cui uno famoso di Fama e French del 1997, che illustrano bene che una crescita abnorme dei profitti non dura per sempre, anzi tende a regredire in maniera quasi chirurgica, tanto più quanto la crescita passata è stata elevata (o disastrosa, perché vale anche al contrario)
Teniamo conto che ad oggi le valutazioni delle azioni americane stanno presupponendo:
– Zero impatto dalla politica protezionistica di Trump e dei dazi;
– Zero probabilità di recessione;
– Continuo aumento del ritmo di crescita degli utili anche nei prossimi trimestri.
Non è che queste cose siano impossibili naturalmente, ma siamo nell’ambito del “priced for perfection”.
Sappiamo però anche che le aspettative sugli utili sono — per così dire — prevedibilmente irrazionali.
Nicola Gennaioli professore di Finanza Comportamentale alla Bocconi, dottorato alla Harvard e forse uno dei professori italiani più accreditati a livello internazionale, ha lavorato con una leggenda come Andrei Shleifer, sempre della Harvard, ad una serie di paper che hanno fatto molto clamore perché hanno messo bene il luce come una parte signficativa dell’andamento dei mercati azionari si può spiegare guardando il modo piuttosto prevedibile con cui gli analisi sovrastimano gli utili futuri delle società.
Per esempio in questo paper
Gennaioli, Shleifer e altri due professori rispettivamente di Oxford e della Brown, una sorta di galacticos della ricerca accademica, hanno portato prove convincenti sul fatto che le buone notizie portano gli investitori a diventare troppo ottimisti sui profitti a lungo termine del mercato, questo gonfia i prezzi in maniera sistematica e dunque i rendimenti futuri sono prevedibilmente inferiori.
Per chi vuole, io e Nicola Gennaioli abbiamo fatto una bella intervista nell’episodio 255 di The Bull che trovate sempre qui su YouTube in formato audio o su Spotify
Nel mondo accademico ci sono due grandi scuole di pensiero sul tema: “cosa muove i prezzi sui mercati”. Noi sappiamo molto bene che i prezzi delle azioni esprimono il valore dei flussi di profitti futuri scontati al loro valore presente, il che significa fare
Aspettative sugli utili futuri diviso uno più il rendimento atteso e il rendimento atteso sappiamo che è il tasso d’interesse senza rischio più il premio al rischio.
– La scuola razionalistica, dei miei eroi il premio Nobel Gene Fama, John Cochrane e in parte John Campbell (che tra l’altro sono stati tutti ospiti di The Bull), ritiene che le aspettative sugli utili futuri incidano poco, mentre tutta la differenza la fa come variano i rendimenti attesi, soprattutto come varia il premio al rischio: più il mercato va bene più scende, più il mercato va male più sale, perché deve compensare proporzionalmente quanto gli investitori pensano sia rischioso investire in ogni momento.
– La scuola comportamentalista, del premio Nobel Richard Thaler, Andrei Shleifer e appunto Gennaioli, ritengono invece che i rendimenti attesi incidano poco, mentre ciò che conta è soprattutto il fatto che le aspettative sugli utili vengono sistematicamente sovrastimate o sottostimate.
Come dire, i primi si concentrano sul denominatore, i secondi sul denominatore.
Quello su cui però sono tutti d’accordo è che, qualunque sia il motivo, prezzi elevati rispetto agli utili preludono, presto o tardi, a rendimenti futuri inferiori.
Quindi con il mercato americano che costa in media 40 volte la media degli utili degli ultimi 10 anni, la tesi di base è che i rendimenti futuri saranno più bassi di quello a cui siamo stati abituati.
Altri 15 anni come gli ultimi 15 sarebbero più un eccezionale colpo di scena che non lo scenario più probabile.
Obiezioni
Dall’altra parte ci sono due obiezioni che mi potreste fare e che nel dubbio mi faccio da solo.
PRIMA OBIEZIONE: sì, però gli Stati Uniti sono gli Stati Uniti. Sono il più grande mercato del mondo, le aziende più spettacolari del pianeta sono lì e sempre lì, Trump o non Trump, affluiscono i capitali che contano.
Giustissimo — e questa è infatti la tesi dell’eccezionalismo americano, il motivo per cui il rendimento dell’S&P 500 parte con un premio di vantaggio rispetto agli altri mercati.
L’eccezionalismo americano non è giustificato solo dal fatto che hanno dei monopoli nel digitale, che hanno il dollaro, che possono indebitarsi quasi all’infinito o quel che volete.
Quella è la patria del capitalismo.
Il capitalismo si basa sull’ottimizzazione del capitale.
E a impiegare il capitale in maniera produttiva, nessuno è meglio di loro.
La possibile riposta a quest’obiezione è che però quest’eccezionalismo è già abbondamente riflesso nei prezzi.
Il fatto che le aziende americane sono più fighe della media è la ragione per cui costano di più, non per cui renderanno di più.
SECONDA e PIU’ IMPORTANTE OBIEZIONE: ma scusa, ma se è vero quello che dici, perché non stiamo assistendo ad un trasferimento massivo di capitali dagli Stati Uniti all’Europa e al Giappone o ai mercati Emergenti?
Buonissima obiezione, vi ringrazio.
Ci sono diversi motivi:
– Motivo uno: tutto quello che ho detto potrebbe non verificarsi e anche nel prossimo decennio l’eccezionalismo americano potrebbe avere la meglio su valutazioni che oggi appiano estremamente elevate;
– Motivo due: solitamente il mercato sconta in anticipo ma reagisce in ritardo. Serve tipicamente un evento che porti a riprezzare gli asset. Serve un catalizzatore per tirare giù il mercato significativamente: utili in contrazione, un rialzo dei tassi di interesse, una nuova Trumpata delle sue, uno shock come nel 2007-08 e così via. In assenza del trigger, è difficile vedere un riposizionamento significativo dei capitali. Il mercato ragiona come una specie di Orietta Berti: finché la barca va, lasciala andare.
– Motivo tre: non solo quelli che investono in fondi indicizzati e ETF, ma pure tantissimi investitori istituzionali seguono di fatto gli indici globali e prima di decidere di rischiare il posto di lavoro togliendo le fisches dagli Stati Uniti per metterle in Europa e Giappone che per 15 anni hanno fatto così così, eh, insomma, ci vuole un po’ di coraggio. Anche perché tutto questo discorso potrebbe essere giustissimo. Ma non sai se rivelerà giusto tra 6 mesi, tra 2 anni o tra 5, ma nel frattempo devi rendere conto ai tuoi clienti che di solito hanno poca pazienza.
– Motivo quattro: ci sono elementi che possono giustificare affermazioni tipo: questa volta è diverso. L’intelligenza artificiale che sta rivoluzionando il mondo. Il fatto che le valutazioni di società industriali degli anni 50 e 60 non sono confrontabili con colossi tecnologici ad alta profittabilità degli anni ‘2000. L’espansione dell’accesso ai mercati per centinaia di milioni di investitori. Insomma, ci sono tanti motivi per dire: “sì ok i prezzi sono alti, ma non per questo non sono giusti”.
Ora, detto questo e capito che il tema di fondo sono le elevate valutazioni di oggi e una non trascurabile probabilità statistica di assistere prima o poi ad una regressione verso le media a favore dei i mercati exUS, vediamo l’altro tema e poi passiamo alla parte pratica dell’episodio.
SECONDO PROBLEMA: IL DOLLARO
L’altro tema è il dollaro.
Mentre un investitore americano magari si sta interrogando solo su fino a che punto le valutazioni azionarie siano sostenibili, noi abbiamo un tema in più.
Abbiamo visto che il dollaro ha preso una legnata memorabile quest’anno, con l’Euro che è passato da 1,02 a 1,19 dollari.
Partiamo da un dato oggettivo. Il dollaro ha avuto un valore così elevato come ce lo aveva a inizio 2025 solo a metà degli anni ’80.
Certamente le conseguenze dei dazi potrebbero andare in questa direzione, perché uno dei motivi per cui negli ultimi 15 anni il dollaro si è sistematicamente rafforzato è stato il fatto che gli Stati Uniti spendevano più di quel che risparmiavano importando dall’estero e finanziavano questo eccesso di spesa grazie agli investimenti esteri in asset americani, su tutti in Treasury. La continua domanda di dollari per investire in asset americani ha sistematicamente rafforzato il dollaro ed è uno dei noti motivi per cui Trump vuole spezzare questa cosa, indebolire il dollaro, sostenere la manifattura interna e spingere l’export.
Idea giusta, in parte, in linea di principio.
Molto discutibile l’esecuzione.
Completamente deprecabili invece i metodi di comunicazione.
Inoltre quello a cui stiamo assistendo nel 2025 è che gli investitori internazionali sono sì preoccupati per il forte calo del dollaro, ma non stanno smettendo di investire in america, semplicemente stanno investendo molto di più con il cambio coperto.
È infatti la prima volta dal 2020 che gli acquisti di ETF sugli Stati Uniti a cambio coperto superano quelli a cambio aperto.
E questo alimenta un circolo vizioso, perché per coprire il cambio un investitore che compra per esempio l’S&P 500 allo stesso tempo vende un contratto forward sul dollaro — che è l’equivalente di vendere dollari allo scoperto. Quindi più gli investitori si coprono, più il dollaro scende.
Ad ogni modo, vuoi per i dazi, vuoi per le pressioni sulle coperture valutarie, vuoi perché i cicli sono appunto cicline dopo un po’ devono rifare il giro, se uno dovesse chiedersi: “nei prossimi anni è più probabile che il dollaro si rafforzi o si indebolisca?”, oggi c’è forse una maggiore probabilità verso la seconda opzione.
Anche qui, non è scritto da nessuna parte, però la regressione verso la media è una forza a cui neanche le valute possono sottrarsi.
Bisogna anche ricordare che spesso calo del dollaro e performance mediocre del mercato americano sono correlate tra loro.
Nel 2001 Stephen Li Jen, che al tempo lavorava in Morgan Stanley, si inventò un modello che divenne celebre con il nome di Dollar Smile, il sorriso del dollaro.
L’idea deriva dalla forma che assume il comportamento del dollaro in diverse fasi che ricorda un sorriso stilizzato.
In pratica ci sarebbero tre fasi principali:
– Durante le correzioni di mercato, le recessioni o gli shock geopolitici il dollaro tende a rafforzarsi verso le principali valute, tranne Yen e Franco svizzero;
– Solitamente poi la Fed taglia i tassi, il dollaro si indebolisce e il mercato azionario americano tende a sottoperformare rispetto alla media dei mercati exUS;
– Quando poi l’economia americana si riprende il mercato US tende a sovraperfomare gli altri, arrivano più investimenti negli Stati Uniti, la Fed tiene i tassi più alti per controllare l’inflazione e il dollaro si rafforza rispetto a tutte le principali valute.
Anche Ben Carlson aveva fatto notare di recente che c’è una correlazione piuttosto stretta tra la forza del dollaro e quella del mercato americano, confrontandolo con l’MSCI Europe.
Ha preso i dati dal 1980 ad oggi e ha identificato 5 sottoperiodi, tre con il dollaro forte (80-84, 92-2001 e 2010-2024) e due con dollaro debole (85-91 e 2002-2009) — e ha fatto vedere che l’S&P 500 ha performato nei momenti di dollaro forte e sottoperformato in quelli di dollaro debole.
Ora, è difficile dire quale sia la causa e quale sia l’effetto.
Però è un fatto che grosso modo queste fasi hanno coinciso con le fasi in cui le valutazioni azionarie si sono gonfiate e poi sgonfiate.
COSA POTREBBE FARE UN INVESTITORE EUROPEO
Anche qui, nessuna legge fisica.
Se così stanno le cose, però, un Europeo potrebbe fare il seguente ragionamento mettendo insieme tutti i pezzi:
– UNO: le valutazioni americane sono elevate e se diamo credito ai rendimenti impliciti nelle valutazioni di oggi, abbiamo un rendimento reale atteso di circa il 2-4% per l’S&P e di circa 5-7% per i mercati ex-US;
– DUE: la forza del dollaro è ad un livello storicamente molto elevato e ci sono delle tendenze macroeconomiche e finanziarie che fanno pressione sul dollaro verso il basso, da una parte, e che in qualche modo potrebbero forse favorire l’Euro dall’altra (come ad esempio il forte stimolo monetario che arriva dalla Germania per finanziare crescita e difesa);
– TRE: c’è una correlazione storica piuttosto stretta tra le fasi di debolezza del dollaro e la sovraperformance dei Mercati Ex US.
È chiaro che, messa giù così, sono più i discorsi a favore di un ridimensionamento del peso degli Stati Uniti nei portafogli, che non quelli a favore di un’allocazione market cap weighted.
E non perché — MOLTO IMPORTANTE QUELLO CHE STO PER DIRE — dicevo: non perché effettivamente ciò aumenterebbe il mio rendimento atteso, questo, sapete, è sempre una speculazione nel vuoto, ma perché forse andrei a moderare il rischio che si verifichi la combo peggiore ossia: dollaro e S&P contemporaneamente giù in maniera significativa.
Questa cosa è già successa in passato e il caso più doloroso è stato a inizio 2000, quando oltre al tracollo dell’S&P 500 all’esplosione della bolla delle dot-com si aggiunse un progressivo indebolimento del dollaro che andò avanti sino al 2008.
L’idea di avere un moderato home bias nel proprio portafoglio azionario non è particolarmente innovativa né originale, ma è una prassi piuttosto consolidata per molti investitori non americani.
Per esempio quando era stato da noi, William Bernstein ci aveva detto che se fosse un Europeo forse investirebbe addirittura il 40% nel mercato dell’eurozona, ma forse su questo avrei qualche remora in più perché sarebbe un’allocation davvero TANTO distante dal peso effettivo dell’Eurozona nell’MSCI World, parleremmo di oltre 5 volte tanto.
Un’altra posizione molto spinta è quella della società di Ben Felix, PWL Capital, che benché sia un forte sostenitore dell’investimento indicizzato e dell’efficienza dei mercati, nel suo portafoglio modello assegnava comunque un 30% della quota azionaria al mercato azionario di casa sua, quello canadese.
Tanto anche qui, ovviamente, parliamo di un peso 12 volte superiore a quello che il Canada ha nell’MSCI ACWI, ma la ratio è chiara: avere un’esposizione significativa del portafoglio nella propria valuta domestica e ridurre il rischio di concentrazione in un’unica valuta e in un unico mercato, che pur resta dominante.
Ora, vi dico come sto ragionando io, ma sempre con la premessa che non dovete prendere nessuna parola che sentite uscire dalla mia bocca come una raccomandazione di investimento.
Come avevo raccontato in questo video oggi mi ritrovo con questa allocazione azionaria:
– Stati Uniti: circa 51%
– Eurozona: circa 16%
– Altri Paesi Sviluppati: circa 23%
– Paesi Emergenti: circa 10%.
In parole povere, metà portafoglio esposto al dollaro, metà no.
È vero che solo il 16% è in Euro, ma è anche vero che c’è un’ampia diversificazione valutaria tra Yen, Sterlina, Franco svizzero, Dollaro Canadese, Dollaro Australiano e altre valute minori.
Qual è la ratio che sto seguendo nell’asset allocation azionaria?
Diciamo che sono guidato da due principi, che corrispondono alle cose di cui abbiamo parlato oggi:
– Il primo è sottopesare il mercato con le valutazioni più elevate e sovrappesare i Paesi sviluppati che hanno invece valutazioni inferiori;
– Il secondo è limare un po’ l’esposizione al dollaro.
Ora, quale criterio usare? Questa è la domanda.
Sicuramente ho escluso considerazioni di tipo discrezionale, del tipo: punto sul Giappone perché X o sulla Germania perché Y.
Le linee guida sono state:
– Adottare un criterio per sottopesare gli Stati Uniti
– Accentuare moderatamente l’esposizione al mercato in euro e poi
– Seguire grossomodo la capitalizzazione di mercato degli altri, così come sono rappresentati nell’MSCI EAFE o in altri indici exUS.
Quindi se vogliamo la scelta, tra molte virgolette, “attiva” riguarda principalmente il criterio per asciugare l’S&P 500.
Il ragionamento è stato semplice: se il valore di un’azione nel lungo termine è legato agli utili e se le società americane generano una quota intorno al 50% degli utili di tutto il mercato azionario globale, allora circa 50% è il peso che vorrò dargli.
In pratica è come l’allocazione market cap weighted, ma che invece di usare il prezzo si basa sugli gli utili.
Questa non è un’idea particolarmente originale.
Per esempio, Research Affiliates, la società di Rob Arnott che era stato da noi nell’episodio 196, ha creato un indice basato su una logica simile, chiamato FTSE RAFI All World 3000, e lì gli Stati Uniti pesano il 51%.
RAFI utilizza usa anche altri criteri oltre agli utili e infatti cambia anche la composizione delle prime società più rappresentate nell’indice, che tra l’altro pesano molto meno che nel FTSE All World.
Però è interessante che l’asset allocation geografica sia simile a quella che era venuta fuori a me.
Una cosa divertente che potremmo fare, poi, è andare sul sito della società di Victor Haghani Elm Wealthe giocare con il tool di asset allocation che mettono a disposizione e che elabora delle allocazioni su azioni e obbligazioni in base ai rendimenti attesi — usando metodi che partono dall’CAEY e poi applicando delle correzioni.
Vedete: uno può scegliere:
– La propria quota azionaria di base in un contesto di mercato con valutazioni intermedie e un premio al rischio nella media;
– Di defualt l’allocazione geografica è settata su Neutral, cioè nessun tilt geografico verso o via dagli US
– E infine c’è un terzo parametro che vuol dire semplicemente: quanto vuoi adattare il portafoglio in base a come variano i rendimenti attesi nel futuro dalle diverse asset class. Di default è impostato su 50%.
Si fa andare il tool e in pochi secondi restituisce l’asset allocation corrispondente.
A fine settembre, questa sarebbe l’allocazione — tra molte virgolette — “suggerita”
Anche qui la quota di azioni è ripartita praticamente metà e metà tra azioni americane e azioni extra stati uniti, con un leggero sovrappeso dei mercati emergenti, addirittura più pesanti dell’europa, praticamente un quinto di tutta la quota azionaria.
Ora, non è possibile dire che sia “meglio” avere una quota di Stati Uniti inferiore al benchmark classico.
È una scelta che uno può prendere se:
– Vuole ridurre l’esposizione al dollaro del proprio portafoglio
– Vuole tener conto della possibile regressione della media a lungo termine quando le valutazioni sono molto elevate e infine
– Ha la pazienza di sopportare il fatto che questa scelta possa rivelarsi in certi momenti non ottimale.
– È statisticamente probabile che ci sarà un periodo più o meno lungo nel futuro in cui l’S&P 500 sottoperformerà i mercati ex US. È successo nei primi anni ’80, è successo nel 2000, succederà di nuovo.
Però potrebbe continuare a non succedere ancora per anni.
Certamente oggi c’è un gap di valutazioni estremamente elevato, che 10 anni fa non c’era.
Ma da qui a dire che sicuramente è arrivato il momento in cui i rapporti di forza tra S&P 500 e altri mercati comincia ad invertirsi è del tutto arbitrario. Quindi ora a ciascuno di voi scegliere che farne di queste informazioni e buoni tormenti a tutti!
Bene cari miei, spero che questo video vi sia piaciuto e non vi abbia incasinato troppo il cervello. Ricordatevi la premessa iniziale, un indice globale market cap weighted sarà sempre una buona idea, ma per chi vuole provare ad adottare soluzioni sistematiche diverse, questi sono alcuni elementi da prendere in considerazione.
Nel frattempo vi invito come sempre a iscrivervi al canale, mettere like e attivare le notifiche per supportarci e permetterci di continuare a produrre contenuti che vi parlano del sorriso del dollaro perché alla fine vogliamo solo parlare di finanza con un sorriso sempre nuovi.
Per questo episodio invece è davvero tutto e noi ci rivediamo negli altri video di questa playlist dedicata ai concetti più importanti di asset allocartion sempre qui, naturalmente con The Bull, il tuo podcast di finanza personale.
Bentornati a The Bull, il tuo podcast di finanza personale.
Di tutti i singoli temi che potremmo discutere in questo podcast, cari miei, c’è poco da fare: questo è inevitabilmente il tema dei temi.
Ci piaccia o non ci piaccia, la finanza è soprattutto un fatto americano.
E quindi capire quanto effettivamente abbia senso essere esposti al mercato azionario più bello del mondo, l’equivalente finanziario della nostra serie A negli anni ’90, è alla base di una delle decisioni più importanti e impattanti che come investitori saremo chiamati a prendere.
Del resto, quando il 64% del tuo portafoglio azionario è concentrato su società americane
e di questo 64% oltre un terzo è composto solo da 10 società,
il dubbio è quanto meno legittimo.
Ok se prendiamo i singoli mercati nazionali per esempio europei, gli indici sono moooolto più concentrati,
Se però già prendiamo un miglior termine di confronto con un mercato immenso come l’S&P 500, come ad esempio lo Stoxx 600, l’indice delle 600 più grandi società europee, già vediamo che qui la concentrazione è molto più bassa.
Ora, non è che la concentrazione in sé sia un problema.
Però è ovvio che più un mercato è concentrato, soprattutto concentrato in particolare in un macro settore, come quello tecnologico, più aumentano i rischi idiosincratici, che non sono remunerati dal mercato.
Ma il discorso della concentrazione e della sua potenziale problematicità non è l’unico.
Ci sono diversi motivi che sollevano degli interrogativi sull’opportunità di investire in un portafoglio rigorosamente market-cap weighted.
Oggi parleremo di questo.
Ovviamente non avrò una risposta conclusiva alla fine dell’episodio ma l’idea è piuttosto quella di mettere sul tavolo tutti i ragionamenti che ho fatto BARRA preso da persone immensamente più intelligenti di me e lasciare poi a ciascuno di voi, in base alla propria sensibilità, tirare le proprie legittime conclusioni.
Dunque, la domanda di partenza è: investiamo il 64% dei nostri portafogli azionari negli Stati Uniti come prevedono gli indici Market cap weighted replicati dai miei etf globali, oppure è il caso di fare altri ragionamenti?
Il Market portfolio: il punto di partenza dell’investitore
Prima di provare a rispondere, dichiariamo più forte possibile una cosa.
Un indice come l’MSCI All Country World è il naturale punto di partenza di qualunque investitore globale, perché si basa sull’idea che i mercati siano generalmente efficienti nell’allocazione dei capitali e nel prezzare il rapporto rischio/rendimento di tutti gli asset quindi, in ogni momento, l’allocazione base da cui partire è quella del portafoglio di mercato, e l’MSCI All Country World o il FTSE All World ne sono una ragionevole approssimazione.
La premessa teorica di questo discorso è duplice:
– Una è il Capital Asset Pricing Model, che dice che il portafoglio di mercato è per definizione quello con il miglior rapporto tra rendimento e rischio;
– L’altra è l’ipotesi dei mercati efficienti, in base a cui i prezzi degli asset riflettono tutte le informazioni disponibili. Di conseguenza l’attuale configurazione del mercato, con quei pesi lì su quelle aziende lì, è la migliore rappresentazione possibile della media di tutte le informazioni, le opinioni, le previsioni e le preferenze soggettive di tutti gli investitori.
Che a livello globale, in questo momento, è grosso modo questa qua:
Circa 64% Stati Uniti
Circa 26% Altri Paesi Sviluppati
Circa 10% Mercati Emergenti
Ok?
Quindi se volete investire con un approccio completamente passivo, l’MSCI ACWI o il FTSE ALL WORLD sono la migliore approssimazione possibile di un portafoglio globale di mercato, ciò che meglio dovrebbe sposare i sacri dettami di San Jack Bogle e di tutta la filosofia dell’investimento indicizzato.
Con un caveat però.
Bogle, Buffet, Fama, Malkiel, tutti questi mostri sacri che hanno sempre detto: compra il mercato e non fare altro, quando dicevano “mercato” si riferivano allo US Stock Market e parlavano a investitori americani che guadagnano e spendono in dollari.
Per noi il discorso è un po’ diverso.
A volerlo applicare alla lettera dovremmo investire solo nel mercato dell’Eurozona, ma non sono convinto che sia una buona idea, perché è un mercato più piccolo, meno diversificato, meno profondo e liquido, privo di grandi aziende esposte ai settori più innovativi, insomma, non un benchmark ideale.
L’S&P 500 viene spesso chiamato “IL MERCATO” perché, al di là del fatto che è gigante, non esiste nessun altro mercato “locale” al mondo che rappresenta in maniera così vasta tutta l’economia: nell’S&P 500 ci sono tutti i settori, con top player globali in praticamente ogni settore e con un 40% buono di ricavi che arrivano dall’estero.
È ragionevolmente una buona approssimazione del “MERCATO” in generale.
Però noi non siamo il John Doe dell’Oregon che riceve settimanalmente il suo paycheck in dollari e ne versa una parte nel suo index fund sull’S&P 500 di vanguard, noi europei ci prendiamo una serie di incognite in più: non siamo cittadini americani e non guadagniamo e spendiamo in dollari.
D’altra parte ha anche poco senso investire solo nel mercato dell’Eurozona, perché sarei portato a dire che i benefici dell’assenza del rischio cambio sarebbero sovrastati dai limiti delle società in cui andremmo ad investire.
La nostra migliore approssimazione del mercato diventa quindi il mercato globale, come potrebbe essere rappresentato appunto dall’MSCI ACWI, dal FTSE All Wordl, o dalle relative versioni senza mercati emergenti se per qualche motivo vi stanno sulle palle.
Poi, che le variabili valutarie abbiano un impatto positivo, negativo o neutro è difficilissimo da misurare.
Dovremmo tenere conto sia delle conseguenze sulle valutazioni dei nostri asset denominati in altre valute sia degli effetti economici reali, perché magari la svalutazione di una valuta ha un effetto negativo sul nostro portafoglio, ma può avere un effetto positivo su società che esportano e che quindi vedranno i loro profitti in quella valuta più alti, facendo salire il prezzo delle proprie azioni.
Comunque, al di là di questo, in assenza di altre valutazioni il Market Portfolio, il portafoglio più rappresentativo di tutto il mercato azionario globale pesato per capitalizzazione, è il benchmark di partenza naturale dell’investitore medio.
Dal 1987 ad oggi, da quando MSCI tiene raccoglie i dati, l’indice ha reso, in dollari, circa l’8,6% medio composto all’anno, evviva evviva se anche nei prossimi 38 anni farà lo stesso.
Pochi sono così ottimisti, ma anche fosse 7, 6, 5% all’anno per 38 anni non credo che qualcuno si lamenterà troppo.
Se oggi investo 10.000 € tra 38 anni saranno 6 volte tanto con un rendimento del 5% all’anno o 13 volte tanto con un rendimento del 7% all’anno.
C’è una grossa differenza tra i due, ma saremmo felici in entrambi i casi.
Detto questo, però, e senza rinnegare nulla di tutto quel che abbiamo sempre detto in questo podcast, di investire in indici, di non prendere decisioni discrezionale, e tutto il resto — ecco: questo non significa che replicare un indice pesato per capitalizzazione sia l’unica decisione corretta da prendere sotto ogni punto di vista.
Noi potremmo infatti adattare l’esposizione al mercato azionario globale seguendo criteri sistematici non arbitrari, in base agli obiettivi che vogliamo conseguire.
Attenzione che questo non implica necessariamente un rendimento atteso maggiore.
Questo è impossibile saperlo ex ante.
Quello che noi cerchiamo è un miglioramento del profilo di rischio del nostro portaglio o, se vogliamo, una diversa gestione di alcuni aspetti del rischio complessivo del portafoglio.
Detto questo, quali sono i due temi principali che possono portare alla riconsiderazione di un portafoglio puramente market cap weighted — e quindi del peso esorbitante degli Stati Uniti in esso?
Ovviamente sono i soliti indiziati:
– Le valutazioni attuali, ciò il prezzo relativo delle azioni americane rispetto agli utili che generano
– E il futuro del dollaro.
Primo problema: le valutazioni azionarie elevate
Partiamo dunque con il primo tema, le valutazioni elevate.
Per chi fosse capitato qui per sbaglio e non sapesse di che cacchio sto parlando, quando si parla di valutazione azionaria ci riferiamo a quella bestia mitologica nota come Price / Earnings ratio, ossia il rapporto tra il prezzo dell’azione, o di un intero indice, e gli utili per azione che la società genera che in media generano tutte le società dell’indice.
A volte si usano gli utili degli ultimi 12 mesi, altre volte quelli dei 12 mesi successivi, altre volte ancora si usa una versione sotto steroidi chiamata Cyclically Adjusted Price Earning Ratio, per gli amici CAPE ratio, inventata dal premio Nobel Robert Shiller e John Campbell,che in pratica fa prezzo diviso la media degli utili degli ultimi 10 anni aggiustata per inflazione.
Sono tutti indicatori profondamente imperfetti, però in qualche modo sul lungo termine non sono completamente inutili e danno una qualche idea di quanto sia caro il mercato azionario in un certo momento e dei rendimenti attesi nel futuro
Per ulteriori dettagli su questa roba vi rimando a questo video qui.
Perché è importante capire se sia caro o meno?
Perché bisogna ricordarsi che un’azione non è altro che un diritto sugli utili futuri della società in cui abbiamo investito.
Il prezzo a cui acquistiamo oggi un’azione è il valore presente dei flussi di cassa futuri attualizzati ad un tasso corrispondente al rendimento che mi aspetto — ossia al rischio che ci vedo.
Pertanto, il mio rendimento sarà molto diverso se per ricevere quei flussi di cassa futuri pagherò 50, 100 o 150 dollari la stessa azione.
Quindi un modo comodo per farsi un’idea di quanto sia cara un’azione o l’intero mercato azionario in media, si guarda appunto al rapporto tra il prezzo e gli utili.
Ora, in sé e per sé sta il rapporto tra prezzo e utili non è che dica molto, perché il mercato è generalmente efficiente; quindi se il P/E ratio in un certo momento è molto basso vuole dire o che gli investitori in aggregato hanno scarsa fiducia nella capacità delle società di quel mercato di generare utili o considerano quel mercato particolarmente rischioso — di conseguenza saranno disposti a pagare poco per investire. Viceversa un P/E alto testimonia un grande ottimismo e fiducia verso la capacità di un mercato di generare utili nel futuro o che quel mercato appare poco rischioso — di conseguenza gli investitori saranno disposti a pagare tanto per investirci.
Quindi il fatto che un mercato abbia un prezzo più alto e un altro uno più basso di per sé non vuol dire nulla.
Dice solo che, in teoria, se voglio scommettere su quello più caro guadagnerò poco ma con maggiore probabilità, mentre se scommetto su quello più economico guadagnerò tanto ma con minore probabilità.
Come diciamo spesso, quando sentite qualcuno dire: “attenzione il mercato è sopravvalutato” eeehhhrrrgggg [sirena], risposta sbagliata.
Puoi solo dire che è caro rispetto alla media, non che è sopravvalutato.
Se oggettivamente fosse troppo caro il mercato cambierebbe immediatamente tutti i prezzi.
Possiamo dare solo descrizioni quantitative, non qualitative.
Solo con il senno di poi si può affermare questa cosa, ma principalmente perché subentrano delle nuove informazioni che prima non avevamo.
In questo momento le azioni dell’S&P 500 costano in media 23 volte gli utili attesi nei prossimi 12 mesi è il CAPE ratio ha raggiunto livelli da quasi picco della dot-com bubble a 40.
È tanto? Sì rispetto alla media storica è tanto.
È troppo? Non si sa.
Da una parte forse sì, perché rispetto agli utili attesi le azioni americane costano un buon 30-35% in più di quel che costano in media le azioni degli altri Paesi Sviluppati. Questo significa che sono riposte altissime aspettative nella continua capacità delle aziende americane di generare maggiori utili anche nel futuro.
E se guardiamo al rapporto tra prezzi e utili passati, il CAPE Ratio americano è passato da essere la metà di quello dei Paesi Sviluppati ex Stati Uniti alla fine degli anni 80 ad essere quasi il doppio oggi.
Questo cosa significa?
Uno solitamente è portato a dire: “eh beh, però sono 40 anni che il mercato americano sovrasta gli altri mercati con una superiorità schiacciante”.
10.000 dollari investiti quando sono nato io, nel 1986, nell’S&P 500 o nell’indice dei Paesi sviluppati ex Stati Uniti sarebbero diventati 680.000 nel primo caso e appena 161.000 nel secondo.
Stiamo parlando di un rendimento medio composto all’anno di oltre l’11% contro poco più del 7%.
Però bisogna anche guardare cosa ha determinato questi rendimenti.
Il rendimento azionario, come sappiamo, dipende da tre cose:
– Dai dividendi distribuiti
– Da quanto crescono gli utili e
– Da quanto crescono le valutazioni — cioè da quanto diventa più o meno cara un’azione rispetto agli utili che la società sottostante genera.
Buona parte della sovraperformance americana di questi 40 anni dipende dal fatto che le azioni americane sono diventate più costose.
Gli utili delle azioni americani sono storicamente cresciuti ad un tasso superiore rispetto a quelle degli altri Paesi, nell’ordine di circa un 1% in più all’anno.
Ma i prezzi delle azioni americane sono cresciute di oltre il 2% in più all’anno.
Il fatto che le azioni americane siano diventate sempre più costose per enne motivi spiega buona parte dei motivi per cui l’S&P 500 ha portato questi rendimenti sensazionali.
Ci sono appunto tanti motivi assolutamente legittimi per cui questa cosa è successa:
– Società più tecnologiche e meno industriale generano più utili;
– ETF e index fund hanno permesso a molte più persone di investire nelle azioni americane facendo salire le valutazioni;
– I costi per investire si sono polverizzati e lo stesso fatto di investire è diventato (o viene percepito) come meno rischioso che in passato, di conseguenza gli investitori oggi sono disposti a pagare prezzi più alti che in passato.
Aggiungiamo poi i tassi a zero, gli stimoli monetari, le riforme fiscali, tutto quanto.
Però una volta che le valutazioni sono così alte, c’è quasi una conseguenza meccanica da tenere a mente.
Gli utili delle società americane devono crescere ad un tasso più alto di quelli delle società degli altri paesi per le relative azioni diano lo stesso rendimento.
Antti Ilmanen ha calcolato che gli utili per azione negli stati uniti devono crescere oltre 2 punti percentuali in più all’anno nei prossimi 10 anni per dare lo stesso rendimento delle società nei mercati ex Stati Uniti.
Quindi attenzione: il fatto che i prezzi delle società americane sono altissime non vuol dire che per forza succederà qualcosa di brutto.
Ma se volgiamo scommettere che anche nel prossimo decennio continueranno a sovraperformare gli altri mercati, sarà necessario che la crescita degli utili continui ad essere sensazionale anche in futuro.
Questa cosa non è impossibile, però ci sono numerosi studi, tra cui uno famoso di Fama e French del 1997, che illustrano bene che una crescita abnorme dei profitti non dura per sempre, anzi tende a regredire in maniera quasi chirurgica, tanto più quanto la crescita passata è stata elevata (o disastrosa, perché vale anche al contrario)
Teniamo conto che ad oggi le valutazioni delle azioni americane stanno presupponendo:
– Zero impatto dalla politica protezionistica di Trump e dei dazi;
– Zero probabilità di recessione;
– Continuo aumento del ritmo di crescita degli utili anche nei prossimi trimestri.
Non è che queste cose siano impossibili naturalmente, ma siamo nell’ambito del “priced for perfection”.
Sappiamo però anche che le aspettative sugli utili sono — per così dire — prevedibilmente irrazionali.
Nicola Gennaioli professore di Finanza Comportamentale alla Bocconi, dottorato alla Harvard e forse uno dei professori italiani più accreditati a livello internazionale, ha lavorato con una leggenda come Andrei Shleifer, sempre della Harvard, ad una serie di paper che hanno fatto molto clamore perché hanno messo bene il luce come una parte signficativa dell’andamento dei mercati azionari si può spiegare guardando il modo piuttosto prevedibile con cui gli analisi sovrastimano gli utili futuri delle società.
Per esempio in questo paper
Gennaioli, Shleifer e altri due professori rispettivamente di Oxford e della Brown, una sorta di galacticos della ricerca accademica, hanno portato prove convincenti sul fatto che le buone notizie portano gli investitori a diventare troppo ottimisti sui profitti a lungo termine del mercato, questo gonfia i prezzi in maniera sistematica e dunque i rendimenti futuri sono prevedibilmente inferiori.
Per chi vuole, io e Nicola Gennaioli abbiamo fatto una bella intervista nell’episodio 255 di The Bull che trovate sempre qui su YouTube in formato audio o su Spotify
Nel mondo accademico ci sono due grandi scuole di pensiero sul tema: “cosa muove i prezzi sui mercati”. Noi sappiamo molto bene che i prezzi delle azioni esprimono il valore dei flussi di profitti futuri scontati al loro valore presente, il che significa fare
Aspettative sugli utili futuri diviso uno più il rendimento atteso e il rendimento atteso sappiamo che è il tasso d’interesse senza rischio più il premio al rischio.
– La scuola razionalistica, dei miei eroi il premio Nobel Gene Fama, John Cochrane e in parte John Campbell (che tra l’altro sono stati tutti ospiti di The Bull), ritiene che le aspettative sugli utili futuri incidano poco, mentre tutta la differenza la fa come variano i rendimenti attesi, soprattutto come varia il premio al rischio: più il mercato va bene più scende, più il mercato va male più sale, perché deve compensare proporzionalmente quanto gli investitori pensano sia rischioso investire in ogni momento.
– La scuola comportamentalista, del premio Nobel Richard Thaler, Andrei Shleifer e appunto Gennaioli, ritengono invece che i rendimenti attesi incidano poco, mentre ciò che conta è soprattutto il fatto che le aspettative sugli utili vengono sistematicamente sovrastimate o sottostimate.
Come dire, i primi si concentrano sul denominatore, i secondi sul denominatore.
Quello su cui però sono tutti d’accordo è che, qualunque sia il motivo, prezzi elevati rispetto agli utili preludono, presto o tardi, a rendimenti futuri inferiori.
Quindi con il mercato americano che costa in media 40 volte la media degli utili degli ultimi 10 anni, la tesi di base è che i rendimenti futuri saranno più bassi di quello a cui siamo stati abituati.
Altri 15 anni come gli ultimi 15 sarebbero più un eccezionale colpo di scena che non lo scenario più probabile.
Obiezioni
Dall’altra parte ci sono due obiezioni che mi potreste fare e che nel dubbio mi faccio da solo.
PRIMA OBIEZIONE: sì, però gli Stati Uniti sono gli Stati Uniti. Sono il più grande mercato del mondo, le aziende più spettacolari del pianeta sono lì e sempre lì, Trump o non Trump, affluiscono i capitali che contano.
Giustissimo — e questa è infatti la tesi dell’eccezionalismo americano, il motivo per cui il rendimento dell’S&P 500 parte con un premio di vantaggio rispetto agli altri mercati.
L’eccezionalismo americano non è giustificato solo dal fatto che hanno dei monopoli nel digitale, che hanno il dollaro, che possono indebitarsi quasi all’infinito o quel che volete.
Quella è la patria del capitalismo.
Il capitalismo si basa sull’ottimizzazione del capitale.
E a impiegare il capitale in maniera produttiva, nessuno è meglio di loro.
La possibile riposta a quest’obiezione è che però quest’eccezionalismo è già abbondamente riflesso nei prezzi.
Il fatto che le aziende americane sono più fighe della media è la ragione per cui costano di più, non per cui renderanno di più.
SECONDA e PIU’ IMPORTANTE OBIEZIONE: ma scusa, ma se è vero quello che dici, perché non stiamo assistendo ad un trasferimento massivo di capitali dagli Stati Uniti all’Europa e al Giappone o ai mercati Emergenti?
Buonissima obiezione, vi ringrazio.
Ci sono diversi motivi:
– Motivo uno: tutto quello che ho detto potrebbe non verificarsi e anche nel prossimo decennio l’eccezionalismo americano potrebbe avere la meglio su valutazioni che oggi appiano estremamente elevate;
– Motivo due: solitamente il mercato sconta in anticipo ma reagisce in ritardo. Serve tipicamente un evento che porti a riprezzare gli asset. Serve un catalizzatore per tirare giù il mercato significativamente: utili in contrazione, un rialzo dei tassi di interesse, una nuova Trumpata delle sue, uno shock come nel 2007-08 e così via. In assenza del trigger, è difficile vedere un riposizionamento significativo dei capitali. Il mercato ragiona come una specie di Orietta Berti: finché la barca va, lasciala andare.
– Motivo tre: non solo quelli che investono in fondi indicizzati e ETF, ma pure tantissimi investitori istituzionali seguono di fatto gli indici globali e prima di decidere di rischiare il posto di lavoro togliendo le fisches dagli Stati Uniti per metterle in Europa e Giappone che per 15 anni hanno fatto così così, eh, insomma, ci vuole un po’ di coraggio. Anche perché tutto questo discorso potrebbe essere giustissimo. Ma non sai se rivelerà giusto tra 6 mesi, tra 2 anni o tra 5, ma nel frattempo devi rendere conto ai tuoi clienti che di solito hanno poca pazienza.
– Motivo quattro: ci sono elementi che possono giustificare affermazioni tipo: questa volta è diverso. L’intelligenza artificiale che sta rivoluzionando il mondo. Il fatto che le valutazioni di società industriali degli anni 50 e 60 non sono confrontabili con colossi tecnologici ad alta profittabilità degli anni ‘2000. L’espansione dell’accesso ai mercati per centinaia di milioni di investitori. Insomma, ci sono tanti motivi per dire: “sì ok i prezzi sono alti, ma non per questo non sono giusti”.
Ora, detto questo e capito che il tema di fondo sono le elevate valutazioni di oggi e una non trascurabile probabilità statistica di assistere prima o poi ad una regressione verso le media a favore dei i mercati exUS, vediamo l’altro tema e poi passiamo alla parte pratica dell’episodio.
SECONDO PROBLEMA: IL DOLLARO
L’altro tema è il dollaro.
Mentre un investitore americano magari si sta interrogando solo su fino a che punto le valutazioni azionarie siano sostenibili, noi abbiamo un tema in più.
Abbiamo visto che il dollaro ha preso una legnata memorabile quest’anno, con l’Euro che è passato da 1,02 a 1,19 dollari.
Partiamo da un dato oggettivo. Il dollaro ha avuto un valore così elevato come ce lo aveva a inizio 2025 solo a metà degli anni ’80.
Certamente le conseguenze dei dazi potrebbero andare in questa direzione, perché uno dei motivi per cui negli ultimi 15 anni il dollaro si è sistematicamente rafforzato è stato il fatto che gli Stati Uniti spendevano più di quel che risparmiavano importando dall’estero e finanziavano questo eccesso di spesa grazie agli investimenti esteri in asset americani, su tutti in Treasury. La continua domanda di dollari per investire in asset americani ha sistematicamente rafforzato il dollaro ed è uno dei noti motivi per cui Trump vuole spezzare questa cosa, indebolire il dollaro, sostenere la manifattura interna e spingere l’export.
Idea giusta, in parte, in linea di principio.
Molto discutibile l’esecuzione.
Completamente deprecabili invece i metodi di comunicazione.
Inoltre quello a cui stiamo assistendo nel 2025 è che gli investitori internazionali sono sì preoccupati per il forte calo del dollaro, ma non stanno smettendo di investire in america, semplicemente stanno investendo molto di più con il cambio coperto.
È infatti la prima volta dal 2020 che gli acquisti di ETF sugli Stati Uniti a cambio coperto superano quelli a cambio aperto.
E questo alimenta un circolo vizioso, perché per coprire il cambio un investitore che compra per esempio l’S&P 500 allo stesso tempo vende un contratto forward sul dollaro — che è l’equivalente di vendere dollari allo scoperto. Quindi più gli investitori si coprono, più il dollaro scende.
Ad ogni modo, vuoi per i dazi, vuoi per le pressioni sulle coperture valutarie, vuoi perché i cicli sono appunto cicline dopo un po’ devono rifare il giro, se uno dovesse chiedersi: “nei prossimi anni è più probabile che il dollaro si rafforzi o si indebolisca?”, oggi c’è forse una maggiore probabilità verso la seconda opzione.
Anche qui, non è scritto da nessuna parte, però la regressione verso la media è una forza a cui neanche le valute possono sottrarsi.
Bisogna anche ricordare che spesso calo del dollaro e performance mediocre del mercato americano sono correlate tra loro.
Nel 2001 Stephen Li Jen, che al tempo lavorava in Morgan Stanley, si inventò un modello che divenne celebre con il nome di Dollar Smile, il sorriso del dollaro.
L’idea deriva dalla forma che assume il comportamento del dollaro in diverse fasi che ricorda un sorriso stilizzato.
In pratica ci sarebbero tre fasi principali:
– Durante le correzioni di mercato, le recessioni o gli shock geopolitici il dollaro tende a rafforzarsi verso le principali valute, tranne Yen e Franco svizzero;
– Solitamente poi la Fed taglia i tassi, il dollaro si indebolisce e il mercato azionario americano tende a sottoperformare rispetto alla media dei mercati exUS;
– Quando poi l’economia americana si riprende il mercato US tende a sovraperfomare gli altri, arrivano più investimenti negli Stati Uniti, la Fed tiene i tassi più alti per controllare l’inflazione e il dollaro si rafforza rispetto a tutte le principali valute.
Anche Ben Carlson aveva fatto notare di recente che c’è una correlazione piuttosto stretta tra la forza del dollaro e quella del mercato americano, confrontandolo con l’MSCI Europe.
Ha preso i dati dal 1980 ad oggi e ha identificato 5 sottoperiodi, tre con il dollaro forte (80-84, 92-2001 e 2010-2024) e due con dollaro debole (85-91 e 2002-2009) — e ha fatto vedere che l’S&P 500 ha performato nei momenti di dollaro forte e sottoperformato in quelli di dollaro debole.
Ora, è difficile dire quale sia la causa e quale sia l’effetto.
Però è un fatto che grosso modo queste fasi hanno coinciso con le fasi in cui le valutazioni azionarie si sono gonfiate e poi sgonfiate.
COSA POTREBBE FARE UN INVESTITORE EUROPEO
Anche qui, nessuna legge fisica.
Se così stanno le cose, però, un Europeo potrebbe fare il seguente ragionamento mettendo insieme tutti i pezzi:
– UNO: le valutazioni americane sono elevate e se diamo credito ai rendimenti impliciti nelle valutazioni di oggi, abbiamo un rendimento reale atteso di circa il 2-4% per l’S&P e di circa 5-7% per i mercati ex-US;
– DUE: la forza del dollaro è ad un livello storicamente molto elevato e ci sono delle tendenze macroeconomiche e finanziarie che fanno pressione sul dollaro verso il basso, da una parte, e che in qualche modo potrebbero forse favorire l’Euro dall’altra (come ad esempio il forte stimolo monetario che arriva dalla Germania per finanziare crescita e difesa);
– TRE: c’è una correlazione storica piuttosto stretta tra le fasi di debolezza del dollaro e la sovraperformance dei Mercati Ex US.
È chiaro che, messa giù così, sono più i discorsi a favore di un ridimensionamento del peso degli Stati Uniti nei portafogli, che non quelli a favore di un’allocazione market cap weighted.
E non perché — MOLTO IMPORTANTE QUELLO CHE STO PER DIRE — dicevo: non perché effettivamente ciò aumenterebbe il mio rendimento atteso, questo, sapete, è sempre una speculazione nel vuoto, ma perché forse andrei a moderare il rischio che si verifichi la combo peggiore ossia: dollaro e S&P contemporaneamente giù in maniera significativa.
Questa cosa è già successa in passato e il caso più doloroso è stato a inizio 2000, quando oltre al tracollo dell’S&P 500 all’esplosione della bolla delle dot-com si aggiunse un progressivo indebolimento del dollaro che andò avanti sino al 2008.
L’idea di avere un moderato home bias nel proprio portafoglio azionario non è particolarmente innovativa né originale, ma è una prassi piuttosto consolidata per molti investitori non americani.
Per esempio quando era stato da noi, William Bernstein ci aveva detto che se fosse un Europeo forse investirebbe addirittura il 40% nel mercato dell’eurozona, ma forse su questo avrei qualche remora in più perché sarebbe un’allocation davvero TANTO distante dal peso effettivo dell’Eurozona nell’MSCI World, parleremmo di oltre 5 volte tanto.
Un’altra posizione molto spinta è quella della società di Ben Felix, PWL Capital, che benché sia un forte sostenitore dell’investimento indicizzato e dell’efficienza dei mercati, nel suo portafoglio modello assegnava comunque un 30% della quota azionaria al mercato azionario di casa sua, quello canadese.
Tanto anche qui, ovviamente, parliamo di un peso 12 volte superiore a quello che il Canada ha nell’MSCI ACWI, ma la ratio è chiara: avere un’esposizione significativa del portafoglio nella propria valuta domestica e ridurre il rischio di concentrazione in un’unica valuta e in un unico mercato, che pur resta dominante.
Ora, vi dico come sto ragionando io, ma sempre con la premessa che non dovete prendere nessuna parola che sentite uscire dalla mia bocca come una raccomandazione di investimento.
Come avevo raccontato in questo video oggi mi ritrovo con questa allocazione azionaria:
– Stati Uniti: circa 51%
– Eurozona: circa 16%
– Altri Paesi Sviluppati: circa 23%
– Paesi Emergenti: circa 10%.
In parole povere, metà portafoglio esposto al dollaro, metà no.
È vero che solo il 16% è in Euro, ma è anche vero che c’è un’ampia diversificazione valutaria tra Yen, Sterlina, Franco svizzero, Dollaro Canadese, Dollaro Australiano e altre valute minori.
Qual è la ratio che sto seguendo nell’asset allocation azionaria?
Diciamo che sono guidato da due principi, che corrispondono alle cose di cui abbiamo parlato oggi:
– Il primo è sottopesare il mercato con le valutazioni più elevate e sovrappesare i Paesi sviluppati che hanno invece valutazioni inferiori;
– Il secondo è limare un po’ l’esposizione al dollaro.
Ora, quale criterio usare? Questa è la domanda.
Sicuramente ho escluso considerazioni di tipo discrezionale, del tipo: punto sul Giappone perché X o sulla Germania perché Y.
Le linee guida sono state:
– Adottare un criterio per sottopesare gli Stati Uniti
– Accentuare moderatamente l’esposizione al mercato in euro e poi
– Seguire grossomodo la capitalizzazione di mercato degli altri, così come sono rappresentati nell’MSCI EAFE o in altri indici exUS.
Quindi se vogliamo la scelta, tra molte virgolette, “attiva” riguarda principalmente il criterio per asciugare l’S&P 500.
Il ragionamento è stato semplice: se il valore di un’azione nel lungo termine è legato agli utili e se le società americane generano una quota intorno al 50% degli utili di tutto il mercato azionario globale, allora circa 50% è il peso che vorrò dargli.
In pratica è come l’allocazione market cap weighted, ma che invece di usare il prezzo si basa sugli gli utili.
Questa non è un’idea particolarmente originale.
Per esempio, Research Affiliates, la società di Rob Arnott che era stato da noi nell’episodio 196, ha creato un indice basato su una logica simile, chiamato FTSE RAFI All World 3000, e lì gli Stati Uniti pesano il 51%.
RAFI utilizza usa anche altri criteri oltre agli utili e infatti cambia anche la composizione delle prime società più rappresentate nell’indice, che tra l’altro pesano molto meno che nel FTSE All World.
Però è interessante che l’asset allocation geografica sia simile a quella che era venuta fuori a me.
Una cosa divertente che potremmo fare, poi, è andare sul sito della società di Victor Haghani Elm Wealthe giocare con il tool di asset allocation che mettono a disposizione e che elabora delle allocazioni su azioni e obbligazioni in base ai rendimenti attesi — usando metodi che partono dall’CAEY e poi applicando delle correzioni.
Vedete: uno può scegliere:
– La propria quota azionaria di base in un contesto di mercato con valutazioni intermedie e un premio al rischio nella media;
– Di defualt l’allocazione geografica è settata su Neutral, cioè nessun tilt geografico verso o via dagli US
– E infine c’è un terzo parametro che vuol dire semplicemente: quanto vuoi adattare il portafoglio in base a come variano i rendimenti attesi nel futuro dalle diverse asset class. Di default è impostato su 50%.
Si fa andare il tool e in pochi secondi restituisce l’asset allocation corrispondente.
A fine settembre, questa sarebbe l’allocazione — tra molte virgolette — “suggerita”
Anche qui la quota di azioni è ripartita praticamente metà e metà tra azioni americane e azioni extra stati uniti, con un leggero sovrappeso dei mercati emergenti, addirittura più pesanti dell’europa, praticamente un quinto di tutta la quota azionaria.
Ora, non è possibile dire che sia “meglio” avere una quota di Stati Uniti inferiore al benchmark classico.
È una scelta che uno può prendere se:
– Vuole ridurre l’esposizione al dollaro del proprio portafoglio
– Vuole tener conto della possibile regressione della media a lungo termine quando le valutazioni sono molto elevate e infine
– Ha la pazienza di sopportare il fatto che questa scelta possa rivelarsi in certi momenti non ottimale.
– È statisticamente probabile che ci sarà un periodo più o meno lungo nel futuro in cui l’S&P 500 sottoperformerà i mercati ex US. È successo nei primi anni ’80, è successo nel 2000, succederà di nuovo.
Però potrebbe continuare a non succedere ancora per anni.
Certamente oggi c’è un gap di valutazioni estremamente elevato, che 10 anni fa non c’era.
Ma da qui a dire che sicuramente è arrivato il momento in cui i rapporti di forza tra S&P 500 e altri mercati comincia ad invertirsi è del tutto arbitrario. Quindi ora a ciascuno di voi scegliere che farne di queste informazioni e buoni tormenti a tutti!
Bene cari miei, spero che questo video vi sia piaciuto e non vi abbia incasinato troppo il cervello. Ricordatevi la premessa iniziale, un indice globale market cap weighted sarà sempre una buona idea, ma per chi vuole provare ad adottare soluzioni sistematiche diverse, questi sono alcuni elementi da prendere in considerazione.
Nel frattempo vi invito come sempre a iscrivervi al canale, mettere like e attivare le notifiche per supportarci e permetterci di continuare a produrre contenuti che vi parlano del sorriso del dollaro perché alla fine vogliamo solo parlare di finanza con un sorriso sempre nuovi.
Per questo episodio invece è davvero tutto e noi ci rivediamo negli altri video di questa playlist dedicata ai concetti più importanti di asset allocartion sempre qui, naturalmente con The Bull, il tuo podcast di finanza personale.
Recensioni
Quando capisci come funziona la finanza… ti viene voglia di raccontarla!
Da quando l'ho scoperto in 15 gg mi sono ascoltato 150 puntate senza fermarmi, ho annullato gli altri podcast per portarmi alla pari ed ascoltare tutte le precedenti puntate, ben fatto, esattamente il livello di informazione che mi serviva
Gianluca G., 11 Set 2025Podcast piacevole, scorre veloce ma in modo estremamente chiaro, spiega i concetti chiave per gestire le proprie finanze, fornendo la classica cassetta degli attrezzi. Complimenti, davvero ben fatto!
Massimiliano, 29 Mag 2024Veramente interessante, chiaro e conciso. Cambia la vita finanziaria di chiunque.. da ascoltare assolutamente anche per chi di finanza non vuole occuparsi mai
Francesca B., 6 Apr 2024Non sono solito a mettere recensioni e specialmente non ascolto podcast, ma da quando ho iniziato questo, faccio fatica a staccarmi, e quasi non posso più fare a meno di ascoltare e arricchirmi culturalmente.
Andrea V., 22 Set 2025Ho seguito tutte le puntate! Grazie veramente
Amalia A., 17 Set 2025Veramente veramente raccomandato! la finanza personale riassunta alla perfezione! e spiegata partendo dall'ABC! Ottimo anche da ascoltare a velocita 1,5x!
Giorgia R., 23 Gen 2025Riccardo mi ha letteralmente cambiato la vita e fatto scoprire che amo la finanza, ho ascoltato il podcast già due volte e non mi stufo mai di ascoltarlo, parla in modo semplice e chiaro
Massimo D., 23 Set 2025Dovrebbero ascoltarlo buona parte degli italiani e io avrei dovuto scoprirlo con qualche anno in anticipo ma meglio tardi che mai
Matteo C., 3 Set 2025Ho acquistato e letto il suo libro e l' ho trovato. Esprime i concetti economici in modo semplice e chiaro. Sentirlo parlare conferma che è un professionista del settore.
Giulia N., 11 Ago 2025