Rischio valutario: cos’è e come gestirlo
C’è un elefante nascosto in ogni portafoglio europeo: il rischio valutario. Investire in ETF globali significa esporsi al dollaro (o ad altre valute), e le variazioni del cambio possono farti guadagnare o mangiarsi parte dei rendimenti. In questa puntata spieghiamo cos’è davvero il rischio di cambio, come incide nel lungo periodo e quando – e se – conviene coprirsi. Dal caso euro/dollaro agli ETF “hedged”, fino alle differenze tra azioni e obbligazioni: una guida chiara per capire se e come gestire questa variabile scomoda ma inevitabile.
Risorse
Punti Chiave
Il rischio valutario è l'impatto del cambio sul rendimento di asset in valuta estera (es. Euro/Dollaro) ed è particolarmente rilevante per gli investitori europei.
La copertura valutaria (ETF Hedged) ha un costo implicito (Cost of Carry) che dipende dal differenziale dei tassi di interesse tra le due valute.
Sull'azionario è meglio non coprirsi; sull'obbligazionario, dove il rischio valutario può superare il rischio sistematico dell'asset, può avere più senso investire in ETF Euro Hedged.
Contenuti del video
- 00:00 Rischio Valutario
- 06:40 Cosa determina la forza di una valuta
- 12:25 Impatto sugli investimenti
- 21:31 La copertura valutaria
- 29:58 Precisazioni
- 00:00 Rischio Valutario
- 06:40 Cosa determina la forza di una valuta
- 12:25 Impatto sugli investimenti
- 21:31 La copertura valutaria
- 29:58 Precisazioni
Trascrizione Video
Bentornati a The Bull il tuo podcast di finanza personale.
Quando si parla di finanza personale e investimenti… beh … lo sappiamo di cosa si parla:
– Budgeting
– Controllo delle spese e del risparmio
– Interesse composto
– Investimenti a lungo termine a basso costo
– E così via, la solita gigantesca minestra che tutti conosciamo.
E naturalmente facciamo tutti noi — soprattutto chi fa il mio “lavoro” — bellissimi discorsi sull’investimento azionario globale, sull’S&P 500, sui treasury, sull’oro e via dicendo…
C’è però sempre un argomento che resta un po’ sullo sfondo, una sgradevole e non facilmente percettibile spada di Damocle che aleggia su tutti noi investitori europei con portafogli esposti , una minaccia latente che tende a rimanere nel dimenticatoio finché poi un bel giorno uno tutto contento guarda l’S&P 500 che va su e il suo portafoglio che invece
Questo discreto ma pesante elefante nella stanza dell’investitore è il rischio valutario, ossia il fatto che noi investiamo in Euro in asset denominati soprattutto in altre valute.
Noi possiamo fare tutti i ragionamenti del mondo di asset allocation, strategie, cazzi e mazzi, ma poi, piccolo dettaglio, il 99% dei paper e degli articoli che trattano di finanza ragionano in dollari e noi, beh, poi dobbiamo cambiare i dollari in Euro.
E questo piccolo dettaglio può fare una differenza mooolto significativa sui rendimenti netti dei nostri investimenti.
Nel bene e nel male ovviamente.
Perché, come sappiamo bene in finanza il rischio è sempre a due facce.
Il rischio finanziario è per definizione la varianza di una certa variabile — che sempre per definizione è simmetrica.
E la variabile in questo caso è che il cambio tra l’euro e le altre valute in cui investiamo può essere per noi positivo o negativo, cioè può portare extra rendimento oppure mangiarci via del rendimento.
Il motivo superficiale è molto semplice: se io europeo, con miei eurini, compro per esempio un ETF sull’S&P 500, le cui azioni sottostante sono denominate in dollari, il valore del mio investimento:
– SALIRA’ se il dollaro si RAFFORZA mentre
– SCENDERA’ se il dollaro di INDEBOLISCE (o se si rafforza l’euro, che è la stessa cosa).
Ok?
Quindi la regola è: quando investo in asset denominato in una valuta diversa dalla mia, il valore del mio investimento va nella stessa direzione della valuta estera: se si rafforza guadagno, se si indebolisce perdo.
Mi raccomando — lo dico fin da subito, visto che negli anni ho ricevuto 100.000 domande su questa cosa.
Quando comprate un ETF, la valuta di denominazione dell’ETF è irrilevante!
L’unica cosa che conta è la valuta del sottostante.
Ammesso che esista, voi potete comprare un ETF sull’S&P 500 anche denominato in YEN, ma comunque l’unica cosa che conta è sempre e solo il cambio euro dollaro visto che il cambio euro yen è uguale al cambio euro dollaro per il cambio dollaro yen
E quindi il cambio euro dollaro è euro/yen per yen/dollaro
Quindi — ve lo dico perché in tanti me lo scrivete — è inutile che dite “ah ma se io prendo un ETF in quella valuta e poi lo cambio in quell’altra … no!”
Se guadagni in Euro, investi in Euro e spendi in Euro, a meno che ti metti a giocare sul forex con le valute, da sta cosa dei cambi non puoi scappare — sarà sempre il cambio tra gli euro e la valuta di denominazione del sottostante che conta.
Detto questo,
Le oscillazioni tra le valute ci sembrano generalmente trascurabili, soprattutto tra valute forti come Euro e Dollaro, ma in realtà l’impatto nel lungo termine potrebbe essere massivo — come vedremo tra poco.
Ora, piccola premessa di contesto: questo discorso sul rischio cambio vale in generale, però è particolarmente attuale nel momento in cui è stato pubblicato quest’episodio, visto il decorso del tutto anomalo che ha interessato la più importante valuta del mondo nel 2025: l’onnipotente dollaro americano.
E sappiamo che questo andamento anomalo, che ha visto il valore del dollaro tracollare rispetto a tutte le altre principali valute come non succedeva da 50 anni ha in qualche modo a che fare con ….
Fondamentalmente negli ultimi 12-13 anni avevamo avuto un unico trend rilevante: il dollaro che si è gradualmente rafforzato nei confronti dell’euro praticamente a senso unico.
Nel maggio del 2008 con un euro compravi 1,58 dollari.
A inizio 2025 1,02.
E in realtà nell’autunno del 2022, quando la Fed alzò per prima i tassi di interesse rispetto alla Bce, e più drasticamente, si arrivò addirittura ad un euro che valeva poco meno di un dollaro.
Poi a inizio anno le cose sono cambiate velocemente, dato che l’inquilino cicciotto e arancione che ha preso la residenza al 1600 di Pennsylvanya Avenue, Washington DC, ha deciso che il libero commercio gli stava sulle palle — quindi dazi a tutti a destra e a manca, per uomini donne e pinguini di tutto il mondo! e poi ha deciso che pure lo stato di diritto e l’indipendenza di tutti i principali enti federali legati all’economia americana, tipo la Federal Reserve, erano cose che gli urtavano il sistema nervoso.
Morale: un rapido rovesciamento della storica immagine di granitica stabilità degli Stati Uniti ha portato gli investitori a considerare il dollaro un po’ meno onnipotente di prima e la sua santità messa in discussione.
Il cambio euro/dollaro, quello più corposo sui mercati valutari, è quindi sprofondato da 1,02 a 1,18.
Se vi sembra poca roba, non lo è.
È l’equivalente di una placca tettonica che si sposta di un metro.
Ora, al di là di tutto:
– Cosa determina le variazioni nel cambio tra due valute?
– Cosa comporta per i nostri investimenti che sono super esposti soprattutto al dollaro?
– E ci sono dei modi per coprirsi da questo rischio? Anche se forse la domanda giusta è: conviene coprirsi da questo rischio — e nel caso come si fa?
La risposta a queste tre domande costituirà il contenuto di questo video.
LEt’s go
[Cosa determina la forza di una valuta]
CAPITOLO UNO:
Cosa determina la forza relativa di una moneta
Per rispondere a questa domanda dobbiamo prima spiegare cosa determina la forza di una valuta rispetto ad un’altra.
Ora, il mondo delle valute è estremamente complicato, in confronto parlare di azioni è una barzelletta. Oggi però non vogliamo fare le cose troppe difficili, quindi riduciamo tutto all’osso.
Diciamo che la motivazione principale alla base delle variazioni nel cambio tra due valute è la stessa medesima legge che governa qualunque altra cosa nell’economia tutta: la legge della domanda e dell’offerta.
Se c’è una maggiore domanda di un bene, il suo prezzo tende a salire.
Se c’è una minore domanda, il prezzo tende a scendere.
E ovviamente vale anche il contrario.
Se c’è una minore offerta di un bene, il prezzo sale.
Se c’è una maggiore offerta, il prezzo scende.
Questa è la spiegazione onnicomprensiva: se c’è un’alta richiesta di dollari il dollaro si rafforza, altrimenti si indebolisce. Oppure al contrario: se c’è in atto una politica monetaria intenta a ridurre l’offerta di dollari, questo tende a rafforzarsi, se invece è espansiva tende a indebolirsi.
La cosa forse più interessante però è capire cosa MUOVE la domanda di dollari — e quindi la sua forza relativa.
Ci saranno probabilmente più motivazioni che versioni regionali della pasta al forno, però a me ne sono venute in mente 5 e intanto partiamo da queste.
NUMERO UNO: i tassi di interesse.
Solitamente se i tassi di interesse di una valuta sono più alti rispetto a quelli di un’altra moneta, allora gli investitori saranno incentivati a investire in asset denominati in quella valuta per ottenere un interesse maggiore.
Però ovviamente io nel mio conto ho euro, non dollari. Se voglio comprare per esempio un treasury bill che rende il 5% invece di un bund con medesima duration che rende magari il 3%, allora devo prima “comprare” dollari per poter investire in Treasury.
Di conseguenza l’attrattività di un mercato con tassi più elevati porta capitali, aumenta la domanda di dollari e il dollaro sale.
NUMERO DUE: le politiche monetarie, che ovviamente sono legati al punto uno ma da un’altra prospettiva.
Cosa succede solitamente: se il mercato si aspetta che nel futuro prevedibile la politica monetaria di una banca centrale, per esempio della Fed, sarà restrittiva — cioè alzerà i tassi — allora il dollaro tenderà a rafforzarsi: indirettamente per il motivo che spiegavamo sopra, e più direttamente per il fatto che si ridurrà l’offerta di dollari, dato che tassi più alti servono proprio a ridurre la quantità di moneta dentro un’economia, rendendo i prestiti più costosi e rallentando le spinte inflazionistiche.
NUMERO TRE: la bilancia commerciale.
In teoria se un Paese ha un deficit commerciale, quindi importa più di quel che esporta, allora significa che deve comprare più valuta estera di quando gli altri comprino la sua — e questo indebolisce la valuta. Questo però non è il caso degli Stati Uniti, che hanno sì un grosso deficit commerciale sui beni, ma esportano una montagna di servizi e soprattutto di asset finanziari, in primis Treasury, che fino a prova contraria sono il più importante asset sulla Terra e viene giustamente chiamato il “bedrock of global financial system”, il fondamento del sistema finanziario globale.
Quindi il deficit commerciale americano di cui tanto si è parlato nel 2025 e che avrebbe scatenato Lord Dazimort, sarebbe indotto da questo squilibrio, per cui l’enorme domanda di asset finanziari americani rafforza sistematicamente il dollaro e questo penalizza il suo export, alimentando in un circolo vizioso la crescita del deficit sulla bilancia commerciale del Paese.
Chiaro no?
Gli americani comprano più di quel che vendono, per fare questa cosa si indebitano, per indebitarsi il governo emette titoli di stato, tutti gli altri vogliono i titoli di stato, quindi vogliono dollari, il dollaro si rafforza, il dollaro forte incentiva l’import e sfavorisce l’export e via la ruota che ricomincia.
E questo ci porta al motivo
NUMERO QUATTRO, ossia: la domanda di asset finanziari denominati in una certa valuta.
Se tutti vogliono i Treasury e se tutti vogliono investire nell’S&P 500, l’afflusso di capitali esteri sui mercati americani aumenta la domanda di dollari e ne rafforza il valore rispetto alle altre valute.
NUMERO CINQUE — e qui andiamo su una questione non strettamente finanziaria, ma che afferisce ad una più ampia sfera economica e geopolitica: la fiducia. Se c’è fiducia nella stabilità di un Paese — e in particolare nei confronti degli Stati Uniti — la sua valuta resta forte. Se c’è una crisi di sfiducia, questa si indebolisce perché naturalmente molti investitori saranno indotti a liquidare asset denominati in dollari per rifugiarsi, almeno parzialmente, verso altre valute, come tipicamente avviene con Yen e Franco Svizzero, le altre due valute universalmente considerate safe haven sul mercato valutario.
La crisi di fiducia può ad esempio essere innescata da un’escalation del debito pubblico.
Oppure da un presidente esuberante che ha deciso di sputtanare 80 anni di stabilità dell’ordine economico imperniato sugli Stati Uniti e sul dollaro in una manciata di settimane.
Oppure ancora, come è in questo caso, un mix dei due.
Insomma, per una serie di motivi, una certa valuta si può rafforzare o indebolire nel tempo — e a volte i governi cercano proprio di ottenere uno dei dui obiettivi a seconda degli obiettivi di politica economica che devono perseguire.
Detto questo: che ce frega?
Eh… c’è frega.
Cerchiamo di quindi di capire quanto ce frega e andiamo dunque al
[impatto sugli investimenti]
Capitolo SECONDO: come si calcola l’impatto del cambio sui nostri ETF con sottostanti quotati in dollari (o in qualunque altra valuta, ovviamente parlo del dollaro perché se prendiamo come benchmark di investimento azionario un indice globale come l’MSCI ACWI, il 63% dei sottostanti è in dollari).
Partiamo da questa formuletta semplice.
Sbagliata, ma semplice.
Finché parliamo di piccole variazioni giornaliere, la somma algebrica è una buona approssimazione senza diventare matti.
– Non so se l’S&P 500 fa +1% e il cambio euro/dollaro +0,4% (quindi l’euro si rafforza sul dollaro) voi fate 1 MENO 0,4 e grossomodo 0,6% sarà la crescita netta del vostro ETF sull’S&P 500 quel giorno.
– Se invece l’S&P 500 fa +1% e il cambio euro/dollaro -0,4%, allora 1+0,4 che fa 1,4%.
Ovviamente bisogna sempre invertire più e meno perché noi siamo penalizzati se l’euro si rafforza e viceversa.
Questa cosa però non è corretta se le variazioni sono ampie e soprattutto se vogliamo considerare dei periodi di tempo che vanno oltre le variazioni giornaliere.
La regola corretta per calcolare il rendimento del nostro ETF in Euro sull’S&P 500 è:
Facciamo un esempio.
L’S&P cresce del 9%, come è successo mercoledì 9 aprile, in quell’assurda giornata in cui dopo aver fatto collassare i mercati la settimana prima Trump decise di mettere i dazi in pausa per 90 giorni.
Il cambio euro/dollaro aveva fatto tipo boh, diciamo +2% (vado a memoria tanto chissene).
Quanto fa?
Se facessi 9-2 = 7% commetterei un piccolo errore.
Facciamo il conto giusto:
(1 + 0,09) / (1 + 0,02) — 1 = 6,86%
Certo non è che sballa di tantissimo rispetto a fare la sottrazione.
Il discorso però cambia parecchio se consideriamo l’impatto cumulativo delle variazioni tra euro dollaro nel tempo.
Qui il calcolo è leggermente più complicato, però noi per esempio possiamo fare qualche simulazione per vedere quale sarebbe l’impatto di una certa variazione nel cambio EUR/USD su un orizzonte temporale lungo.
È la formula, se non ho fatto stronzate, dovrebbe essere questa:
rendimento composto in dollari elevato al numero di anni diviso 1 più variazione euro dollaro il tutto elevato a 1 fratto numero di anni — 1.
Va beh… tanto non è una roba che vi serve per vivere, ve la dico solo per curiosità, poi vi faccio vedere i risultati con i conti già fatti.
Allora facciamo solo qualche esempio considerando un orizzonte di 15 anni, che non prendo a caso per motivi che dirò tra poco.
Ammettiamo che nei prossimi 15 anni l’S&P 500 cresca del 6% all’anno.
Sì lo so è poco, la media dal 1970 ad oggi è circa 11%.
Però come ho già detto un cazziliardo di volte nel podcast, i rendimenti attesi cambiano nei vari cicli e un buon indicatore piuttosto attendibile dei rendimenti futuri è il rapporto tra gli utili medi reali degli ultimi 10 anni dell’S&P 500 e il suo prezzo attuale, il cosiddeto Cyclically adjusted Earning Yield, per gli amici CAEY.
Mentre sto registrando è UNO diviso 38 che fa 2,6%, si fanno un po’ di correzioni perché è una stima un po’ conservativa per motivi tecnici su cui non vi sto ad annoiare e diciamo che un po’ alla buona possiamo fare 2,6% PER 1,5 che fa un po’ meno di 4%.
4% è il rendimento reale atteso medio per i prossimi 10-15 anni.
Mettiamo un po’ di inflazione, 2-3%, ecco che 6% potrebbe essere una ragionevole stima del ritorno nominale dell’S&P 500 nel prossimo ciclo.
Non me la sono sognata io:
– AQR stima circa 7% nominale
– Vanguard circa il 5%
– Blackrock circa 6%
– JP Morgan 7%, insomma siamo lì
Questa roba non è una legge fisica.
Anzi, il margine di errore è piuttosto ampio.
Però per i ragionamenti che facciamo qua oggi va bene una stima conservativa, né troppo ottimista né troppo pessimista.
Cosa succede ai nostri investimenti se nel frattempo il dollaro continua a svalutarsi?
Facciamo alcuni esempi:
– Caso uno: il dollaro scende di un altro 20% rispetto a dov’era stamattina, quindi si arriva a 1 € UGUALE 1,39 $ più o meno. In questo caso da qui al 2040 il mio ETF sull’S&P 500 avrà reso circa il 4,7%, invece che il 6%.
– Caso due: il dollaro scende del 30% e il cambio va a 1,5. Il nostro ETF crescerà poco più del 4%.
– Caso tre: il dollaro scende del 40% e il cambio va a 1,62, che è il picco storico raggiunto nel luglio del 2008, il momento in cui l’euro ha raggiungo la massima forza sul dollaro nella storia. In questo scenario potenzialmente apocalittico, il 6% all’anno dell’S&P 500 per noi si tradurrebbe in poco più del 3,5%.
———————————————————————– Cambio EUR/USD Rendimento in EUR ———————– ———————– ———————– EUR/USD + 20% 1,39 4,7%
EUR/USD + 30% 1,5 4,2%
EUR/USD + 40% 1,62 3,6% ———————————————————————–
Se il cambio euro/dollaro arrivasse a 1,59, ciò significherebbe che dall’ottobre 2022, quando il cambio ha toccato il suo massimo a 0,98 dollari per un euro, la svalutazione complessiva sarebbe di oltre il 60%.
Ora, lasciamo per un attimo da parte cosa significhi per l’economia globale una svalutazione del dollaro del 60% rispetto all’euro, facciamo finta che per l’economia tutta questa cosa abbia un effetto neutro — e naturalmente è molto improbabile che ciò sia vero — però consideriamo solo l’impatto sui nostri portafogli.
Vista così sembra una merda.
Non una tragedia, ma tanto vale investire in azioni no?
Beh sono due modi di vedere la cosa.
UNO è sicuramente NEGATIVO.
Già l’aspettativa media è che i rendimenti futuri dell’S&P 500 non siano così alti come quelli passati, in più ci mettiamo sopra l’impatto di una potenzialmente violenta svalutazione del dollaro, alla fine salta fuori che investire in BTP rende di più che nel rischioso e non più onnipotente indice delle grandi società a stelle e strisce.
E fin qui non ci piove.
Il rischio valutario c’è, c’è sempre stato, sempre ci sarà.
La sappiamo dal giorno uno che se investiamo in asset non denominati in euro dobbiamo mettere in conto questo rischio e quindi ce lo prendiamo per quello che è.
L’ALTRO aspetto invece, paradossalmente, potrebbe addirittura essere positivo per chi ha di fronte a sé una fase di accumulo relativamente lunga.
Diciamo che ci sono delle buone notizie:
– Intanto, questo è l’andamento del cambio euro dollaro nella storia
A volte va su, a volte va giù.
Dal 2001 al 2008 il trend è stato chiaramente verso l’alto.
Dal 2009 ad oggi il trend è stato chiaramente discendente.
Ma fondamentalmente siamo sempre lì, intorno a 1,20.
Se ci aspetta un decennio di indebolimento del dollaro, è lecito aspettarsi anche un successivo rafforazamento.
Questo sarebbe peraltro il caso migliore per via del principio della SEQUENZA DEI RENDIMENTI di cui abbiamo parlato spesso.
Se io investo i miei soldi un po’ per volta nel mio portafoglio, se prima ho dei rendimenti più negativi e poi ho dei rendimenti più positivi, il rendimento complessivo è maggiore che il contrario, anche a parità di rendimento medio.
Il motivo è banale: i momenti negativi impatteranno su un capitale più contenuto e viceversa.
– La seconda cosa è che appunto io non investo di botto tutti i miei soldi oggi e poi mai più, ma tipicamente faccio PIANI DI ACCUMULO, o comunque investo in momenti diversi nel tempo. Di conseguenza gli effetti di entrambe le direzioni che dovesse prendere il cambio euro / dollaro sarebbero diluiti dal fatto che io investo un po’ per volta. A meno di un collasso del dollaro stile peso argentino o lira turca, lo scenario base è che a volte mi andrà bene, a volte meno bene.
– C’è infine un’altra importantissima variabile che non stiamo considerando. I movimenti delle valute hanno degli impatti sull’economia reale, molto difficili da prevedere. Da un lato, chissà, magari un dollaro debole favorisce l’export americano, gli utili salgono e quindi il mercato cresce di più di quanto farebbe con un dollaro forte. Oppure un euro forte dà dei vantaggi alle società europee che devono comprare materie prime prezzate in dollari e abbattono i loro costi di produzione.
Insomma, è molto difficile fare previsioni sugli andamenti valutari e sugli impatti economici — ed è difficile dire se il rischio netto dell’esposizione ai cambi sia positivo o negativo. Il che probabilmente è un indizio del fatto che in media non è né l’uno né l’altro.
Ora, abbiamo capito tutto il quadro teorico e le implicazioni sui rendimenti: ma se io volessi levarmi proprio dalle palle questo rischio cambio?
[la copertura valutaria]
Veniamo allora al CAPITOLO TRE: la copertura valutaria
Allora, la soluzione ovvia a questo potenziale rischio sembrerebbe facile, ossia: usare un ETF Hedged, con cambio coperto, ossia un ETF che annulla l’impatto del cambio tra le due valute.
Easy no?
Problema risolto.
Ovviamente non è così semplice, perché il piccolo problema di questa soluzione apparentemente semplice sono i costi.
Costi che non si vedono nel TER dell’ETF perché sono costi accumulati man mano, come capiremo tra poco.
L’impatto però dei costi di una copertura valutaria può essere estremamente elevato, quindi obiettivo di oggi è capire quando conviene e quando meno.
Intanto, come fa un ETF a “hedgiare” il cambio?
Senza entrare nel dettaglio tecnico che ci annoiamo tutti a morte, il concetto è che l’emittente dell’ETF ogni mese acquista un contratto derivato sulle valute chiamato forward. Non è l’unico modo ma credo sia il più diffuso.
Un forward non è altro che un contratto tra due parti per scambiare due valute a un tasso di cambio prefissato in una data futura.
Cosa succede quindi:
– Per esempio se parliamo di S&P 500, l’ETF scambia euro in dollari per comprare le azioni dell’S&P 500, che chiaramente sono in dollari;
– Poi per coprire il rischio di cambio, l’ETF fa un contratto forward che fissa il tasso di cambio tra euro e dollaro in una data futura.
A questo punto cosa accade:
– Se il dollaro si deprezza rispetto all’euro, la perdita sul valore delle azioni in dollari viene compensata dal guadagno sul contratto forward.
– Se invece il dollaro si apprezza, il guadagno sul valore delle azioni in dollari viene compensato dalla perdita sul contratto forward.
Ok? In questo modo la performance dell’ETF in euro coincide sempre con quella del sottostante in dollari perché viene annullato l’effetto cambio.
C’è un però.
Come si fa a fissare il tasso di cambio da qui a un mese?
Cioè l’emittente dell’ETF e la banca o chi per essa che gli fa da controparte in questo contratto forward, come fanno a stabilire a che tasso verrà fissato il cambio euro/dollaro alla fine del mese?
C’è una formula.
Anche questa ve la dico solo per curiosità, ma non è importante capirla.
È importante solo capire che tutto ciò ha a che fare, ancora una volta, con i ì tassi di interesse.
Il tasso forward si ottiene partendo dal tasso di cambio di oggi, chiamato tasso spot, e moltiplicandolo per Uno + il tasso di interesse a breve termine della mia valuta diviso Uno + il tasso di interesse a breve termine della valuta del sottostante, il tutto elevato a un dodicesimo, visto che solitamente sono contratti mensili.
Cioè … sta roba qua
Ripeto, chissenestrafrega della formula.
L’unica cosa da capire è che la copertura valutaria ha un costo che dipende principalmente dalla differenza tra i tassi di interesse.
Se il tasso sui depositi della BCE è mettiamo 2 % e quello della Fed è 4%, ci sono due punti percentuali di differenza.
Cosa comporta questa cosa?
Si dice che c’è un Cost of Carry.
Quando un investitore vuole coprirsi dall’esposizione verso una valuta estera è come se implicitamente “pagasse” il tasso estero e “ricevesse” in cambio il tasso domestico.
Insomma, per farla breve, il differenziale di tassi di interesse è un costo implicito che dobbiamo sostenere per coprirci dal cambio.
In questo momento, appunto, tra Euro e Dollaro c’è circa un 2% di differenziale di tassi di interesse.
E questo è un costo che va ed erodere la performance del nostro ETF hedged.
Ci sarebbero poi altre cose, ma va bene così, il punto l’abbiamo capito.
Di qui dovremmo giungere ad una conclusione abbastanza ovvia.
In linea di principio, se noi europei abbiamo una valuta con tassi di interesse più bassi della valuta da coprire, dollaro in questo caso, solitamente non conviene coprirsi, perché andiamo a pagare un costo certo a fronte di un beneficio incerto.
Per esempio, negli ultimi 5 anni un ETF hedged sull’S&P 500 avrebbe reso circa 23 punti percentuali in meno di uno a cambio aperto.
Negli ultimi 3 anni, complice soprattutto quello che è successo nel 2025, sarebbe stato l’ETF hedged quello migliore
Abbiamo detto spesso che quando investiamo in azionario, soprattutto se l’esposizione principale è verso il dollaro, tendenzialmente la copertura ha poco senso perché:
– Di default abbiamo un costo di circa un paio di punti percentuali all’anno da pagare come cost of carry, almeno finché c’è questa differenza di tassi di interesse tra BCE e Fed;
– Poi perché mi prendo un costo certo per un beneficio incerto e con il rischio di perdermi del rendimento supplementare. Io infatti dal cambio posso tanto guadagnarci quanto perderci. Ma con la copertura in pratica pago un costo certo per precludermi a priori la possibilità di avere un beneficio nelle fasi in cui il dollaro si rafforza;
– Inoltre c’è anche da dire che l’esposizione al dollaro è anche una sorta di hedge naturale, perché tipicamente in fasi ad alta tensione diventa una sorta di porto sicuro, di safe haven; certo magari oggi un po’ meno, ma storicamente nelle fasi critiche il dollaro tende a rafforzarsi più dell’Euro, quindi, boh, fino a prova a contraria potrebbe fare da cuscinetto se i mercati venissero giù per qualche grave recessione globale.
Discorso diverso invece con altre valute.
La più interessante è forse lo Yen.
Qui abbiamo la situazione inversa, ossia tassi di interesse più bassi rispetto a quelli Europei.
In questo caso il carry, sulla carta, è vantaggioso perché al contrario del dollaro qui vendo euro ad un premium per comprare yen.
Negli ultimi 3 anni, cioè da quando è cominciata la grande divergenza tra la BCE e la Bank of Japan, perché noi abbiamo iniziato ad alzare i tassi a manetta per contrastare l’inflazione, mentre loro sono rimasti con tassi addirittura negativi, avere un ETF sul MSCI Japan con cambio coperto sarebbe stata la scelta vincente: +30% con cambio aperto, +72% con cambio coperto, in soli tre anni!
Quindi abbiamo capito che ci sono due cose da tenere in considerazione nella valutazione complessiva sul rischio valutario.
– Una è il costo del carry determinato principalmente dal differenziale tra i tassi di interesse, con la regola generale per cui se la valuta da cui vogliamo coprirci ha tassi di interesse superiori ai nostri è tendenzialmente svantaggioso;
– L’altra è la direzione intrapresa dalle banche centrali che è un proxy della possibile evoluzione delle rispettive valute.
Ora, detto tutto questo e capito sia che la valuta ha un impatto rilevante sulla performance dei nostri investimenti, sia quali sono i meccanismi principali sottesi, cosa conviene fare per i nostri investimenti azionari?
– Nulla, cioè si può investire nel mercato globale così com’è e accettare che anche i cambi riflettano l’equilibrio generale del mercato;
– Si può scegliere di sovrappesare i mercati denominati in Euro o comunque non in dollari
– Oppure può fare una cosa più articolata, come proposto in questo paper del Man Institute, dal titolo “The Best Strategy for exchange hedging”
Una delle soluzioni proposte, la più intuitiva, è fondamentalmente di calcolare la percentuale di Paesi con i tassi di interesse maggiori o uguali a quelli dell’Euro (quindi va inclusa la quota di Paesi dell’Eurozona) e di conseguenza calcolare la percentuale di esposizione verso Yen, Franco Svizzero e così via che hanno tassi di interesse inferiori a quelli dell’eurozona.
Facciamo finta che sto investendo 100.000 € nell’MSCI World e che il 90% è il peso del primo blocco, quello con tassi di interesse maggiori, mentre il secondo blocco pesa 10%.
Allora potrei fare:
– 90.000 € in un ETF classico su MSCI World; e
– 10.000 € in un ETF su MSCI World Hedged.
Finché però il peso degli Stati Uniti resta così esorbitante — o finché i tassi Europa restano mediamente più bassi rispetto alle altre principali valute tranne Yen e Franco — la copertura valutaria non sembra una necessità fondamentale nel portafoglio.
Se però un domani, che ne so, il peso degli Stati Uniti scende al 40% e il Giappone va al 20%, oppure i tassi in Europa vanno al 4% e quelli della Fed al 2%, ecco forse lì conviene tenere a mente questo discorso.
Fatto tutto questo discorso, però, ci sono tre precisazioni da fare.
[precisazioni]
PRIMA PRECISAZIONE.
Se noi investiamo nell’S&P 500 siamo esposti al dollaro, pacifico.
Così come siamo esposti alla sterlina se investiamo nel FTSE 100.
E via dicendo.
Ma conta anche tanto da dove arriva il fatturato di quelle società.
Se una società esporta in maniera significativa la sua azione è sì denominata nella valuta locale, ma i suoi utili sono il risultato netto dell’esposizione di quella società ai mercati in cui esporta.
Cosa vuol dire questa cosa?
Vuol dire che in un mercato caratterizzato soprattutto da grandi aziende globali che esportano in tutto il mondo noi comunque abbiamo un’inevitabile esposizione generale a diverse valute e quello che vediamo quotidianamente per esempio nel cambio euro dollaro che condiziona il prezzo del mio ETF sull’S&P 500 è solo la punta dell’iceberg.
Quindi va bene tenere conto del rischio cambio nell’ambito della pianificazione finanziaria complessiva in cui dobbiamo tenere presente di tutte le variabili, però non serve neanche diventare matti perché nell’ambito delle valute, spesso un elemento esce fuori dalla porta e rientra dalla finestra.
La SECONDA PRECISAZIONE è che tutti gli studi e i backtest sul discorso del rischio valutario hanno un problema. Considerano il time weighted rate of return, ossia i rendimenti che si sarebbero ottenuti tramite un investimento fatto in un momento x e poi lasciati correre per n anni.
Noi però non investiamo così, come abbiamo detto anche prima.
Nella fase di accumulo investiamo tipicamente un po’ per volta ogni mese o comunque ogni qualvolta abbiamo soldi da investire.
Ogni tanto qualche investimento lo disinvestiamo perché ci servono i soldi.
Infine nella fase di retirement andiamo a decumulare o comunque a spendere i nostri investimenti.
Il fatto che investiamo o disinvestiamo un po’ per volta finisce comunque per mediare, almeno entro certi limiti, gli effetti del rischio valutario.
Anche per questa ragione, ok ricordarsi che c’è l’effetto cambio, ma anche che per via del modo in cui investiamo, forse non incide così tanto come può sembrare.
TERZA PRECISAZIONE: Finora abbiamo parlato solo di azioni.
Long story short la tesi è: meglio il cambio aperto, eventualmente aggiustato per il discorso del Carry.
Sulle obbligazioni invece il discorso è un po’ diverso.
Molti di voi ogni tanto mi fanno vedere portafogli in cui hanno tot ETF azionari e poi magari un ETF sui Treasury americani.
Ora, investire in Treasury non è né giusto né sbagliato.
Ma i Treasury sono denominati in dollari.
Quindi se io investo in Treasury con l’idea di avere un asset relativamente sicuro e poco volatile come uno si aspetterebbe da un titolo di Stato, ecco ricordiamoci che però la volatilità del cambio euro dollaro farà sì che il mio investimento obbligazionario alla fine avrà la volatilità dell’azionario.
Inoltre c’è un’importante differenza tra azioni e obbligazioni.
Teoricamente il rendimento atteso dalle azioni è più elevato e quindi il rischio valutario, nel grande schema delle cose, è accettabile se investo in un asset che di per sé è già volatile.
A volte questa volatilità si aggiungerà ai rendimenti, a volte mi giocherà contro.
Però ci sta.
Con le obbligazioni mica tanto, perlomeno nella misura in cui mi aspetto magari un rendimento del 3% con una volatilità del 6% e poi finisco per ritrovarmi con una volatilità del 15%.
Sulle obbligazioni, quindi, è molto più frequente investire a cambio coperto, perlomeno se uno vuole un’esposizione globale.
Allo stesso modo, questo è anche uno dei motivi per cui, diversamente dall’azionario, avere una concentrazione obbligazionaria su mercati denominati in Euro è un’idea piuttosto di buon senso.
È vero che un ETF sui titoli di stato europei a media scadenza rende circa 2,5-2,8% oggi, mentre un ETF sui treasury 4,5%.
Però quel 4,5% è puramente teorico.
In mezzo devo metterci la variabile imprevedibile del cambio euro dollaro.
Quindi sulle obbligazioni occhio alle esposizioni valutarie, non sempre il gioco vale la candela.
Bene cari miei, fine anche dell’episodio di oggi, spero vi sia piaciuto e che vi abbia chiarito qualche dubbio residuo che si era insinuato nella vostra testa e che turbava i vostri animi.
Prima di lasciarci, vi invito come sempre a iscrivervi al canale se non l’avete fatto, così come a mettere like e attivare le notifiche per supportarci e permetterci di continuare a produrre contenuti in cui sembra che il rischio valutario sia una grave minaccia che incombe su di noi come un’ombra con la forma del presidentissimo Donald J ma in realtà forse non lo è poi così tanto sempre nuovi.
Per questo episodio invece è davvero tutto e noi ci rivediamo con il prossimo video di questa playlist dedicato ai dubbi più frequenti tra gli innumerevoli ascoltatori e ora anche spettatori di questo podcast, sempre qui naturalmente con The Bull il tuo podcast di finanza personale
Bentornati a The Bull il tuo podcast di finanza personale.
Quando si parla di finanza personale e investimenti… beh … lo sappiamo di cosa si parla:
– Budgeting
– Controllo delle spese e del risparmio
– Interesse composto
– Investimenti a lungo termine a basso costo
– E così via, la solita gigantesca minestra che tutti conosciamo.
E naturalmente facciamo tutti noi — soprattutto chi fa il mio “lavoro” — bellissimi discorsi sull’investimento azionario globale, sull’S&P 500, sui treasury, sull’oro e via dicendo…
C’è però sempre un argomento che resta un po’ sullo sfondo, una sgradevole e non facilmente percettibile spada di Damocle che aleggia su tutti noi investitori europei con portafogli esposti , una minaccia latente che tende a rimanere nel dimenticatoio finché poi un bel giorno uno tutto contento guarda l’S&P 500 che va su e il suo portafoglio che invece
Questo discreto ma pesante elefante nella stanza dell’investitore è il rischio valutario, ossia il fatto che noi investiamo in Euro in asset denominati soprattutto in altre valute.
Noi possiamo fare tutti i ragionamenti del mondo di asset allocation, strategie, cazzi e mazzi, ma poi, piccolo dettaglio, il 99% dei paper e degli articoli che trattano di finanza ragionano in dollari e noi, beh, poi dobbiamo cambiare i dollari in Euro.
E questo piccolo dettaglio può fare una differenza mooolto significativa sui rendimenti netti dei nostri investimenti.
Nel bene e nel male ovviamente.
Perché, come sappiamo bene in finanza il rischio è sempre a due facce.
Il rischio finanziario è per definizione la varianza di una certa variabile — che sempre per definizione è simmetrica.
E la variabile in questo caso è che il cambio tra l’euro e le altre valute in cui investiamo può essere per noi positivo o negativo, cioè può portare extra rendimento oppure mangiarci via del rendimento.
Il motivo superficiale è molto semplice: se io europeo, con miei eurini, compro per esempio un ETF sull’S&P 500, le cui azioni sottostante sono denominate in dollari, il valore del mio investimento:
– SALIRA’ se il dollaro si RAFFORZA mentre
– SCENDERA’ se il dollaro di INDEBOLISCE (o se si rafforza l’euro, che è la stessa cosa).
Ok?
Quindi la regola è: quando investo in asset denominato in una valuta diversa dalla mia, il valore del mio investimento va nella stessa direzione della valuta estera: se si rafforza guadagno, se si indebolisce perdo.
Mi raccomando — lo dico fin da subito, visto che negli anni ho ricevuto 100.000 domande su questa cosa.
Quando comprate un ETF, la valuta di denominazione dell’ETF è irrilevante!
L’unica cosa che conta è la valuta del sottostante.
Ammesso che esista, voi potete comprare un ETF sull’S&P 500 anche denominato in YEN, ma comunque l’unica cosa che conta è sempre e solo il cambio euro dollaro visto che il cambio euro yen è uguale al cambio euro dollaro per il cambio dollaro yen
E quindi il cambio euro dollaro è euro/yen per yen/dollaro
Quindi — ve lo dico perché in tanti me lo scrivete — è inutile che dite “ah ma se io prendo un ETF in quella valuta e poi lo cambio in quell’altra … no!”
Se guadagni in Euro, investi in Euro e spendi in Euro, a meno che ti metti a giocare sul forex con le valute, da sta cosa dei cambi non puoi scappare — sarà sempre il cambio tra gli euro e la valuta di denominazione del sottostante che conta.
Detto questo,
Le oscillazioni tra le valute ci sembrano generalmente trascurabili, soprattutto tra valute forti come Euro e Dollaro, ma in realtà l’impatto nel lungo termine potrebbe essere massivo — come vedremo tra poco.
Ora, piccola premessa di contesto: questo discorso sul rischio cambio vale in generale, però è particolarmente attuale nel momento in cui è stato pubblicato quest’episodio, visto il decorso del tutto anomalo che ha interessato la più importante valuta del mondo nel 2025: l’onnipotente dollaro americano.
E sappiamo che questo andamento anomalo, che ha visto il valore del dollaro tracollare rispetto a tutte le altre principali valute come non succedeva da 50 anni ha in qualche modo a che fare con ….
Fondamentalmente negli ultimi 12-13 anni avevamo avuto un unico trend rilevante: il dollaro che si è gradualmente rafforzato nei confronti dell’euro praticamente a senso unico.
Nel maggio del 2008 con un euro compravi 1,58 dollari.
A inizio 2025 1,02.
E in realtà nell’autunno del 2022, quando la Fed alzò per prima i tassi di interesse rispetto alla Bce, e più drasticamente, si arrivò addirittura ad un euro che valeva poco meno di un dollaro.
Poi a inizio anno le cose sono cambiate velocemente, dato che l’inquilino cicciotto e arancione che ha preso la residenza al 1600 di Pennsylvanya Avenue, Washington DC, ha deciso che il libero commercio gli stava sulle palle — quindi dazi a tutti a destra e a manca, per uomini donne e pinguini di tutto il mondo! e poi ha deciso che pure lo stato di diritto e l’indipendenza di tutti i principali enti federali legati all’economia americana, tipo la Federal Reserve, erano cose che gli urtavano il sistema nervoso.
Morale: un rapido rovesciamento della storica immagine di granitica stabilità degli Stati Uniti ha portato gli investitori a considerare il dollaro un po’ meno onnipotente di prima e la sua santità messa in discussione.
Il cambio euro/dollaro, quello più corposo sui mercati valutari, è quindi sprofondato da 1,02 a 1,18.
Se vi sembra poca roba, non lo è.
È l’equivalente di una placca tettonica che si sposta di un metro.
Ora, al di là di tutto:
– Cosa determina le variazioni nel cambio tra due valute?
– Cosa comporta per i nostri investimenti che sono super esposti soprattutto al dollaro?
– E ci sono dei modi per coprirsi da questo rischio? Anche se forse la domanda giusta è: conviene coprirsi da questo rischio — e nel caso come si fa?
La risposta a queste tre domande costituirà il contenuto di questo video.
LEt’s go
[Cosa determina la forza di una valuta]
CAPITOLO UNO:
Cosa determina la forza relativa di una moneta
Per rispondere a questa domanda dobbiamo prima spiegare cosa determina la forza di una valuta rispetto ad un’altra.
Ora, il mondo delle valute è estremamente complicato, in confronto parlare di azioni è una barzelletta. Oggi però non vogliamo fare le cose troppe difficili, quindi riduciamo tutto all’osso.
Diciamo che la motivazione principale alla base delle variazioni nel cambio tra due valute è la stessa medesima legge che governa qualunque altra cosa nell’economia tutta: la legge della domanda e dell’offerta.
Se c’è una maggiore domanda di un bene, il suo prezzo tende a salire.
Se c’è una minore domanda, il prezzo tende a scendere.
E ovviamente vale anche il contrario.
Se c’è una minore offerta di un bene, il prezzo sale.
Se c’è una maggiore offerta, il prezzo scende.
Questa è la spiegazione onnicomprensiva: se c’è un’alta richiesta di dollari il dollaro si rafforza, altrimenti si indebolisce. Oppure al contrario: se c’è in atto una politica monetaria intenta a ridurre l’offerta di dollari, questo tende a rafforzarsi, se invece è espansiva tende a indebolirsi.
La cosa forse più interessante però è capire cosa MUOVE la domanda di dollari — e quindi la sua forza relativa.
Ci saranno probabilmente più motivazioni che versioni regionali della pasta al forno, però a me ne sono venute in mente 5 e intanto partiamo da queste.
NUMERO UNO: i tassi di interesse.
Solitamente se i tassi di interesse di una valuta sono più alti rispetto a quelli di un’altra moneta, allora gli investitori saranno incentivati a investire in asset denominati in quella valuta per ottenere un interesse maggiore.
Però ovviamente io nel mio conto ho euro, non dollari. Se voglio comprare per esempio un treasury bill che rende il 5% invece di un bund con medesima duration che rende magari il 3%, allora devo prima “comprare” dollari per poter investire in Treasury.
Di conseguenza l’attrattività di un mercato con tassi più elevati porta capitali, aumenta la domanda di dollari e il dollaro sale.
NUMERO DUE: le politiche monetarie, che ovviamente sono legati al punto uno ma da un’altra prospettiva.
Cosa succede solitamente: se il mercato si aspetta che nel futuro prevedibile la politica monetaria di una banca centrale, per esempio della Fed, sarà restrittiva — cioè alzerà i tassi — allora il dollaro tenderà a rafforzarsi: indirettamente per il motivo che spiegavamo sopra, e più direttamente per il fatto che si ridurrà l’offerta di dollari, dato che tassi più alti servono proprio a ridurre la quantità di moneta dentro un’economia, rendendo i prestiti più costosi e rallentando le spinte inflazionistiche.
NUMERO TRE: la bilancia commerciale.
In teoria se un Paese ha un deficit commerciale, quindi importa più di quel che esporta, allora significa che deve comprare più valuta estera di quando gli altri comprino la sua — e questo indebolisce la valuta. Questo però non è il caso degli Stati Uniti, che hanno sì un grosso deficit commerciale sui beni, ma esportano una montagna di servizi e soprattutto di asset finanziari, in primis Treasury, che fino a prova contraria sono il più importante asset sulla Terra e viene giustamente chiamato il “bedrock of global financial system”, il fondamento del sistema finanziario globale.
Quindi il deficit commerciale americano di cui tanto si è parlato nel 2025 e che avrebbe scatenato Lord Dazimort, sarebbe indotto da questo squilibrio, per cui l’enorme domanda di asset finanziari americani rafforza sistematicamente il dollaro e questo penalizza il suo export, alimentando in un circolo vizioso la crescita del deficit sulla bilancia commerciale del Paese.
Chiaro no?
Gli americani comprano più di quel che vendono, per fare questa cosa si indebitano, per indebitarsi il governo emette titoli di stato, tutti gli altri vogliono i titoli di stato, quindi vogliono dollari, il dollaro si rafforza, il dollaro forte incentiva l’import e sfavorisce l’export e via la ruota che ricomincia.
E questo ci porta al motivo
NUMERO QUATTRO, ossia: la domanda di asset finanziari denominati in una certa valuta.
Se tutti vogliono i Treasury e se tutti vogliono investire nell’S&P 500, l’afflusso di capitali esteri sui mercati americani aumenta la domanda di dollari e ne rafforza il valore rispetto alle altre valute.
NUMERO CINQUE — e qui andiamo su una questione non strettamente finanziaria, ma che afferisce ad una più ampia sfera economica e geopolitica: la fiducia. Se c’è fiducia nella stabilità di un Paese — e in particolare nei confronti degli Stati Uniti — la sua valuta resta forte. Se c’è una crisi di sfiducia, questa si indebolisce perché naturalmente molti investitori saranno indotti a liquidare asset denominati in dollari per rifugiarsi, almeno parzialmente, verso altre valute, come tipicamente avviene con Yen e Franco Svizzero, le altre due valute universalmente considerate safe haven sul mercato valutario.
La crisi di fiducia può ad esempio essere innescata da un’escalation del debito pubblico.
Oppure da un presidente esuberante che ha deciso di sputtanare 80 anni di stabilità dell’ordine economico imperniato sugli Stati Uniti e sul dollaro in una manciata di settimane.
Oppure ancora, come è in questo caso, un mix dei due.
Insomma, per una serie di motivi, una certa valuta si può rafforzare o indebolire nel tempo — e a volte i governi cercano proprio di ottenere uno dei dui obiettivi a seconda degli obiettivi di politica economica che devono perseguire.
Detto questo: che ce frega?
Eh… c’è frega.
Cerchiamo di quindi di capire quanto ce frega e andiamo dunque al
[impatto sugli investimenti]
Capitolo SECONDO: come si calcola l’impatto del cambio sui nostri ETF con sottostanti quotati in dollari (o in qualunque altra valuta, ovviamente parlo del dollaro perché se prendiamo come benchmark di investimento azionario un indice globale come l’MSCI ACWI, il 63% dei sottostanti è in dollari).
Partiamo da questa formuletta semplice.
Sbagliata, ma semplice.
Finché parliamo di piccole variazioni giornaliere, la somma algebrica è una buona approssimazione senza diventare matti.
– Non so se l’S&P 500 fa +1% e il cambio euro/dollaro +0,4% (quindi l’euro si rafforza sul dollaro) voi fate 1 MENO 0,4 e grossomodo 0,6% sarà la crescita netta del vostro ETF sull’S&P 500 quel giorno.
– Se invece l’S&P 500 fa +1% e il cambio euro/dollaro -0,4%, allora 1+0,4 che fa 1,4%.
Ovviamente bisogna sempre invertire più e meno perché noi siamo penalizzati se l’euro si rafforza e viceversa.
Questa cosa però non è corretta se le variazioni sono ampie e soprattutto se vogliamo considerare dei periodi di tempo che vanno oltre le variazioni giornaliere.
La regola corretta per calcolare il rendimento del nostro ETF in Euro sull’S&P 500 è:
Facciamo un esempio.
L’S&P cresce del 9%, come è successo mercoledì 9 aprile, in quell’assurda giornata in cui dopo aver fatto collassare i mercati la settimana prima Trump decise di mettere i dazi in pausa per 90 giorni.
Il cambio euro/dollaro aveva fatto tipo boh, diciamo +2% (vado a memoria tanto chissene).
Quanto fa?
Se facessi 9-2 = 7% commetterei un piccolo errore.
Facciamo il conto giusto:
(1 + 0,09) / (1 + 0,02) — 1 = 6,86%
Certo non è che sballa di tantissimo rispetto a fare la sottrazione.
Il discorso però cambia parecchio se consideriamo l’impatto cumulativo delle variazioni tra euro dollaro nel tempo.
Qui il calcolo è leggermente più complicato, però noi per esempio possiamo fare qualche simulazione per vedere quale sarebbe l’impatto di una certa variazione nel cambio EUR/USD su un orizzonte temporale lungo.
È la formula, se non ho fatto stronzate, dovrebbe essere questa:
rendimento composto in dollari elevato al numero di anni diviso 1 più variazione euro dollaro il tutto elevato a 1 fratto numero di anni — 1.
Va beh… tanto non è una roba che vi serve per vivere, ve la dico solo per curiosità, poi vi faccio vedere i risultati con i conti già fatti.
Allora facciamo solo qualche esempio considerando un orizzonte di 15 anni, che non prendo a caso per motivi che dirò tra poco.
Ammettiamo che nei prossimi 15 anni l’S&P 500 cresca del 6% all’anno.
Sì lo so è poco, la media dal 1970 ad oggi è circa 11%.
Però come ho già detto un cazziliardo di volte nel podcast, i rendimenti attesi cambiano nei vari cicli e un buon indicatore piuttosto attendibile dei rendimenti futuri è il rapporto tra gli utili medi reali degli ultimi 10 anni dell’S&P 500 e il suo prezzo attuale, il cosiddeto Cyclically adjusted Earning Yield, per gli amici CAEY.
Mentre sto registrando è UNO diviso 38 che fa 2,6%, si fanno un po’ di correzioni perché è una stima un po’ conservativa per motivi tecnici su cui non vi sto ad annoiare e diciamo che un po’ alla buona possiamo fare 2,6% PER 1,5 che fa un po’ meno di 4%.
4% è il rendimento reale atteso medio per i prossimi 10-15 anni.
Mettiamo un po’ di inflazione, 2-3%, ecco che 6% potrebbe essere una ragionevole stima del ritorno nominale dell’S&P 500 nel prossimo ciclo.
Non me la sono sognata io:
– AQR stima circa 7% nominale
– Vanguard circa il 5%
– Blackrock circa 6%
– JP Morgan 7%, insomma siamo lì
Questa roba non è una legge fisica.
Anzi, il margine di errore è piuttosto ampio.
Però per i ragionamenti che facciamo qua oggi va bene una stima conservativa, né troppo ottimista né troppo pessimista.
Cosa succede ai nostri investimenti se nel frattempo il dollaro continua a svalutarsi?
Facciamo alcuni esempi:
– Caso uno: il dollaro scende di un altro 20% rispetto a dov’era stamattina, quindi si arriva a 1 € UGUALE 1,39 $ più o meno. In questo caso da qui al 2040 il mio ETF sull’S&P 500 avrà reso circa il 4,7%, invece che il 6%.
– Caso due: il dollaro scende del 30% e il cambio va a 1,5. Il nostro ETF crescerà poco più del 4%.
– Caso tre: il dollaro scende del 40% e il cambio va a 1,62, che è il picco storico raggiunto nel luglio del 2008, il momento in cui l’euro ha raggiungo la massima forza sul dollaro nella storia. In questo scenario potenzialmente apocalittico, il 6% all’anno dell’S&P 500 per noi si tradurrebbe in poco più del 3,5%.
———————————————————————– Cambio EUR/USD Rendimento in EUR ———————– ———————– ———————– EUR/USD + 20% 1,39 4,7%
EUR/USD + 30% 1,5 4,2%
EUR/USD + 40% 1,62 3,6% ———————————————————————–
Se il cambio euro/dollaro arrivasse a 1,59, ciò significherebbe che dall’ottobre 2022, quando il cambio ha toccato il suo massimo a 0,98 dollari per un euro, la svalutazione complessiva sarebbe di oltre il 60%.
Ora, lasciamo per un attimo da parte cosa significhi per l’economia globale una svalutazione del dollaro del 60% rispetto all’euro, facciamo finta che per l’economia tutta questa cosa abbia un effetto neutro — e naturalmente è molto improbabile che ciò sia vero — però consideriamo solo l’impatto sui nostri portafogli.
Vista così sembra una merda.
Non una tragedia, ma tanto vale investire in azioni no?
Beh sono due modi di vedere la cosa.
UNO è sicuramente NEGATIVO.
Già l’aspettativa media è che i rendimenti futuri dell’S&P 500 non siano così alti come quelli passati, in più ci mettiamo sopra l’impatto di una potenzialmente violenta svalutazione del dollaro, alla fine salta fuori che investire in BTP rende di più che nel rischioso e non più onnipotente indice delle grandi società a stelle e strisce.
E fin qui non ci piove.
Il rischio valutario c’è, c’è sempre stato, sempre ci sarà.
La sappiamo dal giorno uno che se investiamo in asset non denominati in euro dobbiamo mettere in conto questo rischio e quindi ce lo prendiamo per quello che è.
L’ALTRO aspetto invece, paradossalmente, potrebbe addirittura essere positivo per chi ha di fronte a sé una fase di accumulo relativamente lunga.
Diciamo che ci sono delle buone notizie:
– Intanto, questo è l’andamento del cambio euro dollaro nella storia
A volte va su, a volte va giù.
Dal 2001 al 2008 il trend è stato chiaramente verso l’alto.
Dal 2009 ad oggi il trend è stato chiaramente discendente.
Ma fondamentalmente siamo sempre lì, intorno a 1,20.
Se ci aspetta un decennio di indebolimento del dollaro, è lecito aspettarsi anche un successivo rafforazamento.
Questo sarebbe peraltro il caso migliore per via del principio della SEQUENZA DEI RENDIMENTI di cui abbiamo parlato spesso.
Se io investo i miei soldi un po’ per volta nel mio portafoglio, se prima ho dei rendimenti più negativi e poi ho dei rendimenti più positivi, il rendimento complessivo è maggiore che il contrario, anche a parità di rendimento medio.
Il motivo è banale: i momenti negativi impatteranno su un capitale più contenuto e viceversa.
– La seconda cosa è che appunto io non investo di botto tutti i miei soldi oggi e poi mai più, ma tipicamente faccio PIANI DI ACCUMULO, o comunque investo in momenti diversi nel tempo. Di conseguenza gli effetti di entrambe le direzioni che dovesse prendere il cambio euro / dollaro sarebbero diluiti dal fatto che io investo un po’ per volta. A meno di un collasso del dollaro stile peso argentino o lira turca, lo scenario base è che a volte mi andrà bene, a volte meno bene.
– C’è infine un’altra importantissima variabile che non stiamo considerando. I movimenti delle valute hanno degli impatti sull’economia reale, molto difficili da prevedere. Da un lato, chissà, magari un dollaro debole favorisce l’export americano, gli utili salgono e quindi il mercato cresce di più di quanto farebbe con un dollaro forte. Oppure un euro forte dà dei vantaggi alle società europee che devono comprare materie prime prezzate in dollari e abbattono i loro costi di produzione.
Insomma, è molto difficile fare previsioni sugli andamenti valutari e sugli impatti economici — ed è difficile dire se il rischio netto dell’esposizione ai cambi sia positivo o negativo. Il che probabilmente è un indizio del fatto che in media non è né l’uno né l’altro.
Ora, abbiamo capito tutto il quadro teorico e le implicazioni sui rendimenti: ma se io volessi levarmi proprio dalle palle questo rischio cambio?
[la copertura valutaria]
Veniamo allora al CAPITOLO TRE: la copertura valutaria
Allora, la soluzione ovvia a questo potenziale rischio sembrerebbe facile, ossia: usare un ETF Hedged, con cambio coperto, ossia un ETF che annulla l’impatto del cambio tra le due valute.
Easy no?
Problema risolto.
Ovviamente non è così semplice, perché il piccolo problema di questa soluzione apparentemente semplice sono i costi.
Costi che non si vedono nel TER dell’ETF perché sono costi accumulati man mano, come capiremo tra poco.
L’impatto però dei costi di una copertura valutaria può essere estremamente elevato, quindi obiettivo di oggi è capire quando conviene e quando meno.
Intanto, come fa un ETF a “hedgiare” il cambio?
Senza entrare nel dettaglio tecnico che ci annoiamo tutti a morte, il concetto è che l’emittente dell’ETF ogni mese acquista un contratto derivato sulle valute chiamato forward. Non è l’unico modo ma credo sia il più diffuso.
Un forward non è altro che un contratto tra due parti per scambiare due valute a un tasso di cambio prefissato in una data futura.
Cosa succede quindi:
– Per esempio se parliamo di S&P 500, l’ETF scambia euro in dollari per comprare le azioni dell’S&P 500, che chiaramente sono in dollari;
– Poi per coprire il rischio di cambio, l’ETF fa un contratto forward che fissa il tasso di cambio tra euro e dollaro in una data futura.
A questo punto cosa accade:
– Se il dollaro si deprezza rispetto all’euro, la perdita sul valore delle azioni in dollari viene compensata dal guadagno sul contratto forward.
– Se invece il dollaro si apprezza, il guadagno sul valore delle azioni in dollari viene compensato dalla perdita sul contratto forward.
Ok? In questo modo la performance dell’ETF in euro coincide sempre con quella del sottostante in dollari perché viene annullato l’effetto cambio.
C’è un però.
Come si fa a fissare il tasso di cambio da qui a un mese?
Cioè l’emittente dell’ETF e la banca o chi per essa che gli fa da controparte in questo contratto forward, come fanno a stabilire a che tasso verrà fissato il cambio euro/dollaro alla fine del mese?
C’è una formula.
Anche questa ve la dico solo per curiosità, ma non è importante capirla.
È importante solo capire che tutto ciò ha a che fare, ancora una volta, con i ì tassi di interesse.
Il tasso forward si ottiene partendo dal tasso di cambio di oggi, chiamato tasso spot, e moltiplicandolo per Uno + il tasso di interesse a breve termine della mia valuta diviso Uno + il tasso di interesse a breve termine della valuta del sottostante, il tutto elevato a un dodicesimo, visto che solitamente sono contratti mensili.
Cioè … sta roba qua
Ripeto, chissenestrafrega della formula.
L’unica cosa da capire è che la copertura valutaria ha un costo che dipende principalmente dalla differenza tra i tassi di interesse.
Se il tasso sui depositi della BCE è mettiamo 2 % e quello della Fed è 4%, ci sono due punti percentuali di differenza.
Cosa comporta questa cosa?
Si dice che c’è un Cost of Carry.
Quando un investitore vuole coprirsi dall’esposizione verso una valuta estera è come se implicitamente “pagasse” il tasso estero e “ricevesse” in cambio il tasso domestico.
Insomma, per farla breve, il differenziale di tassi di interesse è un costo implicito che dobbiamo sostenere per coprirci dal cambio.
In questo momento, appunto, tra Euro e Dollaro c’è circa un 2% di differenziale di tassi di interesse.
E questo è un costo che va ed erodere la performance del nostro ETF hedged.
Ci sarebbero poi altre cose, ma va bene così, il punto l’abbiamo capito.
Di qui dovremmo giungere ad una conclusione abbastanza ovvia.
In linea di principio, se noi europei abbiamo una valuta con tassi di interesse più bassi della valuta da coprire, dollaro in questo caso, solitamente non conviene coprirsi, perché andiamo a pagare un costo certo a fronte di un beneficio incerto.
Per esempio, negli ultimi 5 anni un ETF hedged sull’S&P 500 avrebbe reso circa 23 punti percentuali in meno di uno a cambio aperto.
Negli ultimi 3 anni, complice soprattutto quello che è successo nel 2025, sarebbe stato l’ETF hedged quello migliore
Abbiamo detto spesso che quando investiamo in azionario, soprattutto se l’esposizione principale è verso il dollaro, tendenzialmente la copertura ha poco senso perché:
– Di default abbiamo un costo di circa un paio di punti percentuali all’anno da pagare come cost of carry, almeno finché c’è questa differenza di tassi di interesse tra BCE e Fed;
– Poi perché mi prendo un costo certo per un beneficio incerto e con il rischio di perdermi del rendimento supplementare. Io infatti dal cambio posso tanto guadagnarci quanto perderci. Ma con la copertura in pratica pago un costo certo per precludermi a priori la possibilità di avere un beneficio nelle fasi in cui il dollaro si rafforza;
– Inoltre c’è anche da dire che l’esposizione al dollaro è anche una sorta di hedge naturale, perché tipicamente in fasi ad alta tensione diventa una sorta di porto sicuro, di safe haven; certo magari oggi un po’ meno, ma storicamente nelle fasi critiche il dollaro tende a rafforzarsi più dell’Euro, quindi, boh, fino a prova a contraria potrebbe fare da cuscinetto se i mercati venissero giù per qualche grave recessione globale.
Discorso diverso invece con altre valute.
La più interessante è forse lo Yen.
Qui abbiamo la situazione inversa, ossia tassi di interesse più bassi rispetto a quelli Europei.
In questo caso il carry, sulla carta, è vantaggioso perché al contrario del dollaro qui vendo euro ad un premium per comprare yen.
Negli ultimi 3 anni, cioè da quando è cominciata la grande divergenza tra la BCE e la Bank of Japan, perché noi abbiamo iniziato ad alzare i tassi a manetta per contrastare l’inflazione, mentre loro sono rimasti con tassi addirittura negativi, avere un ETF sul MSCI Japan con cambio coperto sarebbe stata la scelta vincente: +30% con cambio aperto, +72% con cambio coperto, in soli tre anni!
Quindi abbiamo capito che ci sono due cose da tenere in considerazione nella valutazione complessiva sul rischio valutario.
– Una è il costo del carry determinato principalmente dal differenziale tra i tassi di interesse, con la regola generale per cui se la valuta da cui vogliamo coprirci ha tassi di interesse superiori ai nostri è tendenzialmente svantaggioso;
– L’altra è la direzione intrapresa dalle banche centrali che è un proxy della possibile evoluzione delle rispettive valute.
Ora, detto tutto questo e capito sia che la valuta ha un impatto rilevante sulla performance dei nostri investimenti, sia quali sono i meccanismi principali sottesi, cosa conviene fare per i nostri investimenti azionari?
– Nulla, cioè si può investire nel mercato globale così com’è e accettare che anche i cambi riflettano l’equilibrio generale del mercato;
– Si può scegliere di sovrappesare i mercati denominati in Euro o comunque non in dollari
– Oppure può fare una cosa più articolata, come proposto in questo paper del Man Institute, dal titolo “The Best Strategy for exchange hedging”
Una delle soluzioni proposte, la più intuitiva, è fondamentalmente di calcolare la percentuale di Paesi con i tassi di interesse maggiori o uguali a quelli dell’Euro (quindi va inclusa la quota di Paesi dell’Eurozona) e di conseguenza calcolare la percentuale di esposizione verso Yen, Franco Svizzero e così via che hanno tassi di interesse inferiori a quelli dell’eurozona.
Facciamo finta che sto investendo 100.000 € nell’MSCI World e che il 90% è il peso del primo blocco, quello con tassi di interesse maggiori, mentre il secondo blocco pesa 10%.
Allora potrei fare:
– 90.000 € in un ETF classico su MSCI World; e
– 10.000 € in un ETF su MSCI World Hedged.
Finché però il peso degli Stati Uniti resta così esorbitante — o finché i tassi Europa restano mediamente più bassi rispetto alle altre principali valute tranne Yen e Franco — la copertura valutaria non sembra una necessità fondamentale nel portafoglio.
Se però un domani, che ne so, il peso degli Stati Uniti scende al 40% e il Giappone va al 20%, oppure i tassi in Europa vanno al 4% e quelli della Fed al 2%, ecco forse lì conviene tenere a mente questo discorso.
Fatto tutto questo discorso, però, ci sono tre precisazioni da fare.
[precisazioni]
PRIMA PRECISAZIONE.
Se noi investiamo nell’S&P 500 siamo esposti al dollaro, pacifico.
Così come siamo esposti alla sterlina se investiamo nel FTSE 100.
E via dicendo.
Ma conta anche tanto da dove arriva il fatturato di quelle società.
Se una società esporta in maniera significativa la sua azione è sì denominata nella valuta locale, ma i suoi utili sono il risultato netto dell’esposizione di quella società ai mercati in cui esporta.
Cosa vuol dire questa cosa?
Vuol dire che in un mercato caratterizzato soprattutto da grandi aziende globali che esportano in tutto il mondo noi comunque abbiamo un’inevitabile esposizione generale a diverse valute e quello che vediamo quotidianamente per esempio nel cambio euro dollaro che condiziona il prezzo del mio ETF sull’S&P 500 è solo la punta dell’iceberg.
Quindi va bene tenere conto del rischio cambio nell’ambito della pianificazione finanziaria complessiva in cui dobbiamo tenere presente di tutte le variabili, però non serve neanche diventare matti perché nell’ambito delle valute, spesso un elemento esce fuori dalla porta e rientra dalla finestra.
La SECONDA PRECISAZIONE è che tutti gli studi e i backtest sul discorso del rischio valutario hanno un problema. Considerano il time weighted rate of return, ossia i rendimenti che si sarebbero ottenuti tramite un investimento fatto in un momento x e poi lasciati correre per n anni.
Noi però non investiamo così, come abbiamo detto anche prima.
Nella fase di accumulo investiamo tipicamente un po’ per volta ogni mese o comunque ogni qualvolta abbiamo soldi da investire.
Ogni tanto qualche investimento lo disinvestiamo perché ci servono i soldi.
Infine nella fase di retirement andiamo a decumulare o comunque a spendere i nostri investimenti.
Il fatto che investiamo o disinvestiamo un po’ per volta finisce comunque per mediare, almeno entro certi limiti, gli effetti del rischio valutario.
Anche per questa ragione, ok ricordarsi che c’è l’effetto cambio, ma anche che per via del modo in cui investiamo, forse non incide così tanto come può sembrare.
TERZA PRECISAZIONE: Finora abbiamo parlato solo di azioni.
Long story short la tesi è: meglio il cambio aperto, eventualmente aggiustato per il discorso del Carry.
Sulle obbligazioni invece il discorso è un po’ diverso.
Molti di voi ogni tanto mi fanno vedere portafogli in cui hanno tot ETF azionari e poi magari un ETF sui Treasury americani.
Ora, investire in Treasury non è né giusto né sbagliato.
Ma i Treasury sono denominati in dollari.
Quindi se io investo in Treasury con l’idea di avere un asset relativamente sicuro e poco volatile come uno si aspetterebbe da un titolo di Stato, ecco ricordiamoci che però la volatilità del cambio euro dollaro farà sì che il mio investimento obbligazionario alla fine avrà la volatilità dell’azionario.
Inoltre c’è un’importante differenza tra azioni e obbligazioni.
Teoricamente il rendimento atteso dalle azioni è più elevato e quindi il rischio valutario, nel grande schema delle cose, è accettabile se investo in un asset che di per sé è già volatile.
A volte questa volatilità si aggiungerà ai rendimenti, a volte mi giocherà contro.
Però ci sta.
Con le obbligazioni mica tanto, perlomeno nella misura in cui mi aspetto magari un rendimento del 3% con una volatilità del 6% e poi finisco per ritrovarmi con una volatilità del 15%.
Sulle obbligazioni, quindi, è molto più frequente investire a cambio coperto, perlomeno se uno vuole un’esposizione globale.
Allo stesso modo, questo è anche uno dei motivi per cui, diversamente dall’azionario, avere una concentrazione obbligazionaria su mercati denominati in Euro è un’idea piuttosto di buon senso.
È vero che un ETF sui titoli di stato europei a media scadenza rende circa 2,5-2,8% oggi, mentre un ETF sui treasury 4,5%.
Però quel 4,5% è puramente teorico.
In mezzo devo metterci la variabile imprevedibile del cambio euro dollaro.
Quindi sulle obbligazioni occhio alle esposizioni valutarie, non sempre il gioco vale la candela.
Bene cari miei, fine anche dell’episodio di oggi, spero vi sia piaciuto e che vi abbia chiarito qualche dubbio residuo che si era insinuato nella vostra testa e che turbava i vostri animi.
Prima di lasciarci, vi invito come sempre a iscrivervi al canale se non l’avete fatto, così come a mettere like e attivare le notifiche per supportarci e permetterci di continuare a produrre contenuti in cui sembra che il rischio valutario sia una grave minaccia che incombe su di noi come un’ombra con la forma del presidentissimo Donald J ma in realtà forse non lo è poi così tanto sempre nuovi.
Per questo episodio invece è davvero tutto e noi ci rivediamo con il prossimo video di questa playlist dedicato ai dubbi più frequenti tra gli innumerevoli ascoltatori e ora anche spettatori di questo podcast, sempre qui naturalmente con The Bull il tuo podcast di finanza personale
Recensioni
Quando capisci come funziona la finanza… ti viene voglia di raccontarla!
Riccardo mi ha letteralmente cambiato la vita e fatto scoprire che amo la finanza, ho ascoltato il podcast già due volte e non mi stufo mai di ascoltarlo, parla in modo semplice e chiaro
Massimo D., 23 Set 2025Podcast che dà sempre spunti interessanti che personalmente mi ha fatto appassionare alla finanza personale spingendomi ad approfondire in prima persona.
Lorenzo, 13 Mar 2025Veramente interessante, chiaro e conciso. Cambia la vita finanziaria di chiunque.. da ascoltare assolutamente anche per chi di finanza non vuole occuparsi mai
Francesca B., 6 Apr 2024Ho seguito tutte le puntate! Grazie veramente
Amalia A., 17 Set 2025Ho acquistato e letto il suo libro e l' ho trovato. Esprime i concetti economici in modo semplice e chiaro. Sentirlo parlare conferma che è un professionista del settore.
Giulia N., 11 Ago 2025Da quando l'ho scoperto in 15 gg mi sono ascoltato 150 puntate senza fermarmi, ho annullato gli altri podcast per portarmi alla pari ed ascoltare tutte le precedenti puntate, ben fatto, esattamente il livello di informazione che mi serviva
Gianluca G., 11 Set 2025Podcast piacevole, scorre veloce ma in modo estremamente chiaro, spiega i concetti chiave per gestire le proprie finanze, fornendo la classica cassetta degli attrezzi. Complimenti, davvero ben fatto!
Massimiliano, 29 Mag 2024La mia ignoranza in materia mi ha sempre creato dei dubbi, ma grazie a un amico ho iniziato ad ascoltare il podcast. Per fortuna che ho 24 anni e un po' di tempo e soldi da dedicarmi a imparare le varie nozioni per me stesso. Grazie mille!
Luca G. 10 Ott 2025Dovrebbero ascoltarlo buona parte degli italiani e io avrei dovuto scoprirlo con qualche anno in anticipo ma meglio tardi che mai
Matteo C., 3 Set 2025